ACILIA

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ACILIA



PROLOGO



Se dovessi concentrare l’essenza della mia infanzia, il suo significato più profondo, i ricordi più vividi, in un luogo, quello sarebbe sicuramente la mia casa ad Acilia, dove ho passato la maggior parte delle mie estati da bambina; qui ho scoperto molte cose e ne ho capite altrettante. In quel gran giardino ho seguito una vera e propria scuola di vita, piante e animali come maestri silenziosi ma solenni, erano sempre accorti e attenti nel comunicarmi le informazioni necessarie per capire e crescere. Amavo pensare che fosse proprio quel giardino a prendersi cura di me: i prati e i grandi alberi mi permettevano di riposare quando ero stanca, rinfrescandomi nelle calde giornate estive. Avevo a disposizione una varietà e quantità enorme di cibi; le albicocche nel frutteto (da mangiare rigorosamente anche da acerbe), i pinoli, i pomodori dell’orto, maturi e riscaldati dal sole. E se, in questa ricerca, dovessi nuovamente sintetizzare l’essenza di quella casa, la prima cosa che mi tornerebbe alla memoria sarebbero senza dubbio gli odori. Il primo, il più forte, è quello della terra: secca e quasi sabbiosa nel viale disseminato da bianchi batuffoli di polline dei pioppi, umida e profumata di pioggia e funghi in autunno, fresca dal sapore quasi dolciastro in primavera; l’odore di terra sulle mie stesse mani, tornando esausta ma soddisfatta in auto verso Roma; ma anche quello degli alberi, delle grandi siepi di alloro, dell’erba appena tagliata.

Questa essenza mi riaffiora alla memoria anche in forma di rumori: il cinguettio degli uccelli, sempre presente come un dolce e rassicurante sottofondo, l’abbaiare di un cane in lontananza, la campana che avverte che il pranzo è pronto, il fruscio costante delle foglie mosse dal vento, il canto del gallo. E poi ci sono i colori: verdi accesi, in tutte le sfumature, l’azzurro del cielo e della piscina, che sembrava quasi un mare, l’ocra, il marrone della terra, dei tronchi, le infinite tonalità di rosa, rosso, giallo degli oleandri, dei fiori di pitosforo, della mimosa. La sensazione che più è vivida in me, ricordandomi di quei giorni, è la stanchezza; ma non quella annoiata da adulta, quella mista allo stress a cui sono ormai abituata: quella autentica, dovuta a un’infinità di cose da fare, alle corse, a quella sensazione di aver quasi il dovere di esplorare, capire, correre, arrampicarsi, finché non inciampavo sbucciandomi un ginocchio, finché non mi faceva male la milza e il cuore mi batteva nelle orecchie. Questi giochi erano spesso solitari: sentivo il bisogno fisico di isolarmi certe volte durante quei momenti. Personaggi onnipresenti nei miei racconti di Acilia, sono mio nonno e mia nonna (che ho da sempre chiamato Nano), mia sorella Carolina (soprannominata da me Aki), i miei genitori e altri tantissimi personaggi satellite che sempre o saltuariamente hanno frequentato la casa (umani e animali che siano stati).



1. FUNGHI


Una volta, da bambina, ho rischiato di morire. In verità l’ho rischiato più volte, ma questa è la volta che ricordo meglio. Fino ad allora avevo la consapevolezza del fatto che le persone intorno a me sarebbero prima o poi morte, ci fu un giorno preciso in cui ebbi questa illuminazione, seguita da qualche mese di pianti notturni disperati; ma quello fu il giorno esatto in cui realizzai che sarebbe successo anche a me, che non la scampavo mica, solo perché ero una bambina, solo perché ero piccola. Che poi che ragionamento da matti è questo? Sono piccola e quindi non muoio? Non ha senso e finalmente lo capii. Comunque, sto divagando, dicevo: da bambina, all’età di circa sette anni direi, rischiai di morire. Inizialmente non avevo nemmeno lontanamente percepito il pericolo: era un pomeriggio come tanti d’autunno ad Acilia; ero sul pratone a giocare con Giulia, la mia cuginetta. Non mi ricordo a cosa giocavamo, cosa dicevamo, eravamo sedute, forse strappavamo fili d’erba. Fra quei fili d’erba crescevano dei funghi: i “chiodini”, come ho poi scoperto chiamarsi.

