Poussin et Moise du Dessin à la Tapisserie

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a cura di Marc Bayard, Arnauld Brejon de Lavergnée e Éric de Chassey

Accademia di Francia a Roma – Villa Medici


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Poussin e Mosè. Dal disegno all’arazzo

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Poussin e la vità di Mosè: Storie di grandezze Éric de Chassey, direttore dell’Accademia di Francia a Roma

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Guillaume Ambroise, directeur du Musée des Beaux-Arts de Bordeaux Arnauld Brejon de Lavergnée, directeur des collections au Mobilier national, Paris

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Bernard Schotter, administrateur général du Mobilier national, Paris et des manufactures des Gobelins, de Beauvais, de la Savonnerie

La storia di Mosè

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Marc Fumaroli Il “ciclo di Mosè” di Poussin, un mito personale?

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Henry Keazor Nicolas Poussin e la storia di Mosè: Versioni, variazioni e fonti pittoriche

Formati e grandeur

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Pascal Bertrand “Trasporre in grande questi soggetti, che sono realizzati solo in piccole figure”

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Olivier Bonfait L’insuccesso di Poussin

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Marc Bayard La composizione nell’opera di Poussin: tra dispositivo e disposizione

La tessitura e l’arazzo

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Jean Vittet Poussin e gli arazzi: ultime scoperte, ultime osservazioni

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Marc Favreau Le Brun e la serie di Mosè

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Arnauld Brejon de Lavergnée Dai dipinti agli arazzi di Poussin: quali sono state le modifiche?

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Arnauld Brejon de Lavergnée, Daniela del Pesco Nicolas Poussin e gli arazzi: i protagonisti e le fonti

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bibliografia


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Poussin e la vità di Mosè: Storie di grandezze

Éric de Chassey, direttore dell’Accademia di Francia a Roma


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Quando Arnauld Brejon de Lavergnée e Marc Bayard mi hanno proposto di organizzare una mostra della serie di arazzi, ispirata a Poussin, sulla vita di Mosè, la mia prima reazione è stata d’entusiasmo – confesso che ne ignoravo l’esistenza – ma anche di perplessità: come riuscire a esporre questi oggetti senza limitarsi a una giustapposizione che, per quanto significativa nella sua funzione di ornamento per palazzi ufficiali, rischiava di rivelarsi mortifera per i nostri giorni, e in un’altra situazione? Un tema iconografico Una prima opzione consiste nello studio della dimensione più propriamente iconografica della serie, esaminando come essa riprenda e trasformi immagini sviluppatesi sin dall’antichità nella tradizione dell’arte occidentale, al fine di rappresentare l’esistenza di colui che, nella vita e nell’agire, fu guidato da un’iconoclastia ispirata. Vi è, in effetti, un paradosso che sicuramente non poteva non colpire Poussin, che si trovava a considerare gli episodi della vita del profeta – senza però rappresentarli tutti (dipinge L’Adorazione del Vitello d’oro ma non la sua distruzione) – in cui era manifesto il divieto di produrre immagini. Il fatto che tale divieto fosse stato da tempo soppresso, nel cristianesimo, dando luogo al moltiplicarsi di immagini che andarono ad ornare chiese e palazzi ecclesiastici, in particolare a Roma, portò inevitabilmente l’artista a un confronto più o meno diretto con i suoi illustri predecessori, tra i quali, non ultimo, Raffaello, con i suoi affreschi per le Logge del Vaticano. Rispolverò così un tema della storia religiosa che aveva già riscosso un discreto successo durante il Rinascimento, tema generalmente integrato ai programmi decorativi che animavano scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, senza però esserne mai stato l’elemento centrale. Possiamo quindi interrogarci sul significato di una tale insistenza. Essa può essere vista come la testimonianza di un forte legame affettivo con la personalità del profeta, come viene descritta negli episodi del Libro dell’Esodo? O piuttosto come manifestazione di un interesse per il modo in cui la figura del profeta può riassumere in sé un insieme di tratti e di problematiche, cioè il compendio, in un unico uomo e nella sua storia, delle divinità e degli eroi dell’antico paganesimo, come anche di una prefigurazione del Cristo, e che rinvia dunque a una grande varietà fonti testuali? Raccontare la storia di Mosè in immagini sarebbe allora anche una sorta di meditazione – emotiva, intellettuale e spirituale. Bisogna allora mostrare la particolarità dell’approccio di Poussin, il suo elaborare una o più disposizioni adeguate per ognuno degli episodi, selezionati in diversi momenti della sua vita – o proposti da uno dei suoi committenti. Per comprendere tale specificità, è necessario non solo prendere in esame i suoi predecessori, e capire da quali di essi egli prendesse in prestito tale o tal altro motivo, e da chi, invece, prendesse le distanze; bisogna anche osservare quel che producevano i suoi contemporanei sugli stessi soggetti, in particolare a Roma (come ad esempio Orazio Gentileschi o François Perrier). Poi, si può verificare la posterità delle soluzioni iconografiche e iconologiche proposte da Poussin, valutare quali di esse abbiano avuto il consenso delle generazioni successive, consenso sancito da nuove riprese e trasformazioni, in primo luogo tra gli artisti per i quali egli è un punto di riferimento (la copia, nel senso stretto del termine, per Antoine Bouzonnet-Stella, la variazione per Nicolas Lenoir o Thomas Blanchet), e infine esaminare come, man mano e con combinazioni più o meno varie, queste immagini siano sopravvissute fino a oggi – a volte unicamente come organizzazioni formali applicate a un’altra iconografia esplicita o in altre opere d’arte, a cominciare da quelle situate ai vertici nella gerarchia della cultura occidentale tradizionale (le incisioni, le sculture, i dipinti, incluse le copie in possesso di Jean-Auguste Dominique Ingres, realizzate a partire dai dipinti destinati a Pointel, un Mosè calpesta la corona del faraone e tre particolari del Mosè salvato dalle acque) sino a opere che solo più tardi sono state riconosciute tali (la fotografia, il cinema o la televisione, se si pensa ad alcuni brani del Mosè e Aronne di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub), come anche attraverso quelle che ancora oggi si considerano ancora rigorosamente originate da tradizioni popolari (l’iconografia religiosa, la pubblicità).

