Marcello Fantuz 1398784 AR3A151 - spring 2009
QUALCOSA E’ ANDATO STORTO Una storia di passione e delitto nella Vicenza dell’individualismo
2
1_
La prigione della volonta’
p....4
2_
Lo vogliamo grande e flessibile
p....5
3_
Lo vogliamo centrale e rappresentativo
p....9
4_
Lo vogliamo economico
p..11
5_
Lo vogliamo in armonia con il verde e con Palladio
p..14
6_
Lo vogliamo fatto dalla cittadinanza
p..20
7_
Il concorso del ‘78, sintesi perfetta
p..23
8_
Verso un Valle di Lacrime
p..27
9_
La prigione della parola
p..30
Immagini del teatro realizzato
p..31
Schede dei progetti nei 60 anni di dibattito
extra
1. Basilica palladiana e piazza dei Signori 2. Piazza Biade 3. Palazzo Chiericati e piazza Matteotti 4. ex-Eretenio 5. cinema Roma 6. ex-Verdi 7. Stazione ferroviaria 8. Teatro comunale di Vicenza Mura medioevali viale Roma viale Verdi viale Mazzini aree d’oro campo Marzo
N
3
2
1
4
5
7 6
8
1. La prigione della volontà Ripercorrere la vicenda del teatro di Vicenza equivale ad attraversare sessant’anni di storia vicentina. Chi comprende la gioia del mondo scientifico alla scoperta, per esempio, di uno scheletro ben conservato di un qualche animale preistorico, comprenderà anche la gioia di poter indagare sui tanti progetti che si sono succeduti negli anni. Trentasei, per la precisione. Perché tanta gioia? Perché così come lo scheletro è una fonte ricca d’informazioni su una realtà ormai lontana, altrimenti difficile da indagare, l’Architettura è uno specchio sulla realtà che ci circonda. Riflette l’interminabile serie di convenzioni che compongono la nostra quotidianità. La nostra realtà. Stabilisce i limiti ai nostri movimenti e alle nostre pulsioni. Influenza e aliena, manipola e suggerisce. E’ la prigione che ci siamo costruiti. Di prigioni, si badi bene, ne esistono infinite, tante quanti sono i peccati commessi. Il Teatro Comunale di Vicenza, inaugurato nel 2007, è la prigione che i vicentini si sono meritati dopo tutti questi anni passati a perpetrare lo stesso peccato: la chiacchiera polemica. Le interminabili discussioni, affrontate in consiglio comunale, sui giornali o semplicemente in piazza, hanno spesso riguardato le caratteristiche che, irrinunciabilmente, il nuovo teatro avrebbe dovuto avere. Sperando di fare buon uso del dono della sintesi, le affronteremo una per una. Questo ci permetterà di rivedere i progetti che, per questo o per quel motivo, sono stati rifiutati o dimenticati.
Pic. 1
Pic. 2
Pic. 3
4
Pic. 4
Pic. 5
2. Lo vogliamo grande e flessibile Tutto comincia il 2 aprile 1944, di sera, quando gli aerei americani bombardano il centro storico di Vicenza. Sono molti gli edifici distrutti, l’Architettura paga un prezzo alto per la liberazione. Tra questi, l’auditorium Canneti, poi ricostruito nel 1957, e i due teatri: Il ‘Verdi’ e l’Eretenio’. Quest’ultimo fu inaugurato nel 1784 in contra’ Carpagnon. A ferro di cavallo, poteva contenere fino a 1250 persone, ed era un gioiello di bellezza e prestazioni. Non solo caratterizzato da finiture pregevoli e raffinate, ma dotato di un’acustica impareggiabile 1. Era considerato il teatro dei signori, proprio per la sua rara pregevolezza. Il Verdi, invece, era considerato un teatro popolare. Nel 1923, dopo aver subito vari interventi di modifica rispetto al progetto originale del 1828, poteva contenere fino a 2600 persone, nonostante i posti a sedere fossero ‘solo’ 1700. Sono cifre impressionanti se si pensa che all’inizio del secolo la città contava circa 43000 abitanti 2. La fenomenale capienza di questi teatri è la prima delle caratteristiche che Vicenza vuole ritrovare nel progetto per la loro ricostruzione. Si vuole che il nuovo teatro sia grande abbastanza da ospitare spettacoli di lirica, i quali anche in tempo di guerra facevano registrare grandi afflussi di spettatori. Il numero di posti sarà fondamentale nella discussione non solo perché l’idea generale sarà quella di ricostruirne uno solo, invece di entrambi, ma anche e soprattutto per la sua valenza politica. Un teatro grande, destinato a tutti, capace di ospitare tutte le fasce sociali e simbolo dello spirito del dopoguerra. E’ proprio in quest’atmosfera che arriva, nel luglio del 1947, l’offerta dell’”Eci” (Esercizi Cinematografici Italiani). L’accordo è semplice e probabilmente vantaggioso per entrambe le parti. L’Eci, società milanese, si impegna a costruire un cinema-teatro a costo zero per la città. Per rientrare delle spese, lo terrà in gestione per venticinque anni. Il progetto prevede la ricostruzione del ‘Verdi’, utilizzandone le vecchie mura perimetrali, per una sala cinematografica da 1600 posti. Queste sono le intenzioni della società privata, che vede nel cinema più che nel teatro la possibilità di fare affari. La giunta comunale si insospettisce e mette in chiaro le condizioni: il nuovo Verdi dovrà essere un Teatro, prima di tutto. Al massimo si può pensare al cinema come uso secondario. Inoltre, la capienza deve’essere di almeno 2600 posti, magari 3000. Sono numeri esagerati, ma la ricostruzione passava anche attraverso i sogni folli e l’entusiasmo delle amministrazioni del tempo. Proprio la trattativa su 1 Remo Schiavo da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p.18. 2
ISTAT
1>Corso Palladio dopo un bombardamento. 2>I resti del teatro Verdi. 3>La facciata del teatro Verdi prima della guerra. 4> Festeggiamenti per la fine della guerra in Corso Palladio. 5> Vicenza dopo i bombardamenti. Comincia la ricostruzione.
5
capienza e destinazione allungherà eccessivamente i tempi dell’accordo, fino al punto che, stizzita, l’Eci si ritira. E’ uno dei primi progetti per il nuovo teatro ad essere bocciato dalla testardaggine di chi era incaricato di negoziare. La discussione, spesso, si concentra su temi marginali, rispetto al reale problema da affrontare. Questo perché è utilizzata sapientemente per intralciare le trattative, nel caso in cui alcune scelte siano invise a parti più o meno consistenti della maggioranza. Nel dicembre del 1948, l’allora sindaco Zampieri si vede recapitare un progetto degli architetti Giuseppe Chemello e Guido Spellanzon. Si tratta dell’adattamento a teatro del salone centrale della Basilica Palladiana. Secondo il progetto, un teatro all’italiana da 1200 posti è perfettamente integrabile nel contesto Palladiano, includendo anche un palcoscenico da 200 metri quadri. Non solo, gli architetti hanno dalla loro parte lo stesso Andrea Palladio che “nel 1561, per la recita dell’Amor Costante di Piccolomini, elevò nel grande salone della Basilica una gradinata a semicerchio, di fronte alla quale era la scena”. 3 Una cosa è certa, il progetto avrebbe potuto risolvere lo spazio più elegantemente. Invece si pensa all’elevazione di un teatro-tenda, al centro della sala. La copertura costituita da un materiale ‘leggero e incombustibile’. Innovativa è la proposta dell’utilizzo del riscaldamento a pavimento, per far fronte al problema del riscaldamento del grande spazio. Un corridoio di sicurezza viene lasciato tutto intorno alla struttura semitemporanea. A questa proposta le reazioni sono diverse. Il presidente della commissione-teatro, creata dal sindaco Zampieri, è entusiasta. Intuisce le spettacolari potenzialità del teatro in Basilica. Potenzialità che verranno confermate, negli anni successivi, da grandi successi di pubblico ottenuti da spettacoli proprio all’interno della sala grande. Il sindaco, invece, tituba. Si preoccupa di non turbare eccessivamente l’ala più conservatrice dell’opinione pubblica, sia per quanto riguarda il delicatissimo rapporto con il monumento costruito da Palladio, sia per la realizzazione di un teatro che avrebbe dovuto essere ‘definitivo’. Perché costruire un teatro provvisorio (così, infatti, era inteso nel progetto Spellanzon-Chemello) quando la città ha bisogno di un teatro, una volta per tutte? Ancora una
Pic. 6
3 “ il teatro nella Basilica” articolo senza firma apparso su ‘Vicenza’, 1974. Da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni”. p.55
Pic. 7
6
Pic. 8
volta, l’amministrazione non scende a compromessi. Niente teatri piccoli o temporanei, bisogna fare sul serio. E’ solo il 1948, la vicenda è ancora giovane e nessuno può prevedere quanto durerà. Sono altri due i progetti che si areneranno a causa delle dispute sulla grandezza. Il primo è del settembre 1952. Lo firmano gli architetti Giuseppe e Gabriele Valerio, per conto dell’imprenditore Cremasco. L’accordo sarebbe stato lo stesso che si prospettava con l’Eci: una gestione pubblico-privata che permetta all’imprenditore di rifarsi delle spese e godere dell’utile. Questa volta, però, è un imprenditore di casa a presentarlo. L’aspetto esterno è piuttosto ‘squadrato’ e ricorda, in qualche modo, l’Architettura del ventennio. Può ospitare fino a 1500 spettatori e, come dicono i progettisti, ha una sala “che si avvicina a quella tipicamente wagneriana, la migliore per acustica e ottica” 4. E’ doveroso segnalare che gli stessi progettisti ammettono di aver progettato un teatro che sia utilizzabile anche come cinema, obbedendo alle istruzioni del loro cliente, Cremasco. Il progetto arriva così nelle mani della commissione tecnica, forte anche della sua economicità. Ma non ci vuole molto perché venga definitivamente stroncato. I servizi non paiono essere risolti in maniera ideale, così come l’areazione e l’acustica. Sembra che la ‘flessibilità’ cercata dal progettista costi troppo cara in termini di qualità. Insomma, se teatro deve essere che teatro sia, non cinema. Un altro progetto da mettere nel cassetto. L’ultimo dei progetti che non hanno mai visto la luce a causa di considerazioni legate a dimensioni e destinazione è del luglio 1963. Lo firma l’architetto Marino Meneghetti su incarico dell’associazione ‘Amici del teatro’, che, pur non avendo la disponibilità di una sede stabile per le rappresentazioni, all’epoca contava ben 300 iscritti. Il progetto prevede il riutilizzo dei locali dell’ex-Standa, sotto a piazza Biade, proprio accanto alla centralissima Piazza dei Signori. E’ un ridotto da 315 posti, neanche così piccolo se si pensa che il “piccolo teatro” di Strehler a Milano disponeva di 215 posti a sedere. Il progettista usa sapientemente gli spazi del locale sotterraneo, alto solo 4 metri. Pensa ad un palco rotante per il cambio rapido della scenografia ed incastra miracolosamente, tra le colonne, sei camerini, il foyer, guardaroba, servizio bar e tutti i locali di cui un teatro di queste dimensioni ha bisogno. La discussione è molto animata, non solo in consiglio comunale, ma anche sulle pagine del Giornale di Vicenza. Prevedibilmente, ci si preoccupa del fatto che, una volta costruito il ridotto, il progetto per il grande teatro cada nel dimenticatoio. Ma siamo all’inizio degli anni ’60, ed anche la discussione comincia ad avere toni più accesi. Ci si riferisce al ruolo del teatro nella società. Si fanno i conti con 4
Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p.129
6>Sezione del teatro in Basilica come immaginato da CHemello e Spellanzon. 7>Interno del teatro in Basilica. 8>Prospettiva del progetto degli architetti Valerio, per conto di Cremasco.
