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Ci sono momenti particolari, quasi fossi in una trance ipnotica, quando le gambe girano e siedo senza peso. Attimi nei quali tutto si trasforma in qualcosa di pensato, voluto, realizzato e adattato magicamente al posto attraversato. Ecco allora il panorama trasformarsi in palcoscenico e immediatamente dopo in testo da recitare, oppure in pubblico che mi acclama mentre passo. Ogni albero sembra piantato apposta per quell’occasione di passaggio, tutte le costruzioni mi vengono incontro per esibirsi e le salite sono animate da spiriti irriverenti. Spostarmi in bici offre un catalogo di sensazioni da sfogliare lentamente e farlo in solitaria annulla il confronto, rallentando il tempo fino a raggiungere il ritmo del cuore. Arrivare è il risultato di un pianeta fatto rotolare sotto i copertoni. Sono capace di fermare la rotazione terrestre per fare una foto, sgranocchiare un biscotto o decidere che direzione prendere. Poi riparto e tutto il mondo rotola di nuovo, trascinando con sÊ le sue meraviglie. Da Londra a Verona, racconto il mio viaggio in punta di pedali, curiosando per la strada.
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IN PUNTA DI PEDALI La scoperta di posti distanti da raggiungere con la forza dei muscoli e il coraggio di tentare. Campanili, castelli, foreste, corsi cittadini, bandiere, cibo diverso, lingue e dialetti, atteggiamenti inusuali. Sono molteplici i motivi che spingono ad andare. Non ho ancora bene inquadrato lo stimolo principale istigante, ma è solo perché ce n’è più d’uno. Mi attrae, per esempio, stare da solo per un tempo racchiuso tra due parentesi, ma non superiore alle due settimane. Mi conquista la sensazione di pedalare in un posto mai visto prima, di scoprire dettagli del territorio. Come adoro ascoltare musica mentre cambia la prospettiva fino a raggiungere l’estasi, usando la strada come sfondo per proiettare le mie fantasie e i miei mulini a vento da combattere, le crisi planetarie risolvibili con la semplicità disarmante delle mie logiche. Trovo piacevole esibirmi, condividere il prodotto delle fatiche con tante persone creando in questo modo, i presupposti per chiacchierate ricche di dettagli al ritorno. Valuto esaltante navigare con la mappa e il GPS, calcolare tempi, medie, fare scelte ai bivi, operare rinunce al fine di consentirmi di dedicare un tempo congruo agli obiettivi prefissati o rallentare laddove sento di voler essere accurato nel scattare fotografie. Mi appassiona scattare immagini, catturare la luce imprigionandola dentro una scheda da guardare e riguardare sui supporti multimediali di casa, aspettare il momento giusto per sgombrare il campo da autovetture di passaggio o pigiare il tastino in movimento per evitare continue soste che rallentano l’andatura. Mi piace pensare il viaggio, appassionarmi all’itinerario, indagare su quello che posso trovare sul percorso, prenotare il volo con anticipo a volte di sei mesi per usufruire del prezzo migliore e aspettare trepidante la data di partenza. (Play Bliss-Chel Barouc) - Questo nuovo viaggio arriva nella mente persa a fantasticare su traguardi avventurosi, ispirato dagli appellativi delle grandi corse classiche, siano ciclistiche o motoristiche. Scorrendo con l’indice tra i nomi scopro quello della “Mille Miglia”. Passo a quello seguente e immediatamente dopo, torno indietro di rimbalzo, fermando il dito su quel titolo. Un’equazione inizia a prendere forma. Emergono dal buio, collocandosi in una sottile pagina di nebbia, dati e tabelle, chilometraggio e tempo, assieme a una buona dose d’incognite. Devo vagliare il punto più adatto alla partenza, spalmando su due settimane la distanza di mille miglia, scegliere una percorrenza ad anello partendo da casa, oppure diretto verso una località e poi ritornare al luogo di partenza con un trasporto. Su google maps ho una cartina dell’Europa, guardo la 3
Spagna, la Francia, la Germania, i paesi dell’est e quelli scandinavi. Guardo l’Islanda, meta avventurosa ma isolata e troppo selvaggia. Guardo la Sicilia, circumpedalata due anni prima. Osservo lo stivale, già oggetto di un giro d’Italia in bici+treno, come la Svizzera e l’Austria, destinazioni che possono essere oggetto di brevi spostamenti. Punto gli occhi sulla Gran Bretagna, ingrandisco con la rotellina del mouse, segno con la bandierina, attivo la modalità di calcolo del percorso con destinazione Trieste e l’esito è di mille miglia. Sento immediata l’adrenalina espandersi, il cuore pulsante e gli occhi di meraviglia si fissano sul risultato ottenuto. È ormai entrato questo pensiero grezzo, questa pietra da levigare per ottenere una forma finita da ammirare. È novembre, tempo per organizzarmi non manca e la priorità è di aprire la porta del sito di Ryanair per capire cosa offre e quanta costa. La ricerca è veloce, il responso è di novanta euro per un biglietto passeggero+bicicletta, di sola andata, Trieste - Londra Stansted per la metà di giugno. Seduto alla scrivania, sotto il cono di luce della lampada da tavolo, ho la testa circondata da un alveare di dati e il rumore del loro ronzio copre ammutolendo, tutto il resto. In sette mesi, mille cose possono frapporsi, cambiare, ostacolare, ma il costo per un transfert di quella portata è talmente basso da poter osare una scommessa. Se fosse andata a buon fine, mi avrebbe permesso di operare su un volo economico e la condizione principale è di acquistarlo con largo anticipo. Condivido queste sensazioni con la compagna, colei che non pedala, la sera stessa esponendole il mio progetto per l’estate prossima, con il chiaro intento di una cura centellinata in sette mesi di assuefazione all’accettazione di un’idea di questa portata. Ottengo un assenso, una sorta d’investitura e alla fine di dicembre, rotti gli indugi, prenoto il volo in partenza dall’aeroporto di Ronchi, il giorno tredici giugno 2014 alle ore 10e30, con arrivo previsto a Stansted alle 11e40, al costo di novantasette euro tutto compreso. Il più è fatto, il biglietto nel cassetto e il resto, sono particolari da organizzare con calma. (Play Just The Two Of Us-Bill Whithers) - L’inverno non graffia più di tanto, consentendomi delle uscite in bicicletta frequenti, e quando la temperatura diventa troppo rigida, onde evitare congelamenti, mi chiudo in palestra hanno inaugurato una sala spinning molto utile per creare una resistenza accettabile. Non m’illudo di potermi definire pronto con gli allenamenti in palestra, perché un conto è fare un paio d’ore a buon ritmo e altro è stare in sella pedalando sei o sette ore, esposto a ogni tipo d’inconveniente. Appena il tempo lo permette, in concomitanza con l’allungarsi delle giornate, inizio a trasferirmi all’esterno con gite sempre più lunghe. 4
Devo fare opportune scelte di allestimento della due ruote, perché ho provato i copertoni da ventitré anziché quelli da trentacinque e sono in dubbio. I primi hanno una spalla più bassa e un battistrada contenuto, sono sottili e conferiscono alla bici un assetto da corsa molto scattante e leggero, ma restituiscono con cattiveria ogni piccola sconnessione, il mezzo picchia nelle buche e trasmette vibrazioni sugli asfalti a grana grossa. Con il peso del bagaglio, non mi fiderei a fare sterrati diversi da un ghiaino compatto. Quelli da trentacinque, assorbono ogni urto, sono resistenti al peso globale, non si sono mai bucati, ma pesano il doppio e risultano lenti alle accelerazioni, abbassando anche la media di crociera. Allestisco due biciclette identiche con coperture diverse uscendo un po’ con una e un po’ con l’altra, testando anche il carico del bagaglio e infine quasi senza accorgermene tendo a uscire sempre più spesso con quella allestita con le ruote da corsa. La decisione è naturale, dopo cinquecento chilometri con quelle specifiche, considero il test concluso assegnandole il titolo di “Bike of thousend miles”. Le mie biciclette sono prodotti marchiati CUBE, gemelle monozigoti e nel tempo hanno assunto un parallelo aspetto personalizzato. La prima modifica sostanziale è stata la sostituzione della forcella anteriore con un modello dotato di un comodo comando sul manubrio per attivare l’affondo sugli steli o il blocco degli stessi, consentendomi di pedalare in piedi sulle salite senza l’effetto beccheggio, evitando così il dispendio di una buona dose di energie. È molto comodo pigiare il tasto senza dovermi fermare, come quando avevo invece la forcella di fabbrica. Importante modifica è stata anche quella di sostituire la spartana sella originale con una in gel che, anche se paga sotto l’aspetto del peso, rende più docile l’allogamento delle terga nelle uscite di lunga durata. Ho cambiato le manopole sottili con un paio di supporti ergonomici consentendo un appoggio dei palmi delle mani più esteso sulla presa orizzontale e montate due piccole corna per un’impugnatura verticale, valutato molto utile nelle salite in fuori sella. La frenata è garantita da un impianto 5
idraulico che agisce sugli affidabili dischi da centosessanta millimetri, permettendo un’azione modulabile, senza strappi, come vigorosa all’occorrenza. Il portapacchi anteriore è frutto di modifiche di quello posteriore, molto più semplice da montare, a causa di un mercato avaro di soluzioni economiche. In definitiva il carico maggiore lo riceve quello dietro, mentre quello davanti serve a dare un minimo equilibrio al mezzo che altrimenti scarica troppo l’avantreno rendendolo instabile nei cambi di direzione. L’aspetto della bicicletta è piacevole, simmetrico, mi accoglie ergonomicamente, sembra possedere un’anima e in funzione di questo, la curo, la pulisco, la preservo da buche e percorsi troppo sconnessi, manovro il cambio in assenza di sforzo, freno con dolcezza, ricevendo di contro precisione, sicurezza e affidabilità. La macchina uomo, il mio apparato motorio riceve le identiche attenzioni. Sembra ovvio dichiararlo, ma un viaggio lungo necessità di una preparazione atletica di base che non va improvvisata ma nemmeno esageratamente coltivata. D’altra parte, chi si avventura in un tentativo da mille miglia è sicuramente un appassionato e non un ciclista che pedala due ore l’anno, misurando i propri tentativi in funzione delle esperienze già portate a termine. Sul mio palmares, in solitaria, ci sono un giro d’Italia (bici+treno+nave), un viaggio da Genova a Tangeri (bici+treno+nave), il giro della Sicilia, quello della Svizzera e il seguente in Slovenia e altri di durata inferiore. Credo quindi di sapere a cosa vado incontro. Inoltre, questo sarà un viaggio tutto a pedali, tranne per due tratte in navigazione, sulla Manica e sul lago di Costanza. Inizio subito a strutturare il tragitto, cercando di dargli una serie di tappe interessanti. Ovviamente le città orbitanti attorno alla striscia azzurra di Google Maps sono tutte molto attraenti ma non tutte sono abbordabili senza deviazioni troppo impegnative. In Inghilterra l’itinerario è abbastanza semplice, la rotta parte da Stansted, passa per Londra e Canterbury, per arrivare a Dover, il porto d’imbarco per la Francia. I due possibili porti di sbarco sono Calais o Dunkerque, e scelgo il primo perché più vicino ed economico. Dopo una sosta a Lille, seguirò la direzione ovest verso Bruxelles, e poi diretto a sud per visitare il Lussemburgo con il passaggio nella mitica Waterloo, resa celebre da Napoleone, per pedalare in seguito in prossimità delle Ardenne. Continuerò a sud per incontrare Metz e con una svolta a sinistra punterò a Strasburgo fiancheggiando il parco nazionale dei Vosgi. Dopo questa tappa che segna la mezzeria del viaggio, iniziano i massicci montuosi e sento il timore assalirmi, la frenesia di una ricerca di percorsi, di altimetrie quanto più contenute nell’affrontare la Foresta Nera. Seguendo la traccia verso sud est, inciampo nell’immagine di Neuschwanstein, il castello 6
perfetto, una festa di pinnacoli e guglie sulle torri, di tetti spioventi e muraglioni candidi. Si esibisce in tutta la sua bellezza dall’alto di una rupe in mezzo alla foresta a dominare la vallata sottostante. Per raggiungere Füssen, la città nelle sue immediate vicinanze, devo seguire l’itinerario passante per Costanza, attraversando poi l’Allgau, una regione montuosa del sud della Germania, spingendomi dopo, verso Innsbruck. Mi dividerà dall’Italia la scalata del passo del Brennero per attraversare in seguito il Trentino-Alto Adige, arrivando sulle pianure delimitate dall’Adriatico. (Play Sweet Child o’Mine-Sheryl Crow)) - Sarà il GPS a indicarmi la strada con l’ausilio della cartografia della rete. Farò affidamento sul programma che registra la rotta per calcolare al millimetro le distanze percorse, ma non posso indubbiamente rinunciare alla cartina stampata per avere un quadro più generale della zona. La definizione più adatta allo scopo è nel rapporto 1:200.000, perché permette di scorgere dettagli di incroci e numerazione delle vie di comunicazione. Purtroppo devo comperarne sei, di altrettante porzioni di Europa, fotocopiando soltanto le parti che penso di attraversare. Non è pensabile portare tutte le mappe, per l’ingombro e per il peso, per l’inutilità di dettagli distanti centinaia di chilometri dal percorso pensato e la difficoltà nel manovrare lenzuola di carta da piegare all’occorrenza. I fogli A3 copiati fronte e retro, sono dieci. Provo a stendere le mappe sul pavimento dell’officina, le sistemo ricreando la fetta obliqua di continente e già qui, in piedi sopra Londra, vedo Venezia lontanissima. Direi che la rotta è tracciata e pedalerò in otto nazioni (Inghilterra, Francia, Belgio, Lussemburgo, Germania, Svizzera, Austria e Italia), obbligato a spremermi nell’adattarmi ai cambi di lingua. Avrei l'intenzione dedicarmi allo studio dell’inglese, ma non esiste una scorciatoia per apprendere velocemente o a lato di altre situazioni. Dovrei frequentare dei corsi regolarmente, seguito da un insegnante per un tempo sufficientemente ampio ma rimando per il semplice motivo che m’impegnerebbe appesantendo le giornate con un progetto troppo esteso. Oltretutto, per quanto sia una lingua definita universale, nella provincia francese, o sulle montagne tedesche servirebbe a ben poco e pensare di farmi un’infarinatura di vocaboli a largo spettro diventa un’impresa fuori dalla mia portata. In fondo, sono sicuro di trovare un modo di comunicare per farmi capire o interpretare. Le informazioni saranno spiegate, a gesti, o mescolando termini di ogni idioma fino a formare espressioni comprensibili. Impegnato nell’organizzazione del viaggio, inseguo la perfezione cadendo nel suo vortice, senza accorgermi di essere stato catturato da una specie di mania 7
che oscura tutto il resto. Accade, infatti, dopo febbrili ricerche di dati e foto, di alberghi, strade e di scorciatoie linguistiche, che si accende la calma remissiva, si spegne il tumulto, lasciando si insinui la voglia di essere travolto dall’avventura, piuttosto di dominarla. Ho sperimentato che per quanto programmo alla perfezione, sono in balia di una serie d’incognite capaci di rallentarmi o addirittura di bloccare il cammino. Nel tempo di percorrenza, ogni dettaglio sarà bello, interessante e degno di essere raggiunto sulle orbite dei miei pedali. A due settimane dalla partenza inizio la preparazione del bagaglio. La scelta dell’abbigliamento è importante e non deve tralasciare l’ipotesi del bagnato, del caldo torrido, del freddo tagliente, e queste ipotesi appesantiscono le borse. La divisa ufficiale è quella di un colore azzurro sgargiante, una salopette della Sportful con le bande tricolori, una maglia bianca con la scritta azzurra “Italia”in rilievo e infine cappellino e calzini sempre con i medesimi ricami. Un azzardo considerando la mia partenza simultanea con l’inizio del campionato mondiale di calcio brasiliano e per combinazione sarò in Inghilterra nel giorno in cui si scontreranno nella prima fase del torneo, la squadra italiana contro quella inglese. Metto in valigia anche un’altra salopette corta, una divisa lunga, la giacca antivento, due maglie di cotone, tre mutande senza cuciture, due paia di calzini corti e uno lungo, guanti leggeri, un paio più pesanti, un cappello per il freddo, una tuta leggerissima per le uscite serali, un paio di scarpe da ginnastica. Sistemo quindi il corredo per la pioggia, composto da pantaloni idrorepellenti e il poncho, un rotolo di pellicola per alimenti per avvolgere le scarpe, con un rotolo di nastro isolante per fissarlo in modo che non si apra. Questa pratica spartana, già collaudata, sopperisce alla difficoltà nel reperire soprascarpe impermeabili a basso costo. Tra le altre novità di questo viaggio, c’è la dotazione di una bottiglietta contenente detersivo specifico per il bucato, perché lavare i vestiti la sera con lo shampoo o con il sapone non garantisce una buona riuscita, mentre con questo sistema, verso quanto basta sui panni sporchi, lascio in ammollo in acqua calda il tempo di uscire a cena e al ritorno dopo una bella sciacquata, il lavoro è fatto. Strizzo, stendo e il mattino, solitamente, è asciutto. Piccoli dettagli valutati insignificanti, assumono un peso specifico elevato fino a quando non trovano risoluzione o sistemazione nel complesso veicolo messo in azione. La tecnologia della comunicazione, l’elettronica come supporto di memoria, come strumento di navigazione sono indispensabili per continuare a intrattenere un contatto con chi resta a casa e non deve essere tagliato fuori dalla mia passione. Mi serve anche per immagazzinare quattrocento ore di 8
passaggi in equilibrio, tra i confini delle otto nazioni dove non posso smarrire la rotta trasportato dall’immensa vastità degli orizzonti. Anche in questo frangente la semplificazione è d’obbligo e se un computer portatile può essere utile per scrivere i rapporti giornalieri, guardare i social, postare le foto e salvare le tracce, di contro il peso è un deterrente importante perché un chilo e mezzo per mille miglia sono energie importanti. La soluzione sta nell’evoluzione tecnologica dello smartphone che consente di fare tutto con un unico strumento, ad eccezione dello scrivere. Trovo quasi impossibile battere un testo sullo schermo touch, e per questo motivo mi sono dotato di una semplice tastiera esterna molto leggera e resistente. Unico neo del “telefonone” è la durata limitata della carica elettrica che nell’uso spinto si esaurisce in circa sei ore e alla quale faccio fronte con una potente batteria esterna, appianando l’inconveniente. Ecco allora trovare posto nello scomparto del bagaglio dell’elettronica la batteria esterna, la tastiera e un paio di cuffiette di riserva se dovessi accidentalmente strappare quelle indossate (già successo mentre pedalavo durante un precedente viaggio), lo smartphone, tre caricabatterie e una batteria di riserva per la macchina fotografica, assieme ad altre due schede di memoria, per una capacità complessiva di venti giga. Spesso, guardando le vetrine dei negozi di fotografia, m’incanto a guardare modelli reflex dalle prestazioni eccezionali, ma per quanto m’ingolosiscano, resto fedele al modello compatto di cui sono dotato. La mia Samsung permette di scattare completamente in automatico, e allo stesso modo in manuale, regolando ogni dettaglio fino anche alla potenza del flash, ha uno zoom veloce e affidabile, la messa a fuoco precisa e un’impugnatura che consente di fare tutto con una mano soltanto, e questo particolare, permette di pedalare e scattare. Con una reflex da un chilo, sicuramente le foto sarebbero migliori, ma la maneggevolezza sarebbe pressoché nulla. Il necessario per la toeletta è ridotto al minimo, confidando sulla presenza nelle strutture di quello di cui avrò bisogno per una buona igiene e pulizia, ma non trascuro di impachettare mezzo rotolo di carta igienica per le emergenze in itinere, fuori di stanze dotate di comfort. Dentro una busta inserisco dei farmaci antinfiammatori, un disinfettante e un paio di garze nella speranza di non doverli mai usare, chiudendola a sua volta nel sacchetto dei prodotti da bagno. In buona sostanza il bagaglio è pronto e organizzato, non resta che attendere la data di partenza. Intensifico le uscite cercando la prestazione sportiva e in palestra mi dedico a qualche esercizio specifico per le gambe, con le macchine, ma sembra ormai che 9
il calendario abbia infilato uno scivolo senza freni, arrivando a venerdì sei giugno quando inizia il conto alla rovescia di una settimana alla partenza. Ormai è inutile stressarmi, mi rilasso con brevi uscite, cercando di smorzare il più possibile l’ansia dei preparativi. Si accalcano alle porte dei dubbi e delle angosce, pensieri preoccupanti di carte bancomat smagnetizzate, di tessere sanitarie scadute, di cuscinetti usurati che forse era meglio cambiare, ma rimandati subito al mittente con una buona dose di fatalismo. Martedì, preparo la bici alla partenza chiudendola nello scatolone gentilmente procurato dal negozio per ciclisti Cottur, quello al quale mi rivolgo per gli acquisti dei ricambi. L’operazione in sé è abbastanza semplice, perché lo smontaggio è limitato ai supporti dei bagagli, ai pedali e al manubrio. Le ruote, sgonfiate affinché non esplodano nel bagagliaio non pressurizzato, vengono via in un secondo e trovano alloggiamento al lato del telaio. Colloco il manubrio staccato dalla pipa, legandolo sulla forcella e i pedali sul fondo dentro la sacca degli attrezzi. Sfrutto due rotolini di cartone in prossimità dell’attacco ruota, sul carro posteriore e sugli steli della forcella, per evitare un fatale danneggiamento delle aperture dovute a eventuali compressioni, sistemando all’interno anche buona parte del vestiario, considerando che nella confezione, è consentito inserire fino a trenta chili di materiale. Chiudo i lembi di cartone e sigillo il tutto con il nastro da pacco, lasciandolo appoggiato al muro fino al momento di caricarlo nella macchina per andare all’aeroporto. Nell’osservare per un secondo il lavoro svolto, ho l’evidenza di uno dei lati positivi del viaggiare, quello di fare qualcosa senza pensare eccessivamente fino alla fine del lavoro, quando a bocce ferme mi rendo piacevolmente conto di come si è sviluppato.
Mercoledì 11 Giugno 2014 È la serata dei saluti, organizzata in una in pizzeria con le persone importanti di tutti i giorni. Mi augurano di fare buon viaggio, consumandosi in raccomandazioni di ogni tipo. Tagliando la pizza si delinea l’immagine di una 10
clessidra incapace di arrestare il flusso di sabbia verso l’ampolla inferiore, contemporaneamente alla risalita della certezza che al risveglio del mattino seguente saranno soltanto due i giorni a dividermi dalla linea di partenza. (Play Ain’t No Sunshine-Tom Jones) Giovedì 12 Giugno 2014 La vigilia di inizio viaggio è di calma piatta, di lentezza adrenalinizzata. Per quanto cerchi di vuotare la mente, il pensiero è ricorrente, e scivolo su internet alla ricerca di una conferma del meteo o di altre notizie riguardanti la certezza del volo. Venerdì 13 Giugno 2014 Il giorno dopo, è quello dell’agognata partenza, sono felice, entusiasta. Anche se i più superstiziosi non vedono questa come una data favorevolissima per la cabala, non vedo l’ora di scattare dalla pista a bordo dell’aereo e di cominciare a pedalare contromano in Inghilterra una volta giunto a destinazione. Carico la bicicletta confezionata nel bagagliaio della macchina. La grande scatola si manifesta in tutta la sua enormità quando chiudendo il portellone posteriore della monovolume, il vetro si appoggia sullo spigolo superiore del cartone. Sono pronto, già vestito per la prima pedalata in terra inglese, visibilmente emozionato. Scatto le prime foto, immortalo l’automobile farcita, concedendomi al flash di un paio di primi piani decorati con sorrisi da cartolina. Tiziana scalpita, ma si trattiene, cerca di non cedere all’emozione incoraggiandomi, e mi interroga sulla completezza del bagaglio, raccomandando di chiamare per comunicare spesso notizie. Purtroppo, saranno chiamate brevi, perché il tipo di promozione scelta consente quindici minuti al giorno in ricezione e altrettanti in chiamata, a differenza della possibilità di chiacchierare a lungo dentro i confini del territorio nazionale. Il volo partirà alle dieci e trenta e devo essere in aeroporto due ore prima per sbrigare comodamente le operazioni d’imbarco, e per arrivarci, sono accompagnato, da Manuela, l’ex moglie con la quale sono rimasto in buoni rapporti, giacché Tiziana non ha la patente di guida e mi serve la cortesia di qualcuno per riportare la macchina nel parcheggio sotto casa. Arriva alle sette e trenta, parcheggia lo scooter e ci scambiamo tutti il buongiorno, prima di metterci sulla via dello scalo aereo. La carreggiata è sgombera, il traffico è inesistente e l’area di sosta davanti all’ingresso risulta deserta. Mi sento goffo, emozionato, impacciato nel far uscire l’enorme pacco 11
contenente la bici. Lo sollevo per le maniglie per attraversare il vialetto, m’introduco tra le porte scorrevoli dell’aereo-stazione scortato dalle due amazzoni mentre spingo il cartone sul marmo del pavimento, fino alla zona del ceck-in. Guardo in alto, sopra i banchi delle compagnie aeree i display indicanti i voli, scorgendo già riportati in quello della Ryanair i dettagli che cerco. La signora al banco, mi accoglie con gentilezza, controlla i miei documenti e applica il talloncino sul cartone, consegnandolo ai fattorini preposti al caricamento del voluminoso bagaglio. È fatta. Sono libero di rilassarmi, di offrire un caffè alle ragazze che parlottano e scherzano, raccomandandomi ancora di divertirmi, di stare attento a non strafare, di farmi sentire per comunicare notizie, pensando a chi aspetta con trepidazione a casa. (Play Give It To Me-Busta Rymes ft Mariah Carrey) - Arriva il momento di andare oltre il controllo del metal detector, di un ultimo saluto per andare ad accomodarmi nella sala d’aspetto, che lentamente si riempie. La regola del vettore, sul trasporto del bagaglio a mano, ha fatto letteratura, se così si può dire. Le misure sono quelle determinate da una dima, dove inserire la valigia e se il volume non rientra nei limiti, sussiste l’obbligo d’imbarcare la valigia in stiva con un costo che si aggira sui cinquanta euro. Le hostess non transigono, aggiungendo io, a ragione. Si presentano viaggiatori con valigie grandi come container e tentano di farle entrare tra le resistenti sbarre di metallo della dima, ovviamente senza riuscirci. Sono però fortunati perché la tolleranza è cambiata, le hostess sono accomodanti e invitano i disattenti a imbarcare gratuitamente in stiva gli eccessi al fine di non ingombrare le cappelliere poste sopra i sedili e nonostante questa facilitazione qualche passeggero cerca di evitare un’operazione che potrebbe far perdere secondi preziosi una volta giunti a destinazione. Il personale ha comunque potere incondizionato di veto e quindi tutti si adeguano alle direttive. Mi siedo davanti alla vetrata dirimpetto alla pista contemplando l’atterraggio dell’aereo dal dorso blu. Dopo aver scaricato i passeggeri in arrivo, è preso in cura dal personale di terra, che limita lo spazio tecnico, allaccia i rifornimenti ai serbatoi, provvede alla pulizia della carlinga mentre dalla pancia bianca escono le valige a formare un delizioso patchwork sul trenino destinato al ritiro. Quando ritorna sotto il nastro trasportatore, è carico dei bagagli del popolo dei partenti e il mio scatolone è il primo a salire trovando alloggiamento nel buio della caverna in prossimità dell’ala. Osservo il facchino 12
aeroportuale ghermire le prede per farle sparire nella pancia dell’aviogetto che digerisce il suo pasto. Scalpitano donne e uomini volanti, si accalcano al nastro di partenza in attesa della luce verde e quelli con il biglietto d’ingresso prioritario da una fila laterale sono i primi a tracciare una rotta, suscitando l’invidia di quelli in possesso del ticket normale. Non comprendo l’impellenza, considerando che tutti hanno una poltroncina assegnata e viene meno l’autorizzazione alla partenza fino a quando tutti, sono saliti. Assisto a una curiosa marcia giù per le scale a chiocciola e poi ancora sulla pista. Questa non dovrebbe trascendere in una corsa, ma i passi sono accelerati e le occhiate di vista laterale per controllare i rivali si sprecano. Raggiungo gli ultimi, come me indolenti e calmi, arrivando alla scaletta mobile dove i precipitosi sono di nuovo in fila e chiudo l’ingresso come passeggero finale, accedendo dal portellone dell’aereo, per andare ad accomodarmi al posto finestrino, sulla tripla poltrona blu inglobata nel torpedone volante. Siamo già in ritardo di un’ora sull’orario di partenza del volo. Inizia il teatrino dei mimi animato dalle hostess, illustranti le procedure di sicurezza in caso di disastro, ma finita la rappresentazione si resta fermi in attesa di non si capisce cosa. I passeggeri iniziano a spazientirsi chiedendo spiegazioni al personale ravvisando sfumino tutte le coincidenze di trasporti verso la destinazione finale all’arrivo. La ragione del ritardo è motivata in inglese, stile capitan on board, dagli altoparlanti sopra le nostre teste con un problema di sovraffollamento delle aerovie. Comunque, alla fine ci si avvia al decollo, dopo la raccomandazione di spegnere le apparecchiature elettroniche. L’aereo si posiziona, fischia rabbioso tra mille sussulti, spinge e poi stacca salendo in quota sopra il litorale baciato da un sole generosamente luminoso. M’incollo al finestrino cercando di capire il mio azimut sulla terra, riuscendo a identificare, dove possibile, le strade da ricalcare pedalando. Tentativo però vanificato dalle nubi sulle Alpi che nascondono e rivelano sprazzi di difficile interpretazione. Riesco a distinguere con chiarezza il lago di Costanza, adagiato in un’immensa conca circondata da rilievi e da quassù, appaiono abbordabili. Poi finiti i massici alpini, sorvoliamo la vastissima pianura tedesca ma qui, a causa dell'altitudine come anche per una leggera foschia, mi riesce impossibile dare una collocazione ai punti di riferimento del territorio. Più che un aereo, questo sembra un pullman, all’interno del quale si promoziona di tutto. Coltivo il sospetto che il ritardo sia stato anche un po’ pensato in funzione dell’orario del pasto, per vendere panini e snack di ogni tipo. Il cibo costa abbastanza e i conti sono presto fatti: siamo circa centottanta passeggeri e 13
ognuno spende più o meno dieci euro, ed ecco allora la cifra farsi interessante. Osservo le persone mangiare, e lo fanno soprattutto per impegnare il tempo. Acquistano cibo spazzatura per riempire un paio d'ore con il masticare compulsivo. Ora "The Capitain" ha annunciato la virata sopra Ostenda sulla direttrice di Londra, prevedendo poi un atterraggio morbido entro la mezz'ora a Stansted, dove il tempo è buono. Mi sembra di scorgere la Manica in lontananza. Aspetto con ansia di rimontare la bici e cominciare, le gambe scalpitano mentre qui ad alta quota stappano Pepsi e divorano hamburger. Sì, lo confermo, vedo l'Inghilterra! Scavalcata la Manica, il vettore perde quota, si assesta su una planata dolce, quasi impercettibile, scendiamo fino a riuscire a contare le diciotto buche di un campo da golf e poi vedo sfilare quella che sembra essere la pista dell'aeroporto destinata all’atterraggio. La prende larga, si porta sulla giusta direzione e si poggia a fior di pista senza sussulti. Aerofreni in funzione, fermata al parcheggio. Siccome siamo già in notevole ritardo, pensano bene di trattenerci, immotivatamente ancora un quarto d'ora a bordo, poi finalmente si sbarca. Atterranno aerei di continuo, il caos è ovunque e l’incertezza domina sovrana con tutta una serie di domande: troverò la scatola della bici, la estrarrò tutta intera, sarò abbastanza attento nella guida a sinistra? Si cammina come un’immensa mandria, si arriva alle porte di un trenino, e tutti si accalcano per salire mentre il succitato caos è diventato biblico perchè la folla si accalca per il controllo dei documenti. Altra mezz'ora persa e infine, riagguanto il cartone trascinandolo fuori dalla stazione. Mi metto in un angolo, dove trovo anche un contenitore dei rifiuti nel quale buttare la scatola, una volta rimontata la bicicletta. Con facilità installo il manubrio e il portapacchi, gonfio le ruote e sistemo i bagagli, quindi telefono a casa avvertendo di essere finalmente pronto alla prima pedalata di ritorno verso il punto di partenza. Entro nuovamente nello scalo, questa volta spingendo la bicicletta, per fare un prelievo di sterline (80 sterline sono esattamente 103, 5 euro) e per comprare 14
qualcosa da mangiare. Prestando attenzione all’appetito, acquisto nel self market, un piatto pronto di pasta con i gamberetti e una bottiglietta di Doctor Pepper, la bibita gassata al gusto di ciliegia. All’esterno, sotto la gigantesca pensilina che corre lungo tutta l’aerostazione, chiedo a un solerte inserviente dello scalo, la direzione da seguire per arrivare a Londra e m’impedalo. Il primo approccio con la lingua è stato positivo e malgrado un momentaneo imbarazzo, il gesticolare dell’interlocutore, unito ai suoni, ha creato nella mia testa l’informazione voluta. Come spesso capita, le strade sono pensate per le macchine e nel caso specifico, uscire dalla zona aeroportuale di Stansted non è uno scherzo. Ci metto pure che guidare nell’altro senso è innaturale e agli incroci devo moltiplicare l'attenzione per evitare di fare manovre pericolose. Il cielo è azzurro, dominato da un sole raggiante che rende l’aria estiva. Cerco un posto adeguato a sfamarmi e lo trovo sotto la tettoia di riparo della fermata del bus e seduto sulla panchina, inizio la caccia ai gamberetti nascosti tra i fili di pasta. Stento nella ripartenza, ho una sorta di timore reverenziale, condito da folate d’adrenalina, spinte dall’incredulità nell’essere proiettato verso un viaggio infinito. La pasta si esaurisce in concomitanza con la sensazione di sazietà, rilascio rumorosamente l’anidride carbonica della bibita e ripongo le posate nelle tasche delle borse posteriori. È tempo di musica, di immersione sincrona tra battute e giri di pedali, infilo il jack, indosso le cuffie. (Play Javi Mula – Come On). Un paio di volte, dopo avere iniziato un tratto del viaggio verso la capitale inglese, finisco per immettermi su arterie di scorrimento vietate alle biciclette e se la mappa cartacea mostra i suoi limiti, il navigatore dello smartphone si dimostra indispensabile al fine d’indicarmi le svolte da compiere. Omette, però, di descrivere la qualità del manto, a tratti asfaltato e in altri sterrato, come l’esistenza delle buche, spesso insidie molto pericolose.
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Il primo centro abitato di una certa consistenza è Bishop's Stordford, che si esibisce nelle case inglesi da cartolina, garantendo una pedalata tranquilla sulle strade assolate. Sono le tre del pomeriggio e alle fermate degli autobus i ragazzini attendono i mezzi per rientrare a casa. Sono vestiti con le divise scolastiche identificanti l'appartenenza e trovo piacevole questa visione ordinata a differenza di quello che si vede troppo spesso fuori dai plessi scolastici nostrani. Compio un giro veloce fino alla chiesa e imparo che molto spesso nel retro di ogni chiesa inglese trova luogo un cimitero. Passo davanti a una serie di pub listati da bandiere inneggianti alla nazionale casalinga, che si scontrerà con l'Italia nella partita di sabato e un paio di persone dalle macchine suonano al mio indirizzo per sfottermi. Vesto la salopette corta della Sportfull con i colori della nazionale e la maglietta con la scritta Italia in bella mostra. Un po' per scaramanzia e un po' per evitare poco diplomatiche controversie, acquisto all’edicola Martin’s (al 45 di South Street, Bishop’s Strortford, Hertfordshire), per cinque sterline, una bandierina inglese e la fisso sul bagaglio. Il viale, appare come la riproduzione vivente di un disegno dei libri scolastici per imparare l’inglese, perché ci sono le attività commerciali con le insegne, le vetrine con messaggi pubblicitari e ogni dettaglio sembrano abbia appiccicato un’etichetta con il nome e la traduzione. È un impatto pieno d’effetto, una ventata di novità unita alla sensazione sbalorditiva di essere appena all’inizio. Esco dall’abitato tenendo una media di venticinque l’ora. La carreggiata è in maggior parte in discesa, regalandomi un viaggiare disinvolto ma non essendoci un sufficiente margine di sicurezza al lato della carreggiata, cerco di calcare la righina bianca. Il sole illumina la campagna verdeggiante coprendola con un velo dorato, il cielo sgrana nuvolette bianche belanti su praterie celesti, ma nel distrarre lo sguardo su questa bellezza, prendo una buca spigolosa in velocità e il rumore del colpo, genera il deciso sospetto che 16
una foratura, alla fine sarà il costo per la disattenzione. È notevolmente piacevole viaggiare con la sensazione di essere qui, di avere organizzato questa trasferta nel Regno Unito, di non avere avuto problemi con il montaggio della bicicletta, collezionando le prime miglia sotto un sole inaspettatamente così caldo. Nei pressi di Eastwich provo a percorrere la pista ciclabile segnata, ma in definitiva corre lungo la statale compiendo una serie di giri tortuosi attorno alle rotonde disseminate sul cammino. Oltretutto essendo dei tracciati stretti tra case e giardini molto graziosi, portano a distrarmi e dimenticandomi della guida a sinistra, al ritorno sulla carreggiata inizio a percorrerla come d’abitudine, sul lato destro, rischiando un frontale con il conducente di un furgone sbucato da dietro una curva cieca, prendendo giustamente una sgridata in tutte le lingue del mondo. Mi scuso ma ormai, fortunatamente, siamo lontani e mi concentro sulla guida, ripromettendomi maggior attenzione. Se avessi avuto soltanto la cartina, sarei ancora adesso sperduto tra le viuzze che s’incrociano nella zona, ma il navigatore dello smartphone e l’applicazione di Runtastic sono fenomeni da prima pagina, riuscendo a farmi districare il percorso per scorciatoie e passaggi essenziali. Sfrecciando tra gli agglomerati urbani arriva nel naso l'odore della frittura che allarga lo stomaco, perciò non appena riesco, sosto davanti a un locale poco distante da Swanbridgeworth, dove ordino il classico Fish&Chips. (Play Mi Mi Mi- Serebro). È un locale per asporto, ma dispone anche di alcune sistemazioni dentro e fuori. Due indiani si prodigano nella friggitoria dantesca, spadellano e preparano velocemente, con maestria. Mi viene servito un cartone ricolmo di patatine con un pescione panato da mezzo chilo. La televisione del locale trasmette una partita dei mondiali, provo a sedermi dentro, ma il caldo è insopportabile, pertanto delibero di sedermi all’esterno. Fotografo il banchetto fuori orario e mangio appena qualcosa, evitando di ingozzarmi con il rischio di sovraccaricarmi e riparto. Inizia un saliscendi pesante affrontato istintivamente con una gamba scattante, cominciando poi a controllare il giro pedali, manovrando oculatamente il cambio in previsione di diciassette giorni da gestire con diligenza. Senza quasi accorgermene supero le località individuate in precedenza sulle mappe. Molte delle case affacciate sulla via di scorrimento, sono a 17
due piani, riunite in agglomerati ordinati di circa una decina di unità, differenziate a volte soltanto per la tinteggiatura esterna. Ci sono i pub, addobbati in occasione del torneo a renderli ancora di più inglesi e le attività commerciali dei centro urbani, animati dai clienti, che manco farlo apposta sono inglesi anche quelli ! Abbandono la Strada B194 per addentrarmi nel Lee Valley Regional Park, il luogo in cui il River Stort si allarga formando una serie di bacini naturali, sede di una ricca fauna e di una vegetazione rigogliosa. L’arteria è larga, ben segnata con un fondo compatto ma dopo cinque chilometri, si torna nel traffico che sembra diventato folle. Mi fermo dietro a una coda interminabile a un semaforo, superata ponendo attenzione a non creare disastri e con immensa sorpresa mi trovo ad affrontare poco più avanti, un gran premio di Bike Rally. Accade che la superficie non sia asfaltata e gli amministratori, hanno deciso di stendere al posto di una finitura compatta, un manto di ghiaia. Succede che non posso tenere un’andatura da passeggiata, ma devo correre perchè i Land Rover dietro scalpitano e quando riescono a passarmi, sollevano un gran polverone che mescolato al mio sudore forma uno strato di fard in crema, da sogno. Il Polverland dura una decina di chilometri, arrivo all'abbazia di Waltham, dove faccio degli scatti interessanti, sfruttando la piacevolezza delle infiorescenze di un giardino curatissimo. Una decina di chilometri più a sud, dopo una curva, vedo la skyline di Londra, e inizia un traffico spasmodico su strade sempre più ampie. Le indicazioni precise latitano, mi aiuta tanto il navigatore e qualche informazione carpita ai passanti con il mio parlare Italo-English. Un ciclista gentilissimo m’immette sull’unica via diretta dotato di un marciapiede che funge da ciclabile. L’idea di chi ha pianificato questa pista, sembra essere limitata al tratteggiare linee e appendere cartelli ma in pratica si tratta di asfalto rubato a camion e autobus. La via si anima di case sempre più imponenti, di negozi e di gente. Sono entrato a Totthenahm, dove i bianchi sono meteore passanti in un universo di razze africane e orientali. Sembra il Bronx di Starsky&Hutch con capannelli di uomini in giacche di pelle, 18
presi dalle chiacchiere gesticolanti, alternati a frotte di donne animanti botteghe da parrucchiere e market pieni di gente che compra merce per fare la cena. Sono le diciannove, ora di Londra e devo darmi da fare per trovare una stanza. Leggo la scritta “Rooms” sull’insegna di un pub, appoggio la bici sul muro di fianco l’ingresso ed entro sfoderando capacità linguistica con Rosa. La ragazza fortunatamente è italiana e riesce a liberarmi dall’imbarazzante balbettio chiedendomi se cerco una sistemazione. Annuisco e domando se hanno qualche stanza libera. Purtroppo, loro non offrono più stanze da tempo e l’insegna è soltanto qualcosa che si fatica a tirare giù e correggerla, ma si attacca al telefono chiamando alcuni suoi conoscenti, fino a quando trova la stanza, in un ostello poco distante. Ci facciamo scattare una foto ricordo da un cliente e saluto. Avviandomi verso l’ostello, con la luce notevolmente, calante do una palpatina alla gomma posteriore trovando conferma del calo di pressione. Percorro a ritroso un paio di chilometri arrivando all’ ingresso di un edificio di due piani in mattoni rossi al 724 di High Road, ospitante il pub Bell&Hare e l’ostello della catena No8 (www.no8hostel.com). La ragazza della reception sta guardando la partita Australia- Cile, e vede soccombere gli oceanici per tre a uno, penando per un suo conoscente impegnato in campo a risollevare le sorti del team australiano. Avvertita da Rosa del mio arrivo, mi assegna una stanza al secondo piano e consegnandomi le chiavi, ricorda il costo di venti sterline, con il deposito cauzionale di altre venti, corrisposte prontamente. Mi porta su per una stretta scala, verso la stanza che appare ordinata ed essenziale, mi sistemo e poi vado subito a lavare via la polvere del viaggio nella doccia in comune, prima di uscire per la cena. Estraggo dalla valigia il corredo elettronico con l'adattatore per le prese elettriche inglesi e alimento la batteria supplementare che ha fatto con dovere il suo compito. Sono stanco ma vado a immergermi ugualmente nel British night World, in giro per Tottenham a piedi, nello spazio che ha amalgamato gente arrivata da ogni angolo del pianeta.