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La storia di una committenza La seconda opzione consiste nel focalizzare l’attenzione sulla storia concreta di questa serie ex post facto, ripercorrendone innanzitutto la storia istituzionale: oltre trent’anni dopo la morte dell’artista, in una data ancora in discussione, il direttore della Manifacture royale des Gobelins o un ministro del Re di Francia sceglie un certo numero di dipinti, già resi noti dalle incisioni. Ne fa poi realizzare una serie di arazzi, usando modelli esterni (come l’arazzo degli Atti degli Apostoli di Raffaello) e modelli interni (Poussin aveva già concepito due cicli, nel senso esatto del termine, quelli dei Sacramenti), ricomponendo così gli elementi di una storia lineare che non era prima percepibile, in quanto le opere erano disseminate lungo tutta la carriera dell’artista. Questa storia istituzionale è strettamente connessa a un uso politico – con virtù tanto pedagogiche quanto diplomatiche – dell’arte, per il quale il formato dell’arazzo è uno degli strumenti più espliciti. Lo scopo infatti era quello di fare di Poussin un modello accademico per delle generazioni d’artisti francesi e così presentarlo a livello internazionale quale nuovo Raffaello, prova che ormai è la Francia ad assumere il ruolo finora svolto dall’Italia. Pone ugualmente il problema del modo in cui un’opera d’arte può essere oggetto di una diffusione che non è premeditata dal suo creatore e può dipendere in tal caso, nelle sue forme concrete e nei suoi effetti simbolici, da una decisione esterna- che è necessariamente anche una riformulazione. Se ne potrebbero citare molti altri esempi nella storia dell’arte. Così, nel 1515, Raffaello accetta di realizzare dei cartoni su scala per il papa Leone X, pur sapendo che le immagini concepite esisteranno pubblicamente soltanto sotto forma di arazzi (le composizioni su carta saranno tagliate dai tessitori di Bruxelles per un uso più facile, prima di essere riunite nel Seicento). In modo simile, nel 1976-1977, Jamie Reid affida a Malcom McLaren i collage che ha messo insieme perché possa farne, con l’aiuto di Vivienne Westwood, magliette e camicie per i Sex Pistols, indossate poi da centinaia di punk. Allo stesso modo, nel 1641, anno in cui torna a Parigi, Poussin accetta di concepire i cartoni preparatori per una serie di arazzi sull’Antico Testamento, il che testimonia se non altro della volontà di partecipare alla diffusione di quelle sue immagini. Ma dopo l’abbandono del progetto, e senza che sia rimasta la minima traccia della partecipazione dell’artista alla sua messa in opera, è molto interessante notare quanto egli si dimostri decisamente contrario alla realizzazione di arazzi a partire da suoi dipinti preesistenti (la prima serie dei Sacramenti). Ma in compenso, poiché ne autorizza l’incisione – per esempio una serie dei Sacramenti viene riprodotta fedelmente da uno dei suoi amici, Jean Dughet – possiamo interrogarci sul perché di questa resistenza de facto di Poussin nei confronti della trasposizione in arazzi e della circolazione delle sue creazioni precedenti. Che sia una diffidenza di base nei confronti del formato, consolidatasi nel tempo? O piuttosto diffidenza nei confronti di una tecnica che non è una riproduzione per necessità di studio – come invece l’incisione nella quale si da per scontata una certa perdita di definizione e di statuto – ma al contrario esibisce una più grande grandeur, una monumentalità e un’ostentata complessità di tecniche ed effetti? Qualunque sia la risposta a queste domande, tener conto di questa storia istituzionale porta alla compilazione una storia tecnica. In effetti, il passaggio dal dipinto all’arazzo si effettua secondo tappe successive, ognuna con la sua importanza specifica, e vede l’intervento di uno o più specialisti (nel caso di Poussin, non l’artista stesso ma senz’altro qualcuno del suo entourage): riproduzione del dipinto in disegno, realizzazione del cartone in scala reale, tessitura dell’arazzo. A ogni tappa, i materiali disponibili e quelli scelti influiscono sulla esecuzione, in particolare nell’ultima fase, che dipende dall’esistenza di certi fili, dalla loro compatibilità con certi pigmenti e dal modo in cui possono essere usati, secondo metodi limitati di tessitura. La composizione lineare e la composizione cromatica (che Poussin chiamava disposizione) subiscono quindi una profonda trasformazione, tanto più che vi si aggiunge anche una bordura più o meno complessa – poiché sembra scontato che la cornice dorata di legno dei dipinti debba trovare un suo equivalente nell’arazzo...

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Éric de Chassey


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La specificità dei formati La terza opzione deriva dalla constatare quanto notevoli siano le variazioni nelle opere autografe di Poussin come nei derivati allografi di esse, sino ad essere quasi dei rifacimenti completi; basta osservare quanto gli stessi soggetti (nel senso iconografico del termine) subiscano di volta in volta un trattamento diverso e rinnovato. È un fatto insito a una regola generale della circolazione delle immagini: i cambiamenti dei mezzi tecnici necessitano sempre di adattamenti, non fosse altro che l’abbandono del colore nella trascrizione di un dipinto in incisione, ad esempio. Il problema consiste nel sapere fino a che punto la variazione significhi tradimento (secondo l’adagio tradurre, tradire): se, per proseguire con lo stesso esempio, l’estetica dell’artista si riconduca sufficientemente al disegno in modo che il significato non sia alterato dall’assenza di colori o se invece il colore costituisca una parte tanto essenziale da non permettere una circolazione dell’immagine efficiente senza la trascrizione di questo aspetto. O addirittura se la disposizione possa adattarsi al capovolgimento generalmente richiesto dall’incisione, di norma stampata nel senso inverso a quello del dipinto o del disegno. Dal Cinquecento al Settecento, da Raffaello a François Desportes, il passaggio dalle pitture di medie dimensioni alle ampie dimensioni degli arazzi viene effettuato senza difficoltà. Le composizioni sono semplicemente riquadrate o ingrandite secondo procedimenti che assicurano la conformità all’immagine originaria, senza che la composizione ne risulti modificata. Eppure così non fu per la serie La vita di Mosè di Poussin. In un primo tempo è necessario individuare tutte le trasformazioni fondamentali, in particolare quelle sulle proporzioni dei personaggi e del paesaggio, sulle loro posizioni, se non addirittura sul loro esistere, sulla natura di alcuni ornamenti, etc. Si può allora cercare di attribuirle a diversi agenti, dalla decisione idiosincrasica di colui che concepisce il cartone al la soluzione tecnica espediente trovata dai tessitori o anche in seguito all’intervento di un committente. Si può anche cercare di capire come queste trasformazioni siano determinate da diversi fattori, come l’inserimento, in una serie omogenea, di un’immagine destinata ad avere una vita autonoma, o anche l’inadattabilità di base della disposizione originaria che richiede quindi una significativa trasformazione. In effetti, la reticenza di Poussin riguardo alle grandi dimensioni lo distingue dai suoi contemporanei, ma essa non sembra dovuta a una sua incapacità (anche se ciò potrebbe avere la sua parte), piuttosto a una sua particolare attenzione alla questione del formato, nell’accezione inglese che questa parola ha acquisito, dal ventesimo secolo, nel linguaggio degli artisti, dei critici e degli storici dell’arte. Intendo dire che, per Poussin, le immagini non sono fenomeni fluttuanti che possono passare da un supporto a un altro, da un uso a un altro: al contrario, ogni immagine è un’incarnazione singola, una sorta di immagine-oggetto. La scelta del mezzo tecnico (disegno, pittura, incisione, tappezzeria), di un supporto (carta, tela, fili), di una dimensione (dalla più piccola alla più grande) da luogo, di volta in volta, a un’immagine particolare, anche su un argomento simile. O meglio: i soggetti possono essere i medesimi (si pensi alle tre versioni di Mosè salvato dalle acque), ma se cambia l’oggetto (l’aspetto, avrebbe detto Poussin) cambia anche il soggetto (che l’artista chiamava prospetto); gli oggetti sono disposti diversamente, anche se identici l’uno all’altro, poiché cambiano i soggetti. Può trattarsi di un semplice desiderio di variazione, ma è un’idea poco conciliabile con quello che conosciamo di Poussin attraverso i suoi primi storiografi e la sua corrispondenza. È più probabile che si tratti di un’attenzione alle specificità delle linee e dei colori, a seconda delle loro dimensioni e della loro materialità (il che significa un’attenzione particolare a una logica di superfici e non solo di profondità), e nello stesso tempo di un’attenzione a quanto le forme determinino la destinazione di un’immagine, il modo in cui i possibili usi successivi possano essere anticipati – dal diletto privato nell’ambiente domestico fino alla pedagogia o alla propaganda pubblica. E quanto queste la determinano, di rimando, secondo i principi espressi in particolare dall’artista nella sua teoria dei modi, su un modello musicale applicato alla pittura. Proprio per questo vi è un interesse specifico nel poter vedere riuniti tutti i formati esplorati da Poussin sullo stesso argomento; nessun’altro soggetto come la storia di Mosè, consentirebbe lo stesso risultato, includendo esplicitamente la questione del passaggio a dimensioni opposte tra loro, comprese quelle che non affrontate direttamente dall’artista ma da altri ritenute sufficientemente aperte da sentirsi autorizzati a tentare.