7
la perdita d’interesse da parte della grande audience che ormai si rivolge a televisione e cinema. Ormai, si dice, la lirica non attira più e comunque è inutile competere con Verona e Venezia. Gli spettacoli di prosa attirano solo il pubblico preparato che è una platea molto ridotta. Si è quindi sicuri che un piccolo teatro faccia molto bene alla città e possa attirare i giovani meglio di una grande sala. I favorevoli al ‘ridotto di Torre Bissara’ attaccano gli scettici (ovvero chi vorrebbe il teatro grande e definitivo) su tutti i fronti: “Non dite addio teatro, dite addio alla vostra giovinezza. Voi avete una visione superata della cultura: la lirica non va più di moda, il grande pubblico lo attira la televisione. E allora la funzione del ridotto sarà quella di essere un teatro per la prosa, adatto a tutto” 5. Intanto il tempo passa, si continua a discutere fino all’estate del ’65 sulla fattibilità del progetto, e nel frattempo il numero degli iscritti degli Amici del Teatro continua a crescere. Troppo, per il ‘ridotto’. Viene così a mancare la spinta degli appassionati, e di conseguenza anche la volontà politica, che oggi chiameremmo ‘interesse’. Ancora una volta, bisogna aspettare. 5 “ Il Ridotto sarà una degna sede per ospitare il teatro di prosa” GdV, 27.11.1963 da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” .
Pic. 9
Pic. 10
8
Pic. 11
Pic. 12
Pic. 13
3. Lo vogliamo centrale e rappresentativo Durante quasi tutti gli anni ’70, il dibattito sul fantomatico teatro di Vicenza gira attorno ad un’idea nuova e provocatoria dell’amministrazione del sindaco Sala, la più lunga del dopoguerra. Si tratta di riutilizzare il convento di Santa Corona, in pieno centro storico. Per il convento si era a lungo vagheggiata l’idea di trasformarlo in una sede staccata dell’università di Padova. Una volta tramontata quest’intenzione, Sala ha un’idea brillante: perché non ribaltare questo fallimento in un’opportunità? Incarica così due giovani architetti, Marco Todescato e Gianni Menato (più tardi si unirà al gruppo anche Antonio Cattaneo) di progettare, nel più breve tempo possibile, una ‘struttura teatrale’ nei chiostri di Santa Corona. Innovativa non è solo l’idea, ma anche la terminologia con cui viene designato il progetto. Chiamarlo ‘struttura teatrale’ è segno di una rinnovata consapevolezza cittadina, di un rifiuto della vecchia e logora immagine della città. All’inizio del 1972 i progettisti presentano i disegni e un modello. Nasce l’idea di interrare la sala principale, per non competere con le storiche architetture dell’intorno. La copertura della torre scenica è un dolce pendio verde sotto cui trovano posto 1000 poltrone rivolte ad un palcoscenico di forma triangolare. Non è solo un teatro, ma anche un nuovo giardino per la città. Nelle ali del convento, inoltre, si progetta l’inserimento di un centro culturale, nell’intenzione di creare un polo cittadino di attività e ricreazione. Sono molti i favorevoli al progetto che ne esaltano sia la dinamicità sia l’intelligente inserimento nel contesto. Sembra che ci si avvii verso una felice conclusione, e pure le prime stime dei costi parlano di cifre più che accessibili. Invece insorgono ancora una volta i contrari, inorriditi all’idea che il nuovo Teatro di Vicenza sia tutto lì, neppure visibile perché sepolto. Pino Dato, giornalista de ‘Il sospiro del tifoso’, lo definisce, sulle pagine del suo giornale, retorico, modellistico e snob. Non solo, la chiacchiera vicentina va oltre, dimentica i limiti della retorica e arriva ad indicare il progetto come idea “di sinistra”. Solo un dialogo superficiale e sfrontato come quello dei salotti della città palladiana può confondere un progetto architettonico con un orientamento politico. I progetti non sono mai né di sinistra né di destra. Possono, è vero, avere intenzioni sociali più o meno marcate, ma non intervengono nel dibattito politico, visti i tempi certamente più lunghi della pratica architettonica. La politica è demagogia, l’Architettura è unione di tecnica e pensiero. Materialità. Ma ormai la miccia è accesa, e tutti si sentono in dovere di dare un’opinione. Mentre si discute, gli architetti sviluppano il progetto, forti soprattutto delle simpatie dell’assessore Volpato e di parte della giunta comunale. L’evoluzione del progetto, presentata nel gennaio del 1973, ha
9> Sezione del teatro immaginato da Meneghetti sotto a Piazza Biade. 10> Vista del ‘ridotto’. 11> Assonometria dei locali “exstanda”, luogo del progetto del ridotto di Torre Bissara. 12> Modello del progetto Todescato per un teatro nei chiostri di Santa Corona. 13> Il progetto TOdescato prevedeva il riutilizzo delle strutture storiche esistenti per la creazione di un centro culturale polifunzionale.
9
una caratteristica fondamentale che catalizzerà l’attenzione di analisti, critici e buontemponi: una copertura in tubi metallici. E’ rastremata verso l’interno e copre per intero la sala grande. La torre scenica ne emerge con discrezione. I progettisti sostengono che l’uso di materiali leggeri e di una struttura sostanzialmente trasparente non sia in disaccordo con le pesanti mura in mattoni della chiesa di Santa Corona. Credono, al contrario, che sia proprio il confronto tra le due strutture ad esaltare le qualità di entrambe. Per arrivare al teatro si passerebbe attraverso i chiostri, accedendo gradualmente alla dimensione teatrale, alla quale non si addicono il chiasso della città ed il brontolare delle automobili. Nonostante sia proprio il contesto di fervore culturale degli anni ’70 ad invocare innovazione e coraggio, la vicentinità fa fatica a digerire questa struttura che a molti ricorda la copertura di un benzinaio. Todescato e Marcato, invece, hanno viaggiato in Europa e hanno visto molti esempi di centri culturali, anche all’avanguardia. Per questo secondo progetto, il gruppo perde Cattaneo (il quale presenterà una soluzione alternativa completamente fuori terra ma bocciata dalla giunta), ma guadagna la consulenza di Giacomo Scarpini, architetto e docente di scenografia al Politecnico di Milano. La sala principale abbandona il palco triangolare del primo progetto, che già era stato obiettivo di pesanti critiche da parte degli addetti ai lavori. La capacità è di 966 posti in una platea da ‘teatro sperimentale’: le poltrone possono infatti essere mosse e sistemate in diversi assetti. C’è la possibilità, inoltre, di aprire completamente una delle pareti che danno sulla piazza antistante, ampliando ulteriormente la capacità di partecipazione e integrazione. Nel complesso, ci sono anche un teatro all’aperto che guarda il chiostro, da 200 persone, ed un auditorium nella cripta per altre 200. In tutto, una complessa macchina teatrale strettamente legata al cuore cittadino. Aver ovviato al problema del palcoscenico teatrale sposta soltanto il fuoco delle critiche. Da qui in avanti, almeno fino al 1976, si discute animatamente, coinvolgendo anche il magistrato alle acque di Venezia, se il teatro sia o no a norma. A quanto pare, e stando anche alle decisioni finali della commissione regionale, non sono soddisfatti i requisiti minimi di sicurezza a causa della quota troppo bassa della parte interrata della sala. Questo sarà il colpo di grazia ad un progetto che aveva già visto la modifica di un’altra delle sue caratteristiche salienti. Proprio quella tralicciatura in metallo che faceva inorridire gli esperti di stile vicentino era stata oggetto di un compromesso. Obbedendo ad una richiesta del sindaco Sala, infatti, i progettisti avevano provato a mascherare la struttura. Il risultato fu schernito e chiamato ‘ferro da stiro’ da alcune delle solite personalita’ influenti a cui, in seguito, fa eco l’opinione pubblica. A questo punto è il caso di ricordare l’episodio del regalo rifiutato da Vicenza. Nel 1947 la città cerca un simbolo con cui onorare i caduti di guerra, una scultura che si vorrebbe collocare alla Loggia del Capitanato. Si pensa allo scultore Marino Marini, già molto famoso, il quale acconsente a regalare alla città una sua opera. E’ un ‘Angelo della città’, un soggetto a cui lavora molto in quegli anni. Sara’ sufficiente pagare le spese del comune per entrarne in possesso. Quando, in consiglio comunale, bisogna semplicemente formalizzare la transizione, qualcuno diffonde tra i consiglieri alcune fotografie dell’opera. Senza alcuna vergogna, alcuni lo battezzano ‘pinocchietto annegato’ e ne deridono l’aspetto. Tra una battuta e l’altra, la decisione finale è sorprendente: Vicenza rifiuta il regalo di Marini. Chissà se questo retroscena è raccontato ai visitatori del Guggenheim di Venezia, al cui ingresso è proprio la statua dello scultore toscano a dare il benvenuto.