Non so se fui presa da un momento catartico di sperimentazione sensoriale o semplicemente fosse una sfida fra bambine, ma ne raccolsi uno e lo mangiai. Ero convinta che anche Giulia ne avesse mangiato uno ma, poco dopo, capii che aveva finto. La vera e propria tragedia, il dramma, iniziò nel momento in cui dichiarai di aver consumato quell’inusuale “spuntino” a mia madre. Si scatenò il panico: mi chiesero com’era fatto questo fungo, che colore aveva, dove l’avevo raccolto e perché, che sapore aveva, se avevo degli strani sintomi. Lì per lì la mia reazione fu di sorpresa confusione, senza ancora rendermi conto della gravità della situazione. “Non si dovrebbero mai mangiare i funghi se non sai da dove provengono e che funghi sono, potrebbe essere velenoso, potresti morire!” mi disse mia madre fra lo spaventato e la collera. Lì finalmente realizzai il tutto e mi sentii davvero stupida. Un fungo velenoso, potevo morire. Tornammo a casa a Roma in automobile anche se non sentivo nessuno strano sintomo, avevo questa sensazione di angoscia, questa convinzione che qualcosa di brutto sarebbe accaduto.




Appena arrivati mia madre chiamò il centro veleni. Non ho molti ricordi di quella sera, ricordo solo che mia madre mi fece descrivere di nuovo la forma di quei maledetti funghi, con l’operatore del centro al telefono o forse addirittura ne avevamo portato un esemplare con noi, non ricordo. Alla fine i funghi furono identificati. Armillaria mellea, volgarmente, chiodini del miele: funghi non velenosi, commestibili. Anche se la notizia era abbastanza ufficiale, c’era ancora un sottile rischio che si trattasse di altri funghi; non so se mia madre lo disse perché era vero, o per insegnarmi la lezione ma fui informata del fatto che sarei stata ufficialmente fuori pericolo passata la notte. O forse questa informazione la dedussi dalle circostanze… non saprei. So solo che, da bambina ansiosa quale ero, passai la nottata con grande preoccupazione. La sera mi feci il bagno e ricordo che avevo i capelli puliti e profumati di balsamo all’albicocca. Immaginavo che se fossi morta, il mio cadavere sarebbe stato inutilmente profumato.

Inoltre ricordo che pregai, pregai tutta la notte, pregai perché mi sentii davvero stupida nel pensare che quel mio errore, quel mio gesto fra l’incosciente e lo spavaldo potesse costarmi la vita. Svegliandomi la mattina seguente fui piacevolmente sorpresa nel constatare che non ero morta. Promisi a me stessa che non avrei mai più mangiato cose raccolte da terra, o perlomeno, non funghi.





2. L OSPITE



Se penso al tempo trascorso in quella casa, oltre al grande giardino, mi affiorano anche tantissimi ricordi dell’interno di quella casa; e questi ricordi appartengono per la maggior parte ai giorni invernali.

Ricordo armadi pieni di tesori, di costumi stravaganti che nonno usava nelle sue feste, nei suoi spettacoli: manti da faraone, cappelli da safari, bastoni da passeggio, archi e frecce;

I muri spessi, il pavimento di marmo, il caminetto fumoso, che non si accendeva mai come doveva, ma che comunque riscaldava la grande casa piena di spifferi.

e altri tesori più piccoli e segreti: scatole e scatole di vecchi giochi, conchiglie, fotografie, ricordi di vacanze, cartoline, dischi.

Ricordo la punta delle dita e del naso sempre freddi, i pranzi in cucina, i rari Natali trascorsi li. L’esplorazione di quegli spazi interni, labirintici, enormi in confronto a come li vedo ora. Mi piaceva l’idea che in quella casa ci fossero tante stanze, mi piaceva cercare di immaginarmi come doveva essere quando i miei nonni erano giovani, quando abitavano tante più persone li, fra parenti e domestiche; mi piaceva l’idea che gli ambienti fossero rimasti immutati da allora, e, a tratti, mi sembrava quasi di potermi ricordare come fosse l’atmosfera in quella casa cinquanta anni prima, anche se non l’avevo mai vissuta. Ciò che più mi creava questa sensazione di nostalgia, ricordo di tempi mai vissuti, oltre alla casa in sé, erano gli oggetti; di varie dimensioni, di varie epoche, rotti o funzionanti, spaiati o intatti, ogni piccola cosa, ogni gingillo, ogni mobile, ogni piatto, ogni bottone aveva la sua storia.

Uno dei miei passatempi preferiti era prendere una grande scatola di legno, dove le fotografie erano riposte in modo sparpagliato e caotico e tirarle fuori, una dopo l’altra, osservarle, vedere chi riconoscevo e chi no.