Poussin e la vità di Mosè: Storie di grandezze

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Si potrebbero senz’altro rilevare molti altri problemi a partire dalle opere create da Poussin, o da quelle ad esse sono ispirate, sul tema della vita di Mosè. Molti altri modi per far luce su di esse potrebbero sicuramente essere presi in considerazione. La mostra Poussin e Mosè, dal disegno all’arazzo e il presente catalogo tracciano alcune piste, grazie alla tenacia e al sapere dei curatori e degli autori, ai quali voglio esprimere la mia riconoscenza di tutto cuore. Speriamo che permetteranno di considerare con occhio nuovo l’opera di uno dei più grandi artisti della storia dell’arte occidentale, la cui storiografia, seppure pletorica, è lungi d’averne esaurito la ricchezza. Speriamo soprattutto che permetteranno a noi, che troppo di rado siamo soggetti innanzi alle opere d’arte, di raggiungere quel diletto cui mirava il loro autore. Vi è una soddisfazione molto naturale nel rendere omaggio a uno dei sommi artisti franco-romani proprio a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma, di cui Poussin avrebbe dovuto essere il primo direttore, quando fu creata nel 1666, se non fosse stato portato via dalla morte. Questa mostra si inserisce nella scia delle mostre e dei convegni che questa istituzione ha già dedicato a Poussin (in particolare Nicolas Poussin 1594-1665 a cura di Pierre Rosenberg, nel 1977, e Autour de Poussin, Idéal classique et épopée baroque entre Paris et Rome, Attorno a Poussin, Ideale classico e epopea barocca tra Parigi e Roma, a cura di Olivier Bonfait e di Jean-Claude Boyer, nel 2000). Beneficia inoltre di prestiti dai più grandi musei britannici, italiani e francesi, ai quali voglio esprimere i tutta la mia gratitudine: l’Ashmolean Museum di Oxford, il National Museum di Cardiff in collaborazione con la National Gallery di Londra, l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, la Bibliothèque nationale de France – département des Estampes et de la photographie, il Musée de Grenoble, e, con una generosità particolare, il Museo del Louvre – département des Peintures, département des Dessins e département des Objets d’art. Mi rallegro anche che questa sia l’occasione di una collaborazione con due prestigiose istituzioni francesi – il Museo delle Belle Arti di Bordeaux e il Mobilier national – associate a questo progetto sin dai suoi primi passi. Poussin ha lasciato in Italia e in Francia un’eredità così viva che altre opere ne furono subito ispirate (tra cui le stampe e gli arazzi che abbiamo riuniti). I principi sui quali il suo lavoro e la sua vita si sono fondati hanno ispirato coloro che tuttora presiedono alla vita e al lavoro dell’Accademia di Francia. Bentornato!

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Il “ciclo di Mosè” di Poussin, un mito personale?


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I “cicli” nell’opera di Poussin

Limitandosi ai soli soggetti di quadri storici, Poussin si è fatto notare per il suo attaccamento a un numero ridotto di cicli narrativi, tra i quali si distingue il ciclo biblico, in cui si colloca una “Vita di Mosè”, oggetto di questa mostra e di questo catalogo, un ciclo evangelico, all’interno del quale prendono posto una “Vita di Gesù” e molti Atti degli apostoli, un ciclo mitologico, comprendente una “Vita di Bacco”, una “Vita di Apollo”, alcuni episodi dell’Eneide e della Gerusalemme liberata, e infine un ciclo di exempla di storia romana che molto deve a Tito Livio, Dione Cassio e Plutarco. C’è di che immaginare, sugli scaffali dell’atelier di Poussin a Roma, la biblioteca essenziale di un “honnête homme” francese del secolo XVII, sulle orme di Montaigne, i cui Saggi, caso unico, sono citati a memoria nella corrispondenza del pittore. L’opera pittorica – anche se i soggetti sono stati talvolta sollecitati da un committente – è nella maggior parte dei casi fatta a immagine della memoria del pittore, delle sue letture preferite, meditate, rivisitate, della sua topica interiore. Una delle grandi particolarità di Poussin, è il tempo che egli si concede, dopo i suoi difficili inizi a Roma, per “pensare” i suoi soggetti, prima di trattarli plasticamente come li intende, arrivando fino a stabilire egli stesso il formato e la cornice più adatti. Egli invitava i suoi collezionisti a “leggere” i suoi quadri come se dovessero fare, a ritroso, partendo dall’immagine, il cammino che riconduce al “pensiero” dal quale l'immagine scaturiva. La successiva incisione che, mentre era ancora vivo, diffuse tra il pubblico francese molti suoi quadri di storia sacra o profana, permise senza dubbio a più di qualcuno di disporre sui muri di casa propria dei compendia visivi di saggezza, vademecum di esempi morali a uso dell’“honnête homme”. I due “dialoghi dei morti” composti da Fénelon per insegnare al duca di Borgogna come “leggere” con profitto due paesaggi eroici di Poussin della collezione di Luigi XIV1 danno un’idea, certo sublime, ma corretta, dell’accoglienza riservata in Francia ai “pensieri” dipinti di Poussin. Tutti erano formulati nel più armonico e nobile dei linguaggi plastici, ispirato all’Arte antica e alla Natura, e in questo apparentato al “grande gusto” di Versailles. Di tali Antichità e Natura classiche la Roma moderna, nella quale Poussin si era fatto un nome, si vantava fin dal Rinascimento. Il pittore francese non si accontentava di nutrire i suoi “pensieri” nei libri, come il suo caro Montaigne. Come testimoniato Félibien nelle sue Interviste, egli impregnava la sua immaginazione della Natura e dell’Antico nel corso delle passeggiate fuori dalle mura, nella Campagna2 solitaria, ma anche per le strade, sulle piazze, nel Campo Vaccino, dove abbondavano rovine architettoniche, bassorilievi e statue, oppure nei palazzi che ospitavano collezioni che riunivano i più bei ritrovamenti antichi o recenti degli scavi a Roma e nei suoi dintorni. Questi frutti dell’arte antica sottratti alla terra non mancavano di analogie con la vegetazione e i raccolti che la Natura faceva scaturire dal suolo coltivato. I collezionisti di antichità erano spesso anche appassionati di botanica, di flora e di fauna. Altrettanti oggetti di curiosità e di studio per tutta una comunità di antiquari-naturalisti, per i quali lavoravano un gran numero di disegnatori e di artisti, e nell’ambito della quale Poussin godette molto presto di una stima quasi da confratello.3 Ma la Roma moderna aveva essa stessa i suoi architetti, i suoi pittori, i suoi scultori. Essi facevano fronte a commesse ecclesiastiche e cercavano anche di soddisfare una clientela i cui gusti erano lontani dall’essere esclusivamente dettati dall’Antichità e dalla Natura. Poussin si distinse velocemente legandosi al circolo – di gran prestigio sia a Roma, che in tutta Europa – di Cassiano dal Pozzo, antiquario e filosofo della natura. Si unì preferibilmente a quegli artisti francesi e fiamminghi (François Perrier, François Duquesnoy, Jean Lemaire, Jacques Stella), i quali condividevano la sua predilezione per l’arte antica intesa come modello in atto di un’imitazione che in luogo di duplicare la natura la portava a compimento. Sempre più, si propose come il rinnovatore francese della tradizione romana più classica, quella di Raffaello all’inizio del secolo XVI, quella di Annibale e del Domenichino del suo tempo.