10
Tornando al teatro di Santa Corona, l’aspetto troppo ‘alternativo’, i dubbi riguardo alla capienza ed infine la mazzata delle norme di sicurezza mettono la parola fine alla prospettiva di un centro culturale diramato tra i chiostri. E poco importa che l’ufficio tecnico comunale stili un ultimo progetto, nella primavera del 1978. Ormai anche l’amministrazione di Sala, convinta sostenitrice dell’idea, ha lasciato il posto a quella del democristiano Corazzin, il quale preferisce completare solo i lavori di restauro del convento, e archiviare tutti i progetti per il teatro. Ancora una volta, si rimandano tutte le decisioni.
Pic. 14
Pic. 15
4. Lo vogliamo economico Parallelamente alle questioni di tipo etico o architettonico, non si può ignorare il problema economico. Vicenza ha diritto ad un rimborso dello stato per i danni di guerra subiti, in particolare per il bombardamento dei due teatri, il Verdi e l’Eretenio. Per quest’ultimo non è mai stata ufficializzata nessuna proposta a Roma, perché si è sempre cercato di convogliare il finanziamento verso la costruzione di un’unica struttura. L’aspetto del costo è strettamente legato al fallimento di molte proposte, ma ad alcune di esse in maniera particolare. Nel 1949, per esempio, il pragmatico sindaco Zampieri considera ancora l’idea della semplice ricostruzione del teatro Verdi, tanto che incarica l’ufficio tecnico comunale di compiere una verifica statica. Vuole sapere con certezza se e’ possibile quello che molti vagheggiano, e cioè che ricostruire il Verdi sarebbe stata un’operazione semplice e poco costosa. La relazione dei tecnici è chiara ed inequivocabile: poco o nulla di quello che le bombe hanno risparmiato può essere riutilizzato. In particolare la parte rimasta del palcoscenico dovrà essere demolita, così come molti muri e ciò che resta della copertura. Ricordano, inoltre, che il vecchio Verdi aveva gravi problemi di acustica e di visuale, quindi l’eventuale ricostruzione dovrebbe approfittare dell’occasione e sfruttare le nuove tecnologie per migliorare le prestazioni. Equivale a dire che lo si deve costruire nuovo. Era solo il 1949, ne’ Zampieri ne’ i tecnici comunali potevano immaginare quanti anni durerà la diatriba sulla ricostruzione del Verdi. Nel 1952, invece, infuriava la polemica sul numero di posti che il nuovo teatro avrebbe dovuto avere. Gli interlocutori: da una parte gli
14> La versione del progetto per Santa Corona chiamato ‘ferro da stiro’. 15> La statua di Marini nella sua attuale collocazione: all’ingresso del Gugghenheim di Venezia.
11
appassionati di lirica e nostalgici dei vecchi tempi con le loro manie di gigantismo, dall’altra i realisti un po’ disillusi dall’avanzare della cultura di massa che taglia le ali al vecchio Teatro. In questo clima, un’idea della ‘Casa di cultura popolare’ sembra la quadratura del cerchio. Quest’ultima associazione bandisce, infatti, un concorso con lo scopo di regalare il progetto vincitore al comune di Vicenza. Un regalo vero e proprio, fatto per amore dell’arte e, probabilmente, vero bisogno di una sala per gli spettacoli. Ai partecipanti al concorso si chiede di: “indirizzarsi non tanto ad una facile interpolazione tra il minimo ed il massimo numero di posti, quanto ad utilizzare tutte le possibilità offerte dalla tecnica per ideare un complesso nel quale la capacità della sala possa essere aumentata o limitata mediante l’inclusione o l’esclusione di parti separabili con opportune chiusure, ed aventi servizi indipendenti”. 6 Il bando, in sintesi, chiede che il teatro sia ‘doppio’, e costruito nell’area dell’Eretenio con una sottoscrizione pubblica rimpinguata dai fondi statali. L’ordine degli architetti polemizza per bocca di Carlo Montecamozzo che la ricompensa offerta al vincitore del concorso è troppo esigua. Gli industriali, invece, si lamentano della scelta dell’area. Troppo costretta da edifici esistenti e molto meno conveniente di quella dell’ex Verdi, dove troverebbero posto più parcheggi e attività commerciali. Come profetizzato da molti (e probabilmente incoraggiato da altri) il concorso viene ‘quasi’ disertato. Un solo progetto viene presentato e, quindi, dichiarato vincitore. E’ dell’architetto Alfio Pauletta, il quale sfrutta intelligentemente le diverse quote su cui affaccia il lotto di terreno, separando gli ingressi a due sale sovrapposte. Una principale, per la lirica, da 1120 posti con tre file di palchi, ed una interrata, per la prosa, da 900 poltrone. Entrambe le sale possono godere di foyer e servizi indipendenti. Incredibilmente, Pauletta riesce anche a soddisfare le norme di sicurezza del tempo con un sapiente gioco di incastri che si traduce in un piccolo miracolo. Quando i membri della ‘Casa di cultura popolare’ portano in dono il regalo al sindaco Zampieri, la reazione non è delle più entusiaste. Anzi, rimarrà nella leggenda la cassapanca in cui il primo cittadino ripone il progetto per dimenticarsene presto. Le ragioni di tale gesto sono varie, così come rileva Pino Dato: “La macchina clientelare poteva muoversi solo al cospetto di autorevoli e costose proposte, in quanto i soldi attirano i clienti come le api il miele, i clienti ne attirano altri, e si forma una rete di solidarietà che si sostiene solo se ci sono tanti soldi, e che serve Giornale di Vicenza, “ IL contributo della casa di cultura popolare alla soluzione del problema del teatro” 4..6.1955 da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni”. P.150 6
Pic. 16
12
Pic. 17
Pic. 18
Pic. 19
meravigliosamente alla macchina elettorale” 7. Una spiegazione spietata che non lascia spazio per ulteriori congetture. La questione economica porta anche alla prematura archiviazione di almeno due idee fuori dal coro. La prima è del 1984, lanciata da Renato Cevese, storico dell’arte molto influente in città. Cevese incarica l’architetto Andrea Pereswet Soltan di investigare la possibilità concreta di ricostruire l’Eretenio com’era e dov’era. Cevese è un amante appassionato del vecchio teatro dei signori, e non si capacita della perdita. Nonostante Soltan, alla fine del lavoro, sostenga che si possa ricostruire l’Eretenio con l’aggiunta di parcheggi sotterranei, l’amministrazione pubblica è fortemente contraria all’idea. Avrebbe senso, si chiede la giunta del sindaco Corazzin, costruire un falso storico? Oltre alla questione deontologica, si ripudia la scelta di investire nella ricostruzione di un monumento, certamente meno fruttifero di un teatro moderno. Nell’imbarazzo generato dall’originale proposta, ci pensa il vicesindaco Giulianati a mettere la parola ‘fine’ alla questione. Per gestire un eventuale Eretenio ricostruito, dice, ci vorrebbe almeno un miliardo di lire all’anno, senza contare le produzioni. Troppo per le casse vicentine. Allo stesso modo l’acquisto del cinema Roma sarebbe stato un investimento troppo ingente, per le prospettive di guadagno previste, in pienissimo centro storico. L’edificio fu progettato dall’architetto Morseletto, specializzato in sale di spettacolo, ed è una delle poche testimonianze, a Vicenza, della cosiddetta ‘architettura di regime’, insieme al palazzo delle poste ed al teatro Astra. L’ipotesi che il comune insegue in gran segreto, è l’acquisto del cinema Roma e dello stabile adiacente, per poter ampliare la sala ed adattarla all’uso di teatro. La trattativa procede con difficoltà, sia a causa dell’alto prezzo imposto dai proprietari degli immobili sia dalle previsioni di spesa per gli eventuali lavori di adattamento. Anche in questo caso, sono troppi i soldi che il comune dovrebbe pagare di tasca propria, per mettersi in regola con le norme di sicurezza e dotare il teatro di un adeguato palcoscenico. Ma siamo nel pieno degli anni ’80, Valle lavora a progetti su grande scala, incluso un teatro nuovo di zecca, così anche in questo caso si aggiunge una tacca alla lista dei ‘nulla di fatto’. 7 Pino Dato “ Storia di una emblematica cassapanca” da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p.157
16> Progetto di Alfio Pauletta per un doppio Eretenio. In sezione si notano le due sale. 17> La sala del teatro Eretenio, prima dei bombardamenti. 18> Vista esterna del cinema Roma. 19> Sezione del progetto di riadattamento a teatro del vecchio cinema Roma.