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(Play Bright Lights Bigger City-Cee Lo Green) Luci splendenti, città immensa C'è stato un tempo in cui ho vissuto solo per il fine settimana ma no, non lo faccio più perchè nell'aria c'è un'emozione familiare quella per il quale il venerdì è famoso. Sto cercando un po' d'azione ed è là fuori da qualche parte, riesci a sentire l'elettricità? È tutto nell'aria della sera e potrebbe essere di più ma a volte vuoi andare in posti dove tutti conoscono il tuo nome, quindi credo che dovrò aspettare e vedere ma permetterò che qualcosa di nuovo mi accada E va bene, va bene...luci splendenti e città immensa appartengono a noi, stanotte
Davanti a un supermarket ci sono dei poliziotti a sorvegliare il perimetro nastrato, set di una rapina e più in là, nel giardino di una steckhouse una donna litiga con dei clienti ad alta voce. Tutto il resto è tranquillo e sereno, passeggio e alla fine mi accomodo in un ristorante cinese per mangiare riso e carne. Di inglese qui c’è davvero poco. Torno in stanza con l'intenzione di scrivere qualcosa ma la stanchezza ha il sopravvento e mi butto sul letto per dormire. Ho realizzato meno chilometri del previsto a causa delle due ore di ritardo del volo e del normale acclimatamento, ma non me ne preoccupo più di tanto. Sabato 14 Giugno 2014 (Play- Voglio Vivere Così-Pavarotti&Friends) È il mattino del nuovo giorno. Mi sveglio alle sei, dopo una nottata tranquilla sulla branda di sotto di un letto a castello, racimolo indumenti e accessori preparandomi per la partenza, con il volenteroso intento di recuperare sui chilometri non fatti il giorno precedente, ma una volta sceso nel pub, trovo il bancone del bar sbarrato da saracinesche e tutto il resto del locale appare desolatamente vuoto. Nell’attesa di capire cosa fare, inizio a rimontare le borse 20
sulla bici sentendo la ruota dietro quasi del tutto sgonfia, segno che la buca presa il giorno prima ha provocato un microscopico taglietto. Non ho voglia di sostituire la camera d'aria decidendo di provare a rigonfiarla, verificando se tiene. Infine, leggendo una nota sulle regole della casa, ho l’amara certezza che la reception apre alle nove, ed essendo appena le sette, mi chiedo cosa fare. Sicuramente non posso aspettare i comodi degli altri, perchè per me due ore sono quaranta chilometri di ritardo. Il telefono con cui mi metto in contatto, squilla dietro le saracinesche abbassate e nessuno circola nell'ostello. M’infastidisce sopra ogni cosa non ritirare le venti sterline di cauzione e sono contrario a lasciargliele, quando fortunatamente la soluzione di compromesso arriva all’improvviso, nel momento in cui scende nel pub un ragazzo croato di Pola che sta preparandosi alla partenza, proponendogli di lasciare a lui la chiave in cambio di dieci sterline, la metà della cauzione. Tituba per un attimo e poi accetta lo scambio di favori. Ho perso mezz'ora ma alle otto sono immerso nel traffico, seguendo la rotta del prezioso navigatore. La ruota dietro tiene la pressione e ogni tanto la controllo. Percorro la Camden Road, passo sotto il ponte blu della ferrovia, andando a fermarmi al numero 35 ospitante un bar della catena Costa( www.costa.co.uk ). Per la mia colazione all’italiana in terra inglese, scelgo un cappuccino bollente da mezzo litro, servito in un bicchiere di cartone e un croissant caldo, per la modica cifra di tre sterline e settanta centesimi. Seduto sulla sedia d’alluminio, osservo dapprima la bici parcheggiata di là della vetrina, immobile e fiera, pronta per il percorso che ci attende, poi guardo con curiosità le banconiere e i clienti avvicendarsi al banco mentre aspetto che la temperatura del caffè scenda. Rifocillato e contento di essere prossimo al centro della City, esco sotto un cielo biancheggiante. Oggi, la temperatura si aggira sui ventidue gradi, consentendomi di indossare il corto e non dovrebbe piovere ma il proverbiale clima inglese non si deve mai dare per scontato, aspettandomi il caratteristico, direi quasi turistico, acquazzone. Il viale è trafficato, mezzi privati e taxi sfrecciano tra le corsie padroneggiate dai moderni ed enormi autobus rossi a due piani (DoubleDecker). Questi mezzi pubblici hanno sostituito i 21
vecchi e tradizionali mezzi che continuano a prestare servizio solo su due brevi itinerari caratteristici del centro. Lo stile architettonico muta all’improvviso, passando dalle linee pulite, squadrate ed essenziali di un paesaggio periferico che s’innalza fino a un massimo di tre piani, agli edifici vittoriani con i colonnati e le ampie finestre, affiancati a palazzi imponenti. Dopo una rotonda, sulla destra si apre Regent Park, uno dei giardini reali, situato nella parte settentrionale del centro londinese, nella zona di Westminster, un grandissimo contenitore verde che nel confine nord orientale ospita il London zoo, il più antico zoo scientifico del mondo. (Play In The Air Tonight-Phil Collins Unplugged) L'anello circondante l’area verde, è destinazione di runner, come di ciclisti impegnati nell’allenamento tirandosi le scie accodati in gruppi. Dirigendomi nel cuore del parco, rimango deliziato da un tripudio traboccante di rose d'ogni varietà e colore che espandono nell'aria un effluvio delicato e dolce. Chi viaggia con i mezzi a motore ha l'indubbio vantaggio della velocità, ma la bicicletta consente di trovare scorciatoie insolite, arrivando a visitare con maggior profondità luoghi come questi attraversati con umana lentezza. Lasciato alle spalle il parco, approdo in un attimo a Piccadilly Circus. Ovviamente felice, come un ciclista a Londra, mi sbizzarrisco nell'autoscatto, sbrigando infine le pratiche souvenir e gadget, in uno dei tanti chioschi. Il tempo stringe, devo ottimizzare il tragitto perchè non sono a fine corsa, anzi, devo ancora cominciare. Scendo lungo la via Pall Mall, percorrendola sul marciapiede, mi entusiasmo per l’eleganza dei palazzi, giungendo poi nei pressi di un drappello di turisti impegnati a tormentare al saint James’s Palace, due guardie in giubba rossa con valanghe di fotografie e pose da cartolina. Progressivamente la folla accresce di numero, sfilano pattuglie di poliziotti in motocicletta nella Malborough Road, presidiata da posti di blocco della polizia dedita a un meticoloso controllo delle borse dei turisti. Sono sul “The Mall”, il lungo viale cerimoniale che unisce l’Admiralty Arch, presso Trafalgar Square, a Buckingham Palace. I marciapiedi sono transennati e presidiati e due ali di pubblico si assiepano velocemente alle balaustre, intente a scattare foto al reggimento di giacche rosse in gran parata. Chiedo a un bobby, un poliziotto, il motivo della festa e mi spiega che oggi, sabato 14 giugno, ricorre la festa di 22
compleanno della regina che a breve uscirà da Buckingham Palace in macchina, per recarsi al palazzo del governo. La sfilata militare, accompagnata dalla banda, suscita grande ammirazione, la folla applaude e poco dopo, osannato da sudditi e turisti, passa il blindatissimo corteo regale. Riesco a cogliere poche immagini tra le teste sovrastanti, ma è comunque una emozione squassante, folle e medito sulla fortunata occasione di essere casualmente capitato, in questa spettacolare festa di compleanno. Districandomi tra la folla, riesco a sgattaiolare a Trafalgar Square, scatto rapido le foto, e piglio la direzione del Tamigi per immortalarmi con il Big Ben. Non è facile riuscire a montare i mini-set da foto, regolare l’autoscatto, correre a dispormi in posa e controllare l’esito, ma dopo un buon numero di tentativi ho il mio selfie, spedito immediatamente su facebook e anche un paio di scatti buoni con la fotocamera. Play One Way Or Another-Blondie (in un modo o nell’altro ti avrò..) Riprendo un buon numero di fotogrammi anche sul ponte di fianco a Westminster allietato da un caratteristico suonatore di cornamusa in kilt scozzese. Le strade sono intasate da mezzi a motore, intrappolati nei divieti predisposti per lo svolgimento della celebrazione vista poco prima. Prendo a costeggiare il lato sud del fiume, nella zona pedonale, passando sotto il London Eye, e ogni dettaglio mi distrae, mi prende, mi arresta e non riuscendo a rinunciare ad alcun foto-trofeo, catturo altezza e larghezza di ogni visuale, di ogni colpo d’occhio. La sponda opposta del fiume è seducente, propone palazzi immensi e fantasmagorici, che sembrano usciti da un disegno onirico senza freni, con forme e volumi accatastati tra loro, disposti in un caotico ordine. Ogni metro di marciapiede racconta di storie uniche sulle quali soffermarsi un secondo è impossibile. Passo il teatro Shakespeare’s Globe, la corazzata Belfast e arrivo alla City Hall. Il Tower Bridge è per un breve momento luogo di arrivo ma lascia intendere che il Tamigi non termina lì e anche se ora l’ambiente diventa meno turistico e più metropolitano, i magazzini del porto fluviale 23
rimodernati sono in grado di estendere un fascino continuato. Inizia a scendere una pioggia sottile ma fissa, diventa sempre più spessa e osservando il rotolare di nuvole basse, deduco siano folate di passaggio. Considerando come sia abbondantemente passato mezzogiorno, in attesa dell’evolversi del meteo, sosto al ristorante-fast food “Servewell cafe” (al 14 di WestLane) per gustare un piatto a base di roastbeef, ovviamente all'inglese. Con la pancia piena e l'appetito soggiogato, regolo alla cassa dodici sterline. Uscito all’aperto, vicino al monumento commemorante i civili caduti durante la Seconda guerra mondiale sulle sponde del Tamigi, sistemo le protezioni antipioggia sui bagagli, do una gonfiata alla ruota che perde, indosso il poncho e sperando cessi quanto prima, mi avvio. Fortunatamente, dopo una mezz'ora si riaffaccia il sole quando sono in prossimità di Greenwich, dove immortalo il Cutty Sark (in scozzese: sottoveste), il battello effigiato sull’etichetta di una marca di whisky chiamata con il suo nome. È un clipper lungo sessantaquattro metri, varato nel 1869 per vincere la gara del più veloce vascello per il trasporto del tè e ora fa bella mostra di sé esposto a terra. È stato riaperto alle visite nel 2012 dopo un grande lavoro di restauro in seguito al devastante incendio del 2007. Giro nel parco e passo davanti all’osservatorio astronomico di Greenwich, designato come punto zero per i meridiani, le linee che servono per la determinazione della longitudine della terra, come per il relativo fuso orario. Più avanti, quando m’immetto nel traffico, sto attento a non andare contromano, cosa abbastanza agevole, avendo preso familiarità con il senso di marcia a sinistra. (Play Techno Phoenix - If I Ever Feel Better) Ora devo dare ritmo alla pedalata, mettere da parte il lato turistico e iniziare a mangiare chilometri. La statale per andare a Canterbury è una scelta obbligata perché non ci sono altre vie dirette e corre parallelamente in prossimità dell'autostrada, invitato a imboccarla frequentemente su indicazione di una segnaletica infingarda, pensata per il trasporto motorizzato. Sono aiutato ancora tantissimo dal navigatore che ingrandisce i dettagli delle rotonde che si susseguono. La strada “A2” è un’onda lunga che sale e scende di continuo spezzando il fiato, costringendomi a ricorrenti cambi di ritmo, ma le gambe 24
vanno, l'umore è disteso nonostante debba fermarmi ogni tanto a ripristinare la pressione della ruota. Il tempo è grigio ma anche se non piove, fa freddo tanto da consigliarmi a mettere i guanti. In questo lembo della contea del Kent, la pista ciclabile pensata dagli ingegneri, è la solita striscia bianca costeggiante il bordo e i camion nel tempo hanno rialzato l’asfalto e in seguito frantumandolo, hanno creato sprazzi di ghiaia, pozzanghere insondabili, pietraglia e piccoli dossi. Non rallento, metto più attenzione pedalando spostato verso il centro della carreggiata, controllando nello specchio il traffico per chiudere verso il lato quando si avvicinano i veicoli. Passo attraverso Dartford e proseguendo sulla London Road, mi dirigo verso l’abitato di Swancombe. Dopo un paio di miglia trovo l’incrocio dove l’accattivante pubblicità del centro commerciale Bluewater propone una deviazione verso destra. Si tratta di uno dei più estesi centri commerciali del pianeta, sistemato nel sito dove era operante una cava per l’estrazione di inerti. Dispone di trecentotrenta attività commerciali, tra negozi, ristoranti e cinema, immense sale conferenze e parcheggi a non finire. Mi attira, ma è un posto che fagocita tempo, un attrazione simile alle sirene omeriche tese a far naufragare il buon Ulisse sugli scogli. Per questo motivo, tappo le orecchie con le cuffiette e proseguo. Dura un centinaio di metri, perché a sinistra compare l’immenso ponte strallato, lungo 450 metri, sul Tamigi intitolato alla regina Elisabetta seconda. È un importantissimo elemento della circolazione stradale attorno all’estuario del fiume e si regge su coppie di piloni alti 137 metri. Merita una foto ricordo e senza riuscire a rimettere a posto la macchina, catturo le immagini di un corteo nuziale composto da tre Rolls Royce d’epoca, che passano con signorile baldanza. Arrivato a Gravesand sulla Overcliff road, proseguo nel centro della città, listata a festa, in fibrillazione per l’approssimarsi del fischio d’inizio della partita ItaliaInghilterra. La new Road, la passeggiata centrale dove si affacciano le vetrine dei grandi negozi, è ingombra di bancarelle del mercato, dove si vendono un’infinità di gadget e souvenir. Questo centro abitato si trova sulla sponda sud del Tamigi e dispone di un efficiente porto commerciale indicato dalle pannellature blu 25
disposte sui pali all’incrocio. M’intriga quella indicante “Princess Pochaontas” e catturato dalla curiosità svolto verso la zona del porto. Raggiungo la chiesa di saint’George, dove antistante l’ingresso del luogo di culto, sopra un piedistallo, trovo la statua in bronzo della fiera nativa americana Pochaontas. Pochi metri più in là, una tabella di legno porta incisa la storia della ragazza. Figlia di un capo nativo americano, è stata la prima di essi a visitare l’Inghilterra. Dopo aver sposato in America il colono inglese John Rolfe, navigarono verso Londra assieme al loro figlio di due anni Thomas, nato in Virginia nel 1615. Convertita al cristianesimo, fu battezzata con il nome di Rebecca, per sposarsi religiosamente, e portata in Inghilterra assieme a undici conterranei, per dimostrare agli scettici investitori londinesi che la popolazione poteva essere docile e collaborativa. Fu presentata a corte come la figlia di un re, e nel tempo in cui rimasero a Londra parteciparono attivamente alla vita sociale. Nel marzo del 1617, s’imbarcarono per far ritorno in Virginia, ma immediatamente dovettero sbarcare qui a Gravesand dove Pocahontas spirò forse a causa della tubercolosi. I resti furono sepolti nel presbiterio della chiesa e poco dopo John Rolf riprese il viaggio verso la Virginia affidando il bambino alle cure del fratello Henry. La storia è lunga, affascinante, complicata e più mi addentro, più appassiona. Do ancora uno sguardo alla statua che guarda verso un punto indefinito e la omaggio con un impercettibile inchino, riavviandomi al viaggio. Piccole pedalate a testa bassa, senza aver guardato il porto, con la sensazione di essere stato al cospetto di una storia nella storia, quelle piccole fessure attraverso le quali si possono osservare caleidoscopici avvenimenti. Nuovamente sull’asse viario principale, mi faccio sorprendere dalla riproduzione, alta quindici metri, della Elizabeth Tower, quella del palazzo di Westminster che ospita la famosa campana Big Ben. Iniziato a costruire in pietra bianca nel 1887, si erge solitario al lato sinistro della Harmer Street, commemorando il cinquantenario della salita al trono della regina Vittoria. Ogni metro di percorso ha il suo fascino e mentre lo penso, resto stupefatto dall’ampiezza di una cupola di marmo con decori dorati che svettano sulla sommità. Fa capolino a intermittenza dietro le case sul lato destro della carreggiata. Fatico per trovare la strada d’accesso ma quando mi trovo al cospetto dell’edificio e del parco antistante, inizio a dubitare d’essere in 26
Inghilterra. Come spesso capita, correndo sulle strade provinciali, ho avuto modo d’imbattermi in numerosi edifici di culto, diversi nelle rifiniture, ma nella sostanza quasi tutti somiglianti e lentamente torri e campanili a fianco delle chiese sono entrati nella consuetudine, identificandoli nel territorio del Kent. Ora questo, mi spiazza e rovescia l’abitudine. Arrivo nel piazzale da un viottolo dopo una curva a gomito tra case anonime, senza volto, quasi fossero parte di un percorso sterilizzante, e il frontespizio raggiante del palazzo si manifesta. Sulla destra il viale d’ingresso è in via di completamento e quattro barbuti operai col turbante indiano sulla testa, sfoggiano occhiate di controllo. Sono indaffarati a mettere in guida una porta molto pesante. Colpisce la raffinatezza, la cura del dettaglio, la rasatura uniforme del prato, le mattonelle dei parcheggi. Ad occhio nudo, direi che il palazzo è largo una cinquantina di metri, alto venti e profondo sessanta. La facciata è geometrica, simmetrica ai lati dell’ingresso protetto da un baldacchino di marmo candido, alto quindici metri ed è sormontato da una delle cinque cupole. La più grande, posta al centro della costruzione, è larga diciotto metri. Avverto la solennità del luogo, mi aggiro con rispetto e poggiata la bicicletta, mi avvicino all’ingresso sotto le arcate rimanendo incantato dagli specchi d’acqua azzurra che circondano il perimetro fino ai baldacchini posti ai lati della costruzione. In essi si specchiano i decori orientali, le aperture trifore arabeggianti, e i colori pastello che si addolciscono del riflesso nelle vasche. È il tempio Gurdwara (la porta del Guru) Nanak Darbar di Gravesend. È un luogo di culto del Sikismo, una religione monoteista nata in India e nelle sue regioni si trovano i Gurdwara più famosi. Chiedo a una persona se è possibile entrare per visitare e questo m’invita ad accomodarmi. Mi trovo in una sala enorme, che arriva dal pavimento in marmo, fino alla cupola sul soffitto. Attorno, una scala conduce ai ballatoi dei piani superiori. Qui si trovano le sale a disposizione della comunità, e tra queste una stanza per la lettura e una biblioteca. Ovviamente è un luogo di preghiera e trovano posto tre aule con una capienza di duemila fedeli. Ci sono anche una mensa per cinquecento persone e 27
relative cucine, accessibili a chiunque, visto che non vengono prese in considerazioni le caste e non si fanno distinzioni tra ricchi e poveri. All’interno ci sono anche una scuola materna, un centro giovanile e uno per gli anziani. Tutti i locali sono accessibili ai disabili e grande attenzione come previsto dal culto, si pone al mondo femminile che gode di un rapporto di perfetta uguaglianza con quello maschile. Su una grande parete ci sono le riproduzioni dei Guru, dal soffitto scendono cavi a trattenere immensi lampadari di cristallo. La luce filtra da grandi finestre con i vetri colorati e tutto viene abbracciato da un’aurea mistica. Per un attimo vacillo, poi il nodo scorsoio del tempo si stringe attorno ai polsi e mi trascina via, sulla sella della bicicletta, perché il mio non è un viaggio attorno allo spirito, ora non posso, ho una meta da raggiungere. Ascolto una musica che fonde due universi, cercano di compenetrarsi, a momenti piacevolmente e in altri stridenti come un gesso che fischia sulla lavagna. (Play When You Say Nothing At All -Sitar Instrumental) Quando non dici proprio niente E' spettacolare come tu riesca a parlare bene al mio cuore senza dire una parola, tu puoi illuminare il buio Ci provi, come me, ma io non potrei mai spiegare quel che sento quando non dici niente. Il sorriso sul tuo viso mi fa capire che hai bisogno di me, c'è una sincerità nei tuoi occhi che dice che tu non mi lascerai mai. Il tocco della tua mano dice che tu mi alzerai in qualsiasi momento io cadrò, tu dici le cose migliori.. quando non dici proprio niente Tutto il giorno posso sentire le persone parlare ad alta voce ma quando tu mi stringi forte, tu sommergi la folla. Ci provi come loro, ma loro non potrebbero mai definire cosa è stato detto tra il tuo ed il mio cuore
Esco da Gravesend e imbocco la Rochester road. Il glucosio si esaurisce rapidamente, lo avverto nelle gambe indurite, consumo spesso spuntini e tra questi due confezioni di barrette Twix. Bevo molta acqua. Arrivo alle sei nell’abitato di Rochester, la città dove per lungo tempo ha vissuto Charles Dickens, chiedendomi se sia il caso di mettere sul ruolino di tappa la 28
fermata notturna sul posto, ma sentendomi in ritardo sulla tabella di marcia mentale decido di compiere ancora uno sforzo confidando su una durata più lunga delle ore di luce, trovandomi a nord delle latitudini casalinghe. Il centro è molto caratteristico, il maniero normanno e la cattedrale gotica, sono imponenti ma la frenesia del prossimo obiettivo chiama e dopo una breve sosta a rifiatare, riparto. Quasi a castigarmi per la scelta compiuta, il tratto diventa faticoso con salite molto più ripide e discese troppo rapide che non consentono un recupero adeguato, con un vento che ogni tanto spira contro e la luce in attenuazione. Rimbalza insistentemente nella testa il pensiero di riparare la camera d’aria, sulla scocciatura di dover smontare la ruota e sporcarmi inevitabilmente di grasso, certo che presto o tardi, dimenticando di gonfiarla per tempo, avrei causato ulteriori danni in qualche buca. Lampeggia sulla fronte il sì, quello del momento giusto, per togliermi il pensiero. In una piazzola ospitante una panchina, fermata la bici, dopo averla coricato sul fianco, allento lo sgancio e sfilo la ruota. La copertura da ventitré si rivela ostica, non vuole scalzarsi dal cerchio e una leva di plastica sottoposta allo sforzo si spezza. Fortunatamente dispongo di un altro set di leve più robuste e finalmente vinco la resistenza mettendo in luce il budello che non rivela forellini evidenti, decidendo quindi, di sostituirla con la prima delle due di scorta. Rimettere il copertone si rivela essere ancora più faticoso, con il timore di pizzicare la camera d’aria nuova durante il lavoro, ma alla fine dopo aver spruzzato di lubrificante, trionfo sul copertone, metto in pressione, monto la ruota e risalgo in sella dopo quasi mezz’ora di lotta. (Play La Vie C’Est Fantastique- S.M.S. Rehb) - Transito oltre Gillingham e in seguito il tragitto è un saliscendi dolce di quindici miglia senza curve, interrotto dalle rotonde, abituandomi ai cambi di marcia, trovando anche sollievo al 29
posteriore nell'alzarmi frequentemente sui pedali. Rallento spesso per chiedere ai gestori dei pub al lato della carreggiata se offrono anche stanze o se conoscono qualche struttura nella zona, ma la risposta è sempre la stessa: “Sorry... “. Indago sui siti di prenotazione e nonostante la batteria originale del cellulare sia scarica, tutto funziona grazie a quella di scorta prontamente collegata. I siti riportano strutture dai prezzi esorbitanti e non intendo sborsare somme da capogiro ma sono le uniche in un raggio di quindi chilometri. Ormai tutte le mie attenzioni sono rivolte a individuare velocemente un posto per passare la notte tanto da entrare nel giardino di una struttura recante l’insegna con la scritta “Newington, Count Care Home”, nella speranza possa essere una formula d’ospitalità simile a un bed&breakfast. Un arzillo vecchietto, alla mia richiesta di una stanza, precisa divertito, che quello è un pensionato, una casa di riposo, mentre se avessi cercato un vero albergo, più avanti avrei trovato qualcosa di parimenti confortevole adatto alla mia età. Finalmente a Sittingbourn, sulla sinistra, nel mio senso di marcia, si apre un varco indicante un hotel, giro immediatamente e il vialetto porta in una corte molto elegante, dove si sta tenendo un festoso ricevimento di nozze. La scritta “Best Western plus Coniston Hotel & Restaurant” sulle vetrate e la costellazione di punti di qualità, lasciano intendere quanto il prezzo possa essere elevato, ma vale la pena tentare. Lo avevo già scartato sul sito ma chiedere non costa nulla. Di contro la ragazza al bancone spara l’irriverente cifra di novanta sterline (centosedici euro) e nonostante le dico siano tanti, non s’intenerisce e cortesemente, mi indica una struttura un miglio e mezzo indietro, affermando costi di meno. Nell'uscire noto il gran numero di persone elegantemente vestite, confabulare mentre mi guardano. Sono gli invitati al banchetto di nozze in svolgimento nella sala dei ricevimenti, fanno un cenno di saluto e un ragazzo esterna in anglo-italiano: “Forza Italia !” Saluto divertito e riparto, dispiaciuto di dover fare un tratto a ritroso, ma la cifra proposta è esagerata e vale la pena tentare. L'albergo fa parte della catena Premier Inn che ho già avuto modo di incrociare in due precedenti occasioni a Ghillingham (il Businness Park e il Rainham), trovando sempre tutto esaurito e in questo sulla Sheppey way, propongono come soluzione di fortuna, una cameretta in un sottoscala per ottantadue sterline. La mente vibra, tra il rabbioso e il disperato, realizzo che la scelta è obbligata non avendo ulteriori alternative in zona, perciò saluto e parto a razzo nel blu della notte che scende avvolgendo, verso il Best Western, perché per una piccola differenza di denaro, avrei avuto una sistemazione dieci volte migliore. Rientro nella corte, il clima è 30
godereccio, in sala, il disc jockey, suona musica disco anni Ottanta e le risate abbondano. Pago a malincuore con una smorfia sul viso, alla ragazza che esegue glaciale il ceck-in, sistemo la bici in un deposito e salgo in stanza con i bagagli. Mentre apro la porta, risuona nella mente, il tintinnio delle novanta sterline pagate per la stanza. Sono tantissime, ma la camera le vale tutte. È una meraviglia, moderna, accogliente con un bagno enorme e una doccia a pioggia sperimentata immediatamente. Mi rilasso, sgonfiandomi dalla tensione, dimentico il salasso e respiro il rumore cristallino dell'acqua. Penso alla differenza con la stanza della sera precedente fino a sorridere, confrontando il costo delle due sistemazioni. Prima di rivestirmi, lavo la divisa e l’intimo con il detersivo liquido avendo questi assorbito i fumi della mia fatica. La novità del corredo di viaggio portata da casa per non dover strofinare gli indumenti con le micro-saponette da albergo, si dimostra efficace. Chiamo casa per tranquillizzare e informare dell'andamento, rivestendomi dopo aver sintonizzato il televisore sul canale che andrà a trasmettere l’attesissima partita d’esordio della nazionale. (Play Un’Estate Italiana- Nannini Bennato) - Le immagini sono nitide, potrei guardare comodamente l’incontro sdraiato sul letto, perdendo sicuramente l’elemento aggiuntivo di un emozionante confronto con qualche inglese nella sala tv dell’albergo. Decido di andare giù ad assistere alla partita per cercare negli occhi dei tifosi avversari un segno di rivalità, anziché rimanere a guardare la televisione nella solitudine della camera. Sistemato al banco del bar, che si trova al di fuori dell’area nella quale si svolge la festa di nozze, vestito con la tuta nera, anziché con la casacca azzurra, ordino un caffè e alcune persone partecipanti alla festa di nozze iniziano a vestire i panni del tifoso. Mi osservano perché sanno chi sono da quando mi hanno visto entrare. La voce si è sparsa veloce e ora è ufficiale: c'è un italiano alla loro partita di calcio. Sono educati e si contengono, perché partecipano al ricevimento di nozze, commentando controllati anche quando segna l'Italia, come me del resto, teso a non tradire la fiammata esplosa nel petto. Pareggiano ed esultano, senza però abbandonarsi agli eccessi. Me la rido divertito perché, stringendo, sarebbe bello se questo fosse il comportamento di sempre ma innegabilmente un goal ai mondiali della tua squadra non ti lascia indifferente. Terminato il primo tempo, 31
si avvicina un invitato al banchetto, un uomo sulla quarantina, chiedendomi informazioni sulla bicicletta presentandosi come Mark Padmore. Veste un abito grigio brillante con un panciotto di raso arabescato di rosa e lilla, parla il più semplicemente possibile per farsi comprendere, ma il mio inglese fa a botte con un italiano affiorante. È di corporatura massiccia, con la testa calva e la pelle bianca, ha occhi azzurri e un atteggiamento elegante. Proseguendo nel dialogo, sento di essere sempre più spigliato, meno impacciato e gesticolando, mi adopero per farmi capire. Inizia il secondo tempo della partita, ma siamo presi dalla conoscenza, lui è curioso e racconta di essere stato pilota di macchine del campionato di Formula Uno molti anni prima, esibisce le foto di un gran premio di Montecarlo ed io le mie dei miei giri in bici. Arriva Claire Finch, la sua bellissima compagna, me la presenta e s’introduce nella conversazione. Lui le spiega quello che ho già raccontato e tutto inizia a essere semplice quando poi conversiamo in tre. È fantastico, mi sento inserito, non ci accorgiamo nemmeno del secondo goal segnato dal simpaticone di Balotelli e anche se stentatamente, si comunica. La celebrazione per alcuni invitati ha raggiunto un discreto tasso alcolico e accadono alcuni episodi esilaranti. Un ragazzo alticcio, invitato alla festa, scivola con una birra in mano da uno sgabello su un cumulo di palloncini facendone scoppiare un paio. Si rialza tra le risate generali e il disappunto delle cameriere che dovranno pulire la moquette. La partita è un dettaglio evaporato nell’allegria, sono spettatore partecipante di questa festa. Mi offrono un dolce, chiacchieriamo ancora un po', e quasi a mezzanotte mi ritiro per riposarmi in vista della partenza mattutina del giorno seguente, dopo una lunga serie di calorosi abbracci. Stento a formulare pensieri compiuti, steso sulle lenzuola.