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Poussin, il naufragio dell’arte di dipingere e il progetto di salvarla

Se questo pittore francese ha voluto portare a Roma con fierezza, cultura e metodo la moderna arte di dipingere all’altezza terapeutica e sapienziale della poesia, della musica e dell’eloquenza antiche, non è stato solo per contestare l’abbondanza virtuosa dei suoi confratelli italiani del momento, o per rendere, per la prima volta, l’arte francese senza pari, ma anche e soprattutto per ridare vita alla propria arte, che egli riteneva minacciata di “distruzione” dal successo del naturalismo demagogico del Caravaggio e dei suoi imitatori, nonché dalla lusinga e dalla sofistica dei pittori decoratori. Scriverà a Chantelou nel 1647: “La povera pittura si è ridotta alla stampa. Meglio potrei dire se dicessi alla sua sepoltura, se, fuori dalle mani dei Greci, qualcuno l’ha mai vista viva”.4 Nella stessa lettera egli parla misteriosamente della propria missione. Si tratta di restituire all’arte di dipingere ormai allo sbando la propria dignità di linguaggio simbolico ed efficace, che agisce sul mondo dei sensi per meglio disporre lo spirito all’armonia, alla salute, e alla virtù. Se la pittura ha il dovere di ricorrere agli “inganni che persuadono gli occhi”, essa ha il diritto di farlo solo dopo aver costruito, moderato e temperato tali inganni volti ai sensi per farne i vettori del messaggio che essa rivolge allo spirito. Egli arriva anche, a proposito dei propri quadri e dell’effetto che producono su coloro che li apprezzano, a parlare in termini religiosi di conversione, di illuminazione e di passaggio dalla cecità alla vista: “[M. Pointel] è uno di quegli eretici che credono che il Vostro Servo Poussin abbia qualche talento non comune in pittura, ma temo che si arriverà a lapidarlo se non tace, poiché non è più tempo di illuminare i ciechi. Cristo stesso fu inviso per questo!”.5 Parole infelici a lungo termine, poiché probabilmente furono proprio quelle a risvegliare la gelosia di Chantelou. Questo particolare progetto di un’ambizione quasi apostolica, egli l’ha perseguito con l’ostinato rigore6 di Leonardo e con una monumentale fiducia in se stesso. Ha voluto ravvivare, in un cammino esemplare, l’ideale di alleanza tra le arti e la saggezza raccomandate dalla filosofia, la medicina e la retorica antiche, e fatta propria dagli umanisti cristiani del Rinascimento. Ma a lui toccava ravvivare questo ideale in pittura, e in un contesto di generale tradimento e di pericolo per la sua arte. L’audacia di andare controcorrente ha fatto di lui una specie di profeta, che annovera fedeli e amici, ma che deve ingaggiare una lotta incessante per la causa della grande e feconda pittura. Nessun pittore antico, nessuna storia della pittura antica, può servire da modello a un tale sacerdozio. Poussin può identificarsi soltanto con il capo di una scuola filosofica antica, con un profeta ebreo o con un apostolo cristiano. Poussin, pittore filosofo

Non si nasce pittori filosofi, lo si diventa. Poussin lo era diventato a Roma per aver lungamente meditato tutto ciò che, nella sua arte, ma anche in se stesso e nel mondo di allora, resisteva alla filosofia, e per essersi assunto tutto ciò che, nella sua arte, la poteva servire. Per filosofia, intendiamo il cristianesimo filosofico di Montaigne, di Charron, di Peiresc. Per questi cattolici libertini (nel senso di libertà, non di libertinaggio) la verità cristiana permette di svelare la parte di verità che comportano le saggezze antiche, figlie della “teologia primitiva”, mentre la bellezza cristiana, il miglior stile cristiano, non debbono esitare a prendere a modello i grandi oratori, poeti, artisti e sapienti dell’Antichità pagana, sacrificando il virtuosismo ornamentale e ingannevole e attenendosi alla verità sentita e alla sua forza di evidenza, nella misura in cui la loro arte superiore dissimula l’arte. In Francia, Poussin è stato l’allievo di manieristi tardivi. In Italia, ha conosciuto la tentazione colorista di Venezia, cimentandosi anche brillantemente, ma in maniera effimera, con la grande arte barocca, romana e toscana, non quella della celebrazione principesca, ma quella della pala d’altare (la Vergine sulla colonna7 del Louvre, il Martirio di Sant’Erasmo in Vaticano). Ha provato tutto, tranne Caravaggio. E molto velocemente, sfuggendo alle tradizioni locali e alla sociologia delle clientele, ecclesiastiche o principesche, si è sottratto alle “maniere” dei moderni facendosi preparare dall’Antichità greco-latina, più visibile a Roma che in qualsiasi altro posto, e unitamente a essa, dal suo più grande interprete pittorico cristiano e moderno, il Raffaello romano, quello delle Logge, della Farnesina e dei cartoni degli “Atti degli Apostoli”. I suoi quadri storici, che prendono a soggetto la Favola antica, la Storia romana, la Bibbia o i Vangeli, obbediscono tutti, a partire dal 1630, alla stessa scienza armonica che lui stesso si è imposta, ispirandosi alla dottrina dei generi e degli stili

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della poetica dei Greci applicata alla pittura, ma anche alla dottrina dei “modi” della loro scienza musicale. Aveva appreso a dosare sapientemente i toni, il ritmo e la melodia visiva dei suoi quadri, secondo l’ethos e il pathos appropriati al soggetto scelto e all’effetto desiderato, e non secondo la soggettività del pittore o la logica della sua “maniera”: “Io non sono di quelli, scriveva ingenuamente e fieramente a Chantelou nel 1647, che cantando prendono sempre lo stesso tono, e so variare quando voglio”.8 Ben presto, a Roma, ogni tela di Poussin vuol essere un “cosmos” in sé, di uno stile e di un effetto diversi, secondo il “pensiero” (sempre nuovo) che lo stesso soggetto ha risvegliato in diverse età nel pittore. Non vi potrebbe essere alcuna “maniera” di Poussin. Poussin e i suoi collezionisti, tra Roma e Parigi