Ce ne erano a centinaia in quella scatola: in bianco e nero, seppia, a colori sbiaditi o più vividi. Alcune ritraevano una Nano giovane, sorridente, che sembrava una diva del cinema, foto di feste, di nonno mascherato, di matrimoni e battesimi. Foto mie ad età di cui non ho ricordi, foto di mia madre bambina che facevo fatica a distinguere dalle mie. In quella casa, sono stati anche sempre stati conservati tanti vestiti; provenienti da nonni, zii, cugini, genitori in epoche diverse, invernali ed estivi, lisi o intatti. Alcuni conservati come reliquia altri a mo’ di feticcio, altri, probabilmente, nella remota speranza che le spalline anni 80 sarebbero prima o poi tornate di moda. Ricordo che un giorno, in una delle mie fervide esplorazioni, trovai uno di questi particolari capi di abbigliamento con la stoffa lisa e consumata in un modo che non avevo mai visto: conoscevo i segni che le tarme lasciavano sugli abiti, ma questi “morsi” erano del tutto diversi; sembravano fatti da fauci con veri e propri denti più che da una falena, erano fori più distinti, precisi, grandi, in più tutt’intorno, nell’armadio, trovai delle strane e indefinibili cosine, dalla forma ovoidale e dal colore nero. Il tutto mi avrebbe lasciata abbastanza indifferente, se non fosse stato che trovai quelle stesse piccole tracce nere anche in altri posti, così come quei segni di morsi: nella scatola delle fotografie, nelle tendine del salotto, nella pila di giornali vicino al caminetto. La cosa, iniziando ad assumere l’aspetto di un mistero da risolvere, cominciò a farsi interessante per me. Così chiesi a mia madre, portandogliene un campione, cosa fossero quelle strane cose nere. Inutile dire che ne fu disgustata, trattandosi palesemente di feci di topo. Dopo che questo mistero fu risolto, dunque, si arrivò alla lampante conclusione: c’era un topo (o forse più?) nella casa. Tutti si misero in moto per risolvere la situazione. Io ricordo che sincera-

mente non capivo quale fosse il problema nell’avere un topino per casa, a me poteva sembrare soltanto un guadagno nella noiosa routine invernale domestica. Fortunatamente Nano si dimostrò sulla mia stessa lunghezza d’onda. L’unica trappola per topi che avevamo, come molte altre cose in quella casa, era un oggetto antico, consumato, e, per ceri versi, inutile: si trattava di una di quelle trappole il cui proposito non era uccidere il topo, ma semplicemente bloccarlo in una sorta di gabbia, senza via d’uscita:il piano diede i suoi frutti, e poco dopo lo trovammo intrappolato. Si trattava nientedimeno che di un piccolo, adorabile, grigio topolino di campagna, come potei constatare attraverso i miei stessi occhi estasiati. Mi sembrò una delle cose più carine e graziose che avessi mai visto nella mia vita, e la sola idea che gli si potesse torcere un capello era per me raccapricciante e fu proprio allora che Nano si dimostrò pienamente dalla mia parte, liberandolo nel giardino. Vedendo la codina rosea sparire fra l’erba alta, provai un forte senso di pace e soddisfazione: il topolino era salvo! Chissà se e quando l’avrei mai più visto… Inaspettatamente il topolino tornò a farci visita molto presto. E fu presa la trappola. E fu imprigionato. E fu liberato. E tornò in casa. E fu presa la trappola…



3. BELA


Acilia nel corso degli anni ha ospitato una grandissima quantità di animali domestici. In primis i cani, presenza fissa e indispensabile in tutte le generazioni della mia famiglia; cani spesso particolari, quasi sempre meticci, con i loro caratteri molto definiti e peculiari. Non a caso uso il plurale quando parlo di cani, perché spesso sono stati due, tre alla volta, più ogni tanto qualche cane ‘ospite’ di qualche amico che veniva a trovarci o lo lasciava da noi per l’estate (o, qualche volta, per sempre). Le generazioni di cani sono state talmente tante e numerose da aver reso necessario destinare una parte del giardino a un cimitero canino, vicino al pozzo, oltrepassato il pratone; I cani però, in un certo senso, sono sempre stati i padroni della casa, sovrastando gli altri animali e primeggiando nella catena alimentare, se così possiamo chiamarla; per classificare le altre bestioline che fecero la loro comparsa (spesso molto breve, proprio per merito/colpa dei cani) ci vorrebbe molto tempo e qualche riunione di fami-

glia; per quanto riguarda quelle che ricordo io personalmente troviamo: svariati coniglietti, galline galli con conseguenti pulcini, oche, caprette (una famiglia intera), quaglie e qualche raro gatto. I gatti non hanno mai avuto lunga vita e, al contrario di ciò che si possa pensare, la colpa non è stata dei cani. I gatti, semplicemente, dopo un po’ se ne andavano, scappavano, diventavano forastici. Forse perché è vero che i gatti si affezionano ai posti e non alle persone, e quel giardino è troppo ampio e dispersivo per creare il giusto attaccamento di un gatto alla vera e propria casa. Le capre erano assolutamente le mie preferite, forse addirittura più dei cani. Più che le capre, direi che quella che mi è rimasta nel cuore è una capra: Bèla. Bèla era davvero la capretta migliore del mondo: arrivò come esemplare unico (anche se poi se ne sarebbero aggiunti altri), comprata da nonno alla fiera.