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Ho messo a posto le mappe, archiviando quella odierna, collegato alla rete le batterie di ogni strumento, e la televisione è una finestra chiassosa dentro la stanza che necessità un riquadro rilassante e scorrendo tra i canali trovo un programma di musica. È appena terminato un brano, e il nero dello schermo si riempie di un’immagine accompagnato da una melodia simile a una ninna nanna. Strane le ninna nanne, hanno qualcosa di sinistro, come la famosa: “ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Lo darò alla befana, o ancor peggio all’uomo nero”. Forse si enfatizza per scaramanzia, o per sarcastico e cinico piacere nel suscitare paura a un bambino che ascolta e cerca protezione e promette d’essere buono. Questa non differisce tanto, ha una musica avvolgente, un testo epico, un risvolto tragico. Mi rannicchio, stringo il cuscino e le cosce si avvolgono dolenti l’una sull’altra mentre la veglia evapora diventando sonno. (Play Hijo de la Luna-Mecano) Per chi non fraintenda, narra la leggenda di quella gitana che pregò la luna bianca ed alta nel ciel. Mentre sorrideva lei la supplicava «fa che torni da me». «Tu riavrai quell'uomo pelle scura con il suo perdono donna impura, però in cambio voglio che il tuo primo figlio venga a stare con me». Chi suo figlio immola per non stare sola, non è degna di un re. Luna adesso sei madre, ma chi fece di te una donna non c'è. Dimmi luna d'argento come lo cullerai se le braccia non hai, figlio della luna ? Nacque a primavera un bambino da quel padre scuro come il fumo, con la pelle chiara gli occhi di laguna, come un figlio di luna «Questo è un tradimento lui non è mio figlio ed io no, non lo voglio» Luna adesso sei madre, ma chi fece di te una donna non c'è. Dimmi luna d'argento, come lo cullerai se le braccia non hai figlio della luna ? II gitano folle di dolore, colto proprio al centro dell'onore l'afferrò gridando, la baciò piangendo poi la lama affondò. Corse sopra al monte col bambino in braccio e lì lo abbandonò Luna adesso sei madre, ma chi fece di te una donna non c'è. Dimmi luna d'argento come lo cullerai se le braccia non ha, i figlio della luna ? Se la luna piena poi diviene, è perché il bambino dorme bene, ma se sta piangendo lei se lo trastulla, cala e poi si fa culla. Ma se sta piangendo lei se lo trastulla, cala e poi si fa culla
Domenica 15 giugno 2014 Il cielo è nuvoloso, tipicamente british. L’aria pungente delle sette del mattino mi abbraccia quando apro la finestra della stanza, consigliando un abbigliamento più pesante e così vesto il completo lungo, indossando anche guanti e cappello, riponendo 33
nelle borse la tutina dell’Italia asciugatasi nella notte. È il terzo giorno di pellegrinaggio in territorio inglese e sono tranquillo, non mi affanno a una partenza, organizzo la bicicletta serenamente con l’idea di trovare qualche locale per fare colazione, giacché non è compresa nelle novanta sterline della camera. Immagino che essendo molto presto e per di più anche domenica, non sarà semplice trovare un bar aperto, ma anche se non sento i morsi della fame, il mangiare diventa qualcosa da inserire nella scaletta di manutenzione del fisico e delle risorse energetiche. Peccato lasciare una stanza talmente bella ed elegante, fare le borse e andare ma sono qui con uno scopo e la mia ambizione porta a immaginare di riuscire a passare la Manica e proseguire per un lungo tratto in Francia, a conclusione della tappa di giornata. Installo il telefono sul supporto, attivo il GPS, apro Runtastic e inizio a muovere cautamente le gambe testando la risposta dei muscoli e delle articolazioni. Dopo un chilometro, l’avviamento è concluso e il pensiero si concentra di nuovo sulla colazione. Come immaginavo il centro cittadino è deserto, trovo aperto un supermercato vicino alla fermata dei treni di Sittingbourne e il commesso alla mia richiesta di un caffè, indica un distributore automatico alla stazione. Prediligo una ricerca in fase di pedalata e la fortuna mi premia con il Barclays Cafe, dove servono breakfast di buonora da consumare all’interno o da portare via (Play Purple-Skin) -Ordino una fetta di apple-pie (torta di mele) e un caffè servitomi bollente in una tinozza da litro. Riparto alla volta di Canterbury per coprire queste sedici miglia.Attraverso il centro abitato di Favershame, percorrendo il saliscendi sconnesso della via secondaria, quando appare un cartello indicante la direzione consigliata alle biciclette che porta dritto in autostrada. Non ci sono scelte, la direzione è quella e pedalando su una salita interminabile a bordo ring mi lancio sull’asse di scorrimento veloce. Il margine è abbastanza ampio ma quando hanno rifatto l’asfalto della carreggiata, hanno evitato di fare anche il manto alla corsia laterale, invasa da rami di arbusti sporgenti dal guardrail che oltretutto presenta collezioni di lattine di birra schiacciate e di tanto in tanto qualche buca pericolosa. Nelle rientranze di sosta, controllo sul navigatore se esistono deviazioni laterali ma ogni qualvolta provo a uscire, rientro puntualmente un chilometro più avanti, perciò faccio di necessità virtù collegandomi al lettore per ascoltare un po’ di musica e prendere un ritmo fino all’incrocio di Upper 34
Harbledown che sancisce l’arrivo nel centro della cittadina. Seguendo un ramo del fiume Gret Stouth, passo davanti al delizioso giardino della Westgate Tower costruita intorno al 1379 che rimane uno dei monumenti più caratteristici di Canterbury e anche l'ultima superstite ancora ben conservata delle sette porte medievali della città. (Play Breathe- Midge Ure) - Il centro è pedonalizzato, quindi vietato al transito dei mezzi a motore ma le biciclette sono tollerate e possono accedere se procedono a una velocità umana. Numerosi esercizi commerciali, vendono prodotti artigianali e alimentari tipicamente inglesi nel centro dall’aspetto medievale. Le case a graticcio lambite dal fiume Stout convivono con la parte più moderna, ricca di fastfood e supermercati creando un amalgama effervescente di forte attrattiva turistica. Ovunque frotte di stranieri cercano dettagli da immortalare in una caccia visiva attenta e silenziosa. Il mio tempo scorre da un rubinetto inarrestabile e la visita diventa concreta e rapida, limitandomi all’essenziale di scatti fotografici spettacolari, ma diventa frustrante quando arrivo alla cattedrale di Canterbury, una delle più antiche e famose strutture cristiane in Inghilterra. Mi trovo a dover vagliare tra la richiesta di pagare dodici sterline per accedere subito all’area chiusa dai muri di cinta, a protezione della cattedrale e la proposta di un ingresso gratuito alle due del pomeriggio, per scattare i miei fotogrammi ricordo. Irremovibili alla cassa anche quando additandole, faccio notare le persone che già ora entrano senza pagare, sentendomi rispondono che si tratta di fedeli entrati per pregare (con le Nikon da tre chili al collo). Considerando la posizione delle lancette sul quadrante di un orologio indicante le undici e trenta, e non potendo aspettare il pomeriggio, pago a malincuore per l’ingresso al piazzale ospitante l’edificio religioso, varcando la Christ Church Gate, il portale riccamente decorato ospitante le casse. La mole della cattedrale incarna forse il miglior esempio di gotico inglese (Early English), riconoscibile nelle volte 35
costolonate. La chiesa sembra essere costituita da ambienti all’apparenza distinti e diversi anche nello stile, a causa delle aggiunte e dei numerosi restauri seguiti nei secoli. Siedo per una decina di minuti, per meglio osservare l’immenso pregio della chiesa, respiro l’aria intrisa di storia, come quella di Sigerico qui sepolto, che in vita, nel 990, in settantanove giorni, percorse sulle sue gambe milleseicento chilometri da Roma a Canterbury, disegnando la celebre via francigena. Penso alla differenza delle strade odierne rispetto alle piste tracciate a piedi tra i boschi e le campagne nel medioevo e alla odierna comodità dell’asfalto, proponente un comfort impagabile anche se in alcuni tratti rovinato e rabberciato. Dopo l’uscita compio un rapido passaggio davanti all’università e concludo la visita alla cittadina con una breve sosta al Burger King in st. George’s street, dove divoro un panino da record prima di ripartire. Nella stessa via si erge solitaria l’omonima torre in pietra, in una piazzetta occupata da un caffè italiano. Dà sostegno a un grande orologio, decorato in oro, sporgente sul lato sud-ovest e quando segna le dieci e tre quarti, il cielo è grigio, le nubi alte e la temperatura è ideale per una corsa verso Dover. Le previsioni del tempo ipotizzano mancanza di precipitazioni sulle diciannove miglia di asfalto precedenti l’imbarco per il continente. La strada A 205 è una linea retta proponente colline dolci e fattorie da ambo i lati. Respiro a pieni polmoni l’odore agreste fino al sottopasso dell’autostrada, da tenere costantemente d’occhio poiché percorre la rotta ideale verso Dover, accorgendomi che la direttrice secondaria, quella ospitante la mia pedalata, comincia a divergere verso ovest. Dopo Bridge Hill la carrozzabile, scollinando inizia a scendere con decisione e per evitare di fare risalite su percorsi sbagliati, sosto per controllare il navigatore. Conferma l’assenza di un asse diretto risvegliando l’attenzione nell’interpretare i suoi consigli e rimanendo vigile e concentrato, mi aiuto anche con le indicazioni degli scarsi cartelli stradali. Chiedere informazioni a qualche passante è praticamente impossibile, perché le rare macchine incrociate, transitano velocemente. Le case di questa porzione del Kent sembrano fantastiche costruzioni di legno disabitate, posizionate per impreziosire le pennellate di una natura generosa. Traccio a intuito la rotta, e nei pressi di Baharam, ho bisogno di conferme perché leggendo il navigatore, sembra che a un certo punto la via s’interrompa proprio nell’intersezione con l’arteria diretta 36
a Dover. Entro nel pub Duke of Cumberland, un sofisticato esempio di stile inglese, chiedendo informazioni sul percorso. Molto gentilmente i proprietari illustrano le svolte da compiere e dopo un assaggio di birra rimonto in sella e allegramente passo la guglia di rame verde del campanile posto di fianco alla chiesa metodista di san Giovanni, risalendo verso le alture dove poggia la temuta autostrada. Poco dopo consultando le carte stradali, prendo atto dell’impossibilità di scegliere una strada secondaria diretta perché le vie di campagna, puntano a sud in direzione di Folkstone mentre per raggiungere Dover, devo dirigermi verso sud est. Non digerisco l’idea di fare una deviazione di una quindicina di chilometri che mangerebbe un’ora e per questo motivo, dopo aver chiacchierato con un automobilista fermatosi per aiutarmi nella navigazione, conveniamo che la via più semplice è la tanto avversata autostrada. Scendendo dal cavalcavia sull’anello di congiunzione all’asse, sento i tir rombare e li osservo passare imperiosi ma a quel punto ho già le cuffie nelle orecchie per allontanarmi acusticamente da uno scenario deludente. Fortunatamente dura una decina di chilometri e a Lydden Hill posso uscire per pedalare nuovamente nella campagna inglese. È un bel tratto in leggera discesa e mi consente di gioire ammirando il territorio, di sentire quella punta nostalgica infilarsi tra il ricordo dei chilometri percorsi in Inghilterra ancora prima di lasciarla. Dover è regale, tranquilla, il castello osserva immobile il mio passaggio. Le indicazioni per i ferry sono nitide e conducono immediate nella zona del porto. Pedalo su un itinerario dedicato, inequivocabilmente dipinto di rosso, sospettando finisca al molo dirimpetto alla Francia. Infatti, dopo una breve sosta per un controllo dei documenti, arrivo davanti all’ufficio delle compagnie di navigazione. Lo sportello è unico per tutte le linee. Una ragazza in sedia a rotelle dietro il banco mi accoglie sorridente e disponibile, e alla richiesta di imbarcarmi con la bicicletta, digita velocemente con le piccole mani anchilosate sulla tastiera, proponendomi tre orari consecutivi, con tre prezzi differenti. Fortunatamente il più prossimo, della P&O, è quello meno costoso, e per il modico costo di ventidue sterline, evito la traversata a nuoto. Scelgo quello e lei alza simpaticamente il pollice in segno di approvazione, stampa la carta d’imbarco, indicandomi la direzione da seguire nello scalo portuale e saluta 37
prima di passare al prossimo navigante. Sono a cavallo della bicicletta con i gomiti sul manubrio a osservare le manovre di carico e scarico dell’immensa banchina tenendo sotto controllo gli steward attenti al momento in cui dare il via alle operazioni. (Play A Salty Dog-Procol Harum) - Ripenso a Londra, ai nuovi amici conosciuti, alla strada che attende, alla batteria cinese che tiene in vita il navigatore, alle mappe, alla crociera prossima a salpare e alla gentile signorina in carrozzina della biglietteria in grado di emozionarmi con il sorriso e la cortesia di chi avrebbe dei giustificati motivi per non sorridere più, e invece conquista con la dolcezza. Ora il commissario agita la mano e m’invita a imboccare il pontile che sale verso l’immenso garage galleggiante e in quest’occasione sono il primo di tutti a salire a bordo. La rampa di cemento dà sostegno alla passerella d’acciaio della nave, un ponte intercontinentale che secondo le occasioni, divide o unisce, strappa o appoggia dopo un transito sul mare che sembra di zucchero. Assicuro la bicicletta a un sostegno e salendo le ripide scale partenti dal garage, arrivo nelle sale passeggeri. Il traghetto prescelto, staccherà dall’isola alle 14e45, e manca mezz’ora alla partenza, avvertendo fortemente il dispiacere di andare via dall’Inghilterra, un’isola generosa e bella che andrebbe visitata approfonditamente. Sono nel ristorante a prua, gli scaldavivande del self-service traboccano di cibo e nessuno è in fila alla cassa, penso sia un servizio che non troverà molti avventori in considerazione dell’ora di pranzo appena passata. Passeggio verso poppa tra divanetti e tavolini lentamente diventati di proprietà di chi si accomoda. Qualcuno si stende a dormire, altri sistemano figli capricciosi, altri ancora scattano foto. Seguo l’ultimo esempio ed esco in coperta a sistemare la macchina fotografica per mandare qualche immagine a casa a testimonianza del passaggio sullo stretto della Manica. Avverto il sordo muggito dei motori, il lieve spostamento, poi la decisa presa di velocità e il rumore di un vento molto forte si sostituiscono a quello meccanico. Il fronte candido della scogliera di Dover
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assume il taglio delle fotografie viste tante volte sui testi di geografia della scuola media, proiettandomi al centro di una cosa surreale che fino a pochi anni prima non avrei immaginato si rendesse concreta. È come essere dentro quei libri. Il vento frusta, il freddo gioca la sua parte nel far salire la stanchezza dai polpacci verso le natiche e su per la schiena. Entro per scaldarmi nei saloni. La nave ora è piena, non ci sono quasi più posti e passando davanti al ristorante vedo una fila interminabile di persone con il vassoio in mano, aspettare più o meno pazientemente il turno per comprare cibo. È la seconda volta in pochi giorni che osservo le persone intenzionate a far passare il tempo occupandosi di come riempire la pancia. Fanno la fila, scelgono, pagano, si accomodano e gustano gratificati dell’eccellenza di un riso al curry, di patate fritte con pepite di pollo, con bibitoni gasatissimi e dolcetti che di artigianale hanno solo il trasporto. Trovo una sedia e un tavolino in un bar deserto, prendo un caffè da mezzo litro e un muffin unendomi al rito del “nutrimento tanto per passare il tempo”. Due ore di navigazione costituiscono il giusto lasso di tempo per recuperare energie e ricollocarle nelle gambe. Le guardo passandoci il palmo della mano, sono affusolate, non sembrano quelle dei ciclisti con polpacci da tonnellata e quadricipite arrogante, ma girano lo stesso, portandomi lontano, molto lontano. Ho tolto scarpe e calze poggiando i piedi sulla sedia davanti a me mentre sorseggio e osservo il popolo migrante, attaccato ai cristalli a fissare un mare grigio e inespressivo, passare di onda in onda. Nel rilassamento mi assopisco e al cedere della testa mi risveglio avvertendo che l’arrivo a Calais è imminente. Mi preparo e vado verso le scale discendenti ai garage accodandomi alla fila in processione ordinata. Giù nell’antro blu, il rumore diventa assordante tra i motori della nave che alzano i giri per la frenata verso il molo, gli allarmi, i verricelli, e le pompe idrauliche che infine calano il portellone sulla Francia. Inspiegabilmente, pur essendo il primo della fila a cavallo della bici, devo aspettare l’uscita di tutti i veicoli e poi mi lasciano libero di uscire, nel pieno rispetto della regola recitante “gli ultimi saranno i primi” e viceversa. Mah! Il tempo tiene e l’aria è dolce, umida di vento da nord. Una buona notizia se penso arriverà alle spalle, per una volta alleato di pedali. Il cambio 39
di guida si avverte immediatamente e lo vivo come una liberazione, come quando dopo una pastiglia, passa un mal di testa e mi rallegro della luce, della musica, delle ore. Le insegne stradali sono eleganti cartelli bianchi col bordino rosso, più famigliari rispetto alle convenzionali tabelle gialle inglesi. Regolo l’ora delle strumentazioni di bordo spostando avanti di un giro le lancette, sul fuso continentale, diverso da quello inglese. Un viale bordato da un marciapiede di petunie viola costeggia il porto fino alla svolta che immette alla Place d’Armes dove mi faccio ritrarre sotto la statua di Charles de Gaulle e signora, presso la monumentale torre di guardia (Watchtower) da una coppia di passanti. Considero la Francia, un bel posto per pedalare, mi rallegra e nel vedere una boulangerie, si rinnova la sensazione di appetito, soddisfatta divorando tre dolci in una pasticceria davanti al Theatre Municipal de la ville de Calais, in place Albert Premier. Prima di uscire dalla città provo a chiedere in un albergo il costo della stanza singola, ricevendo la proposta super-scontata a sessantacinque euro. Il mio alzo di sopracciglio sconcertato trasmette la sensazione di diniego e per questo il portiere, prima di congedarmi, avverte che nella zona tutti applicano la medesima tariffa. Ovviamente spero si sbagli, perché a questi prezzi, moltiplicandoli per i giorni rimanenti, sarebbe insostenibile. Su boulevard Iacquard m’imbatto nel municipio della città di Calais, rappresentante uno dei più importanti punti di riferimento e questo grazie alla sua architettura e alla valenza storica. (Play To Be With You-Mr. Big) - La costruzione del campanile del municipio ebbe inizio nel 1911 con lo scopo di unire le città di Calais e SaintPierre. La sua edificazione fu interrotta durante la Prima Guerra Mondiale e fu finalmente completato nel 1925. La struttura è stata realizzata in stile architettonico neo-fiammingo e la guglia del campanile si erge a 75 metri 40
di altezza. Nel giardino antistante, posto al disotto della costruzione rosseggiante, tre ragazze di passaggio, mi ritraggono in posa con la bicicletta quindi programmo la rotta sul navigatore che sentenzia manchino trentanove chilometri per giungere fino a Saint Omer su una statale diretta. Sono le 17e 30 e con le ore di luce a disposizione dovrei raggiungerla. La statale non è molto trafficata, lo spazio per la bicicletta abbonda sulla pista larga e aggiungerei, finalmente sul margine destro, il vento aiuta quel tanto che basta per tenere i venticinque l’ora pedalando con brio. Il meteo è grigietto, le gambe sono discrete. Decido di coprire una decina di chilometri e poi concedermi a una pausa caffè. Arrivo a una confluenza e scorgo arrancare sulla leggera salita, un ciclista in tuta azzurra. Bene dai, decido di prenderlo e superarlo, e allora scalo, mi alzo, pompo le gambe, e ondeggiando vado in quota. Lui è la, accorcio la distanza, quasi lo prendo prima di un dosso su un sovrappasso, ma allo scollinamento, dietro una leggera curva scompare. Ha accelerato, ha messo metri. Non mi arrendo, devo prenderlo. Accelero da seduto, spingo e controllo il recupero, lo agguanto perché cede di schianto, mi metto in scia, incollato. Appena sono in grado lo passo, gli sono di fianco, lo guardo: è una ragazza. Ha gli occhi enormi, si stupisce di vedermi, ha un motto di rivincita e la vedo nello specchio che prende giri in piedi. Tengo i venticinque sul falso piano, lei dietro. Il progetto della pedalata tranquilla naufraga. Lei non molla, io comincio a sentire la fatica ma spingo un po’ di più. Lei si stacca e perde metri visibilmente, ormai è una questione di orgoglio e devo riuscire a raggiungere un bar per la mia coppa del nonno al caffè da primo arrivato. Cerco una musica, mi distraggo dal pedalare e quando la cerco nello specchio, la vedo arrivare come un caccia, mi passa d’impeto e mi metto all’inseguimento. Tiene, non molla ma ho il vantaggio delle scie e dopo un attimo di rifiatamento la passo come nulla fosse. E lei ora a incollarsi dietro, tiene i trenta l’ora, smoccola e sputa. Poi non tiene più, si distanzia ed io posso finalmente diminuire a venticinque. Si accoda tranquilla, mi segue ma la tengo d’occhio. Io infine svolto nel parcheggio di un bar di Ardres, lei passa e alza il braccio a salutare, prontamente ricambiata. Nel bar consumo un caffè, ma solo perché non so come si chiede in francese un ricostituente. 41
Attraverso la cittadina e da qui cominciano un po’ di saliscendi, tagliano le gambe e velocemente le energie scemano. Ragiono sul percorso di giornata, intuendo di dovere iniziare a dare ascolto alla sensazione di stanchezza che va lentamente a sostituirsi alla concentrazione. Consulto Trivago per vedere quali sistemazioni posso trovare nella zona. Me ne consiglia tre nella città appena passata e un albergo a circa cinque chilometri, l’auberge le Mas Fleuri a Berthem. Percorro la distanza con ritrovata lena ma giunto sul luogo, entro nel ristorante, e un cameriere con un’alzata di spalle dispiaciuta, comunica di non fornire da qualche tempo il servizio delle camere. Chiedo informazioni sull’eventuale presenza di altri hotel nella zona, ma risponde in modo seccato di non sapere nulla di altri alberghi, aggiudicandosi il titolo di primo scorbutico di Francia. La pedalata riprende in salita, un tratto di cinquecento metri che non vuole rivelare cosa riservi oltre il culmine. Spingo giù i pedali attingendo nel serbatoio dell’ipnotico, rifiutando di fare pensieri e previsioni, sono sicuro che agli incroci, si presenteranno diverse occasioni e porte alle quali bussare. Infatti, dopo un chilometro a sguardo fisso in avanti, sulla destra l’indicazione di un agriturismo mi trascina nel cortile prospiciente a un casolare dove ad accogliermi c’è JeanJacques Behaghel che propone una stanza per trentasette euro. Il posto è rurale, si respira aria che sa di terra, di bestie, di erba e pane, vengo accompagnato in un magazzino e dopo aver staccato i bagagli, deposito la bicicletta tra falci e pannocchie lasciate a essiccare. Mi fa scegliere una delle due stanze mansardate e poi scendendo in cucina si informa se desidero mangiare qualcosa. Ho voglia di assaporare una minestra e gli chiedo se ha la potage e lui meravigliato, domanda se non gradisco qualcosa di più sostanzioso, ma insisto felice di una cena in sintonia con la struttura. Prepara un caffè e intavoliamo uno scambio di battute, confrontando opinioni sul mio viaggio e sulla sua attività di agriturismo. Poi, attestando la sua stima, confessa che da quando ha la patente, ha sempre scelto autovetture italiane, considerandole di gran lunga migliori di quelle francesi. M’incuriosisce perché i francesi sono sempre stati molto 42
orgogliosi dei propri marchi, reputando quelli italiani non alla pari. Il tempo passa e intuisce che abbia bisogno di lavarmi e cambiarmi, rimandandoci a piÚ tardi. Mentre sono in stanza per fare una doccia e lavare i panni sporchi, il signor Jean-Jacques prepara la minestra di verdure. Mi accorgo che nella camera non c’è il televisore, accogliendo favorevolmente questo vuoto abitudinario da colmare con facebook, ma nemmeno la connessione dati prende, ritrovandomi quindi isolato in un tempo dilatato, lasciandomi fare tutto con una lentezza rilassante. La sensazione di vuoto si dissolve quando scendendo, scorgo il signor Behaghel sistemare sul fornello la pentola con la potage e sul tavolo alcuni pezzi di formaggio, il burro, la busta col pane ai cereali e una mela. Accende il fuoco con i fiammiferi e il rumore della strisciata dello zolfo sulla scatola si sostituisce ai consueti ticchettii elettronici degli accenditori sulle cucine moderne. Uscendo, saluta rimandandomi alle otto del mattino di domani, per la colazione a casa sua, raccomandandomi di riporre nel frigorifero il burro avanzato. Tre piatti di minestra calda, saporita e panini spalmati di burro riempiono la pancia. Terminata la cena e salito nella mia stanza, chiamo l’Italia per un breve resoconto prima di crollare in un sonno profondo nel letto morbido a fissare le stelle oltre il lucernaio.
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Lunedi16 giugno 2014. Al mattino mi desto con la sveglia del cellulare puntata alle sette, dopo una notte passata a dormire profondamente. Sto bene, le gambe non fanno male, e la mente risponde lucida nel prepararmi all’uscita. Scollego i cavi delle batterie riponendoli nella busta di plastica infilandola nella valigia, raccolgo le ultime cose e scesa la ripida scala, esco per riposizionare il carico sul destriero a pedali portato vicino all’uscio di casa Behaghel. Lui e la consorte siedono attorno a un tavolo rotondo, mi accolgono offrendo una tazza di caffè, invitandomi ad assaggiare le loro marmellate fatte in casa. Spalmo il burro sulle fette e assaggio tre colori, il rosso intenso delle fragole, il giallo carico dell’arancio e il verde del kiwi, poi gusto una ciocca bionda di miele fruttato, chiacchierando con una coppia di inglesi che ha dormito nella stanza sotto la mia. Ovunque sosto, quando racconto del mio itinerario, suscito interesse, osservo una sorta di stupore che m’inorgoglisce spronandomi ad andare avanti, rendendo speciale ogni singolo colpo di pedale già compiuto. Dentro di me sento questa mia avventura alla portata di chiunque, o per lo meno delle persone che vanno regolarmente in bicicletta, ma inizio chiedermi se sia realmente attendibile. Dopo aver finito la colazione, mi alzo senza indugiare oltre, catturato dai pensieri tesi a inseguire strade intrecciate nella mente verso una meta-obiettivo che fatico a definire. Dopo un caloroso abbraccio e una stretta di mano ci congediamo e rimonto sulla Cube, iniziando a consultare la mappa cartacea. Vedo Lille, poi torno con l’indice allo start di giornata e seguendo con un’occhiata la linea rossa della statale tra qui e Bruxelles, calcolo a spanne una distanza di circa duecento chilometri. Mentre sullo schermo dello smartphone si definisce la videata del navigatore, penso che potrei tentare di percorrerli tutti ma il profilo altimetrico del grafico blu apparso tra la partenza e la capitale belga indica un saliscendi seghettato molto significativo. In fondo di giorni a disposizione, non ne mancano e sfiancarmi con tirate troppo tese, toglie il gusto di fare una visita alle città sul tragitto, come di concedermi le giuste pause staccando fisicamente e mentalmente dal viaggiare. Lille si trova a ottantasei chilometri da qui e il tempo non è tipicamente estivo, minaccia pioggia e precauzionalmente mi sono vestito in lungo nel caso dovesse iniziare a bagnare. I primi chilometri sono lenti, faticosi, stento a prendere ritmo fermandomi fin 44
troppo spesso, una volta per togliere la giacca, una per avviare la registrazione della traccia GPS, una per fare pipì, una per rispondere a un messaggio, una per un caffè. Poi finalmente ingrano a un ritmo decoroso, dopo una breve deviazione dalla Strada D943 verso rue de la Croix che accompagna all’Hôtel Château Tilques, una villa da sogno, che propone stanze a 130 euro a notte. È un saliscendi continuo regolato sulla seconda volantina e con frequenti cambi sul deragliatore posteriore, cerco di dare un giro omogeneo e quanto più possibile rilassante alle gambe arrivando immediatamente a Saint Omer, luogo nel quale vado a visitare la Cathédrale Notre-Dame. La cittadina è serena, e mi saluta con uno scoscio di pioggia terminato quasi subito tra le stravaganti rotonde sulle quali volteggiando, stento a uscire dal centro. Dopo un paio di svarioni riesco a riprendere la direzione sull’avenue Léon Blum, passo il borgo di Arques superando il ponte sul canale di Neuffossé dopo una breve sosta all’Artisen Boulanger del signor Becue Reynald per rifocillarmi. Ad attirare la mia curiosità c’è una vetrina del negozio, che mette in bella mostra modellini di mezzi della Seconda guerra mondiale, alcuni proiettili di calibri diversi, una granata e un elmo da fante sforacchiato. Chiedo alla commessa quale sia la differenza tra le attività di Artisen Boulanger e la Boulangerie e mi spiega che sostanzialmente il primo indica il fornaio che produce e vende articoli di panificazione e pasticceria, mentre il secondo è la sola bottega di rivendita e di questo distinguo, i fornai si fanno orgogliosamente vanto. (Play Me Voy Julieta-Venegas) - Sono le dieci e un quarto quando riprendo a pedalare sulla D211. Dopo tre chilometri mi blocco perplesso a una rotonda, poiché genera due distinte strade verso est. La prima, la D642porta dritta a Hazerbrouck, meta intermedia a quindici chilometri, ma la dicitura “route nationale” e il traffico sostenuto di camion e macchine sfreccianti, fanno sospettare di entrare in un budello d’asfalto che a un certo punto potrebbe vietarmi la circolazione, mentre l’altra, la D933, punta a nord-est allungando di parecchio il 45
chilometraggio ma sembra offrire un traffico meno sostenuto e pericoloso. Quando sono sul punto di imboccare la prima, si affianca un ciclista e dopo avermi salutato, chiede in quale posto sono diretto. Alla mia risposta su destinazione e scelta del percorso, fa ampi cenni asserendo sia meglio di no, giurando che il traffico è pericoloso, condizionato da camionisti assassini e che l’altra via, quella da lui programmata è senza ombra di dubbio migliore, offrendo dei panorami più godibili, un traffico inesistente con un chilometraggio pressoché identico. Voglio fidarmi del suo invito a seguirlo, anche se tengo comunque costantemente acceso il display del navigatore per avere una visione d’insieme reale. La progressione è in salita e lui cammina spedito a ventisei l’ora con una bici da corsa anni 70. Veste in modo stravagante con indumenti tecnici logori e consumati, chiacchiera di continuo e stento a tradurre simultaneamente le sue argomentazioni. Le direttrici si distanziano, il traffico è comunque sostenuto, vedo in lontananza l’altra via di comunicazione scomparire dietro un dosso e inizio ad agitarmi. Chiedo conferma al ciclista, se quello sul quale stiamo pedalando è il percorso giusto e lui nell’intenzione di rassicurandomi dice che Cassel è molto bella, un luogo dal quale in inverno parte per andare a sciare. Individuo rapidamente con il GPS Cassel, un centro urbano a nord rendendomi conto di come questo idiota mi stia portando a spasso per avere compagnia. Cerco frettolosamente una deviazione a destra per portarmi di nuovo sulla D642, e il navigatore propone due possibilità consecutive e così alla seconda uscita, saluto il dispersivo e viro di dritta a La Nieppe in direzione di Ebblinghem, per incrociare la route nationale, che finalmente imbocco con cinque inutili chilometri in più nelle gambe. Pedalo nuovamente con gusto e posso distendermi impugnando il manubrio con un po’ di musica nelle orecchie. È l’esempio calzante di un passaggio a vuoto, seguendo il disegno magnetico ed eccitante della mappa, in occasionale compagnia di un ciclista petulante che nell’ampiezza del raggio della sua circonferenza d’attrazione, mi ha distratto per il suo compiacimento. Non gli rispondevo per non turbare l’incedere, ma la risalita aveva iniziato a inondarmi di sensazioni negative già dal principio, perché ogni sua minuzia generava piccole onde nello stagno delle percezioni e sulle sponde, lo vivevo come un piccolo tsunami. Ora è calato di nuovo il silenzio, questo leggero far finta di nulla, senza vi sia stato danno al viaggio. La carreggiata è godibile e i camionisti si rivelano essere prudenti nel passarmi e mantenendo una 46
velocità di crociera di ventiquattro l’ora, sono sospinto da un vento che agevola discretamente il giro di pedali. Entro a Hazerbrouck senza curarmi molto del paesaggio spinto dall’allargamento di un buco nello stomaco e pretendo di colmarlo, evitando altresì eccessi d’intingoli in un pasto al volo che mi appesantirebbe. Dopo qualche breve ricerca, nell’area del centro commerciale, entro in un ristorante e ordino un petto di pollo alla piastra con contorno di spinaci. Mangio comodamente seduto, a piedi scalzi davanti alla vetrina dove ho appoggiato la bicicletta con lo sterzo girato a sinistra, facendola apparire come colta durante un pisolino. È un attimo di calma che il chiacchiericcio del locale non disturba, sono minuti rubati a un tempo dilatatosi nel disinteresse verso qualsiasi esito e per me partire e arrivare sono congiunti in quell’angolo del ristorante, perso nel vuoto. Solo dopo il conto inizio a dar giri al cervello che riattivato e curioso, fa tirare fuori mappa e navigatore per produrre un calcolo logaritmico tra meteo, chilometri ed energia. Mancano pochi minuti alle tredici, sono nutrito ma il meteo è minaccioso, la mia ambizione spinge gli occhi a superare il reale confine delle energie, ma tanto nessuno ascolta la mia immaginazione e se anche non dovessi arrivare a Tournai, distante sessantadue chilometri, potrei lo stesso considerarmi soddisfatto di un traguardo come Lille. Controllo anche la disponibilità di alberghi nei due centri urbani e Lille ha sicuramente un’offerta più consistente in termini di disponibilità ed economicità. Mi affido a un fatalismo soffice dopo aver regolato il conto del pranzo e inforcata la bicicletta la risveglio a forza di rotazioni pedivelliche. Subito dopo l’uscita dal centro cittadino, il clima si fa pesante, l’aria si carica di umidità quasi fossero le nuvole a voler far quattro passi sulla campagna e scorgo a cento metri da me l’inconfondibile sipario di una precipitazione abbondante e le macchine incrociate lo confermano con i tergicristalli che spazzano i rivoli delle gocce di pioggia. Accosto di lato, vesto i bagagli con la copertura antipioggia e infilo il borsello anteriore in una busta di nylon dopo aver riposto il telefono. Indosso mantella e pantaloni antipioggia e poi avvolgo le scarpe con la pellicola per alimenti. È la prima volta che testo il sistema sostitutivo dei copri-scarpe e anche sembrando ridicolo, si rivelerà un ottimo espediente pratico ed economico. Riparto agganciando le scarpe incellofanate mentre la pioggia inizia a scendere fitta e un vento insistente e dispettoso, amplificato dai camion filanti, tenta di 47
portarmi via il cappellino dovendolo infine legare con un giro di nastro isolante da sopra la testa fin sotto la gola - (Play Personal Jesus- Depeche Mode ) Diventa divertimento sotto la pioggia che sento picchiare sul frontino del cappello senza tenere più le cuffiette a inondarmi di musica nelle orecchie. Il poncho arancione mi copre interamente e allo stesso tempo mi rende un pac-man visibile a chilometri di distanza, le scarpe difese dalla pellicola respingono l’insistenza di spruzzi determinati a far nuotare i calli. Qualcuno passando suona il clacson per salutare o per marcare il disappunto verso chi come me, ostenta incoscienza nell’andare in giro con quel tempo. Arrivo infine a una rotonda a La Vierge, trovando l’uscita indicata per proseguire, vietata alle biciclette e per un minuto il cervello si blocca indeciso su cosa fare per continuare perché piove forte, guardare il navigatore è impossibile e l’unica via percorribile porta a una collina sulla destra verso un abitato. Dopo aver ripreso il controllo riparto notevolmente contrariato su una salita impegnativa senza indicazioni precise quando fortunatamente una freccia marrone con il simbolo della bicicletta, m’indirizza su un tortuoso percorso verso Bailleul. Piove con minore intensità e la ciclabile conduce nuovamente sulla route di Hazerbouck D642, un paio di chilometri più avanti da dove ero stato costretto a lasciarla, confermando quanto possono essere strane le vie di Francia. Terminata la precipitazione, levo il poncho che intralcia la fluidità della pedalata e inizio a tenere un passo sostenuto per recuperare un po’ di tempo perso nella deviazione. Arrivo nella grande place Charles de Gaulle, nel centro cittadino di Bailleul, giovando la vista con “le Beffroi” (campanile) dell’hotel de la Ville, un monumentale pinnacolo di sessantacinque metri di altezza. Porta sulla sommità un enorme carillon composto da trentacinque campane che suonano diverse melodie classiche francesi. La città è un meraviglioso esempio di stile neo-fiammingo e regala tonalità color mattone e legno bruciato. Gli edifici si specchiano sulle strade bagnate e i riflessi rendono magico ogni singolo sguardo. Pigio i tastini della macchina imprimendo in memoria un paio di fotografie e riavvio la centrifuga di pensieri a pedali, puntando a sud est in direzione di Armentières. 48
Sparo in trenta minuti netti dodici chilometri di rettilineo posto parallelamente al confine con il Belgio, allontanandomi dalla perturbazione con il sole che inizia a scaldare e regala la gioia di una pedalata vestito da ciclista senza gli ingombri di casacche e pantaloni di nylon ingombranti. Attraverso questo magnifico borgo soffermandomi soltanto un paio di minuti nella piazza ospitante il campanile e il municipio dove ingollo un litro d’acqua alla fontanella ed elimino il cellophane ormai srotolatosi dalle scarpe. Il campanile con l’annesso municipio è un altro esempio fiammingo in mattoni e pietra bianca alto sessantasette metri con un enorme carillon di undici campane delle quali una in bronzo di 1220 kg. Una particolarità di questi campanili monumentali è di essere stati ricostruiti più volte, perché rasi al suolo duranti i conflitti mondiali. Il tempo stringe, sono le tre e mezza del pomeriggio e devo fare ancora sedici chilometri per arrivare a Lille. La navigazione è semplice e diretta ed entro in città dal lato nord alle quattro e mezza. Il primo assaggio della bellezza della città lo offre la Porte de Paris, una sorta di arco di trionfo dominante un viale che conduce al centro. Si trova in una piazza da dove ammiro anche il campanile di Lille in stile art-decò misto al fiammingo che sale a centoquattro metri e sulla sua sommità ospita un faro d’avvistamento e le antenne televisive. Lille è ordinata, ha un traffico sostenuto ma regolare, gli edifici sono di stili diversi ma si accompagnano con gusto e pedalo con leggera allegria tra i viali che portano alla sorprendente place du generale De Gaulle lastricata di graniti blu e rosa, coronata di costruzioni straordinariamente aggraziate, tra le quali risaltano la vecchia borsa, la sede del quotidiano “La Voix du Nord” e il teatro del nord. Al centro della piazza svetta la “Colonne de la Déesse”, un pilastro circondato da una fontana, sormontato dalla statua della Dea del Tizzone, un complesso artistico alto quindici metri e mezzo. La statua della dea, sostiene un tizzone nella mano destra pronta ad accendere la miccia dei cannoni e rappresenta la risposta francese all’assedio e all’aggressione austriaca nel 1792. Seduto sui bordi della vasca ad armeggiare 49
con il telefono intelligente, sondo i siti di alberghi per trovarne qualcuno di abbordabile nelle vicinanze del centro. I più economici sono in periferia ma voglio rimanere in zona, considerata l’ora e il desiderio di svagarmi almeno un po’. Due ragazzi sui venticinque anni, vedendomi perplesso sul da farsi, mi salutano avvicinandosi, e molto gentilmente m’informano che poco distante c’è un ostello a buon prezzo che ha camerate molto tranquille e pulite. Il mio francese migliora, riesco a comprendere il significato delle frasi, anche se ribattere e fare domande è già più complicato. Vengono in soccorso le indicazioni confrontate tra gli smartphone proiettanti metri quadri di mappe a colori. Forniscono la direzione da prendere, un itinerario che imbocca un’uscita a nord dalla piazza senza abbracciare svolte complicate. Dopo i saluti e i ringraziamenti metto le ruote sul duro e sconnesso pavè, costretto a salire sui marciapiedi per non spaccare la bicicletta. Mi smarrisco nel borgo, dopo aver passato l’ostello senza rendermene conto. Costretto a chiedere informazioni ai passanti, sono prontamente indirizzato al portone del Gastama in rue saint Andrè 109, dove una scimmia stilizzata, nella targa sopra la porta, porge il benvenuto e dopo aver parcheggiato sul muretto che sostiene una vetrata, entro a indagare. All’interno i computer stanno gomito a gomito con le spine del bar, in un arredamento etnico popolato da un miscelanza di razze e costumi. Alla reception un ragazzo sorridente si rende immediatamente disponibile alle mie richieste e dopo un rapido controllo propone un letto nella camera mista da otto persone per 21euro, un prezzo irrinunciabile, accettato in subordine al trovare una sistemazione per la bicicletta. Conferma di avere uno spazio adeguato, quindi mi accompagna nel sottoscala e mi aiuta a porla a fianco alla ringhiera dove la assicuro. Tornati alla reception, ticchetta alla tastiera per registrare i dati e avute le indicazioni di massima, salgo in ascensore al terzo piano, con le braccia piene. Sorreggo le borse posteriori e anteriori, le lenzuola, il borsello a tracolla e il badge per aprire la porta della camerata stretto tra i denti. Percorro un breve corridoio e mi accosto alla porta con l’orecchio. Nessun rumore dall’interno ma picchio due colpetti per avvertire il mio ingresso, passo la carta magnetica accanto alla maniglia innescando il motorino della serratura che rilascia la porta, spingo e infilo la testa dentro a curiosare, adocchiando un ragazzo disteso su una branda 50
che mi rivolge un cenno di saluto con la mano, subito corrisposto. La stanza è curata e pulita, tinteggiata di bianco e verde con il soffitto spiovente e il pavimento di linoleum grigio. Sulla sinistra un letto a castello e più avanti a destra altri tre a ridosso della parete che gira in fondo a sinistra verso una finestra rischiarata dalla luce presa da una corte interna. Chiedo quali sono i letti liberi e mi indica una branda superiore dove con sollievo, noto ci sono due prese per la corrente per allacciare il telefono e la macchina fotografica, garantendo di poterli tenere a portata di mano. Sotto le brande inferiori di tutti i castelli ci sono due enormi cesti estraibili, uno per ogni posto letto, in rete metallica consentendo al coperchio di essere messi in sicurezza con un lucchetto. Vi ripongo dentro sacche e valigia per provarne la capienza e poi inizio a spogliarmi per andare a lavarmi nel bagno dotato di tutto quello che può servire e in primis una doccia spaziosa con acqua calda illimitata. La sensazione di calore sulla testa mischiata a quella di aver trovato una sistemazione ideale, infondono serenità e voglia di una quiete prolungata ma è anche vero che altri potrebbero avere necessità di usare il servizio. Avvolto nel piccolo asciugamano da mare, quello con i delfini, termino lo scollamento con la realtà tornando in picchiata verso l’organizzazione mentale della serata. Un piccolo ceck-up alle gambe valuta l’elasticità al piegamento del quadricipite, la tenuta di anche ginocchia e caviglie e la tonicità del polpaccio e tutto sembra essere perfettamente in ordine. Uscito dal bagno, mi trovo nella stanza riempitasi con il sopraggiungere degli altri ospiti. Baptiste, un ragazzone di colore, presta servizio nella marina militare francese e si sta concedendo una vacanza durante una licenza. Steso nella branda sotto la mia, giochicchia con il telefono mentre conversa con Pierre e Charléne. Sono un po’ imbarazzato, e ricambio con un rapido gesto della mano il loro corale saluto del “Bonsoire” per mettermi addosso la tuta da ginnastica. Non ho portato capi d’abbigliamento per uscite serali particolari per contenere il peso e alla ricerca di una perfezione ho messo nelle valige questa tuta nera e giallo fluorescente dall’incredibile leggerezza, abbinate a un paio di scarpe da ginnastica della stessa tinta. I tre compagni di stanza confabulano, mi avvicino mentre tiro su la zip della giacca per dare loro la mano e presentarmi. Stanno decidendo cosa fare per cena e dopo i convenevoli Charléne m’interroga sulle mie intenzioni per la serata, perché vorrebbe uscire per mangiare in uno dei ristoranti della città, uno della lunga lista di indirizzi 51
annotati su un foglio di carta passatogli da un tale alla reception. Chiede se sono disposto a tener loro compagnia per cena, dando il mio assenso, molto felice di poter mangiare in compagnia ma gli altri convitati hanno propositi diversi per la serata e deduco sospettino conti un po’ troppo salati, preferendo deviare verso qualche fast-food. Charléne un po’ disorientata, ringrazia lo stesso abbassando la mano che tiene il foglio e delusa dalle risposte mi si rivolge chiedendo se per me rappresenti un problema uscire io e lei soltanto. Rispondo di essere felice di cenare assieme, disponendo per un paio d’ore di qualcuno con cui chiacchierare, quindi senza indugiare oltre, chiudo il cassone con i bagagli, organizzo il borsello e usciamo dalla stanza per andare alla ricerca di uno dei posti sulla lista. Charléne chiacchiera, si esprime in francese molto chiaramente e in modo comprensibile, mano a mano che conversiamo riesco a esprimermi sempre più, con sufficiente fluidità e quando non lo faccio lei mi guarda di traverso allungando l’orecchio per capire, poi sorride e mi corregge, spiega la differenza tra un vocabolo pronunciato in un modo o in un altro. Le racconto del mio viaggio fino a quel punto mentre con un occhio segue le indicazioni sul foglio, chiedendomi se dobbiamo svoltare a destra piuttosto che a sinistra. Diventa impegnativo, divertente, ridiamo per la somiglianza tra “droite” e “toutdroit” vocaboli indicanti “destra” oppure “sempre dritto” e di come questo possa creare degli incidenti di navigazione. Lei ha ventisei anni ed è venuta da Parigi per frequentare un corso di specializzazione per conto di un’organizzazione attiva nell’area degli eventi culturali di integrazione. È nata in Bretagna, e li ha lasciato i genitori e la sorella che spesso va a trovare, invitandomi a visitare la sua regione, meta di moltissimi ciclisti erranti, carichi di bagagli. È robusta ma atletica, ha i capelli castani e riccioluti di media lunghezza raccolti sulla nuca e due boccoli scendono vicino alle orecchie, ha un viso tenero, lo sguardo attento e curioso, la fronte spaziosa e un profilo quasi mediterraneo, sembra di chiacchierare con la riproduzione vivente di una scultura raffigurante la mitologica Era. Arriviamo al ristorante Chez Armand, trovandolo pieno e la signorina della sala ci informa dispiaciuta dell’impossibilità di avere un tavolo senza prenotazione, quindi giriamo ancora una mezz’ora per arrivare in un altro locale trovando una carta del menù somigliante all’estratto conto di Rockfeller quindi glissiamo su una modesta e saziante ipotesi di pizza nel primo posto capitato a tiro. 52
Entriamo in una pizzeria con un nome che è un programma: “All pommodoro”. Sull’insegna pubblicitaria, promette di gustare la vera pizza italiana e, infatti, siamo accolti dal proprietario, un egiziano costantemente sorridente. Un cliente corpulento appoggiato al banco fa un brindisi nella nostra direzione, l’ennesimo suppongo, e al nostro imitarlo con un cenno della testa ci ringrazia. Incoraggiato, si avvicina e chiede di sedersi per offrire da bere, si presenta come Thedore, di nazionalità russa, accettandolo dopo aver adocchiato il proprietario che fa intendere sia innocuo. Lo strano trio chiacchiera, ogni tanto l’egiziano fa una battuta e il clima è allegro, fino a quando arrivano le pizze e l’ospite si accomiata e noi si mangia una pizza indiscutibilmente buona. Al rientro godiamo del fresco e delle luci della città durante una breve passeggiata terminata nella camerata popolata dagli altri ospiti, e infine prima di arrampicarmi sulla branda, ci auguriamo la buonanotte sottovoce per non disturbare chi già riposa. Dopo aver collegato il telefono al carica-batterie, osservo gli altri presi a relazionarsi. Sembra banale ma mi diverte perché nella piacevole novità della condivisione della stanza considero singolare l’indiscrezione penetrante in una porzione intima di spazio, spartendola senza arrestarmi davanti al pudore che spesso spinge ad appartarmi. Baptiste dorme e Charlène scambia alcune battute con Eloise, una ragazza con la testa coperta da una chioma rasta. Eloise si muove e cammina come se danzasse, parlano piano e ridacchiano mentre gli altri sono persi nel mar del web con le facce illuminate dagli schermi e gli occhi sgranati e tremolanti dentro mille indirizzi. Un ultimo saluto veloce verso casa chiude la mia giornata per augurare la buonanotte, lasciando sia poi il sonno a prendersi cura dei miei affaticati tessuti. (Play Il Giorno e la Notte-Mariella Nava)
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Martedì 17 giugno 2014 Il mattino riprende al suono della sveglia del telefono regolata alle sette, ma già sono con un occhio aperto aspettando strimpelli il motivetto della pantera rosa. Scendo e prendo la via del bagno per una doccia tonificante e quando esco Charléne è l’unica oltre a me a essersi già svegliata. Aspetta con l’asciugamani poggiato al braccio e lo spazzolino nella mano destra per occupare il mio posto, mi saluta e si eclissa dietro la porta. Il tempo non è dei migliori, sospetto faccia fresco e quindi vesto in lungo chiudendo velocemente i bagagli, dispongo il telo da bagno umido nella retina della valigia, per consentirgli d’asciugarsi mentre pedalo e prima di andare aspetto Charléne per salutarla. Quando esce, le chiedo se ha piacere di far colazione e lei accetta l’invito. Prendiamo assieme l’ascensore, lei sbarca al piano della reception mentre io proseguo verso la cantina per riprendere la bici, installo sui portapacchi il bagaglio e risalgo per raggiungerla al bancone del bar del Gastama. Nulla di eccezionalmente particolare nel menù della colazione, ma è l’atmosfera del posto a rendere tutto più saporito e interessante, gli arredi, la cortesia del personale e la disponibilità a sorridere di Charlène, raggiunta nel frattempo da Eloise. Mi persuadono a spalmare di burro salato le fette biscottate, coperte infine con un velo di marmellata perché sarebbe stato un crimine non assaporarlo nella regione che si fa vanto di essere la migliore del mondo nel realizzare questo prodotto caseario. Sono le otto e un quarto ed è tempo di andare, ci scambiamo un abbraccio, un paio di foto e l’amicizia sul social, quindi inizio ad affrontare il temibile pavè di Lille a caccia di un’uscita che porti rapidamente fuori dal centro abitato. Passo la stazione dei treni di Lille-Flandres e dopo un paio di giravolte sopra i ponti e nei sottopassi, riesco a immettermi sulla D941, correndo spedito verso il Belgio sotto un cielo grigio, schivando qualche provocatoria goccia di pioggia. (Play Marchi feat.Luciana - I Got My Eye On You) Le gambe girano nel tepore della salopette portandomi a sostenere una velocità di venticinque chilometri l’ora con il sospetto di essere aiutato da un leggero vento favorevole. Transito per Baiseux e quando il contachilometri dichiara di avere registrato diciassette chilometri, attraverso il confine tra Francia e Belgio. Ora, la strada prende la sigla di N7 (chaussèe de Lille) ma non cambia di una virgola come qualità di asfalto e soltanto la segnaletica rende evidente il passaggio perché le indicazioni che 54
prima erano su pannelli bianchi bordati di rosso, ora sono per lo più gialle e al venticinquesimo entro a Tournai. Arrivo subito nella triangolare Grand Place, circondata da edifici seicenteschi in stile fiammingo fedelmente ricostruiti dopo i bombardamenti del 1940. Caratteristica, spettacolare è una fontana a pavimento lunga una cinquantina di metri, con due ali di zampilli ad attraversare il piazzale e subito ne approfitto per fare una sorta di giocoso arrivo fino all’altro capo. Smonto dalla bici per fare qualche scatto e per prendermi una pausa davanti a un caffè fumante prima di andare a dare una sbirciata dentro le due chiese. Imponente la cattedrale di Notre-Dame, uno degli edifici religiosi più importanti del Belgio, costruita in stile gotico e ampliata in periodi successivi sulla base di una chiesa romanica. Più raccolta, ma non meno considerevole, la chiesa di san Giacomo Apostolo che nei secoli ha ospitato moltitudini di pellegrini in viaggio verso Santiago di Compostela. A differenza di altri edifici religiosi già visitati trovo sempre più spesso le pareti interne, nude ed essenziali. Decorazioni pittoriche e stucchi, marmi e altari laterali scompaiono per lasciare il posto a pietra grezza e colonnati levigati che da terra partono a sorreggere le volte. Questa semplicità restituisce a mio avviso sacralità alle cattedrali riportandole a essere luogo di raccolta di fedeli, anziché esibizione di sfarzo. All’esterno dalla chiesa un questuante insistente da noia a tutti i passanti e per evitare di innescare discussioni inutili, balzo in bici per andare alla ricerca di una bandierina del Belgio da mettere sulle valige dietro al posto di quella francese. I negozi di souvenir ne sono sprovvisti e nemmeno all’ufficio del turismo hanno qualcosa di decente, anzi un’impiegata offre una bandierina di carta per cinque euro cortesemente rifiutata. Fuori dall’ufficio faccio il punto mappa iniziando a programmare un obiettivo di giornata mentre alcune foto partono alla volta di facebook 55
Mancano novanta chilometri a Bruxelles e con ottime probabilità posso arrivarci con quattro ore di pedalata, quindi dopo una visita al supermercato per uno spuntino dolce, aggancio i piedi iniziando a mulinare di buona lena sulla carreggiata che attraversando Ath conduce a Enghien. Sul tragitto, sono pittoresche le rotonde ospitanti sculture di paglia riproducenti alla prima un drago che nuota nell’aiuola, nella seconda una scena indiana con tre tigri e alla terza un ritratto teatralmente americano con carro da pionieri e tacchini da giorno del ringraziamento. Finalmente, in un distributore di carburanti, riesco a trovare la bandierina del Belgio, una di quelle fatte appositamente per sventolare fuori dai finestrini delle macchine, già viste transitare in gran numero. L’acquisto al modico prezzo di cinque euro e mentre passo la banconota oltre il banco, lo sguardo cade sui titoli di un quotidiano in vendita e leggo l’articolo annunciante l’imminente prima partita del Belgio opposta all’Algeria, prevista alle diciotto. Dopo la ripartenza, i quadricipiti consumano rapidamente le riserve di glicogeno e i sali dell’integratore servono a poco per cancellare la sensazione di spossatezza, quindi arrivato a Enghien, dopo aver scattato una foto, adocchio un ristoro dietro di me sulla sinistra denominato “Le Croustillant”, con invitanti foto pubblicitarie di panini. Dentro, mi accoglie un gentilissimo ristoratore che consiglia di assaggiare una particolare salsiccia prodotta in zona, servendomela con un canestro di pane. Mentre mastico golosamente lui chiede da quale luogo provengo e intavoliamo una chiacchiera tra il suo essere curiosamente attratto dalle tappe della Mille Miglia e il mio glorificare la sua salsiccia. Mangio ancora un dolce e dopo aver pagato, mi porge inaspettatamente una busta con un altro panino imbottito, un croissant e una bibita e regalandomelo, raccomanda di fare buon viaggio, senza mancare una visita al parco del castello cittadino. Bastano poche decine di metri e passo sotto il portico barocco chiamato la porta degli schiavi entrando nel vasto comprensorio ospitante le Château Empain, assieme al giardino dei fiori con un rigoglioso roseto e il conservatorio europeo della dalia, arricchito da una raccolta di 540 varietà provenienti da tutto il mondo. 56
Proseguendo, arrivo al giardino eptagonale ospitante “Le Pavillon des sept étoiles” (padiglione delle sette stelle), costruito per osservare la volta celeste. Nelle navate laterali, vi sono le statue rappresentanti i sette pianeti del sistema solare conosciuti negli anni attorno al 1650, pianeti che si potevano osservare a occhio nudo dal padiglione. Sono ritemprato, sazio per l’ottimo spuntino e tonificato nello spirito per la cortesia ricevuta dall’oste belga e con gli occhiali calati sul naso, punto verso est uscendo dal centro abitato immergendomi in un oceano verde chiazzato di mucche e cavalli. L’asfalto diventa sempre più liscio, il tempo migliora e mi metto in testa l’obiettivo di arrivare a Bruxelles in tempo per guardare la partita dal suo fischio d’inizio, immaginando la capitale invasa di supporter festanti ai quali unirmi. Vado rapido su un rettilineo di dieci chilometri terminante nel borgo di Halle imboccandone un altro che dopo quattordici chilometri con un sole finalmente generoso propone il mio ingresso ad Anderlecht, creando l’illusione di essere arrivato. Sono le 17e25 quando scorgo nel parcheggio di un grande centro commerciale una zona occupata da un trionfante schermo gigante, posto vicino l’ingresso dello store di un grande marchio dell’elettronica, udendo il commento dei giornalisti unito a un basso imperioso di musica techno. Mi infilo velocemente tra cordoli e slarghi sperando di avere trovato una piazza dove assistere all’incontro. Purtroppo, è una zona recintata alla quale si può accedere soltanto previo pagamento di dieci euro. Scocciato per avere perso tempo nella girandola di sensi unici, riprendo la via per il centro di Bruxelles attraversando la periferia che sbalordisce per il fiorire di bandiere bianco-verdi con la mezza-luna rossa dell’Algeria a ogni angolo dei quartieri. Ci sono continui caroselli di macchine listate all’algerina, un suonare di clacson e improvvisate platee di sedie fuori da tutti i kebab incontrati, accorgendomi di essere al centro quando arrivo nella piazza principale e improvvisamente il caos termina. Solo in alcune birrerie ci sono dei rari supporter belgi con la maglietta rossa che fanno un tifo composto, frammisti a 57
gruppi di turisti giapponesi. Scelgo la birreria più adatta a tenere d’occhio la bicicletta legata fuori dalla porta, accomodandomi su uno sgabello davanti a una birra gelata e un ciottolino con tre patatine. Un clima pacato accoglie il fischio d’inizio, tanto da pensare di avere sbagliato posto, di essere capitato nel bar meno interessato al calcio di tutto il Belgio. I baristi sono gli unici che sembrano agitarsi spinando birre in continuazione. Ci sono tre schermi da cinquanta pollici nel locale ma guardo la partita con crescente distacco perché non sento fervore, accaloramento e se già la partita dell’Italia era passata in secondo piano chiacchierando con i miei amici inglesi, questa lentamente si spegne con il passare dei minuti. Sullo sgabello accanto al mio siede un nuovo amico, un giapponese con un capello stile giungla sulla testa, rumoreggia, ride di tanto in tanto mimando un tifo acceso e appassionato. Propone un brindisi a ogni azione di rilievo quando stacca gli occhi dallo schermo del suo portatile dove scorrono pittogrammi giapponesi somiglianti a una videata di Matrix. Alla fine del primo tempo, lo saluto mentre mi alzo per uscire, accenna a un inchino con il capo e ridendo socchiude gli occhi prima di tornare al suo virtuale. Slego la bicicletta dando un’occhiata scettica alla bandierina belga sul posteriore e comincio a consultare il sito degli alberghi individuandone uno economico poco distante. Prima di andare passo per la magnifica Grand Place per contemplare le opere architettoniche a girotondo.