Gli è capitato agli inizi di dipingere su commissione quadri di soggetto religioso, destinati a una chiesa o a una cappella e prestantisi a un uso devozionale. Gli è toccato anche soddisfare una clientela di collezionisti di quadri mitologici, di preferenza di soggetto erotico. Ma subito, e sempre più spesso, ha dipinto per collezionisti, dai quali si fece rispettare, quadri di medio formato destinati alle gallerie di pittura, e non all’alcova o all’oratorio, per il diletto cioè dello spirito, e non per il divertimento o la devozione. Tutti questi quadri, quale che sia il soggetto, profano o sacro, appartengono alla stessa scienza armonica, e tutti richiedono allo spettatore una lettura attenta e perspicace. Poussin, nella corrispondenza con i suoi mecenati, si adopera nel guidarli nell’arte di leggere le sue opere in maniera corretta. Un’arte la cui ricompensa non è la frivola fierezza di aver decifrato un enigma o decrittato un’allegoria, ma la gioia che riempie lo spirito scoprendo il perfetto adeguamento dei mezzi plastici messi in opera dal pittore in senso morale e spirituale al “pensiero” che egli ha scoperto in fondo a un luogo comune. “Pensée [Pensiero]” è una parola chiave della sua corrispondenza. È l’equivalente francese dell’italiano “concetto”. Port-Royal fece ricorso a questa parola per intitolare l’edizione dell’Apologia di Pascal. È un’illuminazione dello spirito, felicemente formulata in una forma folgorante. Poussin non è mai salito sulla scena delle corti, salvo e suo malgrado quando arrivò a Parigi nel 1640. Non è stato un pittore-diplomatico al servizio del suo re, come fu il suo contemporaneo Rubens di Anversa, che mise la propria gloria d’immenso artista, le doti d’uomo di corte, di grande letterato e conoscitore dell’Antichità, a disposizione della diplomazia di Filippo IV, il re di Spagna, suo signore. Rubens il pittore, così come Rubens l’uomo di mondo, brillò a Londra, a Parigi, a Madrid, dopo aver sedotto Roma, Mantova, Firenze e Venezia. Introverso, meditativo, casalingo, legato a rare ma indefettibili amicizie, con preferenza per la conversazione socratica piuttosto che per la collaborazione d’atelier, Poussin, salvo un breve intermezzo parigino, forgiò a Roma tutta la sua reputazione di artista senza pari. È vero che la Roma cattolica e iconofila era allora la capitale europea delle arti, con la quale l’imbaldanzita Parigi tentava di rivaleggiare. Era anche il centro di un’intensa attività diplomatica, nella quale Poussin si immischiò il meno possibile. La sua notorietà nondimeno fece di lui, senza che l’avesse cercato, un’importante pedina di scambio nella grande azione diplomatica che si svolgeva allora tra Parigi e Roma. Era arrivato a Roma nel 1623, là si sposò, là morì. Nonostante gli inizi assai difficili, vi si trovò così bene che, per quanto lo riguardava, non avrebbe mai lasciato la sua Città d’elezione, se non fosse stato costretto a cedere ai pressanti inviti di Richelieu, sostenuti dall’autorità di Luigi XIII in persona. Suddito del suo re, dovette obbedire, a condizioni certo lusinghiere persino per un artista geloso come lui della propria indipendenza e consapevole del suo valore.9 Poussin a Parigi, 1640-1642

Se lo scambio o il dono di celebri opere d’arte fanno parte del gioco diplomatico nel corso del XVII secolo, lo stesso vale per gli artisti celebri che le corti rivali si adoperano di attirare e di trattenere presso di sé. Per indurre Poussin a lasciare Roma, gli venne attribuito a Parigi il titolo di Primo pittore del re, che Vouet deteneva già dal 1627, e gli si riservò l’esecuzione delle più prestigiose commissioni reali del momento (la decorazione della Galleria al bordo dell’acqua, le pala d’altare delle cappelle reali di Saint-Germain e di Fontainebleau, i frontespizi “all’antica” degli in-folio della Stamperia reale), e tutto questo senza che Vouet smettesse per parte sua di ricevere commissioni ufficiali.

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Nel secolo seguente, nel 1737, François Lemoyne si suiciderà per una piccola umiliazione (Primo pittore, non fu nominato dal re Direttore dell’Accademia). Vouet seppe tener duro e astenersi dal protestare apertamente. Borsista di Maria de Medici, Vouet era partito per l’Italia e si era stabilito a Roma nel 1615. Lì era maturato nella sua arte. Anche lui vi si era sposato. Nella più cosmopolita delle capitali, il suo talento eclettico si imposero così bene che nel 1624 i suoi colleghi, per lo più italiani, dell’Accademia di San Luca l’avevano eletto loro Principe. Richiamato a Parigi nel 1627 da Henri de Fourcy, Sovrintendente degli edifici del re, e nominato sul campo Primo pittore del re, ben accolto da Luigi XIII e da Maria de Medici di cui era stato il giovane protetto, coperto di commissioni laiche ed ecclesiastiche, Vouet inventò per rispondervi una grande e ridente maniera allegorica. Aprì un atelier, in cui si formarono due generazioni di pittori di prim’ordine, tra cui Charles Le Brun. Fu lui a creare la Scuola francese di pittura. Nel 1638, tuttavia, la sua posizione a Corte s’indebolì: la Regina madre era in esilio dal 1632; Fourcy, patrono e committente di Vouet, dovette lasciare la Sovrintendenza a un intimo collaboratore di Richelieu, Sublet de Noyers, già Segretario di Stato alla guerra. Ora, Sublet e i suoi cugini Fréart contavano fra i più ferventi sostenitori di Poussin, molte delle cui opere maggiori figuravano già, in bella vista, nelle collezioni parigine, fra cui quelle del cardinale di Richelieu (i Baccanali del 1636). Il cardinale aveva seguito l’esempio del maresciallo Créquy, duca di Lesdiguières, protagonista militare della Guerra dei Trent’anni, che aveva comandato e collezionato delle opere di Poussin, nel 1633, a Roma, quando Richelieu ve lo aveva inviato come ambasciatore straordinario per estorcere al Papa l’annullamento del matrimonio di Gastone d’Orléans con Margherita di Lorena. Durante tale soggiorno romano di alcuni mesi, l’illustre comandante, precursore nell’ordine del gusto, aveva fatto entrare nella sua collezione di quadri, la prima di questa grandezza in Francia, numerosi Poussin, fra cui un Mosè salvato dalle acque, e un’immagine salace di Ninfe al bagno, quest’ultima conosciuta da allora soltanto attraverso l’incisione. Paul Fréart de Chantelou, per conto suo, era riuscito nel 1637 a ottenere da Poussin il grandioso Miracolo della Manna, e altri ordini gli fece durante il proprio soggiorno a Roma all’inizio del 1640. Inaugurò allora una collezione francese di opere di Poussin che rivaleggiò soltanto con quella del Cavaliere Cassiano dal Pozzo, iniziata poco dopo l'arrivo del pittore a Roma. In una lettera di Poussin al proprio “patrono” romano Cassiano, in cui gli racconta l’accoglienza principesca che gli hanno riservato a Parigi nell’autunno del 1640, Sublet, poi Richelieu e Luigi XIII, Poussin riporta una frase pronunciata ad alta voce dal re: Ecco sistemato Vouet. Poussin e Vouet