Era bianca con muso coda e testa striati da sfumature nere marroni e ocra e con due adorabili piccole corna. Bèla era la capra più domestica che avessi mai visto, amava stare in mezzo alla gente. Ricordo che se eravamo tutti sul prato, lei veniva sempre da noi. Si faceva prendere in braccio, giocava e spesso stava con me e mia sorella per ore a vedere la tv insieme a noi, suscitando la mia curiosità su cosa capisse una capretta della tv, dei cartoni animati. Bèla faceva dei salti altissimi, belava talmente forte che la sentivi dall’altro lato della casa e ricordo che mangiava tutto. La cosa che amavo più di lei era che se ti accucciavi, saliva sulla tua schiena e lì rimaneva mentre la portavi in giro a fare una passeggiata. Bèla visse nel periodo in cui il cane di Acilia era Gala. Gala fu trovata cucciola e il nome gli fu dato per la sua passione per il latte. Fu in assoluto il mio primo cane, anche se non proprio mio, però fu il primo cane di quella casa da quando nacqui. Era un cane spietato o, forse, sarebbe meglio dire molto istintivo.

Ricordo che si faceva rispettare, ringhiava spesso se non gli si portava rispetto, e un paio di volte ha anche morso qualche bambino. Soprattutto in vecchiaia, diventò molto aggressiva e forastica, tranne che con qualche persona a cui portava molto rispetto. Uccise una quantità di animaletti davvero incredibile: da quel che ricordo uccise molti coniglietti (che spesso morivano prima d’infarto), pulcini, galline, uccellini, un anatroccolo (che prese direttamente dalle mie mani, lasciandomi sgomenta e tristissima). All’inizio, stranamente, la convivenza fra Gala e Bèla sembrò pacifica; alle volte sembrava quasi giocassero e spesso schiacciavano pisolini l’una accanto all’altra. L’unica cosa che non tornava nel loro rapporto stranamente quieto era che Gala leccava il collo a Bèla: trovavamo i peli del collo della capretta spesso bagnati della saliva del cane e forse un paio di volte fummo testimoni di questo comportamento. Si scoprì infine che l’amicizia fra Gala e Bèla era alquanto fittizia o, perlomeno, non superava l’istinto cacciatore dei canidi. Trovammo Bèla una mattina, morta, con una ferita sul collo, nel suo recinto. Il mio dolore fu immenso e seppi immediatamente a chi incolpare.



4. LA PISCINA



Quando arrivava l’estate, l’attenzione di noi bambine si concentrava quasi completamente nella zona della piscina e non solo per la piscina stessa. La piscina era stata costruita in uno spiazzo fra gli alberi. Aveva un praticello ombreggiato dai pini del campo di bocce, uno spogliatoio con la doccia e molte sedie a sdraio diverse dove riposarsi dopo una lunga nuotata. Come tante altre cose in quel giardino, la piscina è diventata piccola man mano che sono cresciuta, ma ai tempi mi sembrava davvero enorme. I giochi da poter fare con mia sorella lì erano davvero tantissimi: dai tuffi, alle capriole sott’acqua, alle gare di nuoto fino ai giochi più complessi, come ‘le sirene’ o ‘le naufraghe’. Ma, sorprendentemente, a me piaceva anche moltissimo stare in piscina senza entrare in acqua. Mi piaceva andarci nei momenti della giornata quando il sole era calato dietro alle siepi di pitosforo, quando non si poteva fare il bagno. Mi sedevo sul marmo bianco del bordo, con i piedi in acqua, a sentire tutto il calore che quella pietra rilasciava dopo una lunga giornata di sole. Mi piaceva guardare le impronte bagnate tutt’intorno, a testimonianza di una giornata passata fra tuffi e giochi sfrenati e vedere che le rondini, che per tutto il giorno avevano planato sulla piscina sfiorando la superficie dell’ac-

qua per berne un po’, si davano il cambio, col calar del sole, con piccoli dei pipistrelli bruni. Un’altra cosa che amavo particolarmente era il formicaio accanto al grande e vecchio ulivo che sorgeva in mezzo alle mattonelle arancioni. Quest’ulivo era uno di quelli grandi ma non particolarmente alti, col tronco spesso, grigio e ruvido. Le formiche camminavano freneticamente lungo il perimetro dell’aiuola nel quale era stato confinato, facendo avanti e indietro tutto il giorno. Tante formiche camminavano allo stesso modo anche per tutto il bordo della piscina e ricordo che mi chiedevo sempre se si trattasse dello stesso formicaio, o di due diversi: le formiche dell’ulivo erano nere scure e rosse, lucide e un po’ più grandi di quelle del bordo, che erano marroncine e sembravano un po’ più minute. Ero però sempre stata convinta che si trattasse di un unico, sconfinato formicaio, formato da miliardi di formiche, perfettamente coordinate grazie a una formidabile società gerarchica. Gli altri insetti che popolavano la piscina, purtroppo, spesso non avevano vita facile: infatti capitava che finissero affogati nell’acqua, dandomi allo stesso tempo un po’ di pena ma anche una straordinaria occasione di vedere più da vicino insetti che mai avrei pensato: libellule, api, vespe, coccinelle, scarabei. Qualche volta alla stessa triste fine erano destinati anche piccoli pipistrelli e lucertole.