Stupisce il palazzo del municipio con la “Tour Inimitable”, la maison du Roi in tardo gotico fiammeggiante, la casa dei duchi di Brabante che al numero tredici ospita il museo del cioccolato, e le case delle corporazioni. Poi con passo deciso parto verso l’indirizzo dell’albergo segnato, il Botanique in rue Traversiere 32. Fatico un po’ a trovare l’albergo, ubicato in un palazzo incastrato tra gli altri nei vicoli della prima periferia urbana. È un quartiere dominato da un amalgama etnica multiforme. Quasi tutte le attività commerciali, come botteghe, bar e anche gli alberghi, sono in mano ad orientali. Sugli angoli delle case sono appoggiati a chiacchierare uomini dalla pelle ambrata, scura, mi fissano con gli occhi marroni mentre passo arrancando su una salita. Donne fasciate in vestiti scuri e il viso coperto transitano veloci su ballerine di pelle, trasportano le borse della spesa, senza volgere lo sguardo. Il tramonto toglie luce alle strade 58
pavimentate di sassi, infilandosi con toni giallastri a contrastare il grigiore diffuso tra i vicoli. Sono affaticato, lurido, puzzolente, ogni sasso del selciato trasmette una vibrazione secca alle braccia, avverto anche la stanchezza della bicicletta a tutti quei colpi ma finalmente entro nella porta marrone aperta nella parete rosa confetto dell’albergo. Ad accogliermi, trovo un ragazzo indiano che propone, parlando un francese accademico, una stanza con bagno esterno per trentacinque euro e senza pensarci troppo accetto. Sistemata la bicicletta in una saletta riservata al pian terreno, salgo al secondo piano mentre lui scappa nella sala in cui la tele trasmette i rimasugli della partita del Belgio che va a vincere 2-1 con l’Algeria. Non ho capito quale sia la sua squadra del cuore, ma non m’interessa perché ora sono dentro la stanza e appoggio a terra i bagagli dentro una scena somigliante a quelle televisive viste mille volte, teatro degli omicidi irrisolti newyorkesi, di commessi viaggiatori e prostitute. Ho anche il letto ad arco e un lavandino nell’angolo alla mia destra che all’occorrenza può svolgere le funzioni di orinatoio e bidet. Poco importa, la tele funziona e accompagnato dal sonoro, mi denudo e testo la morbidezza del giaciglio prima di darmi da fare con il bucato. Metto un asciugamano addosso e nel bagno esterno riempio il secchio della spazzatura di acqua calda, verso il detersivo liquido e tornato in camera metto in ammollo calze e mutande, maglia e tuta corta annegandole come un sadico omicida. La doccia mi omaggia di un massaggio lenitivo tacitante l’indolenzimento delle gambe, la tuta ginnica conclude i preparativi per un breve giro nei dintorni di Bruxelles a caccia di qualcosa da addentare. Scendendo le scale intrattengo un dialogo con i muscoli delle gambe convincendoli a fare una camminata per slegare la rigidità che li avvolge. La serata è piacevole ma l’aria è piuttosto fredda imponendomi a indossare anche la giacca antivento bianca. Passo di fianco al giardino botanico e scendo verso il centro mantenendo sulla destra una serie di palazzi smisurati di acciaio e cristallo che svettano scuri e tecnologici. Rare le loro finestre illuminate di giallo, chiazzanti il nero delle torri sul boulevard du Jardin Boutanique con luci rosse sulle terrazze imboschite di antenne. Accentuano la parvenza del disegno di un fumettista che alle loro spalle aumenta la drammaticità, 59
spennellando un tramonto soccombente alla notte. Quando penso di essere sceso abbastanza, svolto a destra per immettermi nel centro, diventando improvvisamente spettatore di un carosello di macchine festanti, di gente che salta, balla, suona il clacson e trombette, sventolando la bandiera del Belgio, vittorioso nel match di esordio ai mondiali di calcio. Passa una macchina sgommando. Protese all’esterno, siedono sui finestrini delle porte posteriori due ragazze inneggianti. Con una mano si tengono salde e con l’altra sventolano barattoli di birra come fossero le vittoriose atlete che hanno conquistato la coppa del mondo. La macchina ritorna, si ferma e gli occupanti scendono per unirsi alla movida di una festa calcistica che sembra il pretesto per una sbronza collettiva. Sono immobile a guardare, notando il formarsi di due schieramenti, uno è quello dei festeggianti e l’altro quello di un pubblico composto di turisti e passanti che osserva e ride, scattando foto per immortalare un fuori programma nel giro di giornata. Le luci della notte creano istantanee suggestive nel centro città e allo stesso tempo le tenebre nascondono una bellezza che comunque non riuscirei a cogliere, complici la stanchezza e un appetito che invitano a prendere la direzione dell’albergo dopo una sosta in qualche locale per addentare qualcosa di veloce. L’occasione è una friggitoria con un paio di sgabelli all’interno che prospetta “la vera patatina fritta belga”. Incuriosito dallo slogan e dal costo di quella e altre proposte del menù, entro e ordino al friggitore una porzione di patatine e un panino con l’hamburger. Scorrendo il volantino del locale mentre aspetto sia pronto, leggo che il Belgio rivendica la paternità delle "Pommes frites". Sembra che la ricetta risalga alla fine del 700, quando i valloni della provincia di Namur non potendo pescare nel fiume Mosa ghiacciato in inverno, sostituivano i pesciolini con le patate tagliate a forma di pesce. In Belgio le patatine fritte sono un'istituzione talmente famosa e cara ai suoi abitanti, arrivando ad avere un museo a Bruges che racconta la loro storia. Le patatine, che siano preparate in casa o come street food nelle friggitorie, sono fritte ad arte per ottenere la perfetta consistenza: croccanti fuori e morbide dentro. Si procede a una doppia frittura, solitamente nello strutto portato a 160 gradi per la prima passata e a 180 per la seconda. La mia conoscenza del francese interpreta a sprazzi la locandina sorretta tra le mani e incuriosito, indago con lo sguardo tra la piastra e il forno e per quello che riesco ad afferrare, sembra ci sia una sola friggitrice per immergere i cestini con le patatine. Mi vengono servite su 60
di un piatto sopra una carta assorbente, assieme al panino arso vivo dentro il forno atomizzatore. Il mix è robusto, fragrante, le patatine non differiscono molto da altre prese a Canterbury o a Messina e il panino è succulento quanto basta per lottare con l’effervescenza degli assaggi di Coca-Cola. Lo stomaco si riempie di sorso in boccone, pago, ringrazio e riprendo a camminare per rientrare all’albergo. Durante la passeggiata in salita mi trattengo per una decina di minuti all’ingresso di un bar stracolmo di brasiliani intenti a fare un tifo allegro e ballerino per i propri beniamini che giostrano un pallone facendo molta difficoltà nel portare avanti il gioco. I giocatori sembrano lenti, impacciati e il risultato di pareggio forse li premia fin troppo. Ma lo spettacolo è qui, nei sorrisi aperti sopra gli ombelichi di due mulatte statuarie che sambano sui tavoli, nelle maglie verde-oro e nel cantilenante e sensuale portoghese rimbalzante in ogni angolo della sala gremita di persone prese a brindare due volte al secondo. Sorridono tra loro ammiccanti, tutti sono coinvolti e partecipano alla telecronaca a sprazzi, perché anche in questo caso il calcio diventa aggregante per tutti quelli intenzionati a fare festa. Mi stacco dal richiamo della foresta per raggiungere la mia stanza e il secchio con il bucato contenente un grigio miscuglio di acqua fredda e stracci che sciacquo, strizzo e stendo. Preparo la mappa del giorno dopo, controllo le previsioni del meteo, date per buone e le altimetrie dei percorsi su diversi itinerari. Ho la sensazione che potrebbe essere una tappa impegnativa quella di domani, col mattino che trottava veloce già dal crepuscolo. Spengo le luci, abbasso la saracinesca, infilandomi nella mia notte sul letto a barca. - (Play When I Fall In Love-Celine Dion)
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Mercoledì 18 giugno 2014 Tre o quattro battiti di ciglia lasciano filtrare la luce attraverso il nervo ottico, che s’insinua dentro la consapevolezza di un cervello che come un gonfiabile prende forma dentro la testa. I collegamenti con la periferia si riattivano facendo circolare l’indicazione di una schiena a banana e nello stiracchiamento frusto le gambe e le braccia che infine portano le mani a raccogliere uno sbadiglio. Con un occhio aperto e l’altro chiuso prendo la mira sul display del cellulare indicante le sette. Una rapida sbirciata sulla stanza verifica di trovarmi nella stessa della sera precedente con la spiritosa consapevolezza di essere ancora vivo. Frusciando, i dettagli si raccolgono e diventano progetti, priorità, necessità e prima tra tutte quella di andare a fare la pipì quando tutto diventa chiaro, reale e concreto. Sono a Bruxelles, in capo all’Europa, in rotta solitaria verso sud per un rientro a casa incredibilmente lungo e oggi parto verso il Lussemburgo imponendomi assolutamente di arrivare alla tappa intermedia di Namur e tenendo anche conto di voler fare un piccolo giro per la città ospitante, devo cominciare a salpare. Inizio a scattare per la stanza dopo un fremito di adrenalina, un’emozione spronante e subito dopo, completo il ridestamento nella doccia nel bagno in esterna. Gli indumenti sono ancora un po’ umidi, ma poco importa perché mettendo la testa fuori dalla finestra, avverto un tepore convincendomi che si asciugheranno abbastanza in fretta dopo averli indossati. La bicicletta attende silente, ipnotica nella sua posa dimessa, disinteressata. Per un attimo penso di doverla considerare un semplice mezzo meccanico, ma la logica si annulla nella voglia di essergli compagno attento nel maneggiarla, piuttosto che uno sportivo torchiante all’infinito. Non c’è nessuno alla reception e considerando di avere già pagato e ritirato il documento, spingo la porta con la ruota anteriore ed esco avviandomi verso il centro. Dopo un centinaio di metri parcheggio per prendere un caffè e informarmi quanto dista l’Atominium, la costruzione realizzata in occasione dell’esposizione universale del 1958. Al banco, un cliente baffuto tiene per mano la figlia e dalla loro fisionomia concepisco il bizzarro pensiero di attribuirgli provenienza iraniana. Lui a sua volta mi squadra dalla testa ai piedi incuriosito dalla mia tutina dell’Italia. Provo a domandargli informazioni e questo, molto disponibile, riferisce che l’opera dista circa sei chilometri, specificando si trovi dentro un’area alla quale si accede pagando un biglietto. Con un rapido calcolo trigonometrico evinco che la visita porterebbe via un paio d’ore sempre che l’orario d’apertura per l’ingresso al parco sia concomitante con il mio arrivo. Decido di lasciar sfumare la visita e 62
salutando l’uomo preso da baluardo dalla figlia nascosta dietro i suoi calzoni grigi, punto al centro per compiere una pedalata informale, ripercorrendo in principio il percorso fatto a piedi la sera precedente. Dopo un paio di chilometri inizio a vagare in un cantiere dedito a ristrutturare una parte del grande asse di scorrimento finché giro a sinistra immettendomi in un viale alberato intitolato a re Alberto II che porta alle immense Belgacom Towers svettanti dal 1996 a 102 metri di altezza facenti parte insieme alle Galaxy Tower, del World Trade Center di Bruxelles. Torno poi sul viale conducente alla basilica nazionale del Sacro Cuore, prospiciente all’Elisabeth Park, un giardino immenso luogo d’incontro con una donna trattenente al guinzaglio un cane rasato che mette in evidenza la pelle chiazzata di marrone e bianco e si distingue ancor di più con un ciuffo punk sulla testa e due deliziosi baffoni sul muso. Le chiedo il permesso di immortalarlo ottenendolo con un vicendevole sorriso, saluto e torno sul viale per cercare un’uscita cardinale verso sud. Oltrepasso il canale navigabile per Charleroi stuzzicato dalla sponda destra orlata con pali sostenenti delle allegre girandole colorate, ma l’orologio, ineluttabile scandisce il passare del tempo e dopo una breve sosta in un simpatico fast-caffè e un paio di foto nella piazza grande illuminata dal sole del mattino, inizio la navigazione seguendo le preziose indicazioni della cartina e dello smartphone, dando lo start al programma che memorizza la rotta di giornata. Bruxelles è grande, sconfinata e ogni svolta offre uno spunto imperdibile per scattare foto, annusare odori e assorbire la multietnica amalgama di persone, come quelle di una piazza occupata da un mercato dell’usato, uno in cui una posata consumata non è spacciata per antica, lo stesso che consente di trovare un paio di scarpe smesse, oggetto di attenta valutazione di un signore intento a comprarle. C’è di tutto, dalle bambole alle biciclette dimenticate nelle cantine, dai giornaletti alle sedie spaiate e ancora vestiti da sposa, vasi da notte e anche da soggiorno, quadri scoloriti e impianti stereo con il giradischi. Una sorta di giardino dove si vendono sogni consumati per tante stagioni e possono ancora essere utili prima di una rottamazione senza ritorno. 63
Esco dalla piazza sbucando davanti all’Hallepoort, l’ultima rimasta delle sei porte della seconda cinta muraria, che non esiste più. Ha le fattezze di un fortilizio, costruito in pietra bianca con una torre circolare nel mezzo, decorato con fregi neogotici, eretta a difesa della città nel quattordicesimo secolo, cambiando destinazione d’uso nel corso della storia ospitando una prigione, la dogana, un granaio e anche una chiesa luterana, una perla che rende prezioso il percorso verso il Palazzo di giustizia con la sua enorme cupola, posto su un colle dominante la città. La seguo a vista già da una mezz’ora, da quando scorgendola in lontananza sopra le case più basse o tra le parentesi quadre dei palazzi ai lati dei vicoli, ho pensato di raggiungerlo prima di lasciare il centro della metropoli. Scalo la salita del colle e i muscoli delle gambe cicalano a ogni ricircolo ma rispondono adeguatamente alle spinte che provo a forzare per scaldarli e giunto sulla sommità riempio gli occhi dell’avvenenza del palazzo, della sua austera grandezza, dei togati che salgono e scendono la scalinata d’ingresso con i faldoni sottobraccio o le cartelle appese di lato alle mani. È un edificio in stile eclettico neoclassico di dimensioni superiori alla basilica di san Pietro, alto centoquattro metri e largo centosessanta. Il cielo è sgombro e il sole prepotentemente frusta con i suoi raggi le poche nuvole bianche resistenti sopra la magnifica veduta di Bruxelles che vanitosamente tenta di affascinarmi con l’inaspettata visione dell’Atominium in lontananza, facendomi pentire di non essere andato a raggiungerlo. Tetti rossi e ciminiere, marmi bianchi e giardini rigogliosi, cupole e cuspidi sotto il muraglione dominante una piazza, si estendono a perdita d’occhio, qualcosa che non riesce a stare nell’abbraccio di uno sguardo, ma il tempo stringe e l’avventura chiama tiranna, golosa delle mie energie da dispensare in viaggio, felice d’essere stato ospite di una città unica, in un giorno qualunque. La temperatura dell’aria è invitante e finalmente un sole raggiante dispensa luce e calore dopo le prime giornate di viaggio un po’ fosche, correndo sul viale tra filari di querce prima di arrivare al castello ospitante l’ambasciata thailandese. Alla sua vista immagino nella fantasia un maniero popolato da un misto culturale di feudali belgi ed eroici cavalieri con gli occhi a mandorla e combattimenti. 64
Entro al supermercato Carreffour per soddisfare un languore e per non esagerare con le calorie scelgo di abbeverarmi con uno yoghurt alla frutta e di mangiare una parte della confezione di biscotti che compro per approvvigionarmi se dovessero servirmi energie mentre pedalo. La bicicletta è legata al palo, ma all’interno del negozio mi muovo rapido tra le corsie per evitare ingolosisca qualche malintenzionato, aiutato dall’abituale schema di collocazione delle merci che contrassegna ogni supermercato al quale mi sono rifornito. Ecco, in questo l’Europa risulta unita, omogeneizzata perché nella grande distribuzione c’è un linguaggio comune di marchi e messaggi, il cibo è standardizzato e la disposizione studiata scientificamente per invogliare un acquisto da concludere con una valuta identica dalla Sicilia a Capo Nord. Come sempre, quando è possibile, pago con il bancomat per non dover ricorrere a prelievi di contante agli sportelli bancari e per lasciare una traccia sull’estratto conto che più avanti possa piacevolmente ricordami dove e quando ho fatto un qualsiasi acquisto. Slego la bici, calo gli occhiali sul naso e montato a cavallo inizio un tragitto di sorseggi e giri di shimano, di delicati morsi e piccoli ruttini fino a quando la strada non si complica dividendosi in tre corsie: due per i sensi di marcia dei veicoli, pavimentate in pietra e una centrale dedicata alle rotaie del tram. Per una breve pausa, siedo su una panchina per masticare con calma gli ultimi bocconi della merenda, compio un ricambio fisiologico in un bosco e in fine riprendo con maggior concentrazione la pedalata verso i campi di battaglia di Waterloo. Invece, vengo ancora incuriosito e distratto poco più avanti da alcune sculture plastiche che riproducono a varie grandezze riproduzioni di conigli fucsia e papere rosse, di boxeur francesi tinteggiati con i colori di diverse nazioni d’Europa come anche quella di un maiale pezzato di rosa e nero. Percorro ancora un chilometro e un cartello m’invita a svoltare a destra per accedere al tennis club “Wimbledon” ma proseguo per la statale Waterloosesteenweg N5 entrando dopo diciotto chilometri facili facili a Waterloo. Il borgo, ospita il museo Wellington posto in un edificio vecchio di trecento anni, su due piani, orlato delle bandiere dell’Europa con un cancello che porta la data 1815 a caratteri cubitali perché in quell’anno fungendo da stazione di posta venne scelto dal personale britannico come quartiere generale per coordinare le strategie contro l’armata napoleonica, mettendo la parola fine all’impero 65
francese del corso, dopo ventidue anni di guerre quasi ininterrotte. Napoleone suscita da sempre la mia lode, per il suo piglio determinato e folle, per la sua personalità decisa e autoritaria che rovesciava abitudini e consuetudini costringendo il prossimo ad adeguarsi al progresso nelle strategie e nella politica. Vittima del suo personaggio non ha saputo mediare portando fino alla morte le sue immutate caratteristiche d’indomabile condottiero e adesso sono a tracciare con le gomme della bicicletta un passaggio su uno dei luoghi più significativi del suo luminoso passato. Di per se, la cittadina non offre molte attrattive anche perché la battaglia si svolse più distante, nelle campagne circostanti, pertanto dopo un paio di foto mi avvio verso la “collina del Leone”, il mausoleo costruito per commemorare l’evento. Una squadra di operai sta scavando i fossati per la posa di alcune condutture, alzando un polverone incredibile e per evitare di finirci in mezzo, giro a destra su un vicolo che porta diritto alla collina artificiale alta quarantatré metri, con una circonferenza di 520 metri costruita sul luogo dove fu disarcionato da un colpo di moschetto durante la battaglia Guglielmo secondo dei Paesi Bassi, principe d’Orange. Sulla sommità domina il panorama, una statua da ventotto tonnellate raffigurante un leone, l’animale araldico dello stemma dei regnanti dei Paesi Bassi, raggiungibile con una rampa di 226 scalini che mi guardo bene dal visitare considerando anche il costo dei sette euro del biglietto di accesso. A parte il tempo da impiegare per fare una visita ai monumenti, anche il costo ha il suo peso nelle scelte perché se avessi visitato ogni luogo degno di attenzione a Waterloo, avrei finito con lo spendere una cinquantina d’euro per velocissime ispezioni senza memorizzare un ricordo duraturo nemmeno di dettagli curiosi che nelle condizioni di viaggio sportivo mi sfuggono. Per ora in questa esperienza m’interessa il tragitto e le cartoline di contorno, come fosse un viaggio esplorativo prodromo di altri passaggi. Suono il campanello per salutare i rarissimi ciclisti, ma alzano gli occhi e guardano una frazione di secondo, tirando dritti senza cenni di ricambio. Le macchine incrociate non sono frequenti, allo stesso modo di quelle che mi 66
sorpassano, e scrutando per brevi secondi gli occupanti, ho la sensazione siano persone fredde, poco propense al sorriso. Nemmeno la gente sui marciapiedi cammina lasciando intuire giovialità, la tinta della loro pelle vira sul grigio cenere e dentro di me subentra una sorta di accettazione, di rinuncia alla ricerca di un principio di allegria. Mi rifugio nella convinzione che non tutto può essere perfetto convertendo la bicicletta nel mio serbatoio di emozioni. Arrivo a un bivio e dopo una consultazione alle mappe mi convinco a entrare a Genappe, lasciando la statale N5 che attornia l’abitato, ravvisando di riprenderla dopo un paio di chilometri tra le vie centrali dell’abitato. Ho fame e questo mi fa propendere risolutamente per la soluzione escursionistica, approfittando per entrare in contatto con qualcuno, e spezzare così la routine e il ritmo. Fermo davanti all’ufficio turistico, mi rivesto con la maglietta di cotone dell’Italia per non dare fastidio con le nudità che potrebbero essere sgradite, entro nel porticato dove sembra non ci sia nessuno, rimirando il plastico di un maniero. Poco dopo entro dentro una grande stanza dove mi accoglie una signorina alla quale chiedo di illuminarmi sul luogo ospitante la costruzione riprodotta. Spiega che il castello non esiste più, essendo stato distrutto durante un conflitto, e il plastico è la copia tridimensionale dei disegni trasmessi sui libri di storia. Riferisce come a Genappe non ci sono molte altre cose da visitare e poi con molta cortesia mi congeda tornando a svolgere il suo lavoro. Proseguo per un breve segmento conducente alla piazza principale, fermandomi a fare un paio di scatti fotografici davanti a un rivenditore esibente uno striscione con il marchio “CUBE” quello della mia bicicletta, terminando il primo frammento di passaggio nel borgo davanti a un ristorante. Sfoglio la carta del menù esposta, con i prezzi delle pietanze da stordimento. Mentre appoggio la bicicletta al muro per andare dentro ad informarmi sulle specialità del posto avverto di essere oggetto di commenti da parte di un paio di clienti che stanno pranzando, sorridono e quando li fisso, fanno finta di nulla salvo poi ridere ancora al mio indirizzo una volta passato di fianco al loro tavolo. Il ristoratore resta sul vago, stranamente non insiste alle mie richieste perché di solito quando arrivo in un luogo turistico, la cortesia diventa strumento di lavoro ma in questo caso sento che la mia presenza non è gradita, quindi indugio un attimo e poi stizzito esco pensando che in fondo, se non aspirano ai miei 67
soldi, non ne hanno bisogno. Potrei privilegiare una capatina in qualche negozio di generi alimentari per acquistare un qualsiasi prodotto da forno da consumare all’aperto ma avverto anche la necessità di sedermi comodamente, di poter usufruire di un bagno per darmi una risciacquata e di mangiare un piatto con delle verdure cotte o crude per interrompere l’internazionalità del panino imbottito, annoiante quando diventa ripetitivo. Infatti, passo davanti a una sandwichwerié ma proseguo fino ad arrivare a un ristorante posto di fianco ad un grosso supermercato, ed entro dopo aver parcheggiato. È un luogo di sosta silenzioso, inondato di luce ed entrando levo gli occhiali da sole faticando a trovare la giusta apertura delle pupille. Le donne incrociate nel budello di mercanzie varie mi squadrano inespressive, forse soffermano lo sguardo sulla scritta Italia campeggiante sul petto della maglia per tornare grigie a scegliere i prodotti sugli scaffali. Passo dentro il negozio e dopo un percorso nel labirinto, individuo l’ingresso del ristorante dietro le casse, in prossimità dell’uscita, vi accedo, immobilizzandomi davanti al menù, messo nei pressi del banco delle comande del locale. Una signora da dietro, mi fissa e dopo averla salutata, le chiedo se è possibile avere un piatto di spinaci e pollo alla piastra. Per tutta risposta, si gira e chiama ad alta voce Gerard che si affaccia dalla cucina per guardarla come a chiedere telepaticamente il motivo del disturbo. Sempre per via telepatica, riceve istruzioni dalla donna sulla natura del problema quindi si accorge della mia esistenza e dopo avere strofinato palmi e dorso delle mani sul grembiule, si avvicina alla cassa e si siede su uno sgabello prestandomi attenzione. Riformulo la richiesta fatta alla donna, ora posta alle sue spalle e lui replica dicendo di non avere né pollo né spinaci (epinard). Rileggo il menù che ho davanti e chiedo di poter avere delle carote (carot), ma lui scuote la testa e dice di averle finite. Allora provo con le patate (pomme de terre), ma a questo punto storce il muso e insofferente, fissando la scritta portata sul mio petto, comunica greve, che per quelli vestiti come me, non ha niente. (Play Battle Without Honor or Humanity-Tomoyasu Hotei) Inizia un infantile sfida a chi molla lo sguardo per primo, resta in silenzio aspettando che me ne vada. Allento per primo temendo il peggio, mi guardo spaesato attorno incrociando gli occhi della donna tetri e spenti, quelli degli altri clienti ammutoliti e bui, capisco l’aria che tira e senza dire una parola esco dal locale, riuscendo a rantolare un vaffanculo generale solo quando sono all’aperto. Genappe assume un colore vomitevole, da schifo e provo stupore per il trattamento ricevuto senza motivo apparente.