13
5. Lo vogliamo in armonia con il verde e con Palladio La scelta del luogo dove far sorgere il nuovo teatro di Vicenza è un argomento particolarmente delicato, spesso e volentieri spina nel fianco di progettisti e promotori. Il vecchio teatro Verdi si affacciava su viale Roma, proprio al limitare di campo Marzio, ed è nello stesso luogo che spesso si è parlato di ricostruirlo o costruirne uno nuovo. Ma proprio la vicinanza con il parco e il rapporto con il paesaggio dei colli Berici, che svettano dietro alla stazione, hanno infiammato le polemiche ambientaliste e animato il fronte dei contrari. Non importa quale progetto si discutesse, guai a profanare il verde con colate di cemento. E’ il 1949 quando il conte Gaetano Marzotto, presidente della società ‘Ciatsa’ (Compagnia italiana alberghi turistici), che genererà in seguito la catena dei ‘Jolly Hotels’, propone un affare all’allora sindaco Zampieri: Il comune vende a Marzotto una parte del terreno su cui sorgeva il teatro Verdi, dove la Ciatsa vuole costruire un albergo alle cui spalle sorgerà il nuovo teatro. Ciascuna delle parti finanzia parte della costruzione e si ottiene così un unico complesso di attrazione turistica e cittadina. Bisogna dire che in quei tempi si avvertiva in città anche la mancanza di un albergo. A Vicenza c’erano solo 275 posti letto in strutture alberghiere, sui 2534 di tutta la provincia. 8 La prima bozza di progetto presentata al sindaco raffigura solo l’albergo, nell’angolo tra viale Verdi e viale Roma. Si capisce fin da subito, infatti, quali sono le priorità del conte Marzotto. La giunta comunale si insospettisce, e incarica gli architetti Ortolani e Spellanzon di completare il progetto, cercando di far entrare nell’area edificabile anche l’edificio teatrale. Nell’ottobre del 1949, atteso con impazienza dal sindaco e da Marzotto, gli architetti completano e presentano il progetto. La risposta è affermativa. Si possono fare sia l’albergo sia il teatro. I disegni che gli architetti portano sul tavolo di Zampieri sono impressionanti. La sala può ospitare fino a 2600 spettatori, inserita in un volume monumentale con ben poche concessioni all’estetica. Non sono in pochi a giudicare ‘brutto’ il progetto di Ortolani e Spellanzon, ma non è solo l’aspetto a dar voce agli immancabili polemici. Prima di tutto, c’è una questione di prevalenza. Perché mai il teatro dovrebbe sorgere dietro all’albergo? In questa posizione sembra subordinato, non piace al fronte dei contrari. E non basta che il progetto abbia misure grandiose, decisamente esagerate per una città come Vicenza. I cittadini non si fanno sedurre da un palco più grande della Scala di Milano, come titola trionfante il Giornale di Vicenza 8 Pic. 20
14
Giacomo Rumor da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p.75 Pic. 21
ma danno piuttosto ascolto alle lamentele degli “Amici del paesaggio” che insorgono compatti. Quel progetto, dicono, è un incalcolabile danno per il paesaggio vicentino, una ferita che non si rimarginerà. Troppo grande, rovina la vista dei colli berici e invade il verde di campo Marzio. Zampieri ha un bel da fare a controllare le polemiche, che ormai vedono schierati dalla parte dei contrari la maggioranza dei vicentini. Quello che preoccupa la giunta, in realtà, è la realizzazione dell’albergo. Il teatro può aspettare, sono passati pochi anni dalla fine della guerra e le priorità riguardano più il rilancio dell’economia che non la cultura e l’intrattenimento. Dopo altri interminabili tira e molla, gli “Amici del paesaggio” si prendono la loro vittoria. L’enorme teatro non si costruirà, perso nelle maglie della polemica, e l’albergo si farà dal lato opposto della strada, dove disturba meno il paesaggio. Zampieri rimanda a tempi migliori la costruzione del teatro, senza però prevedere che non potrà mai vederlo realizzato. Se fu il delicato rapporto con il parco il nodo da sciogliere per la proposta Marzotto, nel febbraio 1956 l’attenzione e le preoccupazioni si spostano dall’altra parte del centro. Un gruppo di privati, infatti, offre al comune la vendita di alcuni immobili in piazza Matteotti, tra palazzo Valmarana e palazzo Chiericati, in cambio della vendita dell’area ex Eretenio per scopi immobiliari. I privati ci guadagnano una concessione edilizia prestigiosa e il comune salva dalla speculazione un’area centrale e preziosa come quella di piazza Matteotti. Non solo, stando al progetto dell’ingegner Giuseppe Dal Conte, in questo lotto di terreno sarebbe edificabile un teatro a ferro di cavallo da 1750 posti. Comodi, specifica l’ingegnere. Se non si riusciva a costruire nell’area del Verdi per la vicinanza con campo Marzio e non si può costruire un teatro dove prima sorgeva l’Eretenio a causa del poco spazio, la terza alternativa sembra perfetta. La zona è centralissima e lo spazio sufficiente. A parte trovare i soldi necessari, sembra non mancare nulla per concludere l’affare. Invece ancora una volta bisogna fare i conti con le polemiche e le preoccupazioni. Sono Giuseppe Roi e Neri Pozza che danno il via ad una ridda di chiacchiere. Quello che preoccupa è, infatti, il rapporto con gli edifici palladiani. Attenzione, ammoniscono, a non entrare in competizione con l’illustre antenato: si corre il rischio di creare un mostro di bruttezza proprio accanto a monumenti così importanti. Potremmo definirla paura o prudenza, fatto sta che in consiglio comunale, quando si va al voto, si decide di comprare l’area per salvarla dalla speculazione immobiliare, ma si rimanda a tempo indeterminato la costruzione di un eventuale teatro. Come ben si sa a Vicenza, le decisioni temporanee facilmente diventano definitive e anche il teatro in piazza Matteotti va a riposare in qualche scaffale da dove non emergerà più perché i disegni, purtroppo, sono andati perduti. Il 22 dicembre del 1967, nella sala riunioni di palazzo Trissino, sono presenti, oltre al sindaco Sala, il vicesindaco Lino Zio e i massimi funzionari del municipio, le tre firme più prestigiose del panorama architettonico italiano del tempo: Franco Albini, Ignazio Gardella e Carlo Scarpa. Sono stati convocati per prendere parte ad un concorso ad invito. C’è la convinzione che con l’apporto di tre architetti così rappresentativi si possa finalmente sciogliere il nodo della costruzione del teatro. La riunione dura alcune ore, durante le quali vengono definite le richieste del comune alle quali i tre progettisti dovranno attenersi. L’area scelta per la costruzione, ancora una volta, è l’ex Verdi. I motivi per cui non si pensa alla ricostruzione dell’Eretenio sono molteplici. Non solo è ormai chiaro che con le nuove norme di sicurezza non ci sia spazio sufficiente per un teatro grande abbastanza, ma è anche lo spirito del tempo, siamo alle porte del ’68, che chiede novità e coraggio. Vicenza sta già compiendo diverse opere di espansione, costruendo interi quartieri di abitazioni e
20> Progetto di Ortolani e Spellanzon, su commissione del Conte Marzotto. Assonometria che sottolinea límponente volume della sala teatrale. 21> Vista dell’albergo incluso nell’offerta di Marzotto. Le critiche piu’accese si concentreranno proprio sulla posizione troppo favorevole dell’albergo.
15
ridefinendo velocemente i suoi confini. Risolvere il nodo strategico di campo Marzio, davanti alla stazione, con un’opera rappresentativa come il teatro, suggellerebbe una grande vittoria per tutta la città. Torniamo al bando di concorso. Il nuovo teatro deve avere almeno 1250 posti, ed essere costruibile entro una spesa massima di 850 milioni di lire. Con intuito, gli amministratori comunali suggeriscono che la struttura includa anche altre due sale da cento posti l’una, un bar-ristorante e negozi. Si cerca di evitare di relegare il teatro in una drammatica solitudine, includendolo in un’area nevralgica come quella di viale Roma, dove possa diventare fulcro di nuove attività. Il dibattito è acceso, ma alla fine sono tutti d’accordo. Ci si preoccupa di quanto ‘realistica’ sia la previsione di spesa e di quanto adatta sia la quantità di poltrone. Qualcuno solleva anche la questione dell’esclusione degli architetti locali dal concorso ad invito, ma il sindaco Sala sa ragionare e far ragionare, e convince la giunta. I lavori degli architetti arriveranno all’inizio del 1969. Il progetto di Franco Albini è il più razionale dei tre. Rispetta alla lettera le richieste del bando di concorso. Si articola in tre corpi principali, un distributivo, la sala ed il palcoscenico. Si nota subito la cupola in rame che copre la sala principale, al centro di una struttura dalle linee pulite, ma in qualche modo rigida, composta da volumi che, sovrapponendosi, creano un interessante gioco di chiaroscuri. L’ingresso è previsto da viale Verdi e Albini immagina anche la possibilità di un futuro ampliamento, suggerendo la posizione per una sala congressi da 500 posti. La sala principale del teatro, invece, rispetta la richiesta di 1250 poltrone. C’è di più: l’architetto, con Franca Helg e Marco Albini, prevede diverse configurazioni di platea e palcoscenico. Diversi assetti ne garantiscono la flessibilità che spesso si è cercata tra i progetti che regolarmente arrivavano sulla scrivania del sindaco. A seconda di come è coperta la fossa d’orchestra, il teatro può assumere la forma ‘a sperone’, ‘all’italiana’ o ‘en ronde’. Quest’ultimo ricorda un’arena da box, con il palcoscenico al centro. Sarebbe stato ideale per la fame di discussione della città.
Pic. 22
16
Pic. 23
Pic. 24
Ignazio Gardella ottiene un risultato di notevole compostezza formale. Il progettista milanese, al pari di Albini, cerca una certa flessibilità d’uso, che trova grazia al concetto di ‘sala-piazza’. Dice di ispirarsi a Jean Vilar e agli spettacoli della piazza dei Papi di Avignone. “Un’azione scenica non limitata dalle pareti, ma dall’architettura dell’ambiente”. 9 Grazie alle diverse configurazioni che la ‘piazza’ può assumere, il teatro spazia dai 900 a ben 2600 posti. Dice inoltre Gardella: “Ho voluto progettare un edificio inteso non come una macchina per fare spettacoli, ma come elemento emergente nella forma della città, come oggetto architettonico che si colloca entro un contesto urbano, iniziando, all’ingresso della città, un dialogo con i monumenti della città antica”. 10 Gli opinionisti vicentini non sono convinti di questa relazione con il contesto, essendo il teatro di Gardella, ad un primo sguardo, un cubo. Ma proprio l’indifferenza con cui si inserisce ai margini del parco, e il taglio diagonale che ne caratterizza la pianta ne fanno, da subito, un’immagine iconica e rappresentativa come Vicenza ha sempre voluto. Il progetto di Carlo Scarpa è senza dubbio quello che da più da pensare alla commissione giudicatrice. Viene definito un grande volo di fantasia, addirittura ‘geniale’ nel rapporto che ne fa il sindaco Sala, ma del tutto irrealizzabile. Il progetto dell’architetto veneziano prevede una magnifica sala a forma di ‘valva’, che costituisce di per sé “uno spettacolo nello spettacolo”. Il secondo principio fondante del progetto è la ‘strada interna’ che taglia trasversalmente l’edificio passando sotto la sala. Su questa si affacciano, da un lato i negozi richiesti dal bando, dall’altro il foyer del teatro. Ma ciò che si nota ad un primo sguardo ai disegni è la dimensione del progetto: quasi il doppio della cubatura massima consentita dal bando. La metratura del palcoscenico è di 1995 metri, cinque volte quella dei progetti di Albini e Gardella. 11 Il costo totale stimato è ben al di là delle possibilità delle casse comunali. A chi contestava a Scarpa una certa leggerezza nei confronti dell’impegno preso all’accettazione del bando, questi difendeva la sua scelta d’imponenza con parole sicure: “Il teatro diventerà il primo fulcro intorno al quale in avvenire potrà trovare forma più precisa ed educata la sistemazione dell’intero parco, oggi piuttosto negletto”. E dice ancora: “[…] un insieme di movimenti liberi, una cosa viva anche durante la vita di ogni giorno. 12” Con questi tre progetti di altrettanti brillanti architetti, la giunta 9 10 11 12
Ignazio Gardella da Antonio di Lorenza “L’Altalena dei sogni” p.249 Ibidem Antonio di Lorenzo “L’altalena dei sogni” p.251 Carlo Scarpa da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p.252
22> I prospetti del progetto Albini per il concorso del ‘68. Definiti da Neri Pozza “tutt’altro che belli”. 23> Vista del modello del progetto Gardella. 24> I prospetti severi ed estremamente composti del progetto Gardella.