Oltre ad analizzare gli insetti naufraghi, avevo anche una quasi maniaca passione nel darli in pasto alla fila di formiche dell’ulivo e seguire con somma concentrazione le varie fasi dello smembramento in pezzi sempre più piccoli. Ormai sapevo tutti i passaggi a memoria: inizialmente le formiche superavano l’ingombro del cadavere dell’insetto senza attribuirgli troppa importanza, potevano passarne anche una ventina prima che qualcuna si accorgesse della preda e, lentamente, cominciasse a salirci sopra e analizzarla minuziosamente. Le formiche attratte dalla novità aumentavano e, sempre con una certa calma, iniziavano a sezionare il corpo dell’animale, portandolo pezzo per pezzo al sicuro sotto terra. Quell’operazione mi divertiva tantissimo: ero sempre sgomenta di come degli esseri così minuti potessero appropriarsi della massa enorme dell’insetto affogato. Era come se tanti esseri umani, a mani nude, sezionassero un’enorme balena. Era davvero sorprendente. Continuai quel gioco per molti giorni, finché un infelice episodio mi fece cambiare idea su questa mia bizzarra passione: un giorno, al solito, ero intenta a cercare la migliore preda fra gli insetti morti e galleggianti sulla superficie dell’acqua della piscina. La mia attenzione si posò su una bellissima vespa di un bel giallo acceso, con le antenne dritte e il corpo tutto intatto; sapevo che le formiche avrebbero apprezzato.

Presi con delicatezza da un’ala l’insetto, e mi avvicinai all’ulivo. Improvvisamente, però, sentii qualcosa di strano solleticare la mia mano. La vespa era stranamente e sorprendentemente ancora viva. La lanciai via, in un gesto misto di paura e vergogna: non solo avevo rischiato d farmi pungere, ma, cosa molto più importante, avevo rischiato di dare in pasto un insetto vivo al formicaio. Mi sentii sprofondare in un colpevole imbarazzo e da lì in poi non gli diedi più nulla che non fossero briciole o pinoli.






5. CAPANNE DI INDIANI


L’estate era lunghissima, piena e completa, non ho mai più trascorso estati simili da adulta. Quelle estati erano il sinonimo della libertà più assoluta: giravo mezza nuda, rigorosamente scalza, in questo giardino che era una giungla per me; dormivo sui rami più comodi degli alberi, giocavo con i cani come se fossi un loro pari, mi buttavo in piscina e nuotavo fingendo di essere una sirena, mi asciugavo al sole. Quella casa, ma soprattutto il suo giardino, è sempre stata, per me e mia sorella Aki, un paradiso estivo. Non facevamo altro che giocare e i giochi che si potevano fare a Acilia erano fra i più belli che un bambino possa immaginare: uno dei nostri preferiti era “gli indiani”; Prendevamo delle canne di bambù secche dal mucchio di legna del falò e unendole in alto con uno spago, creavamo una capanna conica, coperta da un lenzuolo o da foglie. Era un’operazione molto più minuziosa e attenta di quello che si possa pensare, quasi non si trat-

tava di un gioco ma di una vera e propria opera di ingegneria architettonica; bisognava selezionare con cura le canne di bambù o i bastoni più adatti a formare la struttura di base: dovevano essere abbastanza solidi, ma non troppo pesanti, in modo che non cedessero sotto al peso della copertura di quello che praticamente poteva considerarsi il tetto della struttura. I vari pezzi dovevano essere fissati fra loro, creando il giusto equilibrio, con nodi che fossero stretti ma non troppo. Quest’attività era lenta, critica, impegnativa: il pomeriggio passava così; si dovevano trovare tutti i pezzi giusti. Provai a giocare a quel gioco con qualche amichetta qualche volta, ma nessuno batteva l’abilità di mia sorella nel costruire capanne da indiano. L’impegno nel creare la struttura era tale che il vero e proprio gioco degli indiani si riduceva a un paio d’ore con una piuma di gallina in testa e un paio di strisciate in faccia fatte col rossetto di nano sedute nella nostra bellissima capanna.