Questa frase crudele salutava l’inizio di una piccola rivoluzione di palazzo. Perché da parte di Richelieu un favore tanto provocatorio verso Vouet quanto ostentato nei confronti di Poussin accolto a Parigi, con un quarto di secolo di anticipo, come il Bernini lo sarà da Colbert e Luigi XIV nel 1665? Bernini e Poussin si conoscevano, si stimavano e avevano avuto gli stessi mecenati, Papa Barberini e la sua famiglia. Sebbene molto diversi, erano ambedue glorie di Roma. In entrambi i casi, e per la gloria dello Stato francese, si trattava per Richelieu e per Colbert di attirare a ogni costo a Parigi quanto costituiva il privilegio di Roma, vale a dire gli artisti di fama mondiale. Con Poussin, Richelieu aveva tentato di “trascinare” il grande affreschista toscano Pietro da Cortona e il grande scultore fiammingo, François Du Quesnoy. Bisognava dimostrare che la Parigi reale era in grado di strappare alla Roma dei Papi i suoi artisti più prestigiosi. Ora, nel 1640 la fama di Simon Vouet, se era diventata di prima grandezza a Parigi, non era più da oltre dieci anni là dove, su scala europea, era importante essere, vale a dire a Roma. In Francia, il pittore eclettico che a Roma era stato un tempo “caravaggesco” si era inventato con successo quella maniera parigina chiara, decorativa, mondana, facile, lusinghiera, in nulla debitrice all’Antichità, che si è potuto riscoprire nell’esposizione del Grand Palais nel 1990. Essa gli permetteva di rispondere prontamente e con eleganza ad abbondanti e fruttuosi ordini e di lavorare in collaborazione. Si è tentati di vedere in Vouet, ferma restando ogni altra cosa, un Boucher del XVII secolo, e in Poussin, l’Edme Bouchardon del regno di Luigi XIII. A Roma, Poussin si era imposto senza rivali fin dagli anni ’30, mettendosi a capo con alcuni artisti suoi amici, di un “ritorno all’antico”, e beneficiando del patrocinio

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dell’antiquario Cassiano dal Pozzo. Quest’ultimo era l’iniziatore del movimento. Aveva mobilitato numerosi artisti, soprattutto francesi, per ammobiliare il suo “Museo cartaceo”, enciclopedia di disegni che rappresentava, oltre a tutti i regni della natura, l’insieme e il dettaglio di tutto ciò che dell’Antichità era sopravvissuto o riapparso. L’Antico, per tutta l’Europa di allora, era il linguaggio vittorioso dei tempi, il linguaggio dell’eternità, alla stessa stregua della lingua latina classica. Il ritorno all’antico veniva associato sia all’idea di regno e di impero che a quella di nobiltà di spirito. Tuttavia, a Roma non ci si privava del gusto di essere moderni, i pittori caravaggeschi rappresentavano dei bohémiens, dei contadini o dei gentiluomini contemporanei, i bamboccianti10 olandesi delle scene di baccanali non meno realistiche, e gli affreschisti italiani dipingevano moderni e cristiani cieli in gloria, sovrappopolati di angeli e di eletti. Ma a Parigi, per Richelieu e i suoi fedeli, dopo la Giornata degl’Ingannati che fece del cardinale nel 1630 il vero padrone della Francia, l’Antico era il linguaggio dell’impero, quello dell’ardente ambizione per la monarchia che fecero condividere a Luigi XIII: fare della Francia la Roma moderna dell’Europa, del francese il latino dei moderni. Dal 1635 essi dichiararono apertamente guerra al loro principale rivale, il re di Spagna. Nello stesso momento, a Roma, l’arte di Poussin evolveva rapidamente nel senso del “bell’antico”, superiore alle maniere locali e alle mode moderne: La morte di Germanico, (Minneapolis), consegnato al cardinale Francesco Barberini nel 1628, si accordava senza averlo cercato e prima del tempo con il progetto caro a Richelieu di far rivivere Roma nella modernità europea e di imporre una Pax romana francese. Corneille impiegò molto più tempo per adattarsi alle circostanze. Nel 1636 portava in scena un eroe spagnolo, Rodrigo. Ma dopo la Polemica del Cid si riscattò dedicando a Richelieu il suo Orazio (1640), seguito l’anno dopo da Cinna o la Clemenza di Augusto, due tragedie romane. Esse furono rappresentate durante il soggiorno di Poussin a Parigi! Che trionfo per Richelieu, se il pittore della Morte di Germanico o della Continenza di Scipione (1640, Mosca) avesse messo in scena le pièces politiche del grande drammaturgo! Non si vedrà realizzato tale sogno fino a David, Talma e Napoleone. Ecco un’altra adesione francese al gusto “all’antica”: il più dotato degli allievi di Simon Vouet, Eustache Le Sueur, sebbene non avesse studiato a Roma, prese a poco a poco le distanze dal suo maestro. Dal 1641 al 1645 piegò sempre più la sua maniera verso la geometria, la simmetria, la semplicità grave e pudica dell’Antichità, in breve verso Poussin e i suoi amici Jacques Stella e Jean Lemaire. Stella aveva dipinto nel 1638 una Liberalità di Luigi XIII e di Richelieu raffigurante il re e il cardinale in costumi imperiali romani e all’interno di un decoro architettonico all’antica. Non si può escludere la volontà di Richelieu, di Sublet e dei fratelli Fréart di creare a Parigi, fra i due celebri pittori francesi sottratti a Roma, Vouet il Moderno e Poussin l’Antico, ciascuno affiancato da amici o discepoli parigini, una di quelle rivalità che a Roma, e negli altri centri d’arte italiani, erano state consuete e che segnalavano la vitalità della “Scuola” locale. L’ipotesi è confermata dal doppio ordine passato da Sublet a Vouet e a Poussin di quadri d’altare per la cappella del Noviziato parigino dei Gesuiti, costruita a spese del Sovrintendente. Il confronto fra le due pale d’altare fu infatti oggetto di un vivo dibattito a Parigi. I maestri del gioco politico erano indubbiamente persuasi che Poussin e il suo grande stile “all’antica” avrebbe prevalso sullo stile mondano di Vouet, così come il grande stile tragico di Corneille era subentrato alle iniziali preferenze del drammaturgo e del pubblico per la moderna comédie de mœurs e la tragicommedia spagnola. Poussin nel gioco di Parigi rivale di Roma

L’accanita rivalità che opponeva sordamente Roma e Parigi, due capitali in apparenza solidali nella stessa fede e nella stessa Chiesa, spiega tale guerra dei gusti e tali fluttuazioni di valori. Per Richelieu e il suo governo, un Vouet “pariginizzato” non era più, dopo la dichiarazione di guerra alla Spagna, un atout privilegiato. Al contrario, l’artista preferito del Papa regnante Urbano VIII, Pietro da Cortona, che Richelieu fece corteggiare, sarebbe stato un carico di un certo peso da porre nel gioco francese così come sarà Bernini ai tempi di Colbert. Ma dopo tutto, gloria romana a suo modo, il francese Poussin, a partire dagli anni trenta, aveva le carte in regola per diventare un gioiello della Corona gallicana. Non aveva forse ricevuto degli ordini pontifici, rari ma prestigiosi? Non godeva del favore del più autorevole conoscitore d’arte romana, Cassiano dal Pozzo? Non beneficiava dell’ammirazione senza riserve dei collaboratori più vicini a Richelieu alla Sovrintendenza degli Edifici reali,