17
comunale, dopo un acceso dibattito, va al voto. Tutti concordano che il progetto di Scarpa sia geniale ma troppo al di fuori delle richieste. La sfida, dunque, è tra Albini e Gardella. Si risolverà in favore di Albini, con cinque voti contro quattro, salvo poi finire all’unanimità per ragioni etiche. Il merito del progetto scelto, senza dubbio, è la maggiore ‘credibilità’. Albini è rientrato in tutti i limiti e ha soddisfatto le richieste del bando di concorso. E’ normale che il voto sia più facilmente indirizzato a chi garantisce maggiori garanzie per la costruzione, anche se, a detta di alcuni critici, inferiori spunti di tipo architettonico e culturale. L’onnipresente Neri Pozza, dalle pagine del Giornale di Vicenza, fa come sempre sentire la sua voce riguardo alla scelta del vincitore: “L’esito del concorso è stato largamente positivo, […] ma la relazione di Sala, pur corretta ed acuta, e’ venata da un accento patetico. Il progetto Albini è una macchina corretta ed elegante della sua officina, ma dotata di un prospetto raggelante e fronti squallidi”. Un giudizio senza dubbio severo, che in fondo però accetta la scelta, data l’autorevolezza dell’autore e la correttezza del concorso. Ora, scelto anche il progetto meno ‘pretenzioso’, pare che non ci siano più ostacoli verso l’effettiva costruzione del teatro. Ma è sempre in questa fase della contrattazione che i difensori più agguerriti del verde di campo Marzio si fanno sentire. Ed anche in occasione del concorso del 1968, gli ‘Amici dei monumenti e del paesaggio’ fanno notare non solo la preoccupante tendenza a rosicchiare il parco con piccoli ma diffusi interventi, ma anche l’incompatibilità dei progetti con il ‘piano Coppa’. In sostanza, il sindaco si trova a dover scegliere tra il procedere con la costruzione del teatro di Albini, facendo passare una variante al piano Coppa e creando un precedente non felice, inimicandosi le associazioni ambientaliste, o rinunciare al teatro in favore della coerenza urbanistica. Come sempre la discussione è accesissima, e il sindaco Sala mostra una notevole capacità critica quando si difende dagli attacchi degli ambientalisti dicendo: “Il bene maggiore può comportare anche mali minori. Certe posizioni preconcette possono essere un male per la città: molto spesso le intransigenze e i ‘no’ assoluti possono essere anche delle posizioni di comodo. Sono tranquillizzanti perché, invece di affrontare i problemi li mettono semplicemente da parte”. 13 Il sindaco centra in pieno il nocciolo della questione: se non si superano le posizioni preconcette e non si affrontano i problemi con realismo, non si giunge mai ad alcuna conclusione. L’opposizione cavalca abilmente l’onda dei contrari al teatro e l’imminenza delle elezioni fa il resto: progetti archiviati ed arrivederci alla prossima. 13 Pic. 25
18
Giorgio Sala da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p. 244 Pic. 26
Pic. 27
Pic. 28
Pic. 29
Il concorso del 1968 si distingue senza dubbio per la qualità della ricerca architettonica in campo. L’aver scelto i tre più eminenti progettisti italiani del tempo fu segno di voglia di innovare, coraggio e lungimiranza. Nell’autunno del 1979, infatti, archiviate sia le proposte per Santa Corona (di cui si è parlato nel capitolo precedente) ed un secondo concorso di idee (di cui si parlerà nei prossimi capitoli) il progetto del teatro di Gardella viene ripescato. Proprio quel cubo che aveva suscitato grande ‘curiosità’ tra i consiglieri comunali dieci anni prima, torna alla ribalta della cronaca. Il sindaco in quegli anni è Chiesa, della Democrazia Cristiana. Chiesa fa le cose a regola d’arte, rispolvera il progetto, lo fa revisionare da Gardella (che apporterà solo minime modifiche, tra cui l’uso della pietra di Vicenza per le facciate) e convince la giunta. Si arriva addirittura alla gara d’appalto per trovare un’impresa costruttrice. Ma anche nel 1980 gli ambientalisti dormono con un occhio aperto. Non solo i famosi ‘Amici dei monumenti e del paesaggio’, ma anche ‘Italia nostra’, la ‘Fidapa’ e il ‘Soroptimist’ 14 si schierano apertamente contro quello che non viene più chiamato teatro, bensì mostro. Dubbi legati alla gara d’appalto ed il veto della sovrintendenza di Roma metteranno fine a questa nuova fiammata di speranza, e c’è chi sospetta ingerenze politiche e condizionamenti a tutti i livelli, in un clima di feroce competizione politica come quello dei primi anni ’80. Sul Giornale di Vicenza appare un articolo che con lucidità interpreta l’ennesima situazione di stallo: “E’ meglio non fare niente, piuttosto che non fare il teatro, in questa maniera tutti saranno contenti: la giunta comunale perché ha evitato le critiche che possono essere rivolte a chi fa qualcosa, ma che difficilmente si concretano verso chi non fa niente; l’opposizione perché può dire che l’amministrazione non fa niente, dopo aver strombazzato il teatro; chi non vuole il teatro, perché non ci sarà; chi lo vuole, perché potrà continuare a lamentare che non c’e’; e intanto sognare, ciascuno per conto suo, un teatro ideale, fatto a propria immagine e somiglianza”. 15 14 ‘Italia Nostra’ e’ una associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della nazione, ‘Fidapa’ e’ la sigla che designa l’Associazione Italiana Donne Arti Professioni ed Affari. 15 “La città e il teatro” sul GdV 21.11.1980 da Antonio di Lorenzo “L’altalena dei sogni” p. 416
25> Vista del modello del progetto Scarpa. In evidenza la copertura circolare e l’imponente volume della torre scenica. 26> Sezione del progetto Scarpa, in evidenza la tensostruttura che sorregge la copertura della sala. 27> Quando il progetto Gardella viene rispolverato, anni dopo, ricominciano anche le proteste. In questo caso un volantino per dire ‘NO’ al mostro. 28> Una vignetta satirica riguardo all’annosa polemica. 29> FOtomontaggio degli “Amici del paesaggio” per evidenziare l’impatto abientale del ‘cubo’ di Gardella.