Bastava stare sedute li a fare niente, o meglio, ad ammirare la nostra creazione, per passare un pomeriggio pienamente piacevole. L’estate è sempre stato il periodo più lungo che trascorrevamo lì e l’unico, alla fine, in cui vedevamo la notte in quel giardino. È pure vero che, d’inverno, quando ce ne andavamo via verso le cinque, era già buio. Ma le notti estive erano diverse; più corte teoricamente, ma più lunghe nella nostra percezione: si poteva stare più tempo alzate, ma dall’interno della casa quel giardino buio faceva una gran paura; sembrava magico o perlomeno con una volontà sua: i giochi lasciati lì non erano mai gli stessi al mattino, le torte di fango che tanta fatica impegno e creatività ci costavano spesso venivano sciolte da un acquazzone estivo o le piste per le biglie scavate nella ghiaia si confondevano all’indomani con la texture confusa degli altri ciottoli. Svegliarsi al mattino, dunque, in questo senso, era sempre una sorta di scommessa: dopo una colazione fugace ci si precipitava a vedere se le cose che avevamo creato erano ancora lì; E devo dire che da questo punto di vista le capanne indiane non ci hanno mai deluse: magari la struttura si era un po’

allentata, ci si doveva abbassare un po’ rispetto al giorno prima per entrare, ma non si distruggevano mai, non c’era temporale estivo che potesse demolirle. E anche se fosse stato che qualche particolare non era bello o solido come il giorno prima, si trattava solo di un’altra ottima occasione di studio di quella struttura, di ingegno tecnico, per capire come aggiustare, sistemare, migliorare il tutto, per giocare insieme ancora una volta con una concentrazione e una soddisfazione impagabili.



6. UCCELLINI



Uno dei miei posti preferiti è sempre stato un grande viale che collega la parte più vicina all’ingresso del giardino con quello che potrei definire il retro.

vicina alla piscina e alla pineta, passava per il pratone, fino ad arrivare al retro, dove stavano gli animali, la catasta di legno e foglie secche per il falò e il frutteto.

Vedendolo adesso, non è affatto grande, ma si sa, crescendo tutto sembra molto più piccolo.

La vegetazione del viale, un po’ come quella dell’intero giardino, era mista fra quella spontanea e quella ‘volontaria’.

Questo viale non ha nulla di particolare, ma so esattamente i motivi per cui mi piace; Uno dei primi motivi è la terra: ad Acilia ho sempre e rigorosamente camminato, e lo faccio qualche volta tuttora , scalza. La terra, in questo particolare viale, è morbidissima, mista a sabbia, e passarci sopra è sempre stata una sensazione molto piacevole, anche perché mi dava un po’ di sollievo dalle corse sfrenate sulla ghiaia e sui piccoli aghi gialli che cadono dagli alberi di eucalipto; devo ammettere che i primi giorni, spesso, stare a piedi nudi era quasi doloroso, ma col tempo ci si abituava e le scarpe mi sembravano, alla fine dell’estate, una tortura indescrivibile.

Ricordo che c’erano degli alberi di cachi, e che i frutti cadevano spesso nel bel mezzo della via, spesso non ancora completamente maturi, e venivano sbocconcellati di gusto dai merli. Inoltre nel viale erano state piantate, credo da mia nonna, delle meravigliose rose tea, di un bel color rosa pallido e giallo pastello, che diffondevano nell’aria un odore dolce e delicato, misto a quello sempre dolce ma più pungente della mentuccia selvatica che cresceva a ciuffetti ai lati della strada, con le foglie verdi vellutate e i piccoli fiori viola.

La meravigliosa terra del mio viale preferito era spesso ricoperta da un morbido tappeto di polline dei pioppi, che dava quasi l’impressione di essere neve a prima vista.

In autunno, alla fine del viale, alle radici di un altissimo pioppo, crescevano dei funghi grigi e profumati di pioggia, con il cappello ampio e morbido. Qualche volta, dopo un acquazzone, andavamo in spedizione e li raccoglievamo per condirci la pasta.

Inoltre, se pioveva, o qualcuno innaffiava le piante, diventava un meravigliosa fanghiglia, un limo, dov’era estremamente piacevole posare i piedi.

In quella zona, molto spesso, trovavamo degli uccellini implumi, che pigolavano fortissimo, dopo essere caduti dal nido, o aver osato un tentativo di volo finito male.