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e dello stesso Richelieu? La singolarità e la coerenza del suo “ritorno all’antico” nella capitale degli antichi e degli antiquari, che era anche l’atelier centrale dell’arte naturalista e dell’arte barocca moderne, facevano di questo francese un antico romano più in accordo con la strategia politica “alla romana” del cardinale Richelieu che con la pomposa e lamentosa diplomazia del papato. Il movimento ufficiale francese in favore di Poussin era stato avviato a partire dal 1634, in occasione del ritorno a Parigi del maresciallo Créquy che riportava al suo seguito, oltre – come si visto – a varie tele di Poussin, il pittore Jacques Stella, uno degli amici più vicini all’artista nonché il più fedele adepto del suo classicismo. Nel 1638, nel corso delle grandi manovre disposte da Sublet e dai Fréart per vincere la resistenza di Poussin, è un altro pittore fra i suoi intimi, Jean Lemaire, a venire chiamato da Sublet a Parigi dove sarà nominato Guardia del Gabinetto delle pitture del re, con sede al Louvre. Lemaire non si darà tregua nel cercare di ottenere dal suo amico Poussin, barricato dietro il proverbio italiano Chi sta bene non si muove,11 che accetti di raggiungerlo. Richelieu e Sublet si muovevano di concerto. La missione affidata a due dei fratelli Fréart, Paul e Roland, da adempiere a Roma nel 1640, presso François Duquesnoy e Nicolas Poussin, raggiunse infine lo scopo di convincere quest’ultimo a obbedire, non senza precauzioni e secondi fini, alla richiesta ministeriale e reale. Queste scappatoie di Poussin, come del resto la sua resa finale, hanno qualcosa di sorprendente. L’io del francese Poussin tra lealtà e indipendenza

L’“Io” è odioso di Pascal non vale per un Poussin la cui coscienza di sé, nel regno della pittura, ha qualcosa di principesco. A questo proposito vale la pena osservare che un’altra pietra angolare della futura identità nazionale francese, René Descartes, trascorse fuori dalla Francia la parte migliore della sua vita di filosofo e di sapiente preferendo, per pensare fortemente e liberamente, il clima freddo dei paesi del Nord al clima caldo dei paesi del Mezzogiorno e l’individualismo delle Provincie Unite commerciali all’aristocratica socievolezza sul chi vive della Città e della Corte alla francese. Poussin, come Descartes, scelse deliberatamente l’esilio, anche se non poteva sentirsi più francese di quanto fosse già. A Roma egli lavorò sempre di più per una clientela francese e sviluppò uno stile “all’antica” che si voleva francese in perentoria rottura con la sofistica italiana. Descartes, a Leida, scelse nel 1637 di scrivere in francese il suo Discorso sul metodo; la sua corrispondenza è prevalentemente francese. Nei due uomini la volontà di tenersi a distanza della sudditanza della corte di Francia, pur identificandosi interiormente con il regno e la sua lingua che procedevano di gran carriera, è sintomatica della loro eccezionale indipendenza interiore e di una libertà filosofica gelosamente difesa. Non sono mancati nel XVII secolo, in Francia, dei simpatizzanti e dei complici, cattolici “libertini”, eredi di Montaigne, che si sapeva e si voleva, anche lui, francese, pur badando a salvaguardare l’integrità del suo “retrobottega” e l’extraterritorialità della sua libreria. L’“Io” di questa famiglia di spiriti è la punta fine di una volta a ogiva formata dal fortissimo sentimento di appartenenza alla comunità del regno e dalla volontà, non meno forte, di assumere un’assoluta sovranità interiore. Ciò che vale per i loro rapporti con lo Stato regale si può dire anche dei loro rapporti con la Chiesa romana. Tanto più docilmente acconsentono al magistero esteriore di Roma, quanto più riservano per se stessi il diritto di nulla sacrificare a Roma della loro libera ricerca di cristiani filosofi. In più sono nati in una nazione nella quale il cattolicesimo maggioritario è assai fervente, ma i cui re hanno sempre respinto – con alterigia, sostenuti dal loro popolo – ogni pretesa della Santa Sede romana di intervenire nella propria giurisdizione temporale. Questo equilibrio instabile della Francia gallicana nella Chiesa romana ha acuito l’intelligenza cristiana dei suoi letterati, così come ha stimolato nel regno l’intelligenza anticlericale e agnostica. Ha inoltre favorito la comparsa di “Io” tanto singolari, inclassificabili, e sfaccettati come quelli di Descartes, di Corneille, di Poussin, tutti e tre, per di più, (anche se sussiste un lieve dubbio per Poussin) allievi emancipati dei Gesuiti, e nondimeno segnati profondamente dalla loro disciplina di spirito.

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Poussin e i suoi autoritratti

Il ritorno di Poussin a Parigi fu un grande successo a livello di carriera, che egli pagò con lo scoprire la sua fiera incapacità ad adattarsi alla vita parigina. Per quanto penoso sia stato, per un pittore abituato a un ritmo di vita e di produzione molto meno sfrenato, il soggiorno affannoso (e così ufficiale!) di Poussin a Parigi, la sua presenza e la sua attività creatrice di grande artista coscienzioso consacrarono, quasi sul campo, la sua immagine di “Legislatore della Scuola francese di pittura” e il suo ruolo di ispiratore in esilio dell’“Accademia reale di pittura e scultura” fondata a Parigi nel 1648, sei anni dopo il ritorno di Poussin a Roma. Tale immagine di legislatore e questo ruolo di rigeneratore dell’arte francese gettavano un’ombra irrimediabile su Vouet, che tuttavia aveva fatto scuola, per primo e magnificamente, a Parigi. Poussin aveva esitato a lungo prima di riconquistare Parigi. Ma quando si abbozzò per lui l’immagine di “Mosè” della pittura francese, si guardò bene dal respingerla. Avrebbe cura persino di precisarne lui stesso i contorni, nel momento in cui Vouet, invecchiando, cercava di approntare in proprio l’Accademia di San Luca contro la nascente Accademia reale di pittura e scultura, dove egli non trovava quel posto di grande vecchio che riteneva gli spettasse. Morì improvvisamente nel 1649 lasciando campo libero all’Accademia reale e al suo ex allievo Le Brun, anch’egli legato a Poussin. Ora, è proprio nel 1649-1650 in due autoritratti intimi e gravi che fanno le sue veci, che, da Roma, quest’ultimo afferma la sua autorità sulla scena parigina delle arti, confermando il suo patrocinio a un’Accademia la prima idea della quale era stata concepita durante il suo soggiorno a Parigi, nella cerchia di Richelieu, e chiaramente a beneficio suo e della sua arte. La morte di Richelieu aveva rimandato di molti anni la realizzazione del progetto. Poussin vi si accinge con un gesto tanto più notevole per il fatto che prima non aveva mai accondisceso al genere basso e naturalista del ritratto. Uno di questi autoritratti, oggi al Louvre, fu concepito in onore di Chantelou, il suo più frequente corrispondente francese. Era destinato a figurare nel celebre gabinetto di pitture in cui questo conoscitore aveva riunito molti dei capolavori del suo artista preferito. Nella lettera del 3 luglio 1650 con la quale Poussin annuncia l’invio dell’opera a Chantelou, le iperboli del pittore mostrano tutta l’importanza che egli accorda a quest’opera per l’avvenire della sua immagine: “Il posto che volete dare al mio ritratto nella vostra casa aumenta di molto i miei debiti. Vi starà altrettanto degnamente quanto quello di Virgilio al Museo di Augusto. Sarà una tale gloria per me come se si trovasse presso i duchi di Toscana, con due opere di Michelangelo e Raffaello”. La calma autorità che si sprigiona da questi nobili tratti di magistrato della pittura, che tiene la Tavola della legge della sua arte, non è esente né da severità, pronta a prendere duri provvedimenti, né da ansietà, previdente dei “neri voli della bestemmia sparsi nel futuro”.12 Tale effigie, e quella che Poussin dipinse poco dopo, in onore di un altro dei suoi amici e collezionisti parigini, M. Sérisier (quadro oggi a Berlino), hanno fatto molto (in particolare grazie all’incisione) per disegnare l’archetipo moderno del grande pittore francese, fondatore in esilio della Scuola nazionale di pittura. Félibien, che aveva conosciuto bene Poussin a Roma, e che mise il suo grande talento e il gusto squisito al servizio di Colbert, di Perrault, di Le Brun e della Sovrintendenza degli Edifici di Luigi XIV, sarà il narratore ufficiale ed eloquente di una storia dell’arte che non ha più per causa finale Michelangelo e Firenze, come nelle Vite di Vasari, ma Poussin e la Francia. Da allora il prestigio del Legislatore della pittura francese è rimasto a Poussin, sia agli occhi degli stessi pittori (da Le Brun a Ingres, da Ingres a Cézanne, da Cézanne ai cubisti) che a quelli degli storici dell’arte. Nelle iscrizioni latine tracciate da Poussin sui suoi autoritratti, l’artista si è accontentato di ricordare la sua nascita francese a Les Andelys, avendo allo stesso tempo cura di datare a Roma la sua opera. Per natura, sembra voler dire, sono francese. Per la mia cultura e la mia arte sono un antico romano. Doppia nazionalità. La sua nascita e la sua lealtà verso la nazione l’hanno spinto a inviare a Parigi, nel 1650, due autoritratti da membro onorario, in qualche modo, della recentissima Accademia reale di pittura e scultura, che ormai non smetterà più di appellarsi o di ritornare a lui.