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Ho un flashback del film Silent Hill, che racconta il convegno di morti da seconda dimensione e un pensiero sale nella mia testa a consolarmi, quello della bici con la quale spostarmi da questo posto merdoso, mentre loro qui ci moriranno. Slego la bicicletta, frastornato e dopo pochi metri sono di nuovo davanti alla sandwicherié Amandine per mettere qualcosa nello stomaco e teletrasportarmi velocemente altrove. Dentro il locale male illuminato domina nuovamente il contrasto di luce rivivendo la stessa scena di prima, con una donna dietro al banco che chiamato il suo uomo domanda frettolosamente cosa voglio. Anche lui squadra la mia divisa ma sono vaccinato e ora non mi faccio sorprendere da questa esplosione di antipatia. Scelgo un sandwich imbottito con prosciutto e verdure e gli ordino di scaldarlo senza tanti convenevoli. Quando lo tira fuori dal fornetto, prende una busta per asporto ma lo fermo e gli comunico di volerlo consumare al tavolo. Sbuffa e me lo mette su un piatto, gli ordino una bottiglietta di coca e poi vado a sedermi a un tavolo vicino alla finestra per tenere sotto controllo la bicicletta e la coppia di zombie rimasta con le braccia conserte dietro le vetrine piene di panini. Mangio maleducatamente a bocca aperta, rutto a ogni sorso e mi gratto riccamente stravaccato a gambe distese, peccato non avere aria nella pancia. Sulla porta del bagno una scritta segnala di chiedere la chiave al banco, faccio motto allo zombie maschio di dovermi lavare le mani e dopo un cenno di approvazione la zombie femmina le mette sul marmo nero del banco vicino la cassa assieme al fogliettino del conto eruttato dopo una lesta digitazione. Prendo la chiave e lascio lo scontrino chiudendomi dentro, mi lavo denti e mani e piscio nel lavandino, vengo fuori e pago, rutto uscendo, inforco la bici e lascio questa triste piazza di lacrime. Improvvisamente mi sento catapultato in una realtà spiacevole nella quale l’appartenenza etnica o la provenienza diventano motivo di scortesia e malagrazia. Individuo da questo momento continue riprove sull’inesistenza di sfumature allegre nei volti di chi incrocio. Diventa quasi una conta dei sorrisi e la statistica conferma come in questa porzione di Vallonia, il grigiore degli abitanti sia assodato e anche i bambini legati nei seggiolini delle macchine hanno un’espressione spenta. Il sole appoggiandosi generoso sulla mia schiena sembra non appartenere a queste persone, mi affido alla sua energia per recuperare il buonumore pedalando verso sud. Dopo quattro chilometri giro a sinistra, in discesa sul viale alberato della chasseau de Namur che si 69
diverte a portarmi nella giostra di un saliscendi impegnativo per gambe e cambio. Pedalo per un’ora e mezza sui trentadue chilometri che portano prima a Temploux e poi, confidando in una più invitante e accogliente Namur, già dimentico l’inospitale Genappe. La cittadina si apre sbocciando dallo stelo d’asfalto percorso, e dilagando mi avvolge con la giovialità dei bar ridondanti di ragazzi e ragazze che chiacchierano e si confrontano, sorseggiano e ridono occhieggiando provocatori tra loro. Namur è seducente. Pedalo lentamente assorbendo il calore di quel clima cordiale al quale anche gli stranieri partecipano perfettamente integrati, consentendo alla gente di darsi del tu anche con i gestori di un kebab. Passando sulla riva del fiume Sambre sfilo una compagnia multietnica che fa girare un paio di canne, guardandoli da una posizione defilata, poi la necessità contingente diventa quella di cercare contanti perché ho una trentina di euro in portafoglio, e per andare in cerca di una stanza voglio la sicurezza di poter pagare se non dovessero disporre del POS. Sembra incredibile ma ogni qualvolta mi metto in testa di cercare un determinato tipo di genere di necessità, riesce difficile trovarlo. I primi tre sportelli li scopro inaccessibili perché sono all’interno delle banche che hanno terminato l’orario di lavoro, il quarto è fuori servizio e finalmente dopo un paio di giri scopro una sede dell’istituto Santander con quattro postazioni, per prelevare la scorta di denaro. Infilo la tessera svegliando lo schermo addormentato, saluta in italiano e invita a digitare i dettagli delle mie esigenze, quindi cucina il contante, lo serve e resto in attesa della restituzione della carta. Mi agita sempre l’attesa della restituzione del bancomat perché immagino di dover correre dietro al recupero della tessera microchippata e se in Italia potesse essere un problema, all’estero diventerebbe una tragedia. Poi quando lo sportello bippa avvertendomi di aver slinguato l’oggetto delle mie brame, lo ritiro pensando che forse all’estero sono più efficienti, concludendo l’astratto con la certezza di non avere nessuna voglia di sperimentarlo. Fuori dall’istituto bancario, scorrendo sullo smartphone la disponibilità delle stanze a Namur, vedo prezzi molto salati, con una base di partenza di ottanta euro. Una cifra così costosa fa pensare di partire immediatamente verso sud, cercando più avanti una sistemazione più economica in una struttura non convenzionata con i siti pubblicizzanti gli alberghi, ma per caso riordinando la lista, adocchio un ostello poco distante che 70
offre un posto letto per ventuno euro. Non rimugino più di un secondo e dirigendomi verso il fiume Mosa, supero il casinò trovandomi davanti a una villa-castello con la scritta Auberge de Jeunesse in avenue Félicien Rops 8. La struttura è meravigliosa e sembra strano proponga un costo così basso e scettico entro a chiedere informazioni. Il livello di comprensione del francese migliora di giorno in giorno e anche se non mi esprimo correttamente, comprendo molto bene quello che mi viene spiegato. Il gentilissimo signore dell’accoglienza conferma il costo della sistemazione proponendomi in alternativa una stanza singola a ventisette euro, che fisso immediatamente. Consegno i documenti e parcheggio la bicicletta nel magazzino deputato al rimessaggio. Rientrato dal retro, salgo in stanza con le lenzuola fornite perché la formula prevede di doversi fare il letto in autonomia e onestamente per quel prezzo, è il minimo. La camera è essenziale, geometrica e allo stesso tempo ampia con un letto alla francese al centro, il bagno è un conglomerato plastico incassato in fondo a sinistra in una nicchia e comprende il lavabo e la doccia. Le finestre si affacciano sul parco molto curato, attraversato poco prima per depositare il mezzo, dove si trovano le altre casette ospitanti le stanze multiple della struttura. Preparare il letto, porta in superficie il ricordo delle brande fatte e disfatte in caserma durante il servizio militare quando avere diciannove anni significava obbedire senza condizioni a chi impartiva un ordine. Sotto la doccia bollente, si sciolgono una parte dei chilometri accumulati nelle gambe mentre medito su Genappe, sulla voglia di riposare e quella di vistare, valuto la fame che sale e sorrido al pensiero del bancomat uscito. Si accendono nella memoria le diapositive delle persone che aspettano mie notizie a casa e prendono forma la cartografia, dove posizionare gli obiettivi del giorno seguente. Mi sorprende emozionarmi ancora all’idea di essere ciclonauta curioso senza trovare noioso rimettermi in sella per pedalare ancora e, infatti, avvolto nell’asciugamano mi stendo un attimo a letto a preparare la mappa cartacea del giorno dopo, seguendo con l’indice tutte le strade segnate alla ricerca della migliore di tutte. Appaiono sotto le dita quelli che sembrano nomi altisonanti di borghi e cittadine e con l'aiuto dello smartphone collegato alla rete wi-fi della struttura, indago sulla lunghezza delle diverse direttive e le loro altitudini per raggiungere specifiche coordinate. Una via porta a Rochefort mentre l'altra va diretta a Dinant seguendo il corso del fiume Mosa. Avendo raccolto dati sufficienti sui quali riflettere e non annoiarmi, metto in ordine la carta nel borsello cestinando quella usata oggi esauritasi nel superamento dei suoi limiti e indossata la tuta leggera, esco per una visita al borgo storico di Namur. 71
Pedalo lento, decelero fino a fermarmi e guardo con disincanto senza enfatizzare l'osservazione dei dettagli architettonici, i fregi, l’arte, preferendo cercare l'interazione delle persone col paesaggio scoprendo come vivono gli abitanti la loro dimensione cittadina. (Play Nothing Else I Can Say-Lady Gaga) Ci sono bambini che giocano sguazzando dentro una fontana, la compagnia di ragazzi vista all’arrivo staziona annoiata, sulle banchine del fiume forse sognando una fuga verso un prato più verde di quelli di Namur. Ci sono tre signori affiancati con le mani intrecciate dietro la schiena o sprofondate nelle tasche, passeggiano e commentano girando all’unisono la testa verso i richiami che attirano la loro attenzione. Aleggiano nelle svolte i profumi di pietanze e lo stomaco inizia a reclamare una degna attenzione. Il centro propone diverse soluzioni per la cena ma punto con decisione sul familiare e sicuro kebab ordinando un piatto di carne e verdure crude, divorato mentre alla televisione scorrono le immagini della partita di calcio tra il Camerun e la Croazia che infila quattro volte la palla nella rete. Con il bancomat regolo il conto e recuperata la bicicletta torno a ciondolare per le vie del centro prima del rientro. C'è una Lamborghini Superleggera gialla parcheggiata al lato di una piazza e alcuni passanti strabiliati si fanno scattare qualche foto ricordo appoggiando una mano sulla capotta e allargando un sorriso di momentanea conquista di un posto in prima pagina. Nell’omonima piazza giganteggia la cattedrale tardo barocca di Un appetitoso assaggio di sant’Albano e poco dopo rimango sotto i bastioni formaggi massicci della fortezza della cittadella dominante la confluenza del fiume Sambre che si getta nella Mosa. Tutto normale, consueto, senza acuti e meraviglie e allo stesso tempo rasserenante, senza disarmonie evidenti nello scorrere lento del tempo che porta il sole a scomparire lasciando posto al fresco di una serata, consigliando di affrettare il rientro all'ostello. È un bel luogo, ospitale e vivibile, ma sono di passaggio e ovviamente il giorno dopo sarò a cento chilometri a esplorare un altro pezzo d'Europa. 72
Sono le nove di sera e nel grande salotto-bar-reception della struttura inizia un’altra partita di calcio del campionato del mondo e un paio di coppie sedute sui divanetti con le mani incollate ai boccali di birra guardano in silenzio con il naso all'insù la lista dei giocatori in campo, letta dallo speaker. Prendo una birra piccola accomodandomi per guardare il primo tempo del match unendomi al coro delle esclamazioni per le azioni più spettacolari. Incrocio lo sguardo dei presenti e sopratutto quello di un uomo piccolo di statura e dal fisico asciutto e nervoso. Parla in spagnolo, irritato dal gioco melenso della Spagna, commenta cercando la mia approvazione, per cui intraprendo un dialogo, riprendendo in mano quel poco conservato nella memoria della lingua iberica, appresa durante viaggio verso il Marocco. Lui si definisce orgogliosamente basco, raccontando che per anni ha giocato nella massima serie del campionato nazionale nel team dell’Athletic-Bilbao e di come nella sua regione di provenienza si respiri l’orgoglio di appartenenza e questo porta anche negli sport di squadra ad avere giocatori prevalentemente baschi. Continua a commentare ora con apparente distacco ma si avverte il grado di sofferenza causato dalla qualità prestazionale del team per il quale evidentemente parteggia. La Spagna prende un gol dal Cile a metà circa del primo tempo a un secondo dal termine della prima frazione di gioco. Improvvisamente si alza dallo sgabello e s’incammina con le gambe arcuate verso una tenda schiaffeggiandone il bordo e scompare dalla vista, aspetto un paio di minuti per vedere se rientra ma non avvistandolo, prima che inizi il secondo tempo, saluto il barista ritirandomi in camera per scrivere qualcosa e fare un paio di telefonate. Salite le rampe di scale mi ritrovo nel corridoio blu notte che s’illumina al mio passaggio, avvicino la tessera magnetica e la porta si apre. Controllo il telefono, accorgendomi che alcune foto non sono state prese in carico da facebook e ritentando l’invio sembra non abbia intenzione di farlo nonostante il segnale viene dato come abbondante e di qualità 3G. Un sospetto si illumina nella testa mentre provo la connessione wi-fi dell’ostello senza successo. Provo a disinserire la trasmissione dati e riprovo con il wi-fi ma anche questa volta la prova fallisce. Inizio a sentirmi scoperto, in difficoltà, perché restare senza connessione internet significa pianificare con troppa approssimazione il viaggio, non conoscere altimetrie e scorciatoie, non poter interrogare le agenzie sulla disponibilità di alberghi nelle vicinanze, e tutto ciò, pregiudica il mio livello di sicurezza esponendomi a delle variabili troppo ampie. E allo stesso modo, limita la mia possibilità di collegamento verso casa con le persone alle quali mando messaggi e saluti, senza consumare credito telefonico. La mia scelta, prima della partenza, era stata di ridondanza per 73
evitare di rimanere esposto al problema ora sicuramente sorto, dotandomi di un telefono con due SIM di diversi marchi. Dopo aver sondato le offerte tariffarie del traffico telefonico dall’estero dei principali gestori esistenti sulla piazza, mi sono dotato infine, di una scheda TIM, che offre al costo di dieci euro alla settimana cento minuti di chiamate, cento messaggi e cinquecento MB di internet, e una della WIND, da usare in caso di emergenza, con l’opportunità di attivare un modesto pacchetto giornaliero. L’offerta principale si era attivata alla prima connessione avvenuta all’accensione del telefono, appena sceso dall’aereo a Stansted ed essendo trascorsi appena cinque giorni, una volta terminato il bonus di trasmissione dati devo attendere due giorni prima della ripartenza della promozione a pieno regime. Oltre a questo, avendo usato il traffico dati fuori dall’offerta, mi è stato addebitato il costo spropositato di una tariffazione a consumo, cannibalizzando il credito restante. La deduzione logica sviluppata è che la causa del rapido consumo del bonus è stata la trasmissione di troppe foto sulle pagine dei social network e ora spero di poter districare la complicazione telefonando al servizio clienti. Chiamo, ma la risposta è un silenzio di seta, un nulla di fatto che non riceve nemmeno di un segnale di occupato o di irraggiungibile. Facendo gli scongiuri, provo con una connessione sulla seconda scheda, ma non ho attivato l’offerta all’operatore e quindi confidando nella buona sorte, tento con il numero del loro servizio clienti. Passano tre secondi interminabili di silenzio, arriva un ticchettio, un rumore sordo, inizia il jingle pubblicitario del gestore, e una voce annuncia che sono in attesa di parlare con un operatore. (Play Klingande - Jubel) - Risponde: “Salve sono Mirella, come posso aiutarla?” Accendo nella mente un cero a santa Mirella e le spiego la mia necessità. Chiede una conferma della mia identità, se sono il possessore del numero e alla mia risposta, spiega che posso attivare la formula “All Inclusive Travel”, che consente per il costo di due euro e mezzo al giorno, di disporre di un traffico dati di cinquanta mega-byte più un modesto pacchetto di chiamate e messaggi che al momento sono il mio ultimo pensiero. Partono due rapidi calcoli e poi intuisco non sia il caso di fare tanti ragionamenti, perché non ho altra scelta. Accetto con un impulso di adrenalina, quella che è comunque una buona proposta. Chiedo a Mirella di attivare la promozione, ma mi gela dicendomi che il mio credito è insufficiente perché l’attivazione costa due euro e sommandosi ai due e mezzo della All Inclusive Travel, superano il credito di tre euro a disposizione al momento sul numero. Con una spada conficcata nelle budella, chiedo dove e quando posso fare una ricarica, immaginando uno scenario nel quale non sarei 74
riuscito mai più a parlare con Mirella né con altri suoi colleghi se non il giorno dopo, e già sento che lei mi manca ma la beatitudine mi coglie quando chiede se dispongo di una carta di credito per ricaricare la scheda telefonica. Seduto sul letto con lo sguardo fisso su un’intersezione dei palchetti di legno sul pavimento, proietto l’immagine della Visa nella testa, il corpo scrocchia in una torsione mentre tengo incollato delicatamente il telefono all’orecchio quasi a voler esorcizzare il terrore di perdere il segnale che mi tiene unito al mondo telematico. Afferro il marsupio, scorro la chiusura della cerniera, pollice e indice afferrano il portafogli e poggiatolo sulle ginocchia unite, lo apro e tiro fuori la carta, le chiedo se può prendere in carico la mia richiesta di versamento. Il suo accondiscendete “ma certo signor Vitale..” è una manna dal cielo. Comunico i numeri della carta, il taglio da trenta euro della ricarica e attendo dia la conferma dell’attivazione dell’abbonamento quotidiano che si attiverà alla prima connessione del giorno in cui viene usufruito, fino alla sua mezzanotte. Raccomanda di attendere un paio di ore per essere certi del buon esito e mentre vorrei abbracciarla per la gioia di aver risolto il mio dilemma si congeda ossequiosamente. Sono felice come se avessi tagliato il traguardo di una tappa sui Pirenei. Ripongo la carta di credito e bazzicando sul telefono riesco a entrare nel sistema wi-fi reinserendo i codici d’accesso forniti al momento della consegna della chiave e della biancheria. Si riapre il mondo telematico, e immediato appare il segnale di riuscito caricamento delle foto, inizio a scorrere la mappa con le altimetrie e le distanze, convincendomi di essere stato fortunato per due motivi: il primo di avere esaurito il bonus internet solo dopo la collocazione nell’albergo, e il secondo di essere riuscito a riaprire la porta della quale avevo smarrito la chiave. Esaurito ogni compito di fine giornata mi stendo sul giaciglio nel buio silente della notte, senza il baluginare di uno schermo televisivo, in attesa di varcare la soglia di un sonno, trascinandomi verso quello che sarà un altro giorno di viaggio.
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Giovedì 19 giugno 2014 Seduto sul bordo del letto già disfatto, controllo la pagina di facebook, i commenti alle foto inviate il giorno precedente, gli aforismi del mattino imbucati dagli amici per augurare una buona giornata, le notizie del quotidiano della mia città pubblicate sul sito per promuovere la testata. Le mie foto riscuotono un discreto successo, i tracciati di Runtastik una sorta di invidiato stupore per quanto sono originali e temerari trovando soddisfazione nel condividere con amici e conoscenti l’esperienza che sto vivendo. Approfitto della connessione wifi, risparmiando il consumo del pacchetto internet a disposizione nell’offerta giornaliera della WIND, come anche dell’alimentazione elettrica che consente di partire con la batteria carica al cento per cento. Da questo momento in avanti, eviterò di inviare fotografie durante il giorno, aspettando di avere a disposizione una connessione wi-fi gratuita a disposizione, dedicando tutto il traffico, essenzialmente alla navigazione. Sono già le otto di questa giornata, iniziata alle sette con una sveglia arrembante, per accertarmi della connessione, confermata con un messaggio di addebito del costo giornaliero da parte del gestore telefonico e un rapido tuffo verso una doccia rinfrescante. Mi sono lavato energicamente, con una gran voglia di uscire a pedalare a dispetto della previsione metereologica che non sembra essere dei migliori. Un colpo d’occhio all’orologio sblocca le articolazioni delle gambe, mettendomi in piedi con una 76
scattante estensione. Raccolgo gli averi e piego le lenzuola da consegnare alla reception. Mentre trasferisco denaro elettronico dalla carta bancomat al conto della struttura chiedo al gerente informazioni sulle strade per andare verso sud. Il suo commento invitante e lieto, poggia sull’indicazione fatta a gesti nella direzione controcorrente del fiume Mosa riferendo che sulla riva scorre una bellissima pista ciclabile per raggiungere direttamente Dinant, la mia prossima meta. Questo percorso non è riportato dalle mappe cartacee o elettroniche, salvo poi trovarlo con una ricerca mirata su internet una volta seduto davanti a una tazza di caffè caldo e un croissant profumato. La bicicletta ricaricata con il bagaglio, mi accoglie su una sella scomoda e pungente, evidenziando quanto la continuità di giorni consecutivi sarà dura e dolente. Metto il primo giro di pedali sull’asfalto raggiungendo l’idrovia fluviale dove un’enorme chiatta per il trasporto di materiali si presenta in tutta la sua immensità. Questi natanti, sono l’ingranaggio di un sistema rappresentante una risorsa importante economicamente ed ecologicamente, considerando il loro servizio fautore della riduzione dell’inquinamento ambientale causato dal traffico stradale. Questa chiatta da 1.350 tonnellate trasporta l’equivalente di ben cinquanta tir o sessantasette carri ferroviari. Il consumo energetico, per singola tonnellata di merce è riconducibile alla spesa per cinque litri di gasolio, percorrendo cinquecento chilometri, mentre un solo tir con cinque litri di gasolio ne percorre appena cento. È ovviamente un trasporto più lento, ma le materie prime come ad esempio il carbone, non hanno necessariamente tempi di consegna uguali a quello delle merci deperibili. (Play Just The Two Of Us-George Benson) - Poco dopo passa nel mio stesso verso un’imbarcazione turistica comandata in plancia da un tranquillo marinaio barbuto seduto al fianco di un’avvenente signora che al mio scampanellio di saluto risponde con larghe sbracciate e sorrisi. Sono molti i natanti che navigano in un senso e nell’altro tra le anse morbide descritte dal fiume, a velocità di corrente in un paesaggio dove tranquillità e silenzio popolano vedute dolcemente rilassanti. Sullo spazioso percorso pedonale, a tratti piastrellato e in altri asfaltato, schivo oche del Canada
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e papere sonnolenti, mi osservano transitare, evidentemente abituate alla presenza di persone. Pedalando a una velocità di circa ventitré chilometri l’ora, arrivo dieci minuti dopo la partenza, nei pressi della riserva naturale dell’isola di Dave, la più grande del Belgio, situata nel mezzo del corso d’acqua e poco dopo mi dilungo a osservare sull’altra sponda la bellezza lusinghiera dell’omonimo castello, detto anche di Fernan Nunez, un edificio in stile fiammingo, costruito nel quattordicesimo secolo, poi distrutto, quindi ricostruito e ampliato nei secoli seguenti. Scatto foto a ripetizione e pedalo, ascolto ancora musica nell’allettante paesaggio, fermandomi a una delle ventiquattro chiuse sul grande canale per assistere alle spettacolari operazioni d’innalzamento di una chiatta, al livello successivo controcorrente. È un’opera complessa d’ingegneria idraulica, fondante nella semplicità di uno sbarramento di un bacino, la potenza incredibile, consentendo di sollevare o calare di circa tre metri la chiatta carica di merce. Dopo la chiusura della paratia dietro il natante, in circa venti minuti l’acqua, fluendo da quella davanti colma il divario e all’apertura lascia libera la navigazione che riprende con estrema calma e naturalezza. Pedalando parallelamente sulla riva, ne misuro la velocità che raggiunge i dodici chilometri l’ora e considerando la mole di minerali trasportati sembra davvero notevole. È un posto magico, i colori pastello formano un amalgama delicato che sfuoca la realtà e richiama la fantasia. Immagino di essere il bianco delle ali dei cigni, di subire il nero di una tempesta o di nuotare nel blu del fiume. Poi riapro la mente e sono qui, dove il profilo del canale non cambia, nulla si spinge oltre i terrapieni che contengono il corso d’acqua e una nebbia torna a coprirmi gli occhi mentre il tempo vola dentro una pace immutata. Sono detenuto dentro di me e non voglio uscire, insulto il carceriere per allungare la condanna, vietandomi di vagabondare. Intimamente appaludato, senza una luce a guidarmi fuori dall’ego. 78
Sono un carnevale pedalante che cambia maschera all’occorrenza, incapace di trattenermi, come di lasciarmi andare. (Play Sun’s Rising on the USA- Farolfi) Tutto l’argine è piatto, pulito, sgombero di ostacoli, mi lascia libero di andare nei pensieri del mio Nirvana a pedali, fino a un soporifero e beato risveglio all’arrivo presso Dinant, dove riprendo contatto con la curiosità. Passo accanto ai piccoli abitati di Yvoire e Anhée prima d’incontrare Leffe con l’omonima abbazia di Notre-Dame, sede di quello che fu un celebre birrificio fino al 1809. La storia racconta, nel registro numero 30 "Dinant-Comune", nell'archivio di stato di Namur, che il signor Gossuin nel 1240, alla presenza degli assessori di Dinant, vende all’abbazia di Leffe, vari beni e rendite tra cui una fabbrica di birra. Quindi, risale a quegli anni l’ufficializzazione della presenza dello stabilimento. Nel Medioevo, l'utilità della fabbrica di birra nel monastero era anche quello di preservare la salute perché era fisicamente impossibile verificare se le fonti di acqua fossero pulite e quindi attraverso il processo di purificazione con la fermentazione, la comunità risolveva il dubbio con un disinfettante molto conveniente per sfuggire alle epidemie, soprattutto a quelle di tifo. Compare nella stretta valle, il centro abitato di Dinant dominata dalla cittadella fortificata. Spunta dal suo profilo la chiesa della collegiata di Notre Dame con il caratteristico campanile sormontato dal bulbo a cipolla e dopo aver viaggiato un paio di chilometri su un fondo d’asfalto vellutato, posato da poco, entro improvvisamente in un tratto cantierato, completamente disastrato. Era intuibile cominciasse, come proseguimento dell’ammodernamento dell’argine destro che proseguendo per lotti, dà il senso temporale dello stato di avanzamento dei lavori. Nulla di drammatico, scendo dalla sella spingendo a mano tra cumuli di ghiaia e materiali elettrici e idraulici da sistemare nel sottosuolo. Provo anzi piacere nel constatare come a differenza di alcune zone pedonali e ciclabili casalinghe, la manutenzione è portata avanti, ammodernando e abbellendo tratti destinati a diventare magnifici. Esco dal cantiere con una svolta a gomito a sinistra salendo sul ponte di Dinant che attraversa la Mosa. Ai lati del ponte troneggiano enormi sassofoni variopinti, saranno una decina da ambo i lati e rallegrano con le loro spassose livree. Scopro che Dinant è la città natale di 79
Adolphe Sax, inventore e costruttore di strumenti musicali e ovviamente la sua opera meglio riuscita, fu appunto il saxofono. Nonostante avesse brevettato numerosi e innovativi strumenti, a causa di acerrime rivalità con altri costruttori dell’epoca, morì in miseria e giace sepolto dal 1894 nel cimitero di Montmartre a Parigi. Incuriosiscono ma adesso devo prendere delle decisioni perché in seguito a una breve sosta per mangiare qualcosa, dovrò scegliere un percorso e farlo in modo da non dovermi pentire. Compiendo un rapido giro nell’abitato, passo davanti al portale romanico della collegiata, la chiesa coperta dal tetto nero e decorata con fregi gotici. Noto tra le altre caratteristiche la magnifica vetrata azzurra, una tra le più alte d’Europa. A fianco del monumento parte una piccola funicolare che porta i visitatori verso la cittadella quando non se la sentono di fare i 408 gradini scavati nella roccia. Infine, parcheggio la bici sul marciapiede di fronte alle vetrine di una pastisserié dove giace la riproduzione di Adolphe Sax a grandezza naturale seduto su una panchina davanti a quella che fu la sua casa. Vicino all’opera scultorea è parcheggiato uno schieramento di sei moto della polizia, ed entrando nel locale trovo gli agenti mentre fanno una pausa caffè. Il bar pasticceria è un dilettevole contrasto di colori e luci, di ottoni e legni chiari, con le seggiole in plexiglas al tavolo per gustare uno degli innumerevoli dolci contenuti nella golosa vetrina. In un attimo la barista mi serve una brioche e un caffè con tanto di panna e biscottini su delle tovagliette che sono un tripudio di uccellini. Mi sistemo e gusto mentre giro e rigiro tra cartine e navigatore alla ricerca di percorsi quanto più possibili semplici. Vorrei affrontare i trenta chilometri per arrivare a Rochefort, sulla direttice N94 ma l’altimetro sentenzia duramente con un picco d’alta quota e di conseguenza devio lo sguardo sulla direttrice N95 verso Beauraing. Seguendo le tracce, arrivo settanta chilometri più a sud a Neufchateau. Sono un ottimista ingordo e spingo gli occhi fino a Lussemburgo con la consapevolezza che 135 chilometri sono un’illusione sulla quale le gambe se la ridono. Decido con qualche riserva di scetticismo per la via verso Beauraing con una titubanza sciolta dopo un chilometro di strada infilata tra gli speroni del Rocher Bayard, un ago roccioso alto 40 metri. Giunto 80
all’ultimo incrocio utile faccio una chiacchierata con il gerente del supermercato Spar che descrive la differenza tra le due strade, consigliandomi calorosamente di seguire la mia preferenza. Rinfrancato dalle indicazioni, pedalo gli ultimi metri in fianco alla Mosella che scorre aspettando di essere solcata dalle canoe dei vari club appoggiate sull’erba, prima di iniziare una salita preannunciata come lunga, tortuosa e pendente. Tolgo la giacca iniziando a spingere un rapporto agile, in piedi senza musica nelle orecchie per cogliere il vibrare dei suoni che mi circondano, come quello delle ruote frementi nell’attrito vinto dalla spinta. Il bosco rinfresca con l’aumento della quota ma il sole è una presenza luminosa riscaldante e nel diradamento delle fronde sul lato destro verso la vallata, scorgo il geometrico disegno di un parco che accoglie un castello. Parcheggiando di lato nei pressi di uno slargo, salgo una ripida scalinata e raggiungo una vedetta spinta sul dirupo da dove osservare il castello di Freyr con il suo giardino. È un incantevole maniero tardo fiammingo dedicato al dio della fertilità (Freyr, per l’appunto) collocato nella mitologia Norrena, un’interessante variante dei miti germanici e vichinghi. Lo osservo stupefatto e un po’ dispiaciuto di essere troppo distante per fare un passaggio ravvicinato. Dopo il sospirato scollinamento, m’illudo di essere arrivato in un altopiano tranquillo e pianeggiante mentre la realtà è di un collinare ritmato con un saliscendi ampio, generoso di discese ripide da fuori giri, selle pianeggianti dove far scrocchiare il cambio alla ricerca di un giusto rapporto e salite che non usufruiscono di nessuna inerzia, ma costringono a pedalate possenti con rapporti ridicoli su un rettilineo pendente e infinito. (Play You're The First, The Last, My Everything-Barry White) - I chilometri sul tachimetro si accumulano lentamente ma dopo i primi momenti di sconforto, subentra una calma frutto di una resa al rapporto forza-traguardo lasciando al fatalismo il compito di governare la velocità media. Ascoltare musica, transitando tra campi di frumento e orzo a perdita d’occhio, aiuta e 81
ogni fotogramma del paesaggio agreste diventa vivace imprimendosi nella memoria, come quello di una piccola stalla per le capre costruita in stile western con una bianca di queste cornute che mi fissa sfidante dal ballatoio del secondo piano, sormontato dall’insegna del “Grand Hotel di Gatte city” tra quella del “Saloon” e della banca. Entro a Beauraing con le gambe impastate che stentano ad accelerare, contento di potermi rinfrancare e di riposare il cavallo che oggi patisce nonostante l’imbottitura. Freno la bicicletta fino ad arrestarla e sollevati gli occhiali da sole, ispeziono lo scenario attorno e lo sguardo mette a fuoco sull’insegna di una birreria Leffe dal curioso nome “Le pourqoi pas?” E infatti, la risposta naturale al “Perché no?” accende un’ilarità che mi accompagna all’ingresso, chiedendomi se sia corretto bere una corposa birra nonostante debba affrontare delle seducenti salite, anche se il posteriore duole, anche se le gambe girano lente e la risposta è sempre: perché no? Passo dalla luce bianca dell’esterno, alla penombra del locale, sulla sinistra siedono, uno per tavolo degli uomini, mi fissano e scrutano ogni movimento con attenzione senza modificare minimante l’espressione del viso. Indubbiamente, un cicloturista da quelle parti può essere inusuale. Oltretutto la mia tuta azzurra corta inneggiante all’Italia desta interesse e inizio a temere sia in grado generare ancora una volta un’antipatica reazione campanilistica. Ma il barista è tranquillo, mi serve un bicchiere di birra e come gli altri clienti, dopo il primo momento di curiosità torna a occuparsi dei propri pensieri. Chiedo a un avventore seduto su uno sgabello che indossa un cappotto verde e legge con un paio di occhiali spessi un dito, delle informazioni sulla salita in dolce attesa, se sia più consigliabile un giro piuttosto di un altro. È un risveglio globale dalla catatonica attesa di qualcosa, un frinire di carte stradali spazzolate sotto al naso, una proiezione di quote e riferimenti dal cellulare e un tavolo diventa teatro di congresso di tre signori improvvisati esperti presi a discutere cercando di produrre ognuno il miglior itinerario disegnato dalla mente. Uno chiede: “Ma dove devi arrivare?” E io ridendo rispondo: “In Italia!” C’è un attimo di silenzio meditabondo, immaginando le tracce blu nella loro mente allungarsi all’infinito, interrotto quando uno commenta: “…eh…lontano...”. Poi riprende lo sbroglio della matassa su aree più 82
prossime e lentamente si converge a una soluzione condivisa da tutti, spingendomi sulla strada che attraversando la regione Vallona passa per Libin e arriva a Neufchâteau. Tutto si acquieta in un secondo, tutti tornano a occupare le posizioni precedenti e per ringraziare offro le consumazioni dei tre avventori che ringraziano alzando i bicchieri. Sorseggiando mi soffermo a leggere la nota incorniciata sulla parete. Racconta delle apparizioni della Madonna in questa piccola cittadina nel sud del Belgio, avvenute trentatré volte a cinque ragazzi tra il ventinove novembre 1932 e il tre gennaio 1933 lasciando vari messaggi. Fuori il sole accarezza calorosamente e mentre sistemo lo smartphone sull’alloggiamento, aspetto compaia l’algoritmo della traccia altimetrica. Rivela una partenza dai duecento metri di quota, che in cinquantadue chilometri porterà a superare i quattrocentocinquanta. Poco male, forse la chiacchierata e il rifornimento di carburante biondo nello stomaco portato a fermentare sotto il sole, unito alla gioia di note musicali amiche, daranno nuovi impulsi alle gambe già più sciolte di quando mi sono fermato. È arrivato mezzogiorno e medito sul nutrirmi. Il vocabolo è quello adeguato perché non è desiderio di mangiare per soddisfare la fame, ma mettere nella pancia qualcosa di appropriato. Vado alla ricerca di verdure, di una minestra e poco dopo passo davanti a un locale dal nome “Chez Michel & Monika”. Ha l’apparenza di locale tipico, modesto nell’arredamento e quindi penso genuino. Sul piccolo menù posto sul tavolo compare la potage, prontamente ordinata e dopo cinque minuti me la serve in una tazza con il marchio Knorr. È una brodaglia verde, figlia di una busta contenente polvere di verdure liofilizzate, aperta di fresco. Pago i cinque euro previsti al ristoratore monoespressivo, considerando con una buona dose di comicità che in quanto a genuinità non erano secondi a nessuno. Aggancio i pedali e riparto, affrontando un primo tratto piano tra i boschi del parco delle Ardenne. La carreggiata è sgombra, larga e pulita e inizio ad ascoltare Deborah Dyer degli Skunk Anansie. (Play Diving Down-Skunk Anansie) - Trovando carica e agilità, pedalo in piedi a ritmo di battuta, arrivando a Wellin in una mezz’ora, terminando il primo scampolo di pedalata con una brevissima sosta per un caffè. Contemplo le case costruite in pietra grigia sulla rotonda di un incrocio dalle mille indicazioni. La mia direzione è segnata inequivocabilmente e questa pausa è propedeutica al 83
riposo prima della salita che attende tra qualche chilometro, predetta poco fa dallo smartphone. Nell’immersione tra le note, perso tra i miei giri di pedali e pensieri, sono risvegliato da una ciclista che dopo avermi affiancato, si sbraccia nel salutarmi, e per ascoltarla, tolgo immediatamente le cuffie. Senza arrestare il movimento, ci presentiamo, mi racconta del suo giro odierno che coincide con il mio per la salita da affrontare e dopo avere esaurito la presentazione, si mette davanti con l’intento di tirarmi per agevolare il ritmo. La pendenza diventa impegnativa, scalo rapporti e pedalo in piedi, spingendo un mezzo pesante come un elefante carico, dietro la ciclista leggera e scattante. Duro un paio di chilometri a ritmo troppo sostenuto, inizio a sudare copiosamente avvertendo la necessità di tornare lucidamente a gestire un’energia che deve portarmi ben oltre lo scollinamento. Rallento, sgancio le scarpe dai pedali, assomiglio a un aereo in fase d’atterraggio con il carrello fuori, fino a fermarmi del tutto ma lei nemmeno se ne accorge e scompare dietro una curva. Ho il fiatone e questo non mi piace perché brucio troppo rapidamente le mie risorse. Riprendo dopo un paio di minuti temendo di raffreddarmi eccessivamente a un ritmo umano, alternando sella e run in piedi, fino al gradino più alto dopo un meraviglioso rettilineo a una pendenza costante tra due ali di alberi secolari nella foresta. Ritorno al falso piano, lasciando alle spalle la salita e la foresta, scorrendo nuovamente una porzione di campi coltivati a cereali. Poi progressivamente inizio a scendere e ne approfitto per rilassare le gambe quando sulla sinistra dopo una grande macchia di cipressi appaiono in bella mostra veicoli spaziali parcheggiati fuori da una struttura scoprendo che appartengono all’“Euro Space Center”.