19
6. Lo vogliamo fatto dalla cittadinanza L’orgoglio dei vicentini è cosa nota. La città si è sempre distinta come fulcro di un’area, il nord-est italiano, particolarmente operosa e produttiva. Nonostante emerga dalle dinamiche del dibattito una certa incapacità a perseguire il bene comune e scendere ad un compromesso, imbrigliati da eccessive voluttà individualistiche, la voglia di un teatro costruito dalla forza pubblica, più che da quella privata, emerge come causa della mancata realizzazione dell’opera in svariate occasioni. Per trattare questo tema è necessario tornare all’ottobre del 1950 quando l’allora sindaco Zampieri, considerando i tempi maturi, sfodera il suo asso della manica a conclusione di un vivace periodo di proposte ed iniziative. L’Ina (Istituto Nazionale di Assicurazioni) vuole costruire una nuova sede a Vicenza, ed in cambio della concessione edilizia in una zona centrale come quella dell’ex Verdi, concederebbe alla città un mutuo convenientissimo, utile non solo per la costruzione del teatro, ma anche per la realizzazione di molte opere pubbliche. L’Ina investirebbe a Vicenza moltissimi soldi, quasi una pioggia d’oro, in anni in cui la città ha bisogno di tutto e sta cavalcando l’onda dell’entusiasmo della ricostruzione. Lo studio Ortolani-Cattaneo presenta, esattamente un anno dopo e a spese del Comune, un progetto per la costruzione della sede centrale della compagnia di assicurazioni e del teatro tanto sognato dai vicentini. Come detto, l’area è quella dell’ex Verdi. Il progetto ricalca, sostanzialmente, quello presentato dal conte Marzotto riguardante un complesso albergoteatro. Nell’angolo tra viale Roma e viale Verdi, in posizione estremamente favorevole, sorgerebbe l’edificio dell’Ina, imponente. Alle sue spalle il corpo del teatro. La sala principale da 1500 posti comodi, tanto grande quanto lo è l’ambizione di Vicenza. I prospetti sono rispettosi e nel complesso hanno un’aura di modernità. Ortolani ripete la filastrocca che si sente ogni qual volta si proponga un progetto che prevede una destinazione mista, pubblica e privata: il fabbricato “creerà un nuovo centro di attività e movimento turistico e cittadino”, “un edificio nel verde di Campo Marzo, aperto dal di dentro a godere della natura circostante, flessibile nelle sue linee interne alle esigenze ritmiche dei prati e degli alberi che lo cingono sui tre lati” 16. L’architetto si da un gran da fare per rabbonire i critici, ma non sa che non può in alcun modo fugare la preoccupazione principale. A parte le forti ed influenti critiche ambientaliste, ci si scaglia fortemente contro la localizzazione del teatro: “Il progetto prevede soltanto un edificio altissimo di sei piani verso il viale della Stazione, mentre il teatro verrebbe relegato nella parte retrostante, con occupazione di un’area 16 Pic. 30
20
Ortolani da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni”
invece necessaria e preziosa per lo sviluppo del traffico automobilistico”. Il fatto che sul luogo dove prima sorgeva il teatro Verdi ora possa sorgere il palazzo dell’Ina, dalle linee moderne e l’aspetto austero, fa inorridire chi ancora sogna di riveder svettare la facciata neoclassica del teatro. E non serve che Neri Pozza scriva che “se realizzato il progetto, sarà cosa di grande dignità formale, di gusto e di sicura utilità’ pratica”. Il polverone delle polemiche non accennerà mai a placarsi, fino a che non arriverà il veto di Roma a tutta l’operazione. Un veto che fa sospettare gli ‘Amici dei monumenti e del paesaggio’ di sobillamento, in quanto ricalca in tutto e per tutto le loro posizioni. “Quest’idea dei vicentini di una città tutta di frontespizi classici e neoclassici mi dà l’idea di una successione di quinte, di inutili pitture, come se la vita e l’estetica architettonica fossero concentrate lì, e dietro fosse il vuoto”. 17 Vicenza perderà l’offerta dell’Ina e non costruirà né l’edificio di rappresentanza, né tantomeno il teatro. Il sindaco Zampieri riesce in qualche modo a salvare parte del mutuo promesso dalla compagnia di assicurazioni, garantendo così almeno alcune delle opere pubbliche che con entusiasmo sognava già dalla presentazione del progetto. 17 Pic. 31
Neri Pozza da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p.115 Pic. 32
Nell’estate del 1966 è appena calato il sipario sul dibattito a proposito del ‘ridotto di Torre Bissara’ quando al sindaco Sala vengono recapitate due proposte da parte di altrettanti imprenditori interessati alla realizzazione del teatro e, secondariamente, all’eventuale profitto. La prima proposta, da parte della Savet (Società anonima vicentina per l’esercizio dei teatri) in collaborazione con gli ‘Amici del teatro’, e firmata dall’ingegner Luciano Maggi punta alla ricostruzione del Verdi. E’ un teatro che ben ricalca le intenzioni dei committenti, interessati a rilanciare in grande la lirica a Vicenza ed a dotare la città di una struttura rappresentativa. I prospetti sono severi e i volumi importanti, ma manca una reale convinzione sulle possibilità economiche da parte dei propositori. La seconda proposta, di appena un mese dopo, è inviata dall’imprenditore vicentino Ceola. Firmato dall’ingegner Guiotto, del progetto non resta che una sola immagine prospettica, sapientemente presentata a volo di uccello mostrando sullo sfondo un paesaggio bucolico e in primo piano un parco completamente illibato. Si nota come in questo caso le velleità formali passino decisamente in secondo piano, lasciando spazio ad un fabbricato sostanzialmente brutto da cui non si distingue nessuna caratteristica tipica del teatro. Ceola propone al comune un affare semplice: in cambio della vendita del terreno e della concessione edilizia per costruire uffici e case nell’area
30> Vista del modellino della proposta dell’INA. A destra l’edificio rappresentativo della compagnia di assicurazioni, sulla sinistra la facciata del teatro, difronte a Campo Marzio. 31> Prospettiva del teatro proposto dalla ‘Savet’. 31> Immagine ‘a volo di uccello’ della proposta dell’imprenditore Ceola.
21
ex Verdi, il comune di Vicenza ottiene il sospirato teatro, inglobato nella struttura ed a costo quasi zero. Appare chiaro come in questo caso la priorità sia la speculazione edilizia sull’area, anche se la realizzazione di questo progetto sgraverebbe la municipalità da molte complicazioni. In entrambi i casi, sia per quanto riguarda la proposta della Savet sia per quella di Ceola, la reazione del comune è molto fredda. Prevale, infatti, un sentimento di gelosia e protezione nei confronti del teatro, che non deve essere realizzato in fretta e per il bene delle tasche altrui. Lasciarlo fare ai privati sarebbe un chiaro segnale di debolezza da parte della giunta, e l’orgoglio cittadino non lo può permettere. Bisogna aggiungere che il novembre dello stesso anno è ricordato in città per la drammatica alluvione. L’attenzione si sposta quindi sul recupero delle aree interessate e con buona pace di industriali e sindaco la questione viene archiviata. Alle due proposte, ad ogni modo, va il merito di aver stimolato lo spirito decisionistico della giunta che di lì ad un anno partorirà l’idea del concorso ad invito per Scarpa, Gardella ed Albini. E’ lo stesso effetto che sortirà la proposta dell’imprenditore Gaetano Ingui. Nell’aprile del 1978, appena concluso il dibattito su Santa Corona, presenta all’amministrazione comunale un progetto che stuzzica la fantasia della giunta. Disegnato dall’architetto Renzo Toffolutti, il complesso e’ diviso in quattro volumi principali che si articolano intorno ad una piazzetta interna. L’idea è la creazione di un già proposto centro polifunzionale, con tre dei quattro blocchi destinati ad attività commerciali, uffici ed abitazioni private. Il quarto dei blocchi si presenta imponente a chi accede al ‘campiello’. Dice anni dopo Gianfranco Pavan, braccio destro di Ingui: “Che ci si creda o no, l’obiettivo era realizzare qualcosa di alto significato civico. Doveva essere un motivo d’orgoglio per la città. Naturalmente noi non volevamo rimetterci, puntavamo a pareggiare i conti, ma non c’erano intenti speculavi”. 18 Alla fine degli anni ’70, si è messa un po’ da parte la diffidenza nei confronti degli imprenditori che cercassero di costruire il teatro in nome della cittadinanza, e così su questo progetto si sprecarono le lodi. Perfino il sempre critico Neri Pozza spende alcune parole di elogio su un’architettura che definisce “avveniristica, con un cubo di vetro cemento che rifletterà il verde circostante”. 19 Si comincia ad affermare la sensazione che la strada del rapporto pubblico-privato non sia più un tabù per Vicenza, e che percorrendola si possa giungere ad ottimi risultati. Un cambio di opinione che è dettato da una nuova sensibilità civica ed economica. Si decide quindi di cavalcare l’onda dell’ottimismo, e di bandire un concorso pubblico aperto a tutti gli imprenditori che volessero proporre un’idea di progetto. Largo ai privati, dunque. Il concorso che prenderà vita alla fine dello stesso anno produrrà risultati molto interessanti ed il fallimento dell’operazione può essere considerato una sintesi di tutti i problemi in cui incorre chi si dedichi al mestiere della pratica architettonica.
22
18 19
Gianfranco Pavan da Antonio di Lorenzo “L’altalena dei sogni” p. 325 Neri Pozza da Antonio di Lorenzo “L’altalena dei sogni” p. 328
Pic. 33
Pic. 34
7. Il concorso del ’78, sintesi perfetta Solo quattro mesi dopo il bando del concorso pubblico che invitava i privati a presentare proposte per la costruzione di un teatro e di attività commerciali, da costruire grazie ad una società pubblico-privata, arrivano a palazzo Trissino quattro progetti. Il primo e’ il progetto dell’architetto veneziano Renzo Toffolutti, il cui cliente e’ Ingui, già presentato nel capitolo precedente. Sostanzialmente ricalca la versione di quattro mesi prima, prendendo come principio ispiratore il concetto di ‘campiello’ con quattro strade convergenti verso il centro di un complesso dove si affacciano attività commerciali e civiche. Come dice il progettista, il centro vuole essere “un luogo di grande interesse pubblico e quindi un vero polo urbano permanente”. 20 Va sottolineato che l’imprenditore ha già pronto un accordo per la cessione del blocco destinato ad albergo alla ‘Jolly Hotel’ che, dall’altra parte di viale Roma vuole allargarsi anche sull’area dell’ex Verdi, così come sognava il conte Marzotto trent’anni prima. Il secondo progetto è firmato da Romeo Ballardini e commissionato dal ‘Cie’ (Consorzio Imprese Edilizie), capitanato dalla Cos.ma di Pietro Maltauro. La preoccupazione dell’architetto è principalmente quella di rientrare nel Piano regolatore del centro storico ed articolare il volume del fabbricato in modo da evitare la soluzione di un corpo unico. Lo fa pensando ad una strada interna, di collegamento tra i vari elementi, su cui si affacciano le vetrine dei negozi e che gira attorno al cuore del progetto: 49000 metri cubi di sala convegni e teatro da 1300 posti riducibili a 900. La caratteristica che per prima colpisce gli esaminatori e’ la copertura della sala teatrale, sostenuta da massicce travi di acciaio che si dipartono, a raggiera, da una torre circolare posta proprio all’angolo tra viale Verdi e viale Roma. Il terzo dei progetti in concorso viene presentato dal consorzio milanese Romagnoli-Irces-Benettoni, e porta la firma dell’architetto Oscar Niemeyer, in collaborazione con Federico Motterle, suo ‘profeta’ in Italia. L’approccio dell’architetto brasiliano si distingue da tutti gli altri progetti presentati a Vicenza per come rivoluziona il rapporto tra le diverse strutture e tra queste ed il parco. Non si limita ad occupare il solito angolo tra i viali, considerandolo fulcro del passeggio cittadino, ma propone la costruzione di due blocchi a pianta circolare inseriti nel verde, con una soluzione “molto semplice e chiara nella sua articolazione dei volumi”. 21 Il primo dei Renzo Toffolutti da Antonio di Lorenzo “L’altalena dei sogni” p.341 Renato Michieli e Giuseppe Steccati da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni” p.353 20 21
33> Vista da Viale Roma della prima proposta Ingui. Il concetto fondante del progetto e’ il ‘campiello’, con quattro passaggi che conducono ad un grande spazio centrale. 34> Immagine del modello della progetto di Toffolutti. si notano distintamente i 4 volumi in cui si articola il complesso culturalecommerciale.