Forse un altro pregio di quel viale era che collegava le mie zone preferite del giardino, partendo dall’area più


Non mi ricordo quante volte capitò, ma di episodi simili ce ne furono a bizzeffe; ormai era una sorta di tradizione: c’era il ritrovamento (spesso da parte di Aki e Nano) , il soccorso con trasporto in casa e l’accudimento. La prassi, una volta portato lo sventurato al riparo dalle intemperie e dalle fauci canine, era in genere abbastanza simile: lo si adagiava su un vassoio tondo di legno, gli si metteva una piccola ciotola d’acqua e un giaciglio di cotone o vecchia lana e gli si dava qualche mollica di pane bagnato da mangiare. Poi il tutto era ricoperto da un coperchio di rete a forma di cupola, originariamente creato per tenere lontane mosche e insetti dalle pietanze, ma perfetto per questo nuovo utilizzo di gabbia improvvisata. Il pomeriggio in genere lo si passava ad accudirlo con grande solennità e apprensione, finché non arrivava la sera e io e Aki dovevamo andare a dormire nella casa al piano di sopra e lasciare il piccolino nella cucina dei nonni. C’era sempre una sorta di ansia nel lasciare l’uccellino, una paura, che però non era direttamente quella che potesse morire, anche se pensandoci ora, è probabilmente l’unica che potevo avere. La mattina seguente, appena sveglia, spesso nemmeno mi ricordavo immediatamente dell’accaduto, ma appena mi saltava in mente, scendevo a perdifiato con Aki al piano di sotto, per vedere cosa fosse

accaduto durante la notte. Mentre facevamo colazione nel grande tavolo della cucina di Nano, lei ci raccontava cosa era successo. Le versioni della storia, ogni volta che questi episodi accadevano, erano simili ma diversi per qualche piccolo particolare. In genere, però, si svolgevano così: Nano ci raccontava che si era svegliata durante la notte, col rumore del pigolio, il frullare d’ali o addirittura, certe volte, il battere del becco sul vetro della finestra da parte della mamma dell’uccellino. Una volta aperta la finestra, la madre si riprendeva il figliolo (che aveva rintracciato grazie ai suoi richiami esasperati) in un modo abbastanza misterioso, che non veniva mai specificato nel racconto. Ricordo però che per me non c’era niente di più logico di questo concatenarsi d’eventi. La madre perde il figlio, lo ritrova, lo recupera: semplice, lineare. Esattamente quello che farebbe mamma con noi, pensavo. Solo pochi anni fa ho scoperto, con immensa e ingenua sorpresa, che tutti quegli uccellini avevano fatto tutt’altra mesta fine, e devo dire che la cosa tutt’ora mi incupisce molto ogni volta che ci ripenso.




7. HEIDI


All’età di otto anni mi fu fatto uno dei regali migliori che una bambina possa desiderare e, probabilmente, uno dei regali migliori della mia vita: Heidi. Heidi era una cucciola di cane, data alla luce da una bastardina abbandonata, in un freddo giorno autunnale, in un piccolo paese sugli Appennini abruzzesi. Eravamo lì per il ponte di ognissanti e mai ci saremmo aspettati di tornare a casa con quell’animale che sarebbe diventata poi a tutti gli effetti un membro della famiglia, quasi la terza sorella. Heidi era un cane bellissimo: nelle sue vene di meticcio scorreva per la maggior parte sangue di alano, ma il suo muso era più affusolato e la sua linea più delicata. Era grigia con gli occhi verdi-azzurri e un gran nasone nero. A costo di essere presa per pazza, devo dire che quel cane era proprio una persona, a tutti gli effetti: aveva delle sue preferenze ben definite, sul cibo, sulla gente ma soprattutto sui luoghi. Amava Acilia: bastava pronunciarne solo il nome per vederla aggrottare la fronte e farle assumere quell’aria di attenta sorpresa. E lo fece per tutta la sua vita: da quando, giovanissi-

ma, la conobbe per la prima volta, esplorandone l’enorme giardino, correndo a perdifiato, incontrandosi e scontrandosi con gli altri animali che lo abitavano a quando, più vecchia e canuta, si godeva il calduccio del caminetto accanto a mia nonna che cucinava. Quando cominciò ad accusare i primi sintomi della sua canina vecchiaia, credo che fu proprio quel luogo, più che i medicinali, a darle volta dopo volta nuova linfa vitale. Insieme al nostro altro cane Tito, trascorreva lì l’estate con i nonni: era la loro vacanza e permetteva anche a noi di allontanarci dalla città sapendo che erano in ottime mani. Le sue estati in quella casa diventarono sempre più lunghe; quella casa, per un cane così grande, che fatica a muoversi era sicuramente più comoda: non ci sono scale e la distanza fra lei e l’esterno era sicuramente minore e più a portata di mano. Quello fu l’ultimo luogo dove la vidi.




Devo essere sincera: non ricordo esattamente quando fu l’ultima, ma mi ricordo molto bene di una volta in particolare, che per me in un certo senso fu l’ultima, perché non era ancora annebbiata dalla sua cataratta, dalla sua vecchiaia che la isolò in un modo che mai vidi prima. Heidi ebbe un prolungato oscillamento di periodi in cui sembrava stesse molto male e che ormai fosse finita per lei e momenti in cui rinasceva, stava meglio, rifioriva. L’ingiustizia dell’amicizia fra umano e cane è una delle più paradossali e tristi della natura; il rapporto fra queste due specie è profondo, quasi più di quello fra umani, ma la durata delle loro vite è così ingiustamente diversa. La cosa peggiore di un cane che sta male, che vive le proprie ultime ore, è che non può parlarti: non sa dirti “Tranquillo, starò bene” o salutarti a dovere.