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È un edificio sproporzionato, lungo un centinaio di metri, ricoperto di pannelli fotovoltaici, ospitante all’interno percorsi didattici illustranti la storia della conquista dello spazio e mettono in bella mostra le riproduzioni, a onor del vero un po’ posticce dei veicoli usati dagli uomini per volare sempre più lontano. L’ingresso è molto costoso, sono diciassette euro per girare all’interno del parco apparentemente deserto. Dà l’idea di essere poco frequentato e per quanto mi attiri l’idea di una visita, scarto il proposito, riavviandomi verso la destinazione prescelta attraversando una foresta di conifere che ogni tanto si dirada lasciando spazio a radure di arbusti dove stazionano altane da caccia. In una di queste scovo con un’occhiata fortunata, il manto marrone di una cerva mimetizza, ferma a osservare il mio passaggio. Rallento per fare uno scatto ma ormai scoperta, si sposta guardinga verso il folto della vegetazione con un tenero cerbiatto a seguirla come un’ombra. Scompaiono e riparto. (Play Waiting In Vain-Lee Ritenour) - Sono le tre e mezzo del pomeriggio, il clima è temperato rendendo la corsa leggera a dispetto delle pendenze, quando passo davanti all’ingresso di una favolosa dependance del castello di Roumont. È un maniero in miniatura, affascinante ed elegante restaurato di recente e leggo su un cartello che JeanChristophe e Régine Coppée, l’hanno adattato ad accogliere fino a quattordici persone al prezzo di circa mille euro la settimana. Al primo impatto rimango scettico, ma facendo i debiti calcoli, ne viene fuori un costo per nulla proibitivo e una singola persona con questa sistemazione andrebbe a pagare dieci euro al giorno. Per essere ospite in un castello non mi sembra tanto, considerando che per certe discutibili sistemazioni ho speso anche cinquanta euro. Con questa meraviglia negli occhi riprendo, e di pari passo al giro di pedali, si muovono gli ingranaggi del calcolatore in testa cercando di stabilire una meta d’arrivo realizzabile e ricavato che mancano ventidue chilometri per Neufchâteau, all’andatura tranquilla presa, in un ora e mezza dovrei concludere le fatiche odierne. Con un occhio alla strada e l’altro allo smartphone intuisco che trovare da quelle parti una sistemazione adeguata ed economica non sarà semplice. Le cifre accanto ai nomi delle strutture non scendono sotto ai cento euro e considerando che all’arrivo saranno stati percorsi 85
novantacinque chilometri, mi riprometto di proseguire fino a quando non capiterà qualche occasione propizia. Pedalare qui è meraviglioso, la testa infine si libera rimandando i pensieri a quando sarà il momento di riattivarla, perché il paesaggio è il verde dei boschi di conifere, alternato a ordinati disegni di poderi e villini a coronare come diademi la testa di madre campagna che si lascia attraversare. Ai lati della carreggiata corrono due piste ciclabili, una per ogni senso di marcia che mi consentono di eliminare anche il pensiero del traffico e l’arrivo a Neufchâteau avviene alle sei del pomeriggio quando iniziano a salire i fastidi dovuti alla lunghissima gita odierna. Il centro sboccia improvvisamente, generando edifici ai lati della via, diventata subito sconnessa quel tanto che basta per farmi agguantare il manubrio tenacemente dopo la pedalata serena sui dolci pendii delle Ardenne. È analogo ad ogni ingresso in un centro abitato, quando la strada è quel manto di asfalto ricoprente l’intricato reticolo sotterraneo di servizi idrici, elettrici, fognari, del gas e le frequenti riparazioni generano il patchwork tendente a sbriciolarsi con l’aumento del transito veicolare. Un avvallamento e una buca, il ghiaino sdrucciolevole e una pozzanghera; ogni dettaglio può cambiare le sorti della giornata e una maggiore attenzione evita di incorrere anche nella semplice foratura regalata da una buca troppo spigolosa e memore di quella inglese inizio lo slalom. Cerco insegne di alberghi o di sistemazioni in camere private ma non le scovo, in corrispondenza alle informazioni sulla scarsa disponibilità di stanze desunta dallo smartphone, perciò entro in un bar pasticceria per chiedere informazioni durante una pausa caffè. Scendendo dalla bici avverto la legnosità dei muscoli che non irradiano le fitte d’indolenzimento, ma piuttosto una risposta più o meno reattiva all’impulso di movimento. Da questa giornata in poi, le gambe svilupperanno robustezza, grazie all’allenamento forzato, ma di contro non trasmetteranno più il segnale doloroso di stanchezza, dovendo così porre maggior attenzione ai crampi dovuti all’esaurimento di energie, o a quella fastidiosa condizione di spossatezza che aggredisce quando meno me lo aspetto. Nella bottega, rifornita di ogni prelibatezza immaginabile, seduto al tavolo, sono servito di un ottimo cappuccino e un croissant mentre cerco qualche sistemazione nelle vicinanze, tra le pagine di internet. Effettivamente, c’è il solo Hotel Eden-Ardenne nelle vicinanze, dove una notte costa novanta euro e auspicando qualcosa di più economico, noto con rammarico la mancanza di altre strutture registrate nel raggio di una ventina di chilometri. Chiedo informazioni e la barista incerta, rotea gli occhi strofinandosi il mento proponendo anche lei il medesimo albergo, descrivendo il tragitto per arrivarci. Tento lo stesso un 86
passaggio per informarmi alla reception sul prezzo praticato al momento e dopo due chilometri di lungo lago, raggiungo il parcheggio prospiciente l’albergo, in chausée de France venticinque. Si palesa elegante già da fuori avvalorando la sensazione che il prezzo pubblicato sia in linea con la qualità rivelata ma non demordo e faccio ingresso tra le porte di cristallo che scivolano riverenti ai lati. (Play Barry White-You're The First, The Last, My Everything) L’hostess alla reception è una ragazza in tailleur rosso, con un corpetto a dolcevita nero, con capelli lisci e castani, dondolanti ai lati del viso quando alza lo sguardo dallo schermo del monitor. Accenna un sorriso accogliente, la bocca è tinta di rossetto color del fuoco, gli occhi che mi bloccano sono nocciola. Non avrà più di venticinque anni e di traverso dalla spalla all’anca immagino la fascia di miss Ardenne 2014. La fisso negli occhi, lei anche insistente. Sposto un secondo lo sguardo all’interno, alle tinte di legno di rovere, al nero dei marmi, alle trasparenze dei cristalli trattenute dall’acciaio lucido sulle scalinate che portano a una vetrata con vista lago e pongo un accento sulla percezione del costo mordendomi un labbro. Sul banco vicino all’hostess, di ugualmente bella c’è una pianta di orchidee screziate di viola e sembrano guardarmi anch’esse. Sono passi virili i miei, tornato a contrastare l’occhiata. Lei non molla quell’espressione beata, io tento un’accondiscendenza espressiva di dubbia riuscita. Saluta con un: “Bonsoire monsieur” magnificamente felpato ed io rispondo con un: “Bonsoire a vous, mademoiselle”. Poi rendo noto il desiderio di una stanza per la notte chiedendo se ne hanno disponibilità. Abbassa gli occhi sullo schermo e digita veloce sulla tastiera per un responso immediato, chiedendomi se preferisco la vista lago o quella sul parcheggio. Beh…una vista lago è qualcosa d’irrinunciabile, ma anche il piazzale avanti l’ingresso non è tanto brutto e soprattutto voglio soppesare il costo delle stanze proposte. Suggerisce centoquindici per quella vista lago e ottantotto per l’altra, entrambe comprensive della prima colazione. Il costo non è esagerato per la qualità del posto a dire il vero, ma è ben al di sopra delle mie aspettative medie spalmate sulla durata del viaggio quindi chiedo, quanto verrebbe a costare senza colazione confessando di essere alla ricerca di una sistemazione più economica. Fa cenno di avere compreso, chiedendomi con gentilezza di aspettare un momento, si siede sullo sgabello, prende il telefono e compone un interno, chiacchiera esponendo la situazione che ha davanti e segna 87
con una matita su un foglio di carta due prezzi, uno di novanta e uno di sessantotto, che elaboro subito dopo avere sbirciato. Dopo un istante ho già deciso. Lei saluta e chiude, prende il foglio, lo appoggia al banco e lo gira, indicando con la matita le due cifre, spiega a cosa corrispondono e poi le cerchia per significare la fine della trattativa rimanendo ad attendere la mia scelta che opero immediata poggiando l’indice sul sessantotto. È accondiscendente, professionale, chiede il documento per la registrazione ed io un posto per mettere via la bicicletta. Avverte di non disporre di un garage coperto e in alternativa però, posso portarla nella camera. Mentre registra i dati ed eseguo il pagamento con il bancomat, il pc elabora l’assegnazione alla chiave elettronica infilata nel marsupio prima di uscire a prendere la bicicletta sollevandola per salire le due rampe di scale per il piano dove è collocata la stanza. Metto molta attenzione nell’evitare di urtare i cristalli del parapetto nel tornante, o i muri candidi del corridoio e spossato dall’ultima aggiunta di fatica strizzo l’occhio al led rosso, diventato verde dopo aver strisciato la chiave sulla serratura. L’arredamento della stanza è moderno, ha il pavimento nero e il mobilio bianco, sopra il letto matrimoniale è appeso un quadro raffigurante un giardino di bambù e di fronte, un televisore piatto da trentadue pollici dorme custodendo sogni e storie da svelare con il telecomando. Poggio la bicicletta sotto la scalinata che porta al soppalco ospitante altri due letti singoli, faccio due passi vicino alla famosa finestra che dà sul parcheggio fronte strada, per visitare la parte superiore, fermandomi a guardare la stanza di sotto, luogo in cui passerò la notte. Trovo tutto molto bello, scendo e dopo aver mollato le borse dal portapacchi, entro nel bagno, il più bello di tutte le camere che ho avuto occasione di occupare nelle mie esperienze di viaggio, largo, spazioso, accessoriato e rifornito di oggetti per la pulizia e igiene della persona. La doccia occupa la metà del lato destro dell’ambiente, ha il pavimento in mosaico nero e le pareti piastrellate dello stesso colore, sul fondo è posizionato un grande specchio e di lato la colonna dell’idromassaggio con la doccia a pioggia sulla sommità. Non ci penso due volte, tolgo la tuta, le mutande, le calze e la maglia tutte in una volta, lasciandole attorcigliate sul pavimento a esalare miasmi, per saggiare il calore del getto d’acqua. Ci mette trenta secondi a entrare in temperatura e impaziente, allungo più volte la mano rivolta verso il 88
basso per capire la giusta regolazione. Raggiunta la quota minima di calore metto sotto la coscia, poi il petto e la pancia, infine infilo la testa sotto lo scroscio e i primi copiosi rivoli scendo sulle spalle, sulla schiena, sulle natiche lambendo il dietro delle cosce e i polpacci, sollevo i piedi sistemandoli nell’allegro laghetto sul mosaico e poi chiudo gli occhi dondolando il capo nella fluida corrente che scende senza frustare pungente e vi resto inerte per cinque minuti. Di fianco alla doccia, l’erogatore di sapone distribuisce generosamente una schiuma vellutata dal profumo di miele, mi lavo e poi resto ancora un po’ a farmi coccolare dall’acqua calda. Avvolto nella spugna bianca dell’accappatoio, mi distendo sul letto a fissare il soffitto riempiendolo d’immagini volteggianti, incrociandole in un riassunto psichedelico. Sono insignificanti dettagli di rotta: un’immagine della nave, il Big Ben, il manubrio della bicicletta, la cattedrale. Mutano in una sorta di salto dentro una pozzanghera innalzante schizzi. Vedo gocce di memoria che volano, lente, sempre più lente, quasi si fermano e sostano in aria mentre altre cadono, e infrangendosi, si disperdono. Una luce le trapassa, e ogni piccola stilla rimane illuminata di una storia unicamente solitaria, esprimendo visioni senza regole, senza tratto congiungente, disordinatamente in un sogno aderente a pensieri angoscianti e risate e poi, con un ultimo riflesso si spengono. Il bisogno di riempire il buco nello stomaco, mi riporta immediatamente nel mondo reale convertendo la fantasia nel concreto. Sono le otto e mezzo della sera, riprendo il controllo e attacco alla corrente le batterie esaurite o quasi, faccio il punto sulla carta e una valutazione sommaria del percorso del giorno dopo. Accendo il televisore per dare un’occhiata ai programmi del palinsesto belga lasciandomi catturare dal film “Siben Zwerge”, un’esilarante parodia della favola dei sette nani in lingua originale. Non capisco nulla dei dialoghi, perché la lingua tedesca ha un vocabolario dalla fonetica diversa da quelle latine, ma la mimica degli attori e le scene sono divertenti e intuitive. Con il telefono, cerco nei negozi digitali l’esistenza di un eventuale dvd e dopo aver inserito il titolo in Google, scopro l’esistenza di due episodi disponibili però soltanto in tedesco ripromettendomi di comprarli se ne avessi avuta occasione. Rallegrato, mi rivesto e scendo per ritirare il documento e andare a caccia di qualcosa da mettere sotto i denti nel ristorante dell’albergo. Nella hall, una porta dà accesso al ristorante e poi al suo terrazzo. Due coppie 89
conversano ai tavoli fuori, la bruma della sera bagna le ringhiere d’acciaio limitanti il calpestabile di legno che domina il sottostante lago a mezzaluna, e nel rapido giro godo di un’eleganza dimessa, semplice, che colloca due divani di vimini di lato a un enorme ombrellone chiuso nel suo riposo notturno. Tornato dentro, sono accolto da un familiare buonasera dall’accento meridionale di un cameriere con i capelli ricci e la pelle del viso scura, olivastra, al quale ricambio sorpreso il saluto. Presentandoci, rivela di avermi scorto mentre mi registravo alla reception, di essere della provincia di Matera e di avere trovato lavoro in questo albergo da quasi un anno. Si è ambientato bene e il denaro guadagnato gli consente di vivere dignitosamente contrariamente da casa dove ormai le prospettive di un lavoro sono inesistenti. Volge improvvisamente la testa verso la cucina e il dialogo s’interrompe, congedandosi per andare a raggiungere il cuoco belga affacciatosi agli oblò delle porte basculanti della sala. Occupo uno sgabello del bancone del bar e al giovanissimo barman biondo chiedo di servirmi la birra. La sua magrezza si delinea nella spigolatura delle spalle rivelata dalla camicia bianca sotto il panciotto nero. Inespressivo esegue un breve cenno con il capo facendo ondeggiare un’annoiata frangia che gli scende sugli occhi. Girandosi dopo aver appoggiato il boccale al banco, urta con il gomito una pila di bicchieri da vino rovesciandoli. Resosi conto della spinta cinetica inferta, s’immobilizza a osservare il breve volo, il frangersi di tre bicchieri che si sparpagliano sulla pedana scintillando. Il cuoco esce con un balzo dalla porta della cucina spalancata sul bar e con occhi incendiari e smorfia granitica balbetta sottovoce un insulto rianimando il tramortito anoressico che con una scopa inizia una demenziale danza a raccogliere il frutto della sua sbadataggine. Il cameriere Materano viene a curiosare e non commenta, lo fisso per cogliere il suo sguardo, chiedendogli poi se può farmi avere qualcosa di semplice da mangiare. Propone una baguette con un po’ di prosciutto e formaggio e dopo avergli annuito, si ritira dicendo che avrebbe provveduto. Ritorna con un bel panino addentato mentre guardo la partita dell’Inghilterra che si batte contro l’Uruguay. Il profumo di prosciutto si confonde a quello di un formaggio molle nella fragranza del pane strappato con i denti, rischiaro il palato con un sorso fresco e frizzante dell’amarognolo contrasto, perso nel gigantesco schermo sintonizzato sui mondiali. Non convince il gioco degli inglesi, portano sul campo la supponenza di una maglia prestigiosa dissolta davanti alle folate offensive degli uruguagi. Infatti, prendono una dura lezione e sommandola alla sconfitta maturata contro l’Italia, la pone subito nel novero delle supposte prime della classe escluse dalla competizione. La sonnolenza ordina una ritirata ristoratrice 90
e nell’uscire dalla sala chiedo di pagare quanto consumato al materano che con un cenno della mano aperta a roteare, dice di non preoccuparmi, augurandomi la buonanotte con un sorriso e una stretta di palmo. Nella stanza, con il profumo di menta piperita del dentifricio in bocca, mi corico tra le lenzuola perfettamente
inamidate, tenendo nella destra lo scettro multitasto della tv inquadrante l’uscita degli inglesi a testa bassa e l’esultanza dei sudamericani, vittoriosi nel match per due a uno. Non ricordo altro, il timer della tv serve proprio a questo: a eliminare un brusio fastidioso durante la notte, creando una ninna nanna protratta per il tempo necessario ad addormentarmi. (Play Ninna Nanna-Mariangela) Venerdì 20 giugno 2014 (Play When The Stars Goes Blue-The Corrs) - Mi abbasso passando oltre la bicicletta, il braccio sinistro termina con la mano a cucchiaio e afferro il tubo inferiore del carro della bicicletta in prossimità del pedale, quindi raddrizzo la schiena e le ginocchia alzando di peso la massa invertendo ancora una volta il ruolo di trasportato e trasportante. Il manubrio ondeggia come una biscia, lo agguanto e sistemo la bilancia bloccando il tubo superiore sotto l’ascella e la sella dietro la spalla. Il sollevamento è attento, di forza, senza strappo per evitare di incorrere in qualche fastidioso risentimento alla parte lombare della schiena che in una precedente esperienza di viaggio mi aveva tormentato per una settimana. Borse montate, sia le anteriori come le posteriori sulle quali svetta ancora la bandierina del Belgio. Sono vestito con la divisa lunga nera a bande giallo-rosse, colori somiglianti a quelli del vessillo della nazione ospitante, 91
ricevuta in regalo a Roma durante un week-end di vacanza a piedi, trascorso con colei che non pedala. Sto attento a non strisciare la coscia sulla catena sporca e giunto al banco appoggio delicatamente la due ruote per congedarmi e consegnare la tessera di plastica. Un signore molto sbrigativo ritira l’oggetto e si accomiata con un sorriso simile a uno spasmo del Parkinson, le porte si aprono, trovandomi immediatamente all’aperto. Sono le otto e mezzo di un mattino brumoso, lo stesso di un’ora prima, nel momento di un risveglio polifemico. Avevo scostato la tenda della finestra per scrutare in alto verso il cielo senza rilevare nulla di significativo, mentre la strada in basso appariva inumidita dalla notte appena trascorsa. Una doccia calda mi aveva regalato la visione tridimensionale e il dentifricio aveva condannato un alito oltraggioso a trenta minuti di freschezza. Raccolte le mie cose sparpagliate a caso, mi ero vestito in lungo dopo un’occhiata alle previsioni sullo smartphone, indicante minime sui tredici gradi fino a mattino inoltrato. Avrei potuto anche mettere i pantaloncini corti ma preferivo pedalare coperto semmai avesse fatto freddo e nell’ipotesi di una calura improvvisa, potevo cambiarmi in poco tempo ovunque mi trovassi. Patendo il freddo soprattutto alle mani avevo preparato i guanti riponendoli nella tasca posteriore per proteggermi da quei parziali congelamenti alle dita che a casa, nella stagione fredda, consigliano di chiudermi in palestra per allenarmi. Mani, ora appoggiate alle manopole del manubrio, sostenendo l’attento scrutare sullo schermo della rotta, cercando di memorizzare i nomi dei prossimi punti di riferimento: Tintigny, Etalle, Arlon e infine Lussemburgo. Sono settanta chilometri di pedalata su una rotta che disegna quasi un angolo retto con una tirata a sud, svoltando poi a sinistra verso est per puntare al confine di stato tra Belgio e Lussemburgo. Obiettivo minimo da lasciare indefinito, decidendo una volta giunto nella capitale se fermarmi per una sosta lunga e visitare il centro o proseguire ancora a sud verso Metz in Francia. Settanta chilometri, con il tempo volgente al bello, a una buona media sono circa quattro ore di viaggio, e considerando che sono le otto e partirò dopo la colazione con le gambe fresche, valuto di arrivare attorno alle due del pomeriggio. Questo potrebbe darmi l’occasione per avvantaggiarmi sui tempi di rientro forzando almeno un po’ il ritmo sottraendo qualche istante ai tour cittadini dei centri storici. Spengo la videata, ripiego la mappa cartacea nel borsello, sistemo il cavallo dei pantaloni, aggancio le scarpe e dopo il primo giro di pedali appoggio sul gel della sella, le natiche riluttanti che danno il bentornato, implorando di non esagerare 92
come il solito. Neufchâteau prende il nome da un antico castello medievale del quale resta soltanto il rudere della torre Griffon e non offre altri spunti da indurre a una sosta che non sia quella di rifocillarmi nel rifornitissimo barpasticceria-gelateria-panetteria Iannuzzi situato all’angolo di una piazza. Dentro, le vetrine sono ricolme di ogni gioia per il palato, il profumo de croissant s’infila come due ami nelle narici, trascinandomi con gli occhi spalancati in adorazione, per una scelta golosa. Per la prima volta nella vita mi trovo davanti al bizzarro abbinamento di pasta e pizza, perché il condimento di un paio di pizze è proprio quello di pasta riccia sopra un letto di pomodoro e prosciutto con una coperta di formaggio spruzzato d’origano. Dopo aver chiesto il permesso alla commessa, scatto foto per immortalare la ricetta, accomodandomi davanti a un caffelatte e una gosette aux pommes che entra a pieno titolo nella classifica dei migliori dolci alle mele finora assaggiati. L’orologio sentenzia rigido un ritardo sulle operazioni di partenza, quindi affretto il movimento che riporta in sella e sceso il gradino della piazza, mi proietto giù per la prima discesa dopo una svolta a destra. Il panorama è sgombro da nuvole, la temperatura è rigida e per contrastarla immediatamente, porto legna alle gambe, iniziandola a bruciare su una bella salita tra ali boscose. Volantina media, pignone corto con ritmo da sessanta pedalate al minuto, musica a rallegrare l’umore. Impugno le corna e salgo senza ingrossare il fiatone sulla stataleN40 fino all’abitato di Hamipré per svoltare poi a destra verso sud. Inizio una bella discesa sulla chausseé d’Assenois, la N801, tagliando in due una rigogliosa foresta di pini e abeti, dove a tratti, non è nemmeno necessario girare i pedali. Mi alzo il più frequentemente possibile per ossigenare il soprasella e dalla posizione elevata, osservo la disposizione delle vie laterali perdersi nell’infinita vegetazione. (Play Hune ni Yurarete-Meiko Kaji) - La mente inconscia prende il sopravvento allentando la concentrazione per andare a pescare nella fantasia prede con cui dialogare, magnificando la perfezione dell’attimo, raggiungendo una sorta di compiacimento, uno stato che fa riflettere se infine, sia questa la felicità. Non sarà quella fiabesca del “vissero per sempre felici e contenti” ma mi compiaccio dell’odore di legno nel vento e di questo manubrio da direzionare stretto ora tra le mani, e ogni aspetto del quotidiano diventa esaltante, inebriandomi al pensiero degli affetti vicini, alle aspettative nella vita, alla consapevolezza di 93
avere un buon impiego, all’appagamento della realtà sentimentale. Tutto collabora a rendere soddisfacente l’andamento delle giornate. Talvolta la frenesia per il raggiungimento della gioia, impone corse su percorsi ingombri di ostacoli, superati con lo slancio del cuore e l’illusione di essere eterno e inesauribile. In certe circostanze la giornata va storta, oppure un periodo diventa deprimente e allora, il più delle volte evinco che essere felici sempre è un’utopia e se fosse proposta, la rifiuterei, poiché la felicità si misura nell’ampiezza della distanza intercorsa tra un momento negativo e uno positivo. Ora questa letizia effimera aleggia nella sensazione di libertà a cavallo del mio bolide. Nell’arco gotico delle fronde, il cielo diventa di un verde scuro, dove il sole abbagliante, filtra e punzecchia per aprirsi poi all’azzurro una volta arrivato a un incrocio, soffermandomi un attimo per leggere la tabella che racconta la storia di un cimitero militare francese, luogo di sepoltura dei resti dei combattenti della Prima guerra mondiale. Sgranchisco la muscolatura e mangio un paio di biscotti, bevo e riparto sulla rue Camille Joset, tornata pianeggiante dopo una decina di chilometri, imboccando la N83, scortato direttamente nel Lussemburgo. Tintigny ed Etalle arrivano in un soffio dopo otto chilometri tra casette e giardini di ogni forma e colore. Con un caffè ristoratore nella pancia e una tirata veloce, chiudo altri diciassette chilometri a una media di ventidue l’ora, entrando ad Arlon, un centro posto su un aspro colle con una via d’accesso orrendamente in salita che taglia le gambe. Trito la scalata fino alla sommità di Leopold Place fermandomi davanti a un carro armato americano M10 Destroyer, posto a monumento per ricordare la liberazione dalle truppe d’occupazione tedesche, avvenuta il dieci settembre 1944. Il carro seppure immobile è imponente, minaccioso e nello sciogliere le gambe, squadro la bicicletta appoggiata al marciapiede che sembra fronteggiare il bestione di ferro con fiero coraggio. La scena si presenta comica, allestisco i treppiedi, quello dello smartphone e della fotocamera in un improvvisato set per riprendermi mentre fingo di trattenere la bicicletta che si scaglia contro il Destroyer. Devo calcolare il tempo di autoscatto, dell’uno e dell’altro dispositivo, impostare il 94
flash, regolare l’esposizione e l’inquadratura e poi correre a prendere posto sulla scena con i pedoni che camminando mi guardano incuriositi per passare scuotendo il capo. Dopo una decina di prove ho finalmente l’immagine voluta, perciò ritiro la strumentazione e la ripongo, davanti ai divertiti avventori di un bar allietati dalla rappresentazione, chiudendo lo spettacolo con un ossequioso inchino. È impegnativo risistemare il tutto, avendo oggetti ovunque, gli occhiali sporchi e appannati, la giacca smessa che riempie il borsello, i treppiedi da riporre nelle valige e lo smartphone da installare sul supporto collegando il jack delle cuffie, stando ben attento di non farle cadere tra i raggi della ruota. Come se non bastasse, la bicicletta non aiuta e scarta all’improvviso sulle asperità del pavè, la fame sale e il nervosismo germoglia. Devo ritrovare la calma e sistemarmi, quindi mi metto alla ricerca di un pasto nella trafficata strada pedonale Gran Rue. Avverto la necessità di mangiare verdure, cotte o crude, inchiodando il mio girovagare, davanti alla “Sandwicherie de Arlon, Le Dagobert”. Propone un menù d’insalate di ogni tipo, pronte oppure da inventare scegliendo tra gli ingredienti esposti nella fornitissima vetrina ma non essendo l’unico ad aver scelto questa soluzione e accodatomi ai clienti della stuzzicante panineria, dopo cinque minuti di lentezza proibitiva delle commesse rinuncio portando la bicicletta davanti al kebab e appoggiandola al lampione, quasi pare di sentirla sussurrare di andare tranquillo e che avrebbe aspettato tutto il tempo ritenuto necessario. Ad Arlon si respira aria di festa, il centro è invaso da una gioiosa truppa di ragazzi che passeggiano a drappelli, si rincorrono e salutano profondendo abbracci, sostano seduti sui gradini dei negozi spolliciando tablet e smartphone, ipotizzando possa essere la giornata che conclude l’anno scolastico. Invece, la mia attenzione è catturata da un depliant pubblicitario riportante il programma dello svolgimento in città di un importante festival della musica. È un calendario fitto di appuntamenti per ogni genere di concerti, in un ventaglio a trecentosessanta gradi spaziante dalla musica tecno a quella organistica della cattedrale, dall’hiphop alla musica sinfonica. Per questo motivo anche il locale del kebab è pieno zeppo, i pochi posti a disposizione sono occupati, ma ho la fortuna di entrare in un momento di ricambio che porta una calma transitoria, nella quale una coppia si alza per pagare, mi accomodo e un solerte ragazzo turco chiede in francese 95
l’ordine, vola dietro il banco e porta un piatto di verdure crude con una palettata di carne arrostita e una bottiglia di acqua frizzante. Un secondo dopo, inizia una lenta processione di ragazzi che invadono il locale, il brusio diventa pressante, la fila alla cassa si allunga mentre i turchi spolpano a rasoiate lo spiedo trottolante al fuoco. Con dieci euro ho mangiato abbondantemente, ho carburante almeno per cinque ore e a conti fatti, per una velocità media di venti chilometri l’ora sono un centesimo ogni cento metri. Per unaa rifinitura del pranzo a base di caffeina, è opportuno sollevare le terga ed entrare nel bar di fronte. Mentre mescolo lo zucchero al caffè, sono intrigato da un cartello invitante all’assaggio del “maitrank” e chieste informazioni al barista, spiega che si tratta di una bevanda tipica del posto, ottenuta facendo macerare foglie e fiori di asperula odorata, in un particolare vino frizzante tedesco e propone delle varianti con aggiunta di fragole, di grappa o di altri aromi, quindi molto garbato, prende un bicchierino e me ne versa un ditale per un assaggio. È un infuso dolce, gradevole dal tenore alcolico contenuto che scivola inducendo facilmente a volerne dell’altro ma ho il caffè pronto e il Lussemburgo ad aspettarmi, finisco l’ultimo sorso, saluto e ringrazio per partire dalla sorprendente cittadina. Suonano le campane della basilica annunciando la mezz’ora dopo le dodici quando mi affaccio a una breve discesa conducente fuori Arlon per percorrere i trenta chilometri che separano dalla capitale bancaria della middle-Europe. Quasi subito, sulla mia destra, trovo la “rue Pietro Ferrero” che introduce a uno degli stabilimenti più grandi dell’industria dolciaria in Europa, una fabbrica che impiega costantemente seicento addetti. Riparto da quota 291 metri sul livello del mare per arrivare ai 420 della destinazione intermedia con una salita progressiva agevolata da un vento che, anche se soffia leggero, mantiene la pedalata sciolta e la velocità di crociera sui ventisette l’ora sospingendomi dopo quindici minuti sul confine nazionale. Una punta di adrenalina s’innalza, la soddisfazione di aver passato un altro confine nazionale mi fa esclamare ad alta voce un “si!” esultante agitando il pugno chiuso. La frontiera non è presidiata, non ci sono sbarre o gendarmi a controllare i documenti e passare dall’altra parte è un’emozione che si esaurisce nella continuità di un paesaggio che mantiene il medesimo stile delle case belghe. Solo il cielo cambia continuamente abito, indossando e smettendo nuvole, mentre la via di comunicazione denominata N4 prende l’appellativo di nazionale sei. 96
(Play Una Storia d’Amore –Jovanotti) - Pedalo assorto in un limbo purificatorio, inspiro profondamente rilassato e dallo schermo degli occhiali da sole la luce passa ovattando immagini docili. È un misto di soddisfazione e fiducia, di avventura controllata e orizzonte sempre nuovo. Solo il tempo pone le variabili cui devo adattarmi e nell’avvicinarmi al centro abitato della capitale inizio a pensare a come organizzare la mia sosta. Si avverte il benessere economico nell’opulento stile dei palazzi, nella pulizia delle linee, nel traffico scorrevole e rilassato. Sono sempre di più orientato a un passaggio veloce con la fotocamera pronta per un giro di scatti da inserire nel mio album dei ricordi e arrivato al centro, mi concedo una sosta per un caffè in rue de Capucins e in una tabaccheria, per l’acquisto della bandiera del Lussemburgo, da sistemare sulle borse posteriori al posto di quella del Belgio passata nell’archivio dei paesi pedalati. Il viale centrale è un rettilineo commerciale con le vetrine delle griffe più prestigiose del mondo della moda, un noioso susseguirsi di proposte spacciate come occasioni e di indumenti che sembrano somigliarsi tutti. Sono attirato da dettagli, come quell’elettricista chino su una cassetta di connessioni da sistemare o il cantante di strada posto in un angolo per suonare con la chitarra brani dei Doors. C’è un poi un lungo tratto del viale addobbato con centinaia di ombrelli colorati sospesi in fila per quattro a una decina di metri di altezza sopra drappi e bandiere con i colori del Lussemburgo, fino a quando la via si apre verso una terrazza sovrastante la valle, sede del fiume Péitruss, una trentina di metri più in basso. Quest’ultimo va ad affluire nell’Alzette, ed entrambi sono corsi d’acqua che bagnano la capitale. Guardo di sotto il parco ordinato, colorato di tutte le sfumature di verde, scenario di un eden medievale a trecentosessanta gradi, dove ogni cosa appare perfetta, quasi fosse un dipinto illustrato da un artista attento alle minuzie. A destra staziona imponente il ponte Adolphe che vanta l’arcata in pietra più grande del mondo, sulla sinistra scorgo le guglie affilatissime sulle torri della cattedrale di Notre Dame, e dall’altra parte ammiro le fortificazioni e i muraglioni a strapiombo di quella che fu una tra le più imprendibili roccaforti d’Europa. Proseguendo, attraverso rapidamente il ponte Viaduc 97
per un passaggio davanti all’elegante palazzo tardo fiammingo che ospitò la sede dell’alta autorità europea sull’acciaio e carbone, proseguendo dopo sul tornante piano dell’avenue de la Libertè verso place de Paris occupata da un paio di attrazioni da luna park. In un chiosco compro un bicchiere di latte e una porzione di galette Balthazar, una fetta di torta con crema pasticcera e albicocche. Chiedo all’affabile cameriera di farmi un paio di foto assieme alla bicicletta e in seguito, uscito sul perimetro del piccolo parco di divertimenti, ne scatto una a un gruppo di ragazze. Si concedono divertite tenendo in mano due enormi bastoncini di zucchero filato rosa che qui prende il nome di “Barbapapà” acquistato nel carrozzone dei dolci, ridondante di scintillanti prodotti tra i quali, anche una serie di cuori al cioccolato con scritte beneauguranti in tedesco adatte ad ogni occasione. Prendo la via della stazione dei treni, iniziando a pedalare in direzione del confine francese con l’intento di districarmi velocemente dal centro cittadino. È il solito snervante passaggio di ponti e sottopassi vietati alle biciclette, devo fermarmi più e più volte a consultare la mappa di carta e quella elettronica fino a quando sbroglio la matassa e trovo la linea retta, spingendomi oltre la periferia della città del Lussemburgo. Il tempo è buono, sono le quindici e quarantacinque, ora metto giù la testa e pedalo per sciogliermi dall’immobilismo, nella piacevolezza del caldo tepore del sole, del senso di giusta sazietà e di un panorama serenamente emozionante offerto dalla route de Thionville. Pedalo dodici chilometri sulla N3 e sono di nuovo in Francia, ancora più soddisfatto, al pensiero di aver pedalato in tre nazioni diverse in un giorno solo e a Evrange, un paesino nelle immediate vicinanze provo senza successo a cercare una bandiera della Francia per sostituire quella ora sventolante sulla poppa della bici, fuori da un territorio che non è il suo. Non è fonte di disperazione, certo di trovarla nel pomeriggio nei pressi di qualche grosso centro abitato perché oggi, immediatamente dopo la partita di calcio dell’Italia giocherà la nazionale francese e trovare bandiere sarà un gioco da ragazzi. La pedalata è impegnativa, sento un accumulo di stanchezza nelle cosce ostacolarmi nello spingere come vorrei, e con un leggero 98
vento contrario si accentua la percezione di un freno sulle ruote. Mi abbevero a una fontanella, rare su tutto il percorso. Riempio la bottiglia con un litro di acqua e la scolo, sistemo il cavallo della salopette per tutelare un punto che avverto abbastanza irritato. È uno di quei momenti nei quali non metto a fuoco il motivo di una fatica così ardua, cercando ovunque una causa che esuli da un spossatezza, quindi controllo se il bagaglio è ben sistemato e lontano dalle ruote, se le pastiglie dei freni le lasciano scorrere e solo dopo una rapida tastata alla pressione degli pneumatici, realizzo che dopo un tratto pianeggiante di sette chilometri in Francia, la strada è tornata gradualmente in salita su un rettilineo nei pressi di Roussy le Village. La sosta rigenerante consente di sbollire le gambe e allentare una tensione generata dall’ansia della prestazione, omologando le effettive difficoltà del percorso. E la carreggiata, poco dopo diventa una dolce discesa di dieci chilometri, porta dai 240 metri sul livello del mare ai centocinquantacinque della porta d’ingresso a Thionville, una città vivace della Lorena, nel dipartimento della Mosella che prende il nome dal suo fiume. In gran parte canalizzato, il corso d’acqua è navigabile per ottantacinque chilometri da nord a sud e viceversa, fino alla zona di Nancy, svolgendo il ruolo di importante via di trasporto anche per le industrie estrattive della zona. Thionville, è un grande centro residenziale popolato da circa quarantamila abitanti e durante la rivoluzione industriale, si è popolata di maestranze impiegate nel comparto siderurgico che una volta entrato in crisi si è, di fatto, spopolato ridimensionandosi. Il centro della città è listato a festa per la partita della Francia, pedalo in una zona pedonale cogliendo le sfumature dell’accento francese di una compagnia di bambini seduti sopra un muretto, inseguo con lo sguardo due ragazzi con un drappo dell’Italia sulle spalle. L’orologio di un campanile movimenta una campana, batte i rintocchi delle diciassette e trenta e il dubbio si fa amletico perché la partita comincia alle diciotto e se dovessi aspettare la fine del match per trovare una sistemazione, mi vedrebbe a caccia di una stanza alle otto di sera facendomi vivere male lo spettacolo. In aggiunta a quell’ora non avrò sicuramente voglia di pedalare in giro o ancora peggio, verso sud per approdare in qualche pensioncina di periferia. A cavalcioni della bici, smanetto sullo schermo del telefono sul sito degli alberghi che propone una stanza all’Hotel Du Parc a cinquanta euro, poco distante, dritto davanti al 99
mio muso a mezzo chilometro, in place de la République dieci. Aggancio e pompo le gambe, giro attorno alla rotonda sulla piazza infiorata parcheggiando vicino alla porta dell’albergo, entro trafelato chiedendo se possono darmi la stanza e, la gentile portiera, con molta calma apre il librone, consulta le righe con l’unghiona dell’indice smaltata di rosso glitterato. Diciassette e quarantadue, aspetto impaziente. Diciassette e quarantatré, conferma la disponibilità e pattuiamo il prezzo di cinquanta euro. Diciassette e quarantaquattro, chiede il documento, già estratto e carico di dati da copiare, lo consegno e inizia a compilare la scheda del check-in. Inizio a fremere perché il tempo passa e gli azzurri sono già caldi e quasi pronti alla battaglia. Diciassette e quarantacinque, sfodero un francese dolcissimo condito di un’urgenza improcrastinabile dicendole che tra pochissimo inizia la partita. A quel punto spalanca gli occhioni e sfarfalla due superciglia mascarizzate di fresco, si rende conto della situazione, sbatte in chiusura il librone e portando la mano davanti alla bocca si scusa, si dinamizza, consegna la chiave e sorridendomi dice: “Vit, vit!” Esce dal bancone in tutta la sua raffinata abbondanza, prende i miei bagagli smontati precedentemente dalla bicicletta portandoli nella hall e li lancia in uno sgabuzzino del quale solo lei ha la chiave. Afferro al volo il borsello sul bancone, e ringraziandola calorosamente esco di corsa sulla mia bici da viaggio, dirigendomi verso lo stadio elettronico di un qualsiasi bar. Diciassette e quarantasette, la bicicletta è scarica, scattante, briosa, accelera in un secondo, si guida con un controllo sicuro e immediato, arrivo davanti alle vetrine del café de la Moselle, in place du Marché tredici, dove vedo uno sgabello libero vicino al bancone con una selva di schermi panoramici appesi alle pareti a ogni punto cardinale. Diciassette e quarantotto, il locale si affaccia a un vialetto lastricato laterale alla via principale che si allarga in una piazzetta, lego la bicicletta su un passamano, entro sotto lo sguardo severo di quattro giganteschi primi piani di Balotelli che palleggia verso Pirlo. C’è un buttafuori alla porta, mi squadra severamente con occhio torvo, quasi a trasmettere telepaticamente che qui dentro comanda lui in ogni caso. Diciassette e quarantanove, sono seduto al banco, la cameriera si materializza dietro il 100
bancone, venendomi incontro con un viso tirato, nervoso e chiede ce que vous voulez? Sono appena arrivato e non sapendo bene cosa prendere, la prego di attendere un attimo mentre scelgo, lei si gira verso una donna, molto probabilmente la sua direttrice, dai capelli lisci, biondo platino, vestita con eleganza che con una smorfia acconsente a una dilazione di tempo per la mia decisione. Prendo una lista sfogliandola, senza trovare un’ispirazione apprezzabile, quando vedo passare dal bancone su un vassoio due coppe di birra rossa con le bottiglie smezzate, verso un tavolo di altri spettatori del calcio. Ecco, diventa quello l’articolo oggetto del desiderio, richiamo l’attenzione della ragazza che tetra mi fissa gli occhi vitrei sorretti da due borse nero Prada. Additando la birra appena arrivata all’altro tavolo, affermo di volerne una e concludo mimando il numero uno, alzando l’indice a mezz’aria. Grugnisce e si gira, si accuccia nel frigo e tira fuori la bottiglia di Grimbergen Rouge, la stappa e la versa, ponendomi il bicchiere davanti agli occhi. Esamino la schiuma rosata frizzare sopra un liquido ambrato dentro la coppa chiazzata di umidità e goccioline: il santo Graal della birra. Accenna un sorriso che le pettina la frangia e cancella le borse, allunga una tazza di salatini chiedendomi cinque euro pronta cassa. Diciassette e cinquantacinque, sorseggio questa birra belga ben equilibrata. Unisce complessi di frutta rossa e fragola con aromi di chiodi di garofano e un pizzico di piccante. Il sapore agrodolce fruttato, la schiuma ricca, densa e rosa, il colore rubino e gli intensi profumi la rendono un capolavoro. I calciatori sono pronti ed io alzo il santo Graal brindando in onore di Prandelli e soci. Diciotto, calcio d’inizio. (Play Endless Summer-Oceana) Entra nel momento del fischio d’inizio un ragazzo trafelato con una bandiera italiana sistemandosi di fianco a me, con gli occhi puntati sullo schermo e dopo un primo applauso di un pubblico misto italo francese, scende un silenzio concentrato sull’ascolto dell’omelia della telecronaca. Sembra sia svelato l’ultimo mistero di Fatima, ma questa assurda eco inizia a essere interrotta dalle velate rimostranze per un gioco che non decolla, fermo sui piedi di un Pirlo che ha confuso il prato brasiliano con il palco della Scala. La squadra della Costarica sembra spaesata dalla lentezza e dalla macchinosa manovra fatta dagli azzurri, increduli di trovarsi al cospetto di un team per niente pericoloso.
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Il phatos diminuisce, e nei commenti increduli scambiati con il compaesano, risalta la disapprovazione per lo scarso impegno. Ci presentiamo con una stretta di mano, lui è Francesco ed è nato a Cosenza da dove è partito per cercare un impiego, quasi impossibile da trovare in Calabria. Sono le stesse identiche parole del ragazzo di Matera che lavora nell’albergo di Neufchâteau. Gli racconto il tragitto che ha mi trascinato qui e lui del suo lavoro in un ristorante di Yutz, un borgo confinante con Thionville, trovato dopo avere abitato per tre anni in Belgio. Gli chiedo come si trova e rispondendo confessa di vivere molto bene, perché quando c’è il lavoro, si può risiedere ovunque dignitosamente mentre a casa non ci sono prospettive per il futuro. Aggiunge che in Belgio si era trovato ancora meglio e dopo avere aperto un locale con l’ormai ex fidanzata, a causa della rottura del rapporto si è trasferito in questa regione. Il mio bicchiere, tra un sorso e una chiacchiera, tra un’imprecazione per un’azione sfumata e un sussulto per un’occasione sprecata, si è vuotato e ordino un’altra birra offrendone una a Francesco. Prendiamo questa volta due Grimbergen Noel. Sa di caramello e liquirizia, con una nota di prugna macerata e si brinda augurandoci che la squadra porti a casa un bel risultato. Purtroppo, poco prima della fine del primo tempo, gli avversari segnano una rete. Ruiz sfrutta al meglio un errore di Chiellini, affossando i presenti che avvertono quanto sarà difficile una rimonta. Tutto il secondo tempo è una vergognosa farsa, chiuso con una sconfitta meritata pienamente dall’Italia e così mestamente, ci si saluta mentre fuori è un fermento indescrivibile, di ragazzi che si accalcano per entrare, occupare un posto e assistere alla partita della Francia. Le due birre si fanno sentire, l’ebbrezza ovatta i suoni nitidi e allo stesso tempo esalta il clamore dei canti, esco lasciando il posto e riprendo possesso della bicicletta passeggiando nella zona pedonale ridondante di schermi televisivi diventati una calamita trattenente nugoli di francesi che bevono, sperano, cantano e fremono prima dell’inizio della loro partita. Sono da poco passate le otto di sera e in una bottega turca gira un cilindrone di carne. Due giovani con la traversa bianca e un cappello tricolore della Francia in testa lo stanno scolpendo con il rasoio elettrico. Non ci sono molti clienti perché la bottega è una piccola apertura in un palazzo, sprovvista di televisore e quindi ne approfitto per mangiare due spiedini su un piatto di verdure crude, consumati rapidamente per raggiungere il drappello più numeroso di tifosi ammassato fuori dal pub Nimby che ha allestito due grandi schermi a illuminare un’immensa griglia a carbonella, per salsicce e lance di carne. Guardo il listino dei prezzi e paragonando con gli 102
spiedini turchi consumati poco prima, noto come il risparmio è stato considerevole, perché comprando all’incirca la stessa pietanza, avrei speso quasi il doppio. Questi dettagli nel lungo andare incidono sulle spese del viaggio verso casa e qualora possa risparmiare, mi compiaccio, tanto quanto mi scoccia scialare in assenza di alternative. Gli avventori del pub sono vestiti di bianco, rosso e blu, schiamazzano mangiando e attendono l’inizio della partita contro la Svizzera. C’è chi porta una voluminosa parrucca, qualcuno ha la faccia completamente tinta, moltissimi indossano le maglie dei beniamini, i più calorosi sono a petto nudo, quasi tutti vanno a birra, e al momento della presentazione della squadra che scorre in carrellata sugli schermi, parte l’inno nazionale e tutti i presenti intonano la Marsigliese (Play La Marseillaise), abbracciandosi o tenendosi per mano. I solitari emozionati se la tengono sul petto e non risparmiano il volume della voce, e tutti terminano con un urlo di gioia e un lungo applauso scaramantico per allontanare qualsiasi malasorte. La Francia corre, mette sotto gli avversari, domina e s’impegna, velocizza e attacca, concretando una cinquina di reti che piegano le gambe degli avversari. Lo svilente raffronto con la prestazione degli azzurri, mi convince a non andare avanti e considerato il momento di delusione, prendo la direzione dell’albergo e rientro, dopo l’acquisto in una cartoleria della bandiera della Francia da mettere il mattino seguente a poppa della due ruote. Mi consentono di sistemare la bici in una corte interna dell’albergo e dopo avere ripreso possesso dei bagagli, accedo nell’ascensore elevandomi al terzo piano. La stanza è demodè ma accogliente, ha una doccia funzionante e calda quanto basta e una finestra rivolta al giardino sottostante. Alla tv trasmettono i rimasugli della partita che dà l’onore delle armi agli elvetici, capaci di segnare due reti, fissando il risultato finale sul cinque a due per i francesi, mentre al telefono commento con le persone di casa la prestazione dei nostri. Racconto del mio stato, della giornata appena trascorsa, della corsa per prendere posto, della chiacchierata con il connazionale e dei brindisi, della deludente partita degli azzurri e della marsigliese dei transalpini. Dopo aver sistemato la rotta del giorno seguente sulle carte e guardato le altimetrie, mi distendo svestito sulle lenzuola tirate e fresche e buonanotte ai calciatori. 103
(Play Brividi-Rossana Casale) Sabato 21 giugno 2014 È un sogno a riempire la mia notte. Mi fa svegliare scettico e preoccupato verso mezzanotte perché nasce da un qualcosa che non fa parte dei miei disegni o dalla mia immaginazione. (Play Black Hole Sun-Soundgarden) - Dal buio della notte sale lo schermo onirico e s’illumina d’immagini in controluce in bianco e nero, fortemente contrastate, dai contorni nitidi. Sono al mare, prendo sole disteso sull’asciugamano, sopra uno scoglio, sono con una donna alla quale non saprei assegnare un nome, mi sono sollevato da una decina di secondi per chiacchierare quando il sole alto nel cielo terso, ha due forti impulsi di brillantezza, e so non essere uno scherzo della vista perché anche chi sta con me, ha colto i lampi. Guardo in giro e ravviso altri bagnanti scrutare in direzione dell’astro con una mano a frontino sul capo a proteggersi la vista dall’abbaglio. La scena del mio nightmare cambia con un taglio netto, riprendendo con la diffusione da parte della stampa della terribile notizia: il sole è diventato l’Armageddon. La terra è destinata a essere raggiunta da un vento rovente capace di distruggere ogni cosa, lasciando il tempo del giorno e quello di una notte e infine all’alba, al sorgere dell’astro, tutto sarà concluso. Si diffonde il panico, sento il tempo assottigliarsi, brancolo nel buio della notte cercando qualcosa che non trovo, un affetto, una sicurezza, qualcuno 104
da cui andare, e finalmente riemergo dal sogno con un risveglio che riporta alla realtà di Thionville e alla fine di un’angoscia bloccata nel petto, incapace di farla scivolare fuori. Un sorso d’acqua e un indugio al bagno tra gli sbadigli, mettono la parola fine allo show, guardo l’orologio costatando sia la mezzanotte da poco trascorsa e infine mi stendo sperando di arrivare senza altre catastrofi alle sette e mezzo del mattino. Resuscito al suono della sveglia del telefono e dopo una doccia rientro in quella dimensione organizzativa e fredda per controllare i dettagli, decidendo senza indugiare. Vado velocemente fuori dalla stanza, vestito di azzurro, finalmente in corto confidando nella veridicità delle previsioni di bel tempo e temperatura mite. Nel bar dell’albergo consumo la colazione pensando al realismo del sogno e a come sarebbe spiacevole avere le ore contate, ma la mente si concede ora allo sguardo oltre le vetrate che lasciano filtrare una luce intensa senza bagliori improvvisi, quella riflessa dal paesaggio illuminato dal sole del mattino, foriero di decisioni. La bici, pazientemente silenziosa nella corte, aspettava di conoscere la direzione da prendere, la carico avvolgendola del nero delle sacche, innesto il gran stendardo di Francia portandola in posizione di partenza, chiudo la zip della giacca antivento per iniziare a pedalare riscaldandomi al meglio e vado. È immediato l’inserimento sulla rotta verso sud, in direzione di Metz seguendo il corso della Mosella su una pista ciclabile asfaltata lungo l’argine, leggera e dolce, senza traffico, con la musica nelle orecchie e la fanciullesca allegria di un andare libero all’avventura. Il panorama scorre sulla destra tra banchine e impianti per il carico dei minerali, grandi capannoni e moli di rimessaggio mentre sulla sinistra ogni tanto spunta qualche coniglio curioso tra la vegetazione boscosa a tratti folta. Altri sportivi in bicicletta mi sorpassano di forza, cavalcando mostriciattoli in carbonio senza accendermi l’istinto all’ingaggio, considerando estremamente calma questa passeggiata, somigliante a una gitarella fuori porta. Posso divagare alla ricerca di una gloria, di qualche nuova storia, o di un tempo farcito soltanto da pedalate erranti e fotografie scattate per caso. (Play Boulevard Of Broken Songs-Green Day Vs Oasis) Viale Dei Sogni Spezzati Cammino su una strada solitaria, l'unica che io abbia mai conosciuto. Non so dove porti ma è casa per me e cammino da solo. Cammino questa vuota strada nel viale dei sogni spezzati, dove la città dorme e sono il solo e cammino da solo La mia ombra e l'unica che cammina accanto a me. Il mio profondo cuore è l'’unica cosa che batte. Qualche volta desidero che qualcuno là fuori mi trovi, fino a quel momento camminerò da solo Sto camminando giù lungo questa linea che divide me da qualche parte nella mia mente, sul bordo della linea della sponda e dove cammino solo leggo tra le righe, che cosa è sbagliato e tutto quello che è giusto 105 E cammino solo
Sono trenta chilometri di bacino idrico che si snoda, deviando nelle rientranze dove si allarga creando veri e propri porti navali. Sfilo sul canale, accanto a corsi d’acqua e secoli di storia, con la testa vuota, sensibile al fascino di argini di cemento scrostato. Gli specchi d'acqua sono incastonati in uno dei più importanti poli del comparto siderurgico francese e in particolare dell’attività estrattiva del minerale del ferro, dell’industria del vetro e della concia del pellame. La regione ha conosciuto un massiccio flusso migratorio, attratto dalle potenzialità industriali della zona e anche moltissimi italiani hanno prestato la loro opera di manovalanza dentro opifici e manifatture praticando lavori molto duri. Ora il comparto conosce la lenta dismissione e il ritorno di vaste zone dal presidio industriale all’uso agricolo o naturalistico, lasciando che il tempo copra con un folto mantello vegetativo i segni di uno sfruttamento intenso nel corso del secolo passato. In alcuni tratti sembra un museo industriale, lasciando intuire come sia stato produttivo il sito e allo stesso tempo quanto sia stata infernale questa via di comunicazione canalizzata. Un barcone fluviale mi raggiunge mentre sono fermo a scattare fotografie. Sulla prua porta l’insegna con il nome “Renata”, sulla tolda trova spazio l’enorme magazzino per il trasporto delle rinfuse. I cabinamenti appaiono confortevoli, per metà sono sulla poppa con un’autovettura parcheggiata sopra e per metà davanti, sopra il nome del natante. Aggancio i pedali e la rincorro per misurare la sua velocità che è di circa quindici chilometri l’ora, ci facciamo compagnia fino a quando non vira dentro un canale sulla destra, mentre proseguo dritto entrando nell’abitato di Metz attraverso una zona periferica zeppa di fabbriche e supermercati molto austeri. La Mosella nel centro della città si apre in una serie di navigli che formano delle isole unite da pittoreschi ponti in pietra. L’ingresso propone una sky-line dominata dalla cattedrale di saint Etienne e dalle guglie delle torri del tempio protestante. Prendo questi come punti di 106
riferimento e all’inseguimento della loro ombra passo su un ponte alla confluenza di due corsi d’acqua, dove una coppia di cigni si sta sistemando il piumaggio. I volumi dei muri di contenimento degli argini, le case, il corso d’acqua e il cielo terso chiazzato da nubi, sono sfavillanti e coreografici. Le due prime piazze sono contigue, si chiamano Place de la Prefecture e Place de la Comédie e giovando di una sosta mi produco in diversi autoscatti dalle inquadrature veloci. Place de la Comédie si allarga davanti alla teutonica chiesa protestante Temple Neuf, una costruzione massiccia in pietra scura che si erge fino ai 55 metri della torre centrale. L’edificio religioso è stato costruito tra le anse della Mosella, su un’isola originariamente destinata a una coltura di salici. Durante l’opera di germanizzazione dell’Alsazia-Lorena, all’epoca sotto il controllo tedesco, allo scopo di consolidare la presenza, furono costruiti molti edifici ampliando la vetrina architettonica dell’impero. La prima pietra del tempio fu posata nel millenovecentouno e l’inaugurazione fu celebrata alla presenza del kaiser Guglielmo appena tre anni dopo. Metz è stata una città contesa fin dalla sua nascita, arricchita da una storia di dominazioni diverse succedutesi nei secoli, incarnando nel 500 anche il ruolo di capitale dell’Austrasia, durante il periodo Merovingio, terminato nella metà del Settecento con l’ascesa di Pipino il Breve che diede inizio alla dinastia carolingia. Con la bicicletta salgo un viottolo dopo il pont des Roches arrivando sulla piazza della cattedrale nella quale si svolge un mercato di bancarelle traboccanti di vestiti e tra questi vedo una divisa della nazionale italiana di calcio molto simile alla costosissima uniforme griffata, dal costo di dieci euro prontamente acquistata. Il mercato è confusionario, stona con l’eleganza della piazza. Un rivenditore di materassi mette in bella vista i parallelepipedi appoggiandoli verticalmente sul muro esterno della chiesa in modo dissacratorio, strepitando a 107
gran voce per attirare passanti che invece si tengono alla larga dal casinaro del sabato mattina. Appoggio, e lego la bicicletta a un’inferriata, quindi entro a dare un’occhiata alle arcate gotiche della chiesa, soffermandomi sulla porta della vergine, finemente decorata. Al centro c’è una statua raffigurante la madonna sorridente con il bambino in braccio, ma osservo le opere senza mollare del tutto la vista dalla bici per evitare sgradevoli sorprese. Attraverso place d’Armes, sul fianco della basilica arrivando davanti all’ingresso dell’Hotel de la Ville, (il municipio) dove si sta svolgendo un rito nuziale tra due giovani di colore, mischiandomi alla folla di amici che a raggiera stanno tempestando di foto la coppia. Qualcuno mi scruta notando l’intrusione mentre io scatto fotogrammi alla sposa. È una donna in carne, veste un corpetto di strass e una voluminosa gonna bianca di tulle e organza, regge in mano un bouquet di rose bianche e blu. Porta un velo che pende dalla testa come una coda di cavallo e due appariscenti orecchini ai lobi. Tutto questo candore contrasta con la pelle scura messa in risalto, creando una sposa d’indubbia bellezza. Lui è un damerino in smoking con i capelli corti e il papillon sulla camicia bianca, porta un costoso orologio al polso e tiene per mano l’amata concedendosi serioso agli scatti degli amici. La sua figura esile scompare vicino all’imponenza della donna, che da oggi sarà (si spera) per sempre sua moglie. Le cuffie incolpevoli propongono un brano, momentanea colonna sonora dell’evento, musica dolce con un testo dapprima inadeguato e via via sempre più conforme alla fantasia che galoppa.