23
Pic. 35
Pic. 36
due blocchi cilindrici e’ il teatro, del diametro di 50 metri e caratterizzato da una copertura ‘tagliata’ per necessità dell’acustica, alto 27 metri. Il secondo cilindro, invece, ospita un albergo. Le camere sono tutte all’esterno della struttura, il cui cuore è il centro direzionale e distributivo. Misura 37.5 metri di diametro, ed e’ alto 22 metri. Descrivendo l’albergo, Motterle dice: “L’effetto ottico suggerisce l’idea di una scacchiera, per l’alternarsi delle superfici chiare (di giorno il marmo, di sera le finestre illuminate) e scure (di giorno il vano delle finestre, di sera il marmo)”. In generale, è questo il progetto che più è rimasto impresso nella memoria dei vicentini che, negli anni, si sono interessati alla vicenda del teatro. Il quarto dei progetti in gara, pur arrivato con qualche giorno di ritardo, è firmato dal ‘Gruppo Dalla Massara’ e nasce da un’aperta contrapposizione con le altre proposte, criticate per essere troppo invasive del verde di campo Marzio. (proprio quell’intoccabile verde che gli imprenditori, evidentemente, sanno come occupare). Anche questo progetto è originale nella forma e nei contenuti. L’intenzione dei progettisti è di dimostrare che si può rispettare il piano Coppa per il centro storico, senza danneggiare eccessivamente il parco. Cercano di concentrare tutta la cubatura in un unico fabbricato dai tratti organici. Perseguono un’Architettura a scala umana, combattendo il razionalismo esasperato che altri, invece, prendono a modello. Pensano ad un raccordo con il verde della città che offra sorprese ed intimità, cercando innovazione anche per quanto riguarda lo spazio teatrale. Progettano, infatti, un palcoscenico che si possa aprire al parco, con gli spettatori sistemati nell’erba. Ce ne starebbero fino a 5000, molti di più dei sogni dei primi sindaci del dopoguerra. Come dicono gli autori nella relazione che accompagna la proposta, la morfologia adottata è “anticlassica, dove asimmetrie e dissonanze si traducono della definizione Pic. 37
24
Pic. 38
Pic. 39
Pic. 40
di volumi e spazi teatrali per la città. Una volumetria di tipo ‘organico’, memoria delle masse dei tigli e dei platani di Campo Marzo e modellata sino a placarsi nei volumi dell’edilizia urbana”. 22 Come si può prevedere, i quattro progetti animano i dibattiti e le discussioni di ogni salotto vicentino. Il ‘Rotary club’ organizza una serie di incontri proprio su questo tema, e non c’è vicentino che non si senta in obbligo di scegliere una delle soluzioni. E’ un po’ come puntare sui cavalli prima di una corsa. Ancora una volta, c’è anche chi si diverte a dare travestimenti politici ai progetti. In un articolo apparso sulla rivista ‘Il cittadino’ del Partito Repubblicano Italiano, si accosta l’offerta della Cos.ma alla maggioranza democristiana Ingui cerca, invece, di aggraziarsi le simpatie del sindaco che vorrebbe qualcosa di monumentale, in modo da essere ricordato. I più vicini al progetto di Niemeyer, continua la rivista, sarebbero gli appartenenti all’intellighenzia di stampo marxista. Ai fratelli Dalla Massara viene perfino negata questa piccola attenzione, ma sappiamo dalla loro relazione che erano vicini agli ‘Amici dei monumenti e del paesaggio’, cercando di perseguire una logica di rispetto per il verde. Ovviamente tutto questo, altro non è che materia da chiacchiera, perché le intenzioni della commissione giudicatrice del Comune sono ben diverse. Ciò su cui si ripone l’attenzione, infatti, sono i numeri, non l’Architettura. A parte stimare indicativamente i costi per la costruzione dei teatri (quattro miliardi di lire per la proposta Ingui e quella della Cos.ma, sei miliardi per i progetti Niemeyer e Dalla Massara), si calcola il rapporto tra il pubblico e privato. Ovvero, si vuole sapere quanti metri cubi ottiene il comune per ogni metro cubo che resta all’imprenditore che costruisce. Si cerca, in altre parole, di capire quanto i privati vogliano lucrare sulla costruzione del complesso teatrale. Più che un concorso di Architettura sembra un concorso di matematica. Per la cronaca, il rapporto e’ di 0.58 per Ingui, 1.17 per la Cos.ma, 0.46 per il progetto Niemeyer e 1.15 per i Dalla Massara 23. Considerando la stima dei costi, i vincitori virtuali sono il gruppo guidato dalla Cos.ma con il progetto di Romeo Ballardini. E’ curioso sottolineare come i progetti presentati a questo concorso, pur non costruiti a Vicenza, abbiano avuto miglior fortuna altrove. La ‘Sala Europa’ del centro congressi di Bologna è il complesso presentato da Gaetano Ingui, mentre nella città di Araras, in Brasile, nel 1991 Niemeyer ha costruito il teatro a pianta circolare. L’architetto di Brasilia è così 22 366 23
Giuseppe Dalla Massara da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei sogni”. p. Tabella dell’analisi quantitative da Antonio di Lorenzo “ L’altalena dei
sogni” p.382
35> Modello del complesso teatrale proposto dalla Cos.Ma di Maltauro. In evidenza le nervature di acciaio che sostengono la copertura. 36> I prospetti del progetto di Romeo Ballardini. 37> Pianta del teatro nel progetto di Niemeyer. 38> Vista del modello presentato da Niemeyer e Motterle. Si vedono i volumi del teatro e dell’albergo. 39> Fotografia del teatro costruito da Niemeyer in Brasile, sulla base del progetto di Vicenza. 40> Schizzi di progetto del progetto Niemeyer.
25
soddisfatto del risultato, che lo indica come ‘paradigma irrinunciabile’. 24 Come mai, nonostante l’abbondanza di risultati tra loro così diversi, non si costruì nulla? Come mai la città si fece scappare ancora una volta un’occasione d’oro di costruire a basso costo un edificio veramente rappresentativo e dare finalmente risposta all’annosa questione del teatro? Chi si intromise quella volta? Apparentemente nessuno in particolare, e allo stesso tempo un po’ tutti. Il fallimento di questo concorso è come la sintesi di tutti i fallimenti fin qui elencati. Da un lato c’è una concezione etica dello stato che non permette ai privati di realizzare opere pubbliche di tale portata. Anche se la proposta Ingui aveva visto molti consiglieri e gli stessi ‘Amici del paesaggio’ esprimere un parere possibilista, prevale poi quel sentimento di diffidenza di cui abbiamo già parlato in precedenza. C’è poi la questione dell’ala conservatrice dell’opinione pubblica, sostenitrice della purezza di Vicenza e dei suoi parchi. La politica di conservazione estrema vuole, paradossalmente, portare Vicenza ad essere un giorno all’avanguardia proprio conservando il suo volto puro ed illibato negli anni. Infine, la questione economica fa pendere la bilancia dalla parte della non-decisione. Ci si e’ ormai resi conto che il grande pubblico preferisce il cinema e non chiede più a gran voce il grande teatro che da trent’anni si sogna. Siamo alla fine del ’78, e bisogna aggiungere la crisi del petrolio ed un’inflazione galoppante. Insomma, se per le proposte che abbiamo preso in esame fin qui si accendeva sempre un dibattito molto animato, su questo concorso le luci si spengono senza clamori. Non è tempo di costruire. 24
Lionello Puppi “Oscar Niemeyer” da Antonio di Lorenzo “L’altalena dei
sogni” p.379 Pic. 41
Pic. 42
26
Pic. 43
8. Verso un Valle di lacrime Ci avviamo alla conclusione di questa travagliata vicenda. Ma non si illuda il lettore, non indicheremo colpevoli né illumineremo le mille ombre che avvolgono gli eventi. Questo è un racconto giallo che termina con la scoperta del cadavere. I primi anni ’80 sono caratterizzati da una nuova sensibilità in campo urbanistico ed economico. In centro si percorre la strada della filosofia del riuso che porterà all’apertura di molti cantieri, con lo scopo di sfruttare al meglio le potenzialità nascoste degli angoli negletti della città. In quegli anni, inoltre, si completa il trasferimento delle grandi industrie dall’area ad ovest delle mura scaligere, dove hanno avuto sede dalla fine del diciannovesimo secolo. Le acciaierie Beltrame e Gresele e le industrie chimiche Montecatini e Zambon vendono il terreno al Comune e si spostano nella ‘periferia produttiva’. L’amministrazione comunale si trova così a dover gestire l’edificazione di grandi aree, proprio a ridosso del centro cittadino. Aree di talmente alta importanza strategica da essere definite “d’oro”. Il 26 ottobre 1984 il consiglio comunale vota l’assegnazione dell’incarico di pianificazione e supervisione a Gino Valle. Valle è un architetto di Udine, già vincitore di due compassi d’oro, è insegnante di composizione allo IUAV di Venezia ed ha alle spalle una lunga serie di realizzazioni. Proprio per questa sua capacità operativa è stato scelto tra una rosa di illustri colleghi tra cui spicca anche il nome di Aldo Rossi. L’intenzione del sindaco Corazzin è quella di incaricare un solo architetto del controllo dell’edificazione di queste aree, allo scopo di salvarle dalla speculazione edilizia e garantire un coerente ed organico sviluppo di una zona così nevralgica. Ci si aspetta che Valle, equilibratamente, accontenti tutte le parti. Invece seguiranno anni di amare polemiche e ripicche: “Intellettuali, ordini professionali, imprenditori, partiti. Erano tutti contro. E dopo? Che cosa hanno prodotto? La verità è che se c’e’ non una maturità complessiva della città, le cose non vanno avanti. Basta vedere i risultati. Gli unici lavori che sono andati a buon fine sono quelli nei quali la città e’ rimasta sostanzialmente estranea: l’ospedale, la nuova questura, la Fiera, le nuove carceri, la terza corsia dell’autostrada. Tutte opere nelle quali l’incidenza locale è stata relativa”. 25 Ma intanto Valle lavorava al piano per le aree d’oro, cercando di creare un nuovo centro cittadino per la ritrovata identità della Vicenza del 2000. Il piano particolareggiato che presenta è molto interessante e si articola in tre parti principali. A sud, a ridosso della stazione, Valle prevede una densa edificazione adatta all’accoglienza della mobilità pubblica e privata che da qui accede al centro storico da sud. Proseguendo verso nord, troviamo il volume semicircolare di un edificio pubblico, poi l’area ‘pp6’, vero cuore dell’intera operazione. E’ qui, infatti, che Valle immagina un complesso di edifici a carattere direzionale - commerciale e, finalmente, il nuovo teatro. Via Monte Cengio, ancora più a nord, è l’asse lungo cui correvano i binari che servivano le industrie. Nell’idea di Valle è un viale alberato, con, ai lati, parcheggi ed altri servizi. A completare l’infilata, a nord, due edifici ‘di testa’ e un volume a pianta circolare. Si terrà un’unica votazione per questi piani di Valle il cui risultato sarà positivo. Scendere nei dettagli delle sabbie mobili politiche e clientelari che affosseranno l’intera operazione e’ argomento troppo vasto da trattare in queste pagine. Ci limitiamo a ripetere, ancora una volta, che gli interessi privati, le inimicizie e le invidie politiche altro non sono che impedimenti alla realizzazione di qualsiasi opera architettonica, e la realizzazione del piano Valle non fa eccezione. A quei tempi, come se non bastasse, la classe 25 Antonio Corazzin, da Antonio di Lorenzo: “L’altalena di sogni” p. 446
41> DIsegno presentato dal gruppo Dalla Massara. Innegabile la somiglianza con la chiesa di Ronchamp di Le Corbusier. 42> Immagine a volo di uccello del progetto Dalla Massara. 43> Modello presentato al concorso nazionale. GLi architetti proclamavano la necessita’ di un’Architettura a scala umana, e una maggiore attenzione alle forme organiche, anticipando di decenni il trend stilistico iniziato da Frank Ghery.