Non ricordo che periodo fosse esattamente, ma credo fossero i primi di dicembre. Heidi era in uno di quei periodi di “rifioritura”: camminava bene e riusciva addirittura a venirci a salutare al cancello. Mi ricordo che ero con mia sorella, stava mettendo le decorazioni di Natale, io ero seduta sul divano. Heidi fece qualcosa che lì per lì non capii: venne da me, mi guardò con i suoi occhi appannati e languidi, scodinzolò. Appoggiò la sua grande testa sul mio grembo e spinse forte. Solo ora so che Heidi mi stava dicendo addio.



8. LA FINE DELL’ESTATE


Ho dodici anni e cammino per il vialetto che dal forno per le pizze costeggia il filo per il bucato, passa davanti all’eucalipto di nonno e arriva al vascone dei pesci. È settembre ma fa ancora un gran caldo. Abbiamo mangiato fuori, nella veranda, e abbiamo assaggiato i primi dolcissimi fichi della stagione. Io mi sono alzata da tavola, come facevo da piccola, o meglio, da più piccola, chiedendo il permesso a nonno, per poi schizzare a correre e a giocare in giro. Era una smania la mia, un fervore, quello di doversi alzare dopo pranzo. Anche oggi l’ho fatto, ma più per perpetrare quest’abitudine che per una vera e propria necessità. Infatti, non corro: cammino, lentamente. Ascolto il ritmo serrato del rumore dei miei passi nella ghiaia. Porto le scarpe, che strano, qui non lo faccio quasi mai. Le giornate sono ancora lunghe, ma le ombre

sembrano opache, meno definite, come se il sole fosse meno luminoso. La luce è arancione e m’illumina il volto, riscaldandomi la testa. Cammino piano e penso che fra poco tornerò a scuola, ma mi sembra quasi che l’estate sia iniziata da pochissimo. I miei capelli odorano di cloro, il vento lievemente di pioggia settembrina ed anche l’odore balsamico delle foglie dell’eucalipto mi riempie i polmoni: eccolo qui, questo albero, alto, solenne e antico, uno dei primi veri testimoni di questa casa. C’è una scala, su uno dei rami più alti: nonno mi ha raccontato che qualcuno la lasciò lì, durante una potatura, quando l’albero era molto più basso, e ora recuperarla, essendo cresciuto molto in altezza durante gli anni, è quasi impossibile. Penso che ormai mi piaccia così; quella scala deve stare lì, è il suo posto, sarebbe quasi un sacrilegio recuperarla, adesso. Mi capita più spesso di ritrovarmi a passeggiare per questo giardino, più meditabonda, più lenta, più saggia. Divoro tutto con lo sguardo, penso, analizzo: vago per questi immensi spazi, come prima, ma più posata, più seria, più malinconica. Faccio ancora tutto ciò che ho sempre amato fare


qui: Raccolgo i pinoli nel campo di bocce e ne schiaccio il guscio con un sasso pesante. Tiro due calci a una palla nel pratone. Vado a vedere le galline e gli lancio il becchime. Guardo le larve di zanzara contorcersi ritmicamente nelle vasche dei pesci. Trascorro ore davanti al formicaio dell’ulivo in piscina. Ma chinarmi a raccogliere pinoli, dopo un po’, mi fa male alla schiena e le mani mi s’impiastricciano di resina densa e odorosa, che poi non va più via. Di palla ce n’è una sola e qualche cane l’ha bucata afferrandola con i denti, quindi provare a fare dei tiri dritti, è difficile (e anche un po’ inutile). Le galline sonnecchiano intontite dal caldo e non sembrano molto interessate al mio becchime. Le larve delle zanzare mi fanno impressione, si agitano troppo velocemente e dopo un po’ ho la

strana sensazione di avercele addosso che si muovono frenetiche. Il formicaio mi annoia e la piscina si sta lentamente riempiendo di alghe e acqua stagnante, diventando sempre più verdina, visto che si avvicina l’inverno, e ormai quasi nessuno ci fa il bagno. Settembre è caldo, questa luce estraniante. Riconosco ancora tutti i nomi delle piante, i canti degli uccelli, ricordo ancora esattamente tutti i giochi che si possono fare qui. Ma sento qualcosa, come una tristezza, o forse un’apatia, che piano, piano, ogni volta che torno qui, mi fa venire meno voglia, di sporcarmi, di correre, di farmi male, di stancarmi. Forse mi sta venendo la febbre… Forse ho dormito male. O forse è solo il cambio di stagione.






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