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Poussin “buon francese”, ma in esilio necessario a Roma

Tuttavia la sua adozione da parte di Roma, a partire dal 1623, fu tale che egli provò, durante il suo soggiorno parigino dal 1640 al 1642, il “mal du pays”, la nostalgia del proprio paese. Esiliato al contrario, egli confessa a Gabriel Naudé, che lo fa sapere al loro comune “patrono” e grande amico romano Cassiano dal Pozzo, quanto l’attivismo moderno della Parigi di Richelieu gli sia penoso. Egli preferisce la Roma di Urbano VIII per sognare, per lavorare, e per studiare a piacere le reliquie della grande arte antica. Se deve fare alla grandezza della Francia il servizio di rendere la sua arte degna dell’antico, e che farà epoca, è meglio che per questo grande progetto egli componga dei quadri destinati alla Francia nella tranquillità della Roma pontificia, invece di sfiancarsi a Parigi, senza collaboratori adeguati, non ancora pronti per grandi lavori, e questo tra il nervosismo di una Corte impaziente e la concorrenza incessante di rivali dotati di solidi appoggi: “Finalmente – scrive Naudé nella sua lettera del 18 aprile 1642 a Cassiano – nel discorrere un puoco più avanti, alla distesa, che io feci con lui in casa di Mr Bourdelot, io scoprii al netto la sua intentione, laquale è di durar qui ancora qualche tempo per tornarsene poi a Roma, dove dice di goder più perfetta sanità di corpo e maggior quiete d’anima. E questo sebene puol esser causa vera, m’imagino ancora che possi essere preteste, perche a dirlo confidentemente a V.S. Illma, con tutto ciò che M. Pussino sia valentissimo e cognosciuto per tale da molti ministri, tuttavia il Voetto si mantiene saldissimo e da occasione ogni giorno a una concorrenza molto fastidiosa, per essere un uomo sfrenato, d’humor gailliarda, che cerca il suo vantaggio per fas et nefas, e dove pensa d’haverlo, vi si aggionge qualche ironia e sarcasmo come verbi gratia di spargere voce che tal quadro che si stima esser stato da lui, sia solamente d’un suo servitore. La qual cosa non deve molto piacere a chi è considerato qui come suo antagonista o concurrente. Mi pare ancora che li ministri siano stati puoco discreti in adossare tanta roba per fare a Mr Pouzzino che quando haverrebbe continuamente lavorato, non puoteva sperar di finirla in tutta la sua vita. E a questo incommodo se ne aggiunge un altro, perché detto segnor Pouzzino lavorando solamente nei disegni e cartoni, si puol ben spesso incontrare che da i pittori ignoranti non siano copiati a modo suo, siche, o per queste cose o per altre, tengo per sicuro che detto signor, finito che havera quello che per adesso la preso l’assunto di fare, se ne tornerà a Roma per vivere più quietamente et sebene l’ho persuaso il più che m’è stato possibile, tuttavia io dico confidentemente a V.S.Ill. che le turbulenze di questa città sono tali e cosi fastidiose a chi è avvezzo alla vita di Roma, che li pare per cosa certa essere passato dal paradiso nell’inferno e io ancora per questo rispetto mi vorrei scomettere di restarci sempre, quando ben mi mancasse la residenza di Verduno”.13 Di ritorno a casa sua14, felice rifugiato dalle concorrenze e dalle turbolenze di Parigi, egli pensa solo, scrive nel 1643, a “lavorare a Roma e a restare in pace”, godendo nell’Urbs, più che mai dopo l’episodio parigino, del luogo che si confà alla sua salute, alla sua affettività, alla sua attività creativa nutrita di reminiscenze dell’Antichità e di paragoni con gli Antichi. Il tipo di vita lento e fecondo che colà può condurre gli farà esprimere, durante la Fronda, nella sua corrispondenza con Chantelou, uomo di corte allora in disgrazia, i giudizi più severi sul carattere nazionale francese, sulla volubilità che ha fatto dimenticare ai Francesi il grande Richelieu e sopportare alla loro testa un usurpatore straniero, lo spregevole Mazarino. Indignato dalla tendenza francese alle liti e alle guerre civili, scrive: “È una follia temere le novità e gli screzi in Francia, perché non li si può evitare e non è mai stato altrimenti”.15 Questi picchi di rara amarezza sono nondimeno ispirati da un vivissimo amore per la “patria” (parola ch’egli predilige) e dalla violenta delusione che suscita in questo “buon francese”, com’egli stesso si qualifica, l’“assenza di un qualche segno di grandezza” dalla morte di Richelieu, presto seguita da quella di Luigi XIII, e poi dalla disgrazia e dalla morte del suo caro Sublet. Nel 1648 alla ricezione delle notizie della prima Fronda, egli deplora anche che gli “affari di là non siano stati gestiti meglio da qualche anno in qua”. E si abbandona a un’orgia di malinconia: “Tutto è perduto, dispero per il bene, tutto è pieno di sventura”.16

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