27
dirigente italiana nascondeva una vera e propria bomba ad orologeria. Quando esploderà, con tangentopoli, lo scandalo della corruzione travolgerà anche l’Italstat, colosso dell’edilizia del gruppo Iri e principale concorrente per l’appalto pubblico. A novembre del 1989, Valle presenta il primo progetto dettagliato per il teatro. Dimostra di aver recepito le richieste che gli giungono dai vari operatori dello spettacolo vicentini e soprattutto le indicazioni degli amministratori che, spaventati dalla possibile spesa che condizionerebbe l’intera operazione ‘aree d’oro’, chiedono la progettazione di una ‘scatola semplice’, dotata di tecnologie innovative e funzionali, specialmente per la parte scenica. E’ in questo primo progetto che appare la piazza ribassata, un espediente che Valle utilizza per rispettare l’altezza delle prospicienti mura medievali. Mentre la lotta politica infuria ed isola il sindaco Corazzin, affondando definitivamente il piano Valle e convertendo le famigerate aree d’oro in parcheggi, prima, e merce di scambio, poi, l’architetto udinese sforna un secondo ed infine un terzo progetto per il teatro. E’ il marzo del 1990 quando si tengono le ultime riunioni per cercare di avviarne almeno la costruzione, dopo che l’illusione di un piano regolatore compatto era stata divorata da abili oscuri manovratori. Il teatro presentato in questi disegni emerge da una piazza ribassata di tre metri rispetto al livello di viale Mazzini: “Lo si scopre a poco a poco quasi un passaggio dalla vita reale a quella immaginaria che è proprio del teatro”. 26 Nell’area in cui in precedenza l’architetto aveva indicato una complessa articolazione di volumi strettamente connessi, ora è invece distinguibile chiaramente la sagoma del teatro, staccata dagli altri elementi. Il disegno è molto semplice, la copertura è definita dallo stesso Valle ‘a tenda’ e la scelta dei materiali il più possibile sobria. Nei disegni si nota anche come il progettista immagini già le pareti del teatro coperte di edere e rampicanti, proprio come le mura medievali che, immobili, lo separano dal centro storico. Questo progetto ottiene una promozione bipartisan. La giunta è molto soddisfatta ed incarica Valle della progettazione esecutiva, salvo Pic. 44
28
26
Gino Valle da Antonio di Lorenzo “L’altalena dei sogni” p.492
Pic. 47
Pic. 45
Pic. 46
Pic. 48
poi ritirare l’incarico quando non si trova un accordo sulla cubatura da costruire e sull’ammontare necessario alla costruzione. Un ennesimo buco nell’acqua? Quasi. Le aree d’oro vengono ribattezzate “aree di piombo” e l’asta organizzata per la loro vendita sarà deserta. Tutto ciò che resta del piano Valle è l’idea di costruirci abitazioni e nient’altro. Bisogna compiere un ulteriore salto nel tempo e arrivare al 2001 perché finalmente si comincino a posare i primi mattoni, sia pur metaforici. Il sindaco è Enrico Hullweck, il suo partito Forza Italia. Come detto già in precedenza, l’opinione pubblica ha perso interesse nel teatro, non partecipa quasi più alla vita cittadina e ancora meno si interessa alle questioni politiche. Inoltre, come sottolineava Corazzin, le maggiori realizzazioni sono quelle che non includono interventi locali. Ed è in un clima di indifferenza che matura l’idea di vendere la Centrale del latte per finanziare la costruzione del teatro. E così avviene. Si chiede poi a Gino Valle di riprendere in mano i disegni e di adattarli alle moderne esigenze. Valle disegna allora un corpo di fabbrica dai volumi spezzati, in strisce di mattoni e marmo. Il richiamo alle mura rimane parte integrante del progetto, così come la piazza ribassata che ingentilisce l’imponente volumetria della torre scenica. Il consiglio comunale approva e indice una gara d’appalto per scegliere l’impresa di costruzioni che avrà l’onore di costruire ciò che tanti avrebbero voluto, nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Dopo qualche intoppo economico e giuridico, e molti silenzi, il 10 dicembre 2007 avviene l’insperata inaugurazione.
44>Le aree d’oro progettate da Valle su commissione del Comune di Vicenza. 45> L’idea che affascinava Valle: il teatro inquadrato da Porta Nova. 46> Schizzo di Viale Mazzini come immaginato dall’Architetto udinese. 47> Sezioni del teatro proposto da Valle. Le pareti sono colonizzate da edera, al pari delle antistanti mura Scaligere. 48> Modello in sezione.
29
9. La prigione della parola Dispiegando l’elenco dei fallimenti, lungo 60 anni e trasversale ad ogni credo politico e situazione economica, abbiamo preso in esame le varie caratteristiche che ‘irrinunciabilmente’ questo teatro avrebbe dovuto avere. Così, almeno, pontificavano opinionisti e addetti ai lavori. In realtà, come anticipato nell’introduzione, l’Architettura è specchio della società che ci circonda e una vicenda così complessa ci ha permesso di guardare in profondità tra le ombre dello spirito vicentino. Ne è emersa una realtà spiacevole. Una buona parte della cittadinanza non è entusiasta del risultato estetico del teatro, né tantomeno del suo isolamento. Nonostante molti progetti discussi in queste pagine avessero come principio fondante proprio l’inclusione del teatro in una complessa macchina sociale e culturale, alla fine si è realizzato un fabbricato solo, che si affaccia su un viale trafficato ed un parcheggio. Nessuno passeggia in quest’area, nemmeno i residenti. Come ha commentato anche Ugo Gregoretti, uomo di teatro di grande esperienza, la fantomatica ‘fame di teatro’ che i vicentini e le istituzioni hanno gridato a gran voce, è in realtà un’ipocrita posa sociale. Se ci è voluto più di mezzo secolo per costruirlo, è perché la città non ne aveva bisogno. La politica ha certo soffocato ogni disegno o idea che si siano mai affacciati al dibattito pubblico. Spesso si sono suscitate polemiche, anche molto accese, le quali sono poi state cavalcate con calcolata sapienza. La politica, infatti, è un gioco di ruoli e posizioni, specialmente quella italiana dove l’interesse privato supera ogni ideologia. Se l’ala conservatrice dell’opinione pubblica crede di aver ottenuto delle vittorie, in tutti questi anni, si sbaglia di grosso. Le vittorie le hanno ottenute pochi, cavalcando la passione di molti. L’individualismo tipico dell’abitante di Vicenza spinge amministratori ed addetti ai lavori ad intralciare il lavoro degli avversari. Si capisce perfettamente se si pensa che il tanto decantato valore civico del teatro, a volte, sconfina nel desiderio di un monumento alla propria amministrazione. Alcuni sindaci sono stati stuzzicati all’idea di mettere la firma su un’opera così importante. Hullweck ci è riuscito. Ma non finisce qui, questo oceano di chiacchiere che si sono sprecate in decenni di litigi ha avuto, altre volte, l’effetto di spaventare, intimorire ed intimidire chi avrebbe dovuto prendere le decisioni. E’ il caso del teatro di Gardella, o di Santa Corona. Come ciliegina sulla torta c’è la questione della realizzazione. I disegni esecutivi, infatti, sono di due anni posteriori alla morte dell’architetto incaricato, Gino Valle. E’ il figlio ad averli completati, nell’interpretazione tutta italiana di un’Architettura dinastica, tramandata di padre in figlio e di figlio in amico. Ma nessuno, nella nuova amministrazione, ha sollevato la questione, e così, scegliendo di non scegliere, si è arrivati a scegliere di non sentire. La peggiore delle caratteristiche del teatro, ironia della sorte o volontà divina, è l’acustica alla quale, in qualche modo, bisognerà porre rimedio. Durante gli spettacoli di prosa, se gli attori non sono microfonati, molti spettatori si alzano e se ne vanno infastiditi. Ecco finalmente materializzato il contrappasso che la città di Vicenza merita: dopo troppe parole spese con leggerezza e superficialità, ora viene negato il dialogo proprio da quell’Architettura e dal quel Teatro (con la T maiuscola) lasciati troppo spesso in secondo piano.
30
31