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(Play Illegal-Shakira) Illegale L’impressione trasmessa è quella di un’unione di facciata, perché Chi l'avrebbe pensato che tu potessi ferirmi pochi sono i sorrisi dei presenti, nel modo in cui l'hai fatto? più attenti a non sgualcire i vestiti Così deliberato, così determinato e da quando te ne sei andatomi mordo le unghie per ore e giorni e alle pose da assumere per e mi rifaccio le mie domande ancora e ancora, tramandare ai posteri il momento perciò dimmi ora, dimmi ora perché sei così della partenza. distante quando io sono ancora così vicina? È indubbio che un attimo rubato Tu non conosci neppure il significato delle parole non racchiude tutta una storia, ma "mi dispiace". infine ognuno ha il proprio Avevi detto che mi avresti amata fino alla morte e destino e il mio è quello di da quel che ne so sei ancora vivo, tesoro. ricominciare a triturare chilometri Tu non conosci neppure il significato delle parole pertanto, per meglio riflettere "mi dispiace". sulla direzione del percorso, Inizio a credere che dovrebbe essere illegale riprendo la bicicletta e vado ad ingannare il cuore di una donna. accomodarmi al tavolino di una Ho provato ad essere attenta a tutto ciò che boulangerie che espone un vasto volevi, sempre incoraggiante, sempre paziente, campionario di golosità dentro le cosa ho sbagliato? vetrine. Ordino un caffè e un Me lo chiedo per ore e giorni, è questo o non è croissant allemand (con la crema questo il posto al quale appartieni? di mandorle) e seduto sul lato Comunque, comunque auguro a voi due il meglio destro della via pedonalizzata, spero che restiate insieme all’ombra della tenda del bar, osservo il passaggio delle persone. Non differiscono da quelle di Trieste, alle prese con le incombenze della spesa, oppure che scalpitano per arrivare da una parte all’altra della città. Tra le altre, passa un vagabondo vestito di stracci con una lattina di birra in mano, sparla e sputa, s’incazza e lancia la lattina vuota a terra tra l’indifferenza di tutti, poi un altro si ferma a pochi metri da me. Si siede davanti all’ingresso di un supermercato per chiedere l’elemosina accanto al suo cane che porta un cappello sulla testa, con il frontino a nascondergli il muso. Esce un addetto del negozio e lo fa alzare e spostare in modo deciso, brusco. Arriva il caffè, caldo come un brodo nucleare, non vuole saperne di raffreddarsi a una temperatura bevibile, nemmeno dopo aver mangiato con calma il dolce. Consacrandomi alla mappa cerco la direzione più conveniente per arrivare a Strasburgo, un’altra delle città simbolo di questa fantomatica Europa da esplorare. Mi separano da questa meta 168 chilometri ed evidentemente non ci arriverò in giornata, soprattutto prendendo atto che sono già passate le undici. 109
Il caffè ha perso metà del carico termico e lo sorseggio, pago la consumazione e montato sulla bici inizio la discesa per uscire dal centro abitato. (Play The Tide is High - Blondie) - Prima di transitare nel sottopassaggio che attraversa la piattaforma ferroviaria, contemplo la torre dell’acqua della stazione, un tempo al servizio delle locomotive a vapore. È una torre superba di 40 metri, poggia su una base di pietra nera che contrasta con quella grigia dello stelo, e sorregge il serbatoio in arenaria gialla, ricoperta da un tetto conico in piastre di ardesia. Feritoie e aperture danno carattere a questo manufatto ottoniano, ereditato dal periodo di reggenza tedesca e ora parzialmente utilizzata alla base, da un noleggiatore di biciclette. Poco dopo aver percorso un centinaio di metri nel sottopasso dei binari, esco alla luce del sole davanti al Centre Pompidou, un grande museo dedicato all'arte moderna, inaugurato nel 2010, e divenuto ben presto uno dei simboli di questa attiva città francese. Si tratta del primo "avamposto" del Pompidou di Parigi, il primo tentativo, riuscito, di riprodurre un'idea museale in un luogo diverso dal museo "madre". Il tetto ondulato rappresenta uno spettacolare capolavoro di moderna carpenteria ed è inspirato nella forma, a un cappello in giunco del quale riporta lo stesso intreccio di legno. Il candore dell’ambiente si sposa con il cielo che limpidamente avvolge viali e lampioni, panchine e prati e pedalare inizia a essere un disimpegno che fa distendere la schiena, stirare le gambe e sciogliere la mente. Seguo le indicazioni sulla Strada D603 per Saint Avold, senza guardare il navigatore e presto riscopro di nuovo l’aperta campagna, modulando progressivamente la pedalata fino a diventare sportiva. C’è una continuità di dossi molto pesanti, si succedono con regolarità, devo controllare il respiro, uso il cambio usato di frequente, l’alternanza di seduta e pedalata fuori sella, il recupero abbassato aerodinamicamente per filare giù più spedito, sudo e sputo, bevo e rifiato con l’intenzione di fare meno soste possibili, tornando a ragionare con la logica di un turismo spinto e di un relax a elevato battito cardiaco. Mi sono lasciato prendere da foto e visite e sto iniziando a pensare alla lunghezza del viaggio, alla meta prefissata, di quanto tempo resta e allora valutando che la luce lo consente, provo a spingere un po’ più deciso. 110
All’una e mezza, quando ho percorso circa venti chilometri dalla partenza da Metz, a Courcelles Choussy, entro al supermercato Lidl per comprare qualcosa da mangiare. Con quattro morsi, inglobo una mozzarella con un panino di segale e una confezione di frutta sciroppata. Centellino un altro caffè al bar De La Croix de Lorraine e riprendo la marcia con una salita producendo settanta metri di quota, scollino e ne scendo velocissimo sessanta per riprendere a pompare su dieci chilometri e rimontare di altri 180 metri. Passo il dosso e imboccando una discesa al sette per cento verso Longville de Saint Avold, un paesello residenziale molto fine disseminato di ville prestigiose. All’ingresso di Saint Avold, mi accoglie un ombreggiato Dj con le cuffie giganti sul cranio pelato intento a mixare musica tecno a tutto volume, dentro un gazebo. (Play Flash Dance Remix-Global deejays) - La locandina appoggiata al tavolo pubblicizza l’evento della festa della musica della cittadina. Come tutte le altre di Francia, nel giorno della festa pagana del solstizio di estate e in concomitanza con la celebrazione della festa di san Giovanni, si porta la musica nelle strade per darle una dimensione globale fruibile a tutti, artisti e spettatori assieme. Evidentemente anche Arlon, visitata il giorno prima, era piena di giovani per lo stesso motivo e il manifesto dà carattere ufficiale a quello che sembra un evento nazionale importante e molto sentito. Rotolando per le strade del centro, infatti, c’è musica ovunque, potenti impianti stereo e chitarristi, strimpellano musica jazz e disco. Cavi elettrici coperti da passerelle, collegano gli immancabili banchetti della birra, una scuola di zumba prova in piazza e il clima sembra disteso, gli sguardi dei passanti sereni, per larga parte giovani con uno zainetto in spalla che attendono salga la pressione e la vera festa si inneschi. Sono le quindici e trenta, mi viene voglia di fermarmi per cercare una sistemazione in zona e partecipare alle feste, sovvertendo il programma di pedalata veloce e senza troppe divagazioni, perché il clima di festa è coinvolgente. Il contachilometri dice che ho percorso settantaquattro chilometri, non tanti a dire il vero, ma un’alzata di spalle scrolla questa sensazione appiccicosa di scarsa produttività e inizio a cercare un albergo nel sito internert, che però 111
sentenzia prezzi astronomici in centro e più economici nell’immediata periferia, a circa sei chilometri dall’evento. Mentre sono immerso nella ricerca senza staccare gli occhi incollati ai risultati, sento un fermento. (Play Matrix Theme-Rage Against the Machine)- Dapprima è un movimento in lontananza, e lo avvisto quando avverto trambusto, mi giro alla ricerca di una concitazione mettendomi subito in apprensione. Ha il suono di un richiamo, di un grido di allarme e inizio a distinguere i segnali di una baruffa violenta montata tra due uomini. Si fronteggiano minacciosi, aggressivi, spettinati e con gli abiti in disordine. Un altro uomo piuttosto anziano con i baffi brizzolati cerca di contenerne uno evidentemente concitato e a stento lo trattiene dall’aggredire l’altro pronto con i pugni alzati. Entrambi minacciano, si offendono, biascicano le parole e in un istante di disattenzione il contendente solo aggredisce l’altro che scansa rapidamente l’anziano, menano colpi e non tutti vanno a segno nella colluttazione ravvicinata, si battono nel corpo a corpo e infine si divincolano. Sangue dal naso, ragazze che scappano, altri col telefono tra le dita chiamano la gendarmeria, in mano appare una bottiglia brandita per il collo e come una mazza s’infrange sulla testa di uno dei due che barcolla e poi si allontana stordito, sono immagini di una striscia somigliante a un fumetto. Si tiene il capo in ginocchio per poi rialzarsi minaccioso quando, guardandosi la mano, la vede sporca di sangue, l’altro con rinnovata difficoltà è trattenuto dall’anziano, arrivano di corsa due poliziotti, non fanno domande e con gli spray urticanti inondano la faccia dei due litiganti che accecati iniziano a brancolare spaesati, li costringono a mettersi in ginocchio, a una decina di metri l’uno dall’altro e mentre uno piange come un vitello con i moccoli di sangue al naso, l’altro cerca di aprire gli occhi e si rialza facendo imbestialire i gendarmi che tentano in tutti i modi di farlo tornare in una condizione inoffensiva. Arrivano rinforzi, si scagliano addosso al tenace combattente sanguinante dalla testa per la bottigliata ricevuta, lordando ovunque e macchiando le divise fa irritare ancora di più le forze intervenute per renderlo innocuo. Grida disperato, arrabbiato, arriva un parente che cerca di calmarlo, ma non vuole sentire ragioni e alza ancora di più il volume della sua protesta diventata grottesca, urla lamentandosi di non riuscire a respirare. Lo spingono in un angolo in quattro, gli premono la faccia al muro, prendono le sue braccia ammanettandogli i polsi dietro la schiena, riportandolo di forza in ginocchio per lasciarlo libero di sbraitare quanto gli pare. 112
I poliziotti si guardano, si complimentano, per come hanno messo in atto le procedure di arresto, riportando la calma evaporata nei fumi dell’alcool. La scena ha un folto pubblico, dal preoccupato al divertito. Ho seguito il teatrino curioso come gli altri e la conseguenza è che ho perso interesse nel rimanere, la manifestazione ha preso una patina alcolica rendendola meno attraente di come poteva sembrare e quasi fosse un segno della necessità di proseguire, rispettando l’impegno preso, aggancio spingendomi fuori da Saint Avold carico di adrenalina per lo spettacolo appena rappresentato. La strada ora è piatta, si chiama D656 e vado verso quella che è stata la linea Maginot. Me lo dicono le indicazioni storiche incontrate alle rotonde e in mezzo ai campi, spunta ogni tanto il sinistro cappello di cemento armato dei bunker che sembrano osservare il mio passaggio dalle feritoie buie. (Play Sunshine-Keane) - Puttelange aux Lac è il nome dell’agglomerato urbano insistente sulla rue Wilson verso Strasburgo, con una completa serie di attività che aprono le vetrine per un offerta commerciale a 360 gradi. Si va dalla boulangerie all’impresa funebre, dallo studio dentistico all’agraria, dal negozio di articoli di idraulica a quello del noleggio di film. Ovviamente non mancano i bar e per una sosta dissetante entro al PMU bar per chiedere informazioni sulle sistemazioni per la notte nei dintorni della località. Passo accanto a un gruppo di persone sedute fuori che chiacchierano attorno a un tavolo. Si azzittiscono, quando entro per prendere una bibita, mi osservano in silenzio girando le pupille, commentando poi quando sono dentro il locale. La cameriera è fasciata in un vestitino rosso, corto. Porta una traversetta gialla con un marchio di birra, i capelli tirati su e trattenuti da un mollettone, cammina ciondolando sui tacchi, ha un fare ammiccante, sorride e serve. Alla mia domanda rimane perplessa, ammette di non conoscere granché del posto ma alzando l’indice, mi fa cenno d’essere paziente ed esce dal banco per andare a chiedere alla compagnia del tavolo verde. (Play Hukilao Song-Don Ho) - Mi accosto alla porta e osservo il quadretto di questi singolari personaggi: la barista con le cosciotte bianche, il contadino, il tabaccaio, il delinquente e l’infermiera. Al quesito, si raddrizzano sulle sedie, si consultano, fanno cenni, gesti indicanti, si voltano allunisono da una parte e poi dall’altra come uno stormo di papere mentre mi avvicino alla bici per risistemare il borsello e vi monto sopra alimentando il sospetto che non avrò le 113
informazioni cercate. L’infermiera si alza, è corpulenta, tarchiata, con un completo jeans che sembra esplodere da un momento all’altro, è bionda, ha un viso dolce, il sorriso orfano di un dente e un trucco aggiunto sopra quello del giorno prima. È briosa, spiritosa, si rivolge agli amici ostentandomi come vero uomo, palpandomi un braccio fa un cenno di stupore scatenando l’ilarità generale, con un inaspettato movimento repentino infila la gamba oltre la stanga della bici mettendosi davanti a me e sprona alla partenza per portarla via in giro per il mondo. È divertente, devono poi aiutarla a scendere perché la bicicletta le è immensamente alta e loro, sistemati a semicerchio, mi invitano a prendere qualcosa da bere. Siedo davanti ai fantastici quattro, spiegando da dove arrivo e quale sia la mia meta, commentano stupefatti e mentre si chiacchiera, arriva il mio caffè ma quando sto per congedarmi, insistono perché rimanga ancora un po’. Faccio presente di dover trovare un posto per la notte, avendo ancora una luce sufficiente per farlo e in quel momento l’infermiera propone risoluta di dormire a casa sua. Rimango interdetto, e lei ribadisce proponendo di rimanere, di essere suo ospite senza sia necessario pagare alcun che, gratuitamente. È un coro di “oui, oui!”, gli amici annuiscono e confermano essere la miglior soluzione possibile, la barista strizza l’occhio accondiscendente e poi batte la mano sulla mia spalla per rassicurarmi, confermando che Sandrine è una donna generosa della quale posso fidarmi. Le chiedo scettico, quale sistemazione avrebbe pensato. Lei si mette a ridere battendosi le ginocchia perché intuisce abbia compreso male i suoi propositi, agita l’indice nel senso di un no mentre ridacchiando ancora, si siede al suo posto, invitando ad accomodarmi con gli altri che con ampi cenni la imitano chiedendo di prendere un altro caffè. Scendo dalla bici sedendo curioso sulla sedia, ordino il caffè a Peline, la barista, mentre Sandrine si spiega. Risiede momentaneamente con i suoi genitori, molto anziani, soddisfacendo l’esigenza di badare a loro senza fare tanti spostamenti, e quindi deve dormire fuori lasciando sguarnito il suo appartamento. A conti fatti, sono quasi le sei e mezzo del pomeriggio e ovviamente non potrei sicuramente trovare una sistemazione più economica di quella proposta, quindi sprofondo nella sedia di plastica verde, e gustandomi il caffè, inizio le presentazioni con Sandrine. Pronuncia il suo nome e brinda con una birra battendo il bicchiere contro la mia tazzina, poi indica uno per volta gli altri sbicchieranti: David, un omone che la sedia a stento contiene, con la testa pelata e i denti enormi contenuti dalle labbra prominenti. Mi guarda con occhi enormi e racconta di vivere insieme alla sua cagnolina color cioccolato, Dudù, nella fattoria giù al lago. Marziale gestisce la tabaccheria più grande del paese, è 114
sposato con una rumena terribile che lo comanda a bacchetta e infine Pascale, un uomo belloccio con il pizzetto nero alla D’Artagnan, i capelli mori e gli occhi castani con una luce furba, osserva tutto accennando un sorriso accattivante e sembra abbia conosciuto il rigore delle galere di Francia in qualche non lontana occasione. Tutti brindano e raccontano qualcosa che a tratti fatico a comprendere a causa del mio francese zoppicante, ma l’allegria regna sovrana e ogni discorso fila via liscio ammorbidito anche dalla birra presa dopo il secondo caffè. Poi finalmente Sandrine si alza e prendendomi sottobraccio si congeda facendomi salutare la combriccola, e infine, invitandomi a seguirla s’incammina. Arriviamo in un quartiere di case popolari poco distante, mi fa mettere la bicicletta nel soggiorno, pregando di stare attento a non strisciare con le gomme i muri dell’androne del palazzo. Si nota che l’appartamento non è abitato con costanza, più somigliante a un magazzino di oggetti poggiati qua e là alla rinfusa. Prepara un caffè solo dopo essersi accertata di avere tutto il necessario profumando l’aria rimasta immobile da tanto, coprendo l’odore della polvere, quindi seppur con qualche piccolo imbarazzo, mi accompagna al bagno invitandomi a fare una doccia per togliermi di dosso l’unto dei chilometri quotidiani. È sorprendentemente gentile e conciliante, prepara l’asciugamano pulito, tira fuori da un mobile uno shampoo nuovo e infine agita in aria il pacchetto di sigarette e l’accendino e ne estrae una facendo capire che se ne va a fumare in cucina mentre mi lavo. Nella strana condizione di ospite non pagante, mi velocizzo sotto l’acqua della doccia e in una decina di minuti sono lavato e vestito con la tuta da ginnastica. Sandrine propone di fare un giro in macchina verso la festa della musica di un paese vicino prima di andare a mangiare qualcosa in giro. (Play A Mi Lado-Marcela Moreno) - Guida una Citroen due cavalli bordò con la capotta nera e nel suo ondeggiare, racconta del suo lavoro in una casa di riposo e come sia faticoso badare ai genitori ogni giorno, perché la mamma ha avuto un ictus e il padre non c’è più tanto con la testa, da quando suo fratello è venuto a mancare 115
vittima della tossicodipendenza. Racconto del mio tour e lei con allegra sopportazione replica di non avere mai fatto un viaggio in vita sua, e di non avere mai visto Parigi, a suo dire luogo imbottito di damerini, dove mai e poi mai vi andrà. Continuo tratteggiando lo svolgimento della mia attività lavorativa, esponendo la storia della rissa a saint Avold. Non stacca gli occhi dalla strada, come se di risse ne avesse viste abbastanza da non doversi più stupire, ha cambiato luce e il suo sorriso non è quello sguaiato della compagnia del bar, ma è più tenero e la voce calma e articolata. Raggiungiamo la festa della musica di Holving, un piccolo borgo rurale, e parcheggiata la macchina, ci investe l’odore della carne che si rosola sulla brace, e dopo due passi arriviamo davanti a un camion col telone aperto sul fianco, ospitante sul pianale una banda musicale di una qualche scuola dei dintorni. L’impianto è sovradimensionato per la qualità espressa dai musicisti in erba, che strimpellano motivetti cantilenanti, e il concerto diventa ben presto di una noia mortale. Oltretutto la nostra presenza risulta fuori luogo in un posto, dove è evidente ci sia un legame diretto di parentela tra chi suona e quelli seduti sulle panche modello sagra che fanno da contorno alla manifestazione, somigliante sempre di più a un saggio scolastico di fine anno. Di caratteristico trovo due suonatori d’orgue de barbarie (nome in francese degli organetti). Devono l’aggettivo “barbaro” alla destinazione d’uso degli ambulanti, definita meno nobile degli enormi organi delle chiese. Sono due splendidi strumenti funzionanti al roteare di una manovella che nello stesso tempo muove i soffietti per riempire una scatola d’aria e comanda il trascinamento della scheda perforata posta a zig-zag di lato, per aprire e chiudere le note delle canne, muovere le percussioni e una piccola giostrina sulla sommità. Immagino la complessità del meccanismo, molto più simile a un orologio che a uno strumento musicale e assistendo all’esibizione, appare evidente come il musicista non necessita di grandi doti nel momento del concerto, diversamente dell’artigiano che è stato capace di costruire e mettere a punto la perfezione che suona. L’odore di salsicce arrostite apre un buco, una voragine nello stomaco e le chiedo se possiamo fermarci a cenare in quel posto, ma lei armeggia con il 116
telefono parlando con una pizzeria per controllare se dispongono di posti. Sembra si riescano a scavare due posticini nel rinomato locale e l’idea di una disponibilità insperata fa pensare sia un locale nel quale i coperti sono contesi per la prelibatezza delle portate. Ripercorriamo i quattro chilometri del rettilineo verso Puttelange aux Lacs e poi sterza a sinistra imbarcando quel canotto motorizzato su ruote, fino al campeggio Montana affacciato allo stagno illuminato dalle striature del tramonto. Rimango perplesso quando facciamo ingresso nel recinto del locale, dietro un grosso camion ristorante dove trovano posto una decina di tavoli e relative panche sotto i gazebo. Ci sono quattro clienti a un tavolo e Sandrine ordina nel tempo in cui siedo, mancando l’imbarazzo della scelta del posto. Dall’altra parte della staccionata si sente la telecronaca in tedesco della partita di calcio delle ventuno tra le rivaleggianti Germania e Ghana. In questa zona della Francia, la vicinanza della linea confinaria con la Germania ha creato un amalgama di popoli e culture e intuisco che una buona parte degli ospiti in questo campeggio, sono tedeschi. In centro Quando ti senti solo e la vita ti fa questo effetto, (Play Downtown-Petula Clark) Questa pizzeria è un avamposto di puoi sempre andare in centro. Quando hai brutti pensieri, i rumori e la frenesia aiutano se vai in surrealismo culinario, una centro. Ascolta la musica del traffico in città, perdi dimostrazione di monotematica tempo sul marciapiede con le belle insegne al neon. espressione di gusto perché non c’è Cosa ci perdi? Le luci sono più brillanti lì e un menù delle pizze, non ce n’è dimentichi i problemi, dimentichi le preoccupazioni. Allora vai in centro, le cose bisogno, perché ci sono quella e andranno meglio se vai in centro. Non c'è posto basta, la famosa, favolosa, iperbolica, migliore del centro, tutto lì aspetta te. Non aspettare fino a che i problemi ti sommergono, ci gustosa, inarrivabile pizza: “Napoli”. sono i film in città. Forse conosci qualche posto Assieme a due birre, monomalto, carino che non chiude mai in centro. Ascolta il rigorosamente in bottiglia, con due ritmo di una bossanova leggera e comincerai a ecologici bicchieri di plastica ballare prima che finisca la notte. Di nuovo felice, contenenti tovaglioli e posate anche le luci sono più brillanti lì e dimentichi i problemi, dimentichi le preoccupazioni. esse figlie del petrolio, arrivano due E magari incontri una persona che ti aiuta e fantasmagoriche pizze da capisce, qualcuno che ti assomigli e ha bisogno di supermercato con pomodoro una mano gentile per essere guidato. E allora ti (poco), prosciutto (forse), incontrerò lì e dimenticheremoo tutti i nostri problemi, dimenticheremo le nostre mozzarella (di mucca vedova) e preoccupazioni. Allora vai in centro, le cose olive a rondelle a dare un tocco andranno meglio se vai in centro. Non aspettare mediterraneo al disco di pasta neanche un minuto, tutto lì aspetta te, in centro. 117
sostenente l’opera quasi fosse una tela di Mirò. Se non altro si mangia, ed è gustosa, la birra scende e le chiacchiere sono gradevoli. Noi italiani siamo mangiatori viziati, abituati fin troppo bene sulle tavole di casa e dei locali proponenti delizie doc, quelle sognate da turisti mondiali che ambiscono all’assaggio. Una pizza è spesso tema di critica, di raffinato confronto della qualità dell’impasto, dello spessore della crosta, della doratura del bordo e dello strato di cenere che propone un leggero gusto affumicato, si assapora il grado di acidità del pomodoro, la sapidità, la consistenza della mozzarella e si distingue il fior di latte vaccino, dal tipico gusto della bufala, si torce il naso per una fioritura eccessiva di origano e mal si tollera la latitanza del basilico sul prosciutto cotto (di coscia e non di spalla), che deve essere sempre di un verde brillante come fosse erba di un prato alpino. Il fungo non sia mai prataiolo ma porcino, l’oliva rigorosamente greca, il peperone magnificamente arrosto e sul tavolo mai deve mancare, e dico mai, la bottiglietta dell’olio piccante che condisce con un tocco personale rendendo la pizza perfetta. Salvo poi continuare a criticare qualcosa e fare un appunto perché si può sempre migliorare. Qui invece la pizza è perfetta senza tema di smentite, perché non c’è altro di migliore nel raggio di venti chilometri. Non si può aggiungere nulla, non si può protestare chiedendo un cambio perché ne arriverebbe un’altra identica e il suo costo è il più giusto immaginabile. Infatti, sono venti gli euro consegnati al pizzaiolo marito, mentre la pizzaiola moglie rassetta la cucina dentro l’abitacolo del camion che ha messo radici da anni all’esterno del campeggio. Alle dieci la cena è consumata e nella due cavalli morbidissima si galoppa verso casa, dove mi accompagna istruendomi sulla modalità di restituzione delle chiavi, da lasciare nella cassetta della posta il mattino. Scrive il numero del telefono su un foglietto, se avessi avuto necessità di qualcosa e infine prepariamo il letto. Si attacca a un’ultima sigaretta consumandola velocemente e infine, dopo un abbraccio infila la porta augurandomi la buonanotte per riprendere posto sulla macchina che ondeggia dietro la curva, scomparendo dalla vista. Va in scena la notte, senza sfumature particolari e nel riepilogo mentale della giornata ripercorro un tragitto pieno di piccole cose da ricordare. La sveglia è regolata alle sei e mezza della domenica che scalcia il sabato, voglio partire
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presto e pedalare fino a Strasburgo, senza se e senza ma, me lo devo come fosse un giuramento. (Play Girl Stan Getz, Joao, & Astrud Gilberto-From Ipanema)
Domenica 22 giugno 2014 (Play Carillon –Gigi d’Agostino) Il telefono, si accende nevrotico, lampeggia, vibra, suona la sua musica, inarrestabile, non ha pena del sonno, pretende ascolto, minacciando di continuare in eterno se non mi alzo per fargli una carezza spessa come un dito, quello che strisciando comanda un ritrovato silenzio. Lo guardo in assenza di rumori, mi stiracchio, spremo i quadricipiti, che minacciano perentori un crampo se non la smetto all’istante. La vescica bussa alla pancia e con un ultimo sguardo al led verde del telefono, accerto la completa ricarica, riprendo la posizione eretta ed entro nel bagno per dare inizio al movimento del giorno. Una volta vestito vado in cucina e scostata la tendina, osservo fuori dalla finestra. La patina dorata dell’alba inizia a mescolarsi col blu-azzurro della notte appena conclusa, accendendo i primi luccichii sulle carrozzerie delle macchine imperlate di rugiada. Ogni giorno, il sole, sorgendo racconta un pezzo della nostra vita, raccoglie i desideri illuminandoli per trasformarli in qualcosa di tangibile e il mio è quello di partire immediatamente. Di nuovo in azzurro, con la giacchina antivento, il cappello con il frontino e i guanti, esco da casa di Sandrine. Introduco le chiavi nella cassetta della posta, e 119
in rue Wilson, una via d’asfalto nero sfrangiato col giallo dell’alba, entro per la colazione nella boulangerie-pâtisserie, salon de thé Ferschneider Régis (nome di mescolanza franco-tedesca) che ha aperto i battenti già dalle sei del mattino, nonostante sia domenica. Hanno il forno dentro il negozio, vi cuociono il pane e i dolci e nella rivendita è un continuo ingresso di acquirenti che portano via sacchi di baguette appena fatte. Il profumo di pane permea l’aria stimolando l’appetito e seduto al tavolo, prendo un caffelatte e un croissant con la marmellata. Alle sette e mezzo sono già alla guida dei trenta chili di bici con lo spirito allegro e la musica pulsante delle cuffiette, passo davanti al “bar PMU chez Margerie e Mickael”, dove la sera precedente ho conosciuto i fantastici quattro, scoprendo che la scritta PMU è l’acronimo indicante la presenza di un terminale del più importante operatore di scommesse sui cavalli. Scatto una foto e parto sul rettilineo infinito diretto a Serralbe in direzione sud-est, sulla traiettoria più spedita verso casa. (Play Sal De Mi-Marcela Moreno) - La statale è tendenzialmente piatta con leggeri piani inclinati, scorrevole e larga. Il traffico è inesistente, il tempo buono. Presso sulla volantina grande e sul quinto dietro, a una velocità quasi costante di venticinque l’ora, le gambe sono reattive nei cambi di posizione e anche se l’appoggio sulla sella a tratti è fastidioso, posso dire di andare piacevolmente a spasso per la campagna alsaziana. Dopo dieci chilometri, transito lateralmente per Serralbe, cittadina sita nel dipartimento del basso Reno senza passarci in mezzo, saltandola per non dare subito inizio a soste che spezzano il ritmo, ne percorro altri 5, rientrando immediatamente nella Lorena, e attraverso Keskastel, un borgo di origini antiche sede di un accampamento fortificato delle armate romane di Cesare nella Gallia. Scatto un paio di foto a una casa con una torre merlata, una sorta di mini-castello, e al giardinetto di una casa ricolma di statuine di cicogne e nani, di veneri e teste da modello per parrucchiera e addobbi di ogni tipo, anche natalizi, tra un roseto e una 120
begonia, tra un vaso di ciclamini e una pianta di lavanda. Più avanti sulla sommità di un camino due cicogne, questa volta vere, hanno fatto un nido enorme e mi guardano sfilare. Prende forma un tratto di trentatré chilometri sulla D1061. È caratterizzato da un andamento collinare lungo, somigliante a un allenamento di spinning, con le poderose spinte in salita e i recuperi sulle discese che non durano mai abbastanza, uso frequentemente il cambio per riuscire a contenere la fatica e l’eccessiva produzione di lattato, principale causa della sensazione di pungente stanchezza sul quadricipite e sul polpaccio. Finalmente la temperatura diventa estiva, il sole scalda vivacemente e posso sfilare la maglietta, arrotolando le bretelle della tuta sui fianchi. Alla fine di una salita abbastanza lunga e faticosa, tiro il fiato in una sosta sotto gli alberi della foresta comunale di Berg-Thal. Blocco la bici e sono felice, di questo sole marziano, di questa aria calda che asciuga la gola e dei colori saturi di luce. Sono felice della musica mescolata al testosterone, delle cosciotte sgambettanti mezze abbronzate, delle moto rombanti che passano come saette. (Play What's Up-Four Non Blondes) - Appoggiato a una quercia, bevo lunghi sorsi d’acqua, ho occhi rotanti come le lame di Goldrake o come i suoi magli perforanti. Volo come un calabrone, d’immagine in immagine, tornando con la mente nei miei posti fantastici dove sono chi voglio, con chi voglio e quando voglio. L’acqua fresca traccia un rivolo alpino nella gola. Sono in possesso di tutto il mio io e lo gestisco come credo perché sono padrone della mia libertà, il bisogno al quale quasi tutti aspirano. Siedo su un tronco, appoggio il fisico vibrante, mi rilasso fino a smaltire l’eccitazione, poi vado a dare una scorsa curiosa al tabellone corredato della cartina della zona. Assieme alle illustrazioni, spiega che in tutta la regione ci sono una quarantina di foreste oggetto di mappatura e catalogazione per meglio organizzare le gite turistiche nella natura. Sto pedalando ai margini del ben più grande “Parco naturale dei Vosgi”, centoventisettemila ettari di riserva comprendente centoundici comuni, coperto per il 65% da foreste. La cura del territorio risulta evidente ovunque ed è fino a questo momento il tratto di percorso più pittoresco pedalato finora. Quando mancano quattro chilometri a Phalsbourg, un tremore scuote l’aria sopra la mia testa diventando rombo e da sinistra verso destra passano a coppie una decina di elicotteri Tiger e Puma. Sono in fase di rientro, sfilano via terribili 121
e minacciosi con una lentezza quasi nobile verso la base dell’esercito francese qui vicino, ospitante il primo reggimento di elicotteri da combattimento. Entro a Phalsbourg rivestendomi con la maglia per non incappare in occhiatacce da parte dei locali, trovando transenne che limitano il traffico a tutte le vie d’accesso. Poco dopo vedo sfilare grufolante sulla sinistra un trattore rosso fiamma, vecchio di una cinquantina d’anni, con il conducente che regge sulle ginocchia una bimbetta vestita da contadinella presa a salutare tutte le persone incontrate. Si respira un clima di festa, in alcuni incroci ci sono delle sculture surreali e variopinte di figure umane arrampicate su trespoli e poco dopo arrivo nella place des Armées provvisoriamente destinata al parcheggio dei mezzi del corpo dei vigili del fuoco, nella ricorrenza di santa Barbara loro patrona. Fanno sfoggio di attrezzature odierne, all’avanguardia e di carri storici di ogni epoca intervenuti da più regioni a testimoniare un glorioso passato. Ci sono i tendoni di una festa paesana e da questi, arriva il profumo di pietanze che si arrostiscono sulla griglia. Girovagando, arrivo davanti alla sala delle feste sotto il palazzo del municipio dove è in pieno svolgimento una manifestazione commemorativa, con tanto di sindaco. Il parroco benedice con l’aspersorio i maggiori rappresentanti del corpo dei vigili del fuoco scortati da un nugolo di guardie municipali in alta uniforme, con le bandiere celebrative della città schierate. Passa un attimo e il pubblico si scioglie in un applauso, congedando la compostezza seriosa dello schieramento e i tappi partono numerosi dai colli delle bottiglie, mentre un paio di hostess prendono a sciabolate un dolce da distribuire a chicchessia. Il casino è imperante, tutti impazziscono per una fettina, si accalcano ora al banco dei dolci, poi a quello delle bollicine e per non perdere tanto tempo, dopo le foto di rito scattate in gran numero, torno velocemente nella piazza. Voglio evitare lo spostamento dell’orda affamata quando finiti i dolci gratuiti, inizieranno ad assaltare la cassa per prendere qualcos’altro di cui cibarsi. Sono le undici e un quarto quando accomodato sulla panca 122
davanti a un piatto con due belle fette di prosciutto arrosto con un’insalata di patate allo yoghurt, che scivolano nel palato rapidamente, quindi sazio e contento consulto la carta di navigazione che illustra due alternative, senza il supporto delle tracce altimetriche perché lo smartphone non vuole saperne di prendere la linea dati. Una rotta da undici chilometri va diretta a Saverne, tappa di mezzo della gita odierna, ma disegna un fiocco verso l’arrivo facendomi sospettare tornanti mentre l’altra compie un giro di quattro chilometri più lungo ma senza volteggi sospetti. Provo a chiedere a due signori, impegnati in una conversazione nella piazza, indicazioni sul percorso ottimale e con molta sicurezza mi mandano sulla strada a fiocco e poi nello specifico se vi sono più salite da una parte o dall’altra, e costoro rimarcano senza esitazione che quella è la via più semplice. Esco dalla città imboccando la D1004, di buona voglia e poco più avanti sulla destra, noto una scuola elementare ospite di un attempato edificio dove si aprono due distinti ingressi, uno per le femmine e uno per i maschi, come era uso una volta. Ricordo quando avevo iniziato le scuole elementari e non da molto si erano formate le classi miste. Ricordo i grembiuli tutti uguali, il foro del calamaio sul banco a evidenziare quanto fosse recente l’introduzione della stilografica, la macchiatrice folle, causa d’incancellabili dita blu. E anche la maestra Stibelli, autoritaria e inflessibile, unica voce per venti alunni da istruire. Ora invece torna a essere opinione comune che classi omogenee, di sole femmine o soli maschi, hanno un rendimento superiore rispetto a quelle miste, e anche se è un sistema più dispendioso, nel nord Europa, soprattutto in Gran Bretagna, è ancora largamente diffuso e molto apprezzato. Si sale, ed è bello farlo in mezzo a questa splendida foresta, ma capita un inconveniente: mentre respiro a pieni polmoni, inghiotto un insetto! Non è enorme ma poco manca che vada nella trachea, bloccandomi all’istante con gli occhi fuori dalle orbite e pur avendo immediatamente tossito, lo inghiotto senza riuscire a sputarlo. Continuo a tossire, e con grande sorpresa, realizzo di non avere fatto scorta di acqua e di disporne soltanto di poche gocce. Bevo e non è sufficiente, la gola brucia ma provo lo stesso a ricominciare, anche se dà molto fastidio questa irritazione e mi schifa l’idea di una mosca ronzante nella pancia. 123
Per fortuna al lato sinistro di un tratto in discesa, raggiungo un hotel-ristorante, il Quatre Vents, al pianterreno di un gran palazzo tinteggiato completamente di un azzurro carico, per fare una sosta e chiedere di riempire la bottiglia di acqua. Parcheggio rapidamente il mezzo, faccio i tre scalini davanti alla porta ma abbassando la maniglia, la trovo chiusa. Metto le mani sui vetri per ripararmi dai riflessi e scrutando l’interno, scorgo quattro persone intente a pranzare. Una di queste fa ampi cenni con le mani ripetendo: “Le restaurant est fermé !” (il ristorante è chiuso!). Busso nuovamente e sollevo la bottiglia per fargli capire di avere solo bisogno di acqua e questi replica che è chiuso. Insisto ancora e a questo punto, si arrabbia e alzatosi minaccioso viene verso la porta, ordinando di andarmene immediatamente, chiudendo di scatto la tenda davanti alla lastra. (Play J'arrive vs The Imperial March-Daft Punk) - Vista la reazione antipatica, torno sui miei passi, spremo l’ultima goccia dalla bottiglia, rimettendomi in andatura sulla salita sperando di trovare qualche fonte o una casa abitata da persone meno indisponenti. A tratti, immagino un mondo fatto di individui generosi ma, in questi casi, valico porte che conducono dentro foto poco appaganti. È un episodio indigesto che non collima con la proiezione di quello che vorrei, intuendo di essere immerso in un liquido amniotico fatto di illusioni. Finisco per essere tranciante, negando giustificazioni, respingendo alibi e scuse per l’arroganza, la cattiveria, la debolezza o la pigrizia, perché annullano l’altruismo, la generosità, la bontà. Rimpiazzo questi pensieri con uno scientifico pragmatismo e l’inevitabile senso del dover proseguire. Per fortuna il bruciore passa, forse sopito dall’adrenalina che l’incontro ha messo in circolo e lentamente tutto torna alla normalità. Faccio ottanta metri di quota scollinando sotto il cartello indicante la sommità del col de Saverne a quattrocentodieci metri sul livello del mare, iniziando da qui una discesa lunghissima. Stento a metterla in relazione alla salita che non è apparsa altrettanto lunga e al diminuire della pendenza, arrivato ai piedi del colle visito con lo sguardo, da dietro una recinzione, il roseto di Saverne. Occupa una superficie di due ettari proponendo 8500 rose di 550 specie diverse. Al modico prezzo di due euro e mezzo, si può visitare il parco che offre la tranquillità di gazebo fioriti per fare una sosta rilassante e approfittare del negozio dove si possono acquistare sapone, vino, marmellata e infuso 124
rigorosamente alle rose di casa oppure gustare una fetta di torta alle rose, ma dopo aver apprezzato la vista offerta dall’esterno del parco, riprendo la marcia per fare una pausa alla pompa di benzina. Non che necessiti di carburanti, ma finalmente posso riempire la bottiglia d’acqua mettendo fine al fastidio in gola e nel bar della stazione di servizio prendo un paio di snack alla cioccolata e una redbull per colmare il gap di energia. Mentre mastico e bevo, arrivano due moto da corsa. Sembrano fuggite da un gran premio, due mostri che hanno sotto il serbatoio, un reggimento di cavalleria. Uno dei due piloti è esile, s’intona al mezzo, ha la caratura adatta al prototipo guidato, l’altro è enorme, pesa più del suo bolide, ha un pancione prominente che non gli consente una guida aerodinamica, fa mille manovre per avere la posizione corretta alla pompa della benzina manovrando il mezzo con infinite difficoltà, mentre l’addetto al rifornimento aspetta con la pistola in mano che si fermi. Finalmente stappa il serbatoio e il benzinaio inizia a riempirlo, lui alza la visiera del casco e vedo l’imbottitura schiacciargli le guance fino quasi a chiudergli gli occhi. Terminate le operazioni di riempimento, parcheggia il prototipo e scende per andare al bagno, e allora si evidenzia ancora di più la sua stazza maxi. Muove i suoi passi dentro una tuta di pelle che lo contiene appena, ha le gambe arcuate e le braccia semi allargate dalle protezioni inserite nella giacca. Quando esce dal bagno, tortura la cerniera della giacca, trattiene il fiato lasciandolo quando pollice e indice sono arrivati all’ultimo dente sotto la gola e la pelle, si gonfia come uno spinnaker in un giorno di vento forte. Lo trovo meravigliosamente coraggioso nel portare avanti una passione per un mezzo destinato a taglie small, che tra le sue cosce, alla loro ripartenza, sembra quasi una minimoto. (play Hotel California Live-Eagles) - Salgo verso il centro, incantato dalla bellezza della Grand Rue, la via centrale del borgo dove si sporgono case alsaziane del 1600 dalle facciate con le travi a vista, riccamente decorate. Sono scolpite, intarsiate con figure di frutti, foglie e insegne nel pittoresco stile tardo rinascimentale tedesco. Percorso un centinaio di metri, ridiscendo verso il centro sostando in piazza Général de Gaulle dove finalmente la linea dati permette di pianificare il percorso in modo più minuzioso ma mentre sono ipnotizzato dallo schermo,
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viene in mio soccorso una tabella indicante una pista ciclabile indirizzata a Strasburgo, di scorta al canale del fiume Zorn. Apprendendo che la pista, transitando da questa posizione, arriva dal centro di Phalsbourg. Se l’avessi percorsa, avrei fatto quattordici chilometri di discesa dolce sulle sponde del corso d’acqua, evitando il colle. Anche se l’etimologia della denominazione di “Phalsbourg” ha origine dall’unione dei termini palatino e borgo, per indicare la residenza di un principe, in una città con un nome dal suono ambiguo, sarebbe stato opportuno valutare con attenzione le informazioni decisamente “false” dei due anonimi burloni. Da qui, la canalizzazione, va a gettarsi nel Reno, è lunga 49 chilometri e porta senza nessuna deviazione, con una leggera pendenza favorevole fino al centro della città. È una bellissima notizia nonostante compia un giro più lungo e punta per i primi chilometri verso nord, descrivendo in seguito un arco molto dolce per orientarsi nuovamente a sud. Si tratta senza dubbio di una scelta obbligata perché è la direzione più spedita, essendo più corta dell’altra di otto chilometri, una statale con diversi scollinamenti fino a quota trecento sul livello del mare. In previsione di fare un lungo tratto fuori dai centri abitati, entro per fare rifornimento energetico, alla boucherie-charcuterie (macelleria-gastronomia) Kirn, sul Quai du Canal (lungofiume del canale). In una delle numerose vetrine sono esposti in bella mostra i “bredle”, biscotti alsaziani da consumare tradizionalmente nel periodo natalizio. Ci sono scatole di latta e vassoi confezionati ma anche chili di biscotti sciolti in grande assortimento. Sfrutto l’occasione golosa pigliando quasi tutti i gusti, perché ci sono i butterbredle al burro glassati al limone, gli anisbredle tondi, spruzzati d'anice, gli schwowebredle con mandorle e dorati al tuorlo d'uovo, i lebkuchen ovvero linguette di pandispezie ricoperte di glassa satinata. Acquisto anche uno springerle o pane all'anice, con un gusto particolare , uno tra i dolci più preparati in Alsazia. Ordino anche un corposo panino al prosciutto che divoro nel tempo necessario per fare dieci passi e infine, sistemato il sacchetto nel borsello sul manubrio, vado a visitare il castello neoclassico di Rhoan. Prende il nome dal cardinale Luoise René Edouard che diede inizio alla sua costruzione nel 1799 non riuscendo a completarla a causa di uno scandalo dovuto al coinvolgimento in 126
una colossale truffa ai danni della corte reale, per la vendita di un collier tempestato di diamanti, storia ispiratrice del film dal titolo “Lady Oscar”. Con la rivoluzione i lavori si fermano immediatamente dopo l’ultimazione delle opere edilizie e fu ripreso solo con l’avvento di Napoleone III che ne riservò l’uso alle vedove degli alti ufficiali dell’esercito. Divenne in un secondo tempo, una caserma e infine fu affidato alla città, destinato ad un uso istituzionale e culturale. Quando vi passo davanti, non posso che meravigliarmi per l’eleganza e la sua colossale presenza, metto il lucchetto alla bici e faccio un giro all’interno. Ampi saloni ospitano la manifestazione “Fete de velo de Saverne”, una festa della bicicletta durante la quale si dibatte sul progresso dell’uso del mezzo ecologico per eccellenza, sullo sviluppo della rete delle piste ciclabili e mi entusiasmo salendo per una prova su un dragstar a pedali. Fuori nel giardino, scopro stand pieni di articoli da bicicletta da acquistare e pure quelli gastronomici, mai assenti. I circuiti dedicati, pullulano di ciclisti in erba pronti a cimentarsi sui prati. Guardando oltre il recinto sento il canale navigabile chiamarmi in sella per riprendere la via di casa, quella passante per Strasburgo. La pista ciclabile ricalca le altre fluviali già percorse, è spettacolare per la cura del fondo, per il paesaggio offerto, per la rilassatezza che consente di organizzare una pedalata spinta senza eccesso di fatica. Le gambe si abituano al ritmo senza problemi, viaggio a ventinove chilometri l’ora per lunghi tratti e le salite, in occasione di brevi arrampicate sull’argine in prossimità dei ponti, consentono uscite fuori sella per un running, ossigenando il soprasella. Le indicazioni per passare da una parte o dall’altra del canale per beneficiare della compattezza del fondo asfaltato sono precise e visibili, ma in un’occasione ne salto una, provando così la differenza, calcando un letto di ciottoli e ghiaia, temendo in qualche circostanza una foratura inopportuna. Torno sulla pista di velluto e indagando tra le previsioni del tempo, apprendo che la temperatura attuale si attesta attorno ai ventidue gradi e il tempo dovrebbe mantenersi stabilmente bello e soleggiato anche nei giorni seguenti. Inizia a frizzare nell’anima la gioia di un momento sereno, rassicurante.
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(Play Still Got The Blues-Gary Moore). Sono momenti di magia, di rilassatezza come quando allenandomi dalle mie parti, arrivo su terrazze dominanti il golfo o al limitare di un prato innevato. È un incantesimo analogo alle pedalate sotto uno scroscio d’acqua, ammutolito dal suono di miliardi di gocce, quando svanisce ogni cosa che non sia la strada davanti, vagheggiando di tornare nel ritmico dondolio di un utero dove non c’è dimensione del tempo. Questa, non è la felicità o la gioia provocata da una soddisfazione o un brivido, è più somigliante all’allentamento di una tensione, è il nulla nel regresso di ciò che rende la mente libera di fluttuare. Diventa punto di osservazione donandomi la capacità di assorbire immagini, suoni, colori e odori perché la mente si vuota di doveri, di obiettivi, di scadenze, di altrui necessità, di impellenze. Sono parentesi brevi e il nastro da incidere ritorna vergine e per qualche momento mi meraviglio dello stupefacente volo di un’ape, del rosa intenso di un fiore di campo o di quanto è primitivo il frangere di un’onda su una spiaggia acciottolata. La mente in questo caso diventa perdutamente infantile, assorbe una sinfonia di fremiti suonata calorosamente dal sole cosparso sulla schiena, gusta i biscotti con languido rapimento, si emoziona osservando le chiuse riempite e poi vuotate. Fino all’apoteosi di una casa che regala alla ciclabile, un muro di ottanta metri quadrati, nei pressi della cittadina di Waltenheim sur Zorn, dove è istoriato un dipinto illustrante la fiaba di Hansell e Gretel, realizzato con grande destrezza, fantasia e una punta di follia da Roland Perret e sua figlia. Passo di fianco al restaurant all’Ancre, punto di ristoro per ciclisti e pattinatori, ghermendo una dose di caffeina, dopo una percorrenza di ventitré chilometri. Poco dopo la ripartenza m’imbatto in una transenna messa di traverso sulla pista con una tabella indicante un crollo dell’argine e l’impossibilità di proseguire senza vi siano indicazioni sulle eventuali deviazioni. Fortunatamente, vedo passare un corridore in senso contrario e questo m’incoraggia a passare oltre tentando la sorte perché non ho la minima intenzione d’indietreggiare di cinque chilometri. Effetivamente, il crollo c’è stato e il tratto è cantierato, ma probabilmente considerando che è 128
domenica, nessuno presidia il posto e passo oltre senza particolari difficoltà trascinando la bici giù dal terrapieno e su dall’altro altro della zona recintata. Riprendo ad andare, lentamente il paesaggio cambia, la vegetazione selvaggia lascia il posto all’urbanizzazione, dapprima timida, con case circondate da enormi giardini che diventano sempre più piccoli e ridossati, fino alla cementificazione stratificata, ai palazzoni concedenti qualche risicato posto a giardini. (Play Everybody Changing-Gigi D’Agostino) - La frequentazione della pista è aumentata, i fruitori sono quelli che fanno il giretto dalla città verso la periferia e all'inverso, il canale si popola di ragazzi in kayak e alcuni si divertono a rovesciarsi vicendevolmente, guardati a vista dai cigni che navigano. Sulla destra dentro un parco pubblico si sta svolgendo una buffa simulazione di sumo giapponese tra ragazzi che indossano voluminosi e impaccianti costumi davanti a un pubblico divertito. Il canale si dirige direttamente al palazzo del parlamento europeo, e all’apparire della sagoma l’emozione sale festante per il traguardo raggiunto, per i primi 900 chilometri pedalati arrivando nella capitale europea, collocata idealmente nel centro di un universo fatto di stelle molto diverse tra loro, e chiamo casa per condividere questa emozione. Sosto di fianco alle staccionate delle piscine di Wachen, meta di un esercito di giovani schiamazzanti che si prodigano in mirabolanti tuffi, mentre allestisco il mio set fotografico per immortalarmi sullo sfondo dominato dal palazzone che oltre al prestigio dell’istituzione è un gioiello di architettura contemporanea. Percorro le salite dal canale trovandomi sulla piazza prospiciente alla struttura costruita e formata da una serie d’incroci tra cerchi ed ellissi, completamente in acciaio e vetro, in cui si specchiano le acque del fiume ILL. L’edificio principale, inaugurato nel 1977, è una costruzione a pianta quadrata con una lunghezza di centosei metri per lato e un’altezza di trentotto metri. Comporta nove piani, con una superficie utile complessiva di sessantaquattromila metri quadri. Sono tre i colori dominanti all’esterno: la tonalità rosa dei contrafforti di cemento, il grigio della facciata rivestita di alluminio e il bronzo delle ampie vetrate delle sale di riunione. L’interno e i 129
giardini sono impreziositi da numerose opere artistiche, tappezzerie, quadri e statue, doni degli Stati membri e di parlamenti nazionali. La sala del Comitato dei Ministri si trova nella rotonda, all’estremità della facciata est. L’emiciclo dell’Assemblea parlamentare è situato al centro dell’edificio, ed è circondato da due giardini. Il Palazzo dei Diritti dell’Uomo si erge lungo la curva maestosa del fiume che attraversa Strasburgo, la parte anteriore dell’edificio è costituita dalle due sale cilindriche e intorno a questi volumi si sviluppa il corpo centrale. Un custode molto galante esce dalla guardiola invitandomi a lasciare la bicicletta per entrare nel palazzo che ricorda un’arena romana, quasi si fosse ricercata una somiglianza con il Colosseo capitolino. L’interno è impressionante, vi arrivo da un corridoio, dischiuso alla fine dentro un contenitore a trecentosessanta gradi, fatto di colonne rivestite di marmi che svettano a sorreggere un’illusoria cupola, fatta di azzurro cielo. Sono le sedici e trenta, il tempo spinge fuori alla svelta per dare seguito a questo giro alla scoperta di qualche immagine da rubare. Il gentilissimo custode, spiega come arrivare rapidamente nel mezzo della città, quali sono i punti salienti del centro storico e dove trovare una sistemazione abbastanza economica. Seguendo il percorso di una linea di tram con le rotaie poste su un tappeto erboso, trovo immediatamente la via diretta per piazza Kleber, dedicata a uno degli alti ufficiali che furono al servizio di Napoleone Bonaparte. Seduto sul bordo di una fioriera, sondo il mercato alberghiero. Diversamente da alcune giornate precedenti, rivela un numero ampio di offerte nelle vicinanze della stazione dei treni, raggiunta poco dopo. L’Hotel de Bruxelles è in una posizione strategica e offre una stanza per quarantacinque euro, situato tra la stazione e il centro che voglio visitare dopo essermi rinfrescato. Prima di arrivare, incontro degli hotel lungo il tragitto e provo a chiedere il costo di una stanza, per capire se di persona si riesce a trattare sul prezzo. Un paio di strutture propongono importi da capogiro, e se devo perdere tempo a limare di una decina di euro il costo della notte, accorcio la possibilità di un giro più tranquillo con una luce migliore. 130
Arrivato all’albergo scelto precedentemente, confermano il costo già visionato. Occupa un palazzo d’epoca ristrutturato al numero tredici di rue de Khun, l’accoglienza del responsabile della reception è professionale e discreta, compila il foglio e poi mi aiuta a sistemare la bicicletta in un sottoscala prima di salire al secondo piano per prendere possesso della stanza. Il caldo goduto nel corso della bella pedalata di nove ore e mezza, lunga centodue chilometri, ha spennellato una patina unta di sudore e polvere che elargisce effluvi aromatici non proprio eleganti e allo stesso modo i vestiti richiedono una sciacquata. Andando su, mi meraviglio della risposta del quadricipite nel comandare la salita, nonostante la durata dello sforzo, ma sento di non dover testare più di tanto perché la stanchezza ha conquistato la quasi totalità delle mie fibre. La stanza ha un letto matrimoniale al centro e al momento vedo solo quello, lascio le borse sulla scrivania, attacco le batterie, denudandomi completamente prima di prendermi una pausa. (Play Sometimes I Forget-Agnes) - C’è questo momento quando siedo a bordo letto a fine di una giornata pesante, e ogni volta mi prende trascinandomi nella catalessi, con la mente spenta, con le energie che stentano ad alimentare la periferia muscolare, e la percezione di aver finito, meritando di fermarmi in un luogo confortevole. La schiena arcuata e lo sguardo perso nella sfuocata visione delle tende bianche che solleticano la moquette blu, il piede destro sul ginocchio sinistro, le mani che passano a massaggiare, quasi carezzare la pelle del piede chiuso tutto il giorno nella tomaia della scarpa, impegnato a spingere e sostenere. Dura poco perché dopo aver messo in ammollo la divisa nel lavabo, tocca a me con una bella doccia portandomi nel bagno il necessario per radermi la barba. Da lì, è un susseguirsi costante di piccole incombenze, senza fermarmi più, per riuscire ad accorciare il tempo antecedente alla visita della città che inizia comunque tardi, verso le diciotto. Prendo alla reception una cartina di Strasburgo (il cui nome significa “città delle strade”), chiedendo al portiere di indicarmi un itinerario con le mete più interessanti. Cerchia il punto nel quale ci troviamo indicando poi i luoghi salienti del centro storico, e una volta recuperata la bicicletta parto verso piazza Kleber e 131
da lì verso le guglie di Notre Dame che fanno capolino sopra i palazzi. La città è viva, i turisti viaggiano con il naso all’insù, altre persone sostano e chiacchierano, si sente parecchio l’italiano in ogni forma dialettale. Le strade percorse sono ben mantenute, i palazzi curati e privi di scritte e slogan spray, il trasporto cittadino è servito da tram silenziosi ed efficienti. Arrivo nella via che immette nella piazza occupata dalla cattedrale riuscendo finalmente a vedere la base del monumentale edificio e per quanto indietreggi, non riesco a mettere per intero nell’inquadratura di uno scatto singolo. La cattedrale di Nostra Signora di Strasburgo è immensa. Si tratta di una delle chiese più note di Francia e del mondo. Con un'altezza di centoquarantadue metri, è stata per molto tempo l’edifico più alto del pianeta. La sua realizzazione ebbe inizio a partire dal 1015 in stile romanico, poi continuata secondo i canoni dell'architettura gotica sia francese che tedesca e per la sua fattezza e il tipo di materiale da costruzione usato, è un illustre esempio di edificazione in pietra arenaria, assumendo il colore rossiccio, tipico delle zone renane e caratterizzante anche altri fabbricati della città. Sotto il suo svettare danzatori, mimi, cantanti e musicisti di piazza si esibiscono per attirare l’attenzione di mecenati di passaggio, ma l’orario vuota le strade e riempie i ristoranti. L’abbondanza di troppe mani protese a chiedere un piccolo contributo, determina lo sfollamento di spettatori pronti a deviare al minimo accenno di questua e lentamente gli artisti si ritirano scoraggiati, tranne un’attempata signora con un tutù bianco da danza classica, che inscena la parodia di ballo musicata da uno stereo irradiante le note del Valzer dei Fiori di Tchaikovsky. Di fronte alla Cattedrale di Notre-Dame, cedo all’ammirazione di casa Kammerzell, risalente al 1427, fatta costruire dal celebre commerciante di formaggi Martin Braun. L’immobile prese il suo aspetto attuale e definitivo solo nel 1589, nel particolare stile rinascimentale di molte case alsaziane del dipartimento del Basso Reno di cui Strasburgo è capoluogo. Le sue facciate a graticcio, sono le più riccamente decorate 132
della città. Il piano terra è realizzato in pietra e i piani superiori hanno pareti smaltate e dipinte, con legni scolpiti ad attraversarle, abbellite con finestre dai tipici vetri "a fondo di bottiglia" piombati. Sulla punta del timpano dell'abbaino maggiore è ancora visibile la puleggia montacarichi atta a montare le merci nel magazzino, sito nel sottotetto. Le sculture dei travi raffigurano scene sacre e profane, come i cinque sensi, i quattro stadi della vita, le virtù teologali e i segni zodiacali. All'interno di queste scene appaiono numerosi personaggi storici da Cesare a Ettore e Goffredo di Buglione, passando per Carlo Magno. Dal diciannovesimo secolo fa parte del patrimonio dell'umanità dell'Unesco, ospitando un famoso albergo e ristorante come molti altri palazzi sulla piazza in stile rinascimentale tedesco. Compio una svolta arrivando sul fianco destro della cattedrale in una piazza molto larga, ospitante un allegro e numeroso gruppo di persone danzanti. Non si stanno esibendo. Semplicemente danzano. Appoggio la bicicletta legandola a un gancio, prendo il borsello a tracolla, accomodandomi su un muretto di travertino per guardare questo curioso e anacronistico ballo. Finisce un brano, sorridono, s’inchinano applaudendosi mentre qualcuno si accorda con i musici sul successivo pezzo da ballare. Prima che inizi la musica due uomini barbuti, mi vengono incontro con un sorriso sospetto sulla faccia, e prendendomi per le braccia, mi trascinano cortesemente tra loro. Mi trovo in circolo, tenendo per mano perfetti sconosciuti. Poi parte la musica e una specie di danza incatenata, il ritmo si fa sempre più intenso. Scambio di posto, chiudo e apri cerchi o improvvisi girotondi coreografici con estranei che, nel tempo di un brano musicale, diventano complici. Il bello della danza bretone è proprio questo: può coinvolgere tutti, a prescindere dall'età e dalla predisposizione o meno per il ballo. Il gruppo che propone questa festa si chiama “Gens d'Ys” e prende il nome dalla leggendaria “Città d’Ys”. (Play Altan – Dulaman) -Le tradizioni bretoni raccontano che la città trovandosi sotto il livello del mare, era protetta dall'oceano da una moltitudine di dighe potenti e su una di queste era posta una chiusa, con immense porte di bronzo che permettevano di regolare il movimento delle acque, sempre minaccianti nelle ore di alta marea. Una chiave d’oro permetteva di aprirle 133
durante la bassa marea per dar passaggio alla sovrabbondanza dei corsi d'acqua e permettere agli abitanti di pescare, e questo soltanto sotto la presidenza del re Gradlon che la portava sempre appesa al collo. È sulle rive desolate della baia dei Trapassati (Finisterre) che si rinvengono le vestigia dell’antica città che si dice fosse la più bella del mondo. Molte strade antiche vanno a finire oggidì nel mare, e si prolungavano in passato nella baia di Douarnenez. Siamo al IV secolo della nostra era e là, in fondo a una baia, s'innalzava la fiorente città di Ys, fondata dai Romani e governata in quel mentre dal re Gradlon. Prima di essere re, Gradlon viveva in Cornovaglia. Possedeva enormi ricchezze ed era un guerriero valoroso, profondamente cristiano, imbattibile sul mare. Un giorno, incontrò una donna bellissima che gli mosse incontro e lo invitò a prenderla in moglie per formare un’alleanza. Si chiamava Malgven, e non era in realtà, una donna mortale, ma apparteneva ai Tuatha dé Danann, i Luminosi, gli antichi Dèi celti e pochi giorni dopo il primo incontro anche i loro cuori si strinsero in un amore fortissimo. Disse che veniva dal lontano Nord e che era già sposata a un uomo vecchio, il re Harold. Incitato dalla bellissima Dèa, Gradlon si recò con lei in Norvegia a capo di una considerevole flotta, uccise l'anziano marito trapassandolo con la sua spada, depredò i suoi tesori e divenne re. La dea gli fece dono di Morvarc'h, un cavallo che poteva galoppare sulla superficie del mare e ritornarono sulle navi per far rientro in Cornovaglia. Si narra che vagò con l'amatissima sposa sul mare per un intero anno. E nove mesi dopo il loro incontro, gli diede il dono più grande: la figlia Dahut (o Ahés), che avrebbe ereditato da lei la soprannaturale bellezza. Malgven, dopo aver dato alla luce sua figlia, chiese a Gradlon cosa provasse per Dahut, e lui rispose che l'adorava esattamente come adorava lei. Provata dalla fatica del parto, era prossima a lasciare la sua vita mortale. Malgven fu soddisfatta dalla risposta: adesso poteva tornare dal suo popolo, poiché, il viso dell'amatissima figlia, identico al suo, avrebbe compensato Gradlon della sua perdita. Prima di spirare, disse al suo re di attraccare a una certa isola che avrebbe incontrato sulla sua rotta per dare una nuova casa alla loro figlia. Gradlon con la disperazione nel cuore, obbedì. L'isola era però, sotto il livello del mare e quindi dispose che fossero costruite le dighe, facendo edificare la meravigliosa città nella baia, 134
poiché Dahut non poteva vivere lontano dal mare. Gradlon regnava con giustizia, da buon cristiano. Ma sua figlia Dahut aveva già parecchie volte attirato su di lei la minaccia della collera divina per la sua cattiva condotta e per la sua eretica osservanza dell'antica religione dei celti. La giovane, molto devota al culto tramandatole dalla madre, accusò Winwaloe, vescovo di Kemper (Quimper), di aver reso la città triste e noiosa. Lei sognava una città, dove potesse regnare la ricchezza, la libertà e la gioia di vivere. Con il passare del tempo era diventata una potentissima maga e con l’aiuto delle sue arti, donò alla città un dragone per controllare le navi mercantili di passaggio, facendo diventare la città d'Ys la più splendente e ricca di tutte le città brétoni. Tutto era di una magnificenza eccessiva, il palazzo era sontuoso, e la corte dedita a ogni sorta di piaceri. La principessa Dahut era bella, civettuola e licenziosa e, nonostante l'austerità paterna, si dava a folli notti d’amore. Gradlon aveva promesso d'imporre la sua autorità, e di por freno agli scandali di sua figlia, ma l'indulgenza paterna aveva sempre avuto il sopravvento nel suo cuore. Ben presto però la giovane principessa formò un complotto per impadronirsi dell'autorità reale, e il vecchio re non tardò a essere relegato nel fondo del suo stesso palazzo. Dahut regnò con assoluta maestria abbellendo la città con opere d'arte che nessuna mano umana sarebbe mai stata in grado di fare, ma il suo cuore era vizioso e ricercava soltanto il divertimento e il piacere e condusse alla perdizione gli abitanti della città, che divennero aridi, egoisti e crudeli come lei. I poveri furono banditi e i mendicanti cacciati, e i pochi che osarono restare erano sbeffeggiati e maltrattati. La chiesa cristiana era talmente trascurata da essersi perduta la chiave del suo portone e un roveto le cresceva tutto attorno. Gli abitanti erano tanto ricchi da usare solo oggetti d'oro e d'argento, gli unici ritenuti degni di arredare le case dell'isola e anche il cibo era servito dentro stoviglie di metallo pregiato. La ricchezza li aveva corrotti rendendoli cattivi e ingrati e tutti pensavano soltanto a divertirsi, passando il tempo nei locali di spettacolo, tra vino e peccato, senza pensare minimamente a salvare la propria anima. Dahut era la peggiore tra loro e giorno e notte organizzava meravigliose feste. Banchetti e profusioni si susseguivano attirando molta gente che lei sapeva sempre stupire con spettacoli meravigliosi di cui non si era mai visto uguale. Gradlon era ormai vecchio e la sua autorità era indebolita dalla popolarità della 135
figlia. Più volte la ammonì, cercando di farle abbandonare la sua vita gaudente ed egoista, ma inutilmente. Il vescovo Winwaloe visitava spesso il re rimproverandolo per la sua debolezza nei confronti di Dahut, avvertendolo che l'ira divina si sarebbe abbattuta su quella città dedita al vizio e al peccato. La principessa, annoiata dai rimproveri del padre, pressato dal vescovo, si ritirò in una torre che s’innalzava accanto alle chiuse. Lì portava ogni sera un amante diverso e gli donava una magica maschera di seta che gli avrebbe permesso di raggiungerla, segretamente. Se la maschera incantata, in principio, accendeva la passione del giovane prescelto, la mattina dopo prendeva vita e la seta si trasformava in unghie di ferro stringendo fino a strangolarlo, uccidendo così l'amante. Un servitore, allora, raccoglieva il cadavere e lo andava a gettare nell'oceano, sul fondo di un precipizio che si trova tra Huelgoat e Poullauen. Winwaloe, apostolo della Bretagna, andò per l’ennesima volta dal re Gradlon, che viveva isolato nel suo castello, preannunciando che la misura era colma e che era prossimo il castigo di Dio per gli abitanti di una città tanto dissoluta. Infatti, un bel mattino, arrivò un principe vestito tutto di rosso in città. Dahut s’innamorò immediatamente dello straniero. Durante la notte, mentre era in corso una festa scandalosa, lo straniero fece il suo ingresso nella sala del palazzo di Dahut. Unitosi alla principessa, chiese preoccupato se fosse pericolosa la tempesta che fracassandosi contro le porte di bronzo delle chiuse, andava avvicinandosi, se lei avesse il controllo delle chiuse senza correre il rischio che qualcuno inavvertitamente le aprisse. Dahut disse al principe: "Non temete la rabbia della tempesta. Le porte della città sono forti, ed è il re Gradlon, mio padre, che possiede l'unica chiave, attaccato al collo”. Il principe rispose: "Allora è il re tuo padre che controlla il destino di questa meravigliosa città. Pensavo fossi tu a decidere ogni cosa.” Punta nell’orgoglio, si ritirò dalla sala e dopo aver sottratto la chiave al padre che dormiva, fece ritorno ostentando al collo la conquista del potere assoluto, tra lo stupore ammirato di tutti i presenti. Il principe era accompagnato da un piccolo musicante che suonò un passe-pied talmente indiavolato e così potente che nessuno riuscì a sottrarsi al desiderio di ballare e Dahut e i suoi amici si misero a danzare come le fiamme di un fuoco. Improvvisamente, lo sconosciuto principe rosso, avvicinò la sua mano al collo della principessa che vorticava persa nella danza, s’impadronì della chiave delle chiuse e fuggì. Solo allora apparve evidente che costui era un diavolo inviato da Dio per distruggere la città di peccatori.
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Il demone aprì le paratie delle dighe e l'oceano si affacciò con furia alla città spinto dalla tempesta e dall'alta marea. Un'onda grande come una montagna crollò su Ys, il mare penetrò nella città, la tempesta lo spingeva davanti a sé, e non vi era ormai più modo di fuggire. Passò per le strade soffocando ogni grido di paura degli abitanti, distruggendo tutto quello che incontrava nella città intera ormai destinata a sparire. Gradlon, avvertito dal vescovo Winwaloe dell’immane disastro, saltò in groppa a Morvac’h, il suo cavallo marino mentre l’oceano si riversava in tumultuose cascate nella città e fuggirono. Nel passare davanti alla diga, i due videro il principe tramutato in demonio con le chiavi in pugno usate per aprire la chiusa. Il re volle ancora strappare al pericolo la figlia, dalle conseguenze della sua folle imprudenza. Prese a cercarla, trovandola terrorizzata e lei gli urlò perché lui la salvasse. Fermò il cavallo e l'acqua gli salì sino alle ginocchia, la prese in groppa al cavallo e seguito dal vescovo, si diressero verso le porte della città. Al momento in cui le oltrepassava, un lungo muggito gli risuonò dietro, si rivolse e mandò un grido. Le onde frementi arrivavano fino a loro. Stavano per raggiungerlo e sommergerlo, nonostante il galoppo dei cavalli, allorché la voce del vescovo gridò: "Gradlon! Se non vuoi perire, sbarazzati dal demonio che porti dietro di te!" Comprese di trascinare con sé l'oggetto del castigo divino e Dahut, atterrita, sentì le sue forze abbandonarla. Un velo si stese sui suoi occhi e le sue mani, che stringevano convulsamente il petto di suo padre, si ghiacciarono e ricaddero senza forze finendo travolta dai flutti. Non appena essi l'ebbero inghiottita, si arrestarono e immediatamente Dahut, morendo, divenne una sirena, uno spirito maligno e inquieto che attrae e uccide ancora oggi i marinai. Il cavallo riprese la sua corsa e raggiunse lo scoglio di Garrec, dove si vede ancora l'orma dei suoi zoccoli. Quanto al re, egli s’inginocchiò per ringraziare 137
Dio, ma quando sollevò il viso e si volse verso la sua bella città, non vide che una distesa d'acqua oscura e profonda, sulla cui calma superficie si specchiava la luce delle stelle, senza vi fosse traccia dell’amata e perduta figlia. Arrivò sano e salvo a Kemper e Gradlon fu incoronato re nel 338 stabilendosi in questa città che divenne la capitale della Cornovaglia. Si dice che la statua fra le guglie della cattedrale ritragga proprio lui. Ancora oggi, quando il mare è calmo, i pescatori ascoltano le campane e dicono che Ys un giorno tornerà, più bella che mai. Si narra anche che Lutetia cambiò il proprio nome in Par-Is, cioè "uguale a Ys", per competere con lo splendore della mitica città perduta. Tutti sono però concordi nel ritenere che se un giorno, la città d'Ys dovesse ritornare visibile agli occhi degli uomini, nessuna città, in nessun luogo della terra reggerebbe il confronto. Neanche Parigi. Lo spettacolo del gruppo mi sprofonda in atmosfere magiche, immerso in quel romanzo fantasy popolato da eroi, re e belle fanciulle. Gli strumenti musicali della tradizione esortano il movimento, accompagnando la danza. Le cornamuse bretoni, la bombarda, l’organetto, la ghironda, il violino, l’arpa celtica, il clarinetto e il flauto traverso, suonano tra gli assoli della coppia “binioubombarde”. Il ballo, questo immenso girotondo, tiene al centro chi ha più dimestichezza con i passi leggeri, suadenti di questo delicato modo di danzare. La musica si arresta, ringrazio gli amici di ballo e tutti applaudono, alcuni mi abbracciano e congedandomi torno alla bicicletta con una sensazione di pienezza di spirito. Il buio lentamente si sostituisce alla luce del sole migrato nell’altro emisfero, e con una pedalata pigra, inizio una lenta passeggiata verso la mia stanza. Prima di rientrare voglio soddisfare l’appetito che bussa insistentemente, deciso a recarmi presso il kebab con i tavoli all’aperto, scorto uscendo precedentemente, nei paraggi dell’albergo. Arrivato in zona, in fondo alla strada distinguo il baldacchino enorme che copre la facciata esterna della vecchia stazione dei treni. Supero la piazza e vi accedo per assimilare le proporzioni e l’entità della struttura, lunga centoventi metri e alta venti, in vetro e acciaio: il volume è smisurato e onestamente non comprendo perché la stazione sia stata messa sotto questa sorta di campana di vetro nascondendo lo stile classico della facciata. Esco deluso dal manufatto, sono 138
le ventuno e quindici, e raggiunto il locale turco, lo scopro essere posti liberi sui tavoli all’estreno, quindi mi accomodo dentro davanti a un televisore gigante che trasmette la partita tra la squadra coreana e quella algerina. I fumi di griglie e friggitrici pervadono il locale, tutto si aromatizza al gusto di piatto unico “Istanbul.” I tavoli sono disposti come una gradinata della curva e nessuno occupa i posti di spalla allo schermo. Sono gomito a gomito con i supporter algerini che mangiano le fettine di carne con movimenti robotici, con lo sguardo calamitato dagli spostamenti della palla. Respirano solo durante le rimesse laterali poi tornano in apnea, i loro occhi sembrano il monitor dei battiti cardiaci, ogni palla persa è una pugnalata, ogni azione vincente che non porta al gol, un sussulto tetanico. Ordino un piatto di verdure crude e carne, bagnato da una coca, sono gentilissimi, rapidi e sorridenti. Il match sembra girare favorevolmente per gli algerini, assediano i coreani e, infatti, al ventiseiesimo arriva la marcatura, la gioia carica la molla nelle gambe con un salto che spinge il grido stridulo fuori dalla gola del mio vicino e poi tuona nell’esclamazione “Gooool!!”. (Play Batucada-Duo Safri) - Nell’esuberanza dei saltelli, urta il tavolo, il bicchiere di coca si rovescia in avanti iniziando a frizzare sul pavimento, si calma, si scusa, gli faccio cenno di non doversi dispiacere più di tanto, mi alzo e mi da la mano, mi tira a se abbracciandomi, si gira e va verso la cassa a chiedere uno straccio e corre a pulire, si scusa ancora e poi prende una coca dal frigo, la paga e me la porta. Torna in catalessi all’improvviso, la corea ricomincia dalla metà campo, è di nuovo in apnea, abbozza un sorriso e si morde le nocche, dopo un minuto l’Algeria passa di nuovo, altro goal. Scatta nuovamente, grida allo stesso modo ma questa volta mi guarda, e dopo aver battuto il cinque, corre fuori dagli amici a fare festa. È l’unico a esultare in questa maniera, gli altri suoi connazionali, sono composti e si divertono guardandolo. Lui torna a sedere, rinnova la sofferenza, anche se i suoi beniamini godono del doppio vantaggio, ma passano altri cinque minuti e l’Algeria segna il terzo goal con una facilità sorprendente per un incontro valido per il torneo mondiale di calcio. È più trattenuta l’esultanza ora, ha capito che gli avversari sono scarsi e si tranquillizza. Commenta in francese con alcuni connazionali, io ho finito di mangiare e con le gambe distese e le braccia incrociate sulla pancia, guardo la partita. Termina il primo tempo, 139
altri clienti entrano ed escono e per non occupare un posto, mi alzo, pago il conto, saluto con una pacca sulla spalla il supporter algerino, stringendogli la mano e torno in albergo. Metto a nanna la bicicletta e salgo le scale stanchissimo con il proposito di infilarmi subito sotto le coperte. Invece nel bagno mi aspetta il bucato da sciacquare e strizzare. Sono quasi le dieci e mezza e credo non si asciugheranno completamente fino al mattino successivo, anche se li ho torchiati il più possibile dentro un asciugamano e stesi fuori dalla finestra. Sono esausto, ma pompate di adrenalina salgono nella pancia perché la sfida è arrivata, domani saranno di scena i primi massicci montuosi, la foresta nera e qualche salita mozza fiato. La mia meta ora sarà Costanza, la città dell’omonimo lago sul confine con la Svizzera e dista centoottantasette chilometri per la via più diretta, in obliquo verso sud est, proponendo una salita totale di 1430 metri. Il letto matrimoniale mi cattura con destrezza, inciampo in uno sbadiglio cadendo soffice sulla diagonale del materasso, prigioniero di un sonno profondo. (Play Little Boy- Christophe Goze)
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Lunedì 23 giugno 2014 Sono le luci che s’irradiano dalla finestra a darmi il buongiorno, ho dormito profondamente e ripresa una sufficiente lucidità, mi stiracchio spazzolando la patina di dormiveglia che blocca la ripresa. Alzato in piedi, tasto il fondello della tuta e il puntale del calzino appesi alla finestra ancora umidi, controllo lo stato delle batterie di telefono e fotocamera e sento la risposta dolorosa delle gambe a un accenno di piegamento, quel dolore che so scomparirà dopo due o tre chilometri di giri sulle orbite dei pedali. Come fossero bolle risalenti in superficie, i pensieri affiorano rilasciando il carico di gas e occupano porzioni della testa. Appare il giorno trascorso di ieri, di una Strasburgo raggiunta, di una ricca cena dopo un ballo e chilometri sotto il sole. E mentre l’acqua della doccia regala il torpore di un massaggio, il sonoro dello scroscio si mescola alla rivitalizzante emozione di un nuovo giorno verso i massicci e in quel momento gli occhi chiusi si spalancano alla ricerca dei dettagli di un ambiente reale, di un momento da imprimere nella memoria e ogni piccola minuzia diventa qualcosa da rifinire e inserire nella globalità di questo viaggio speciale. Divento energico, solare, ironico. Organizzo il bagaglio e sono vestito quando infilo l’asciugacapelli della camera nei calzini umidi facendoli secchi all’istante, e quindi, li indosso ancora caldi prima di calzare le scarpe. Ritrovo la bicicletta nel sottoscala, la osservo mentre la infagotto, cerco la conferma con rapide occhiate che tutto sia a posto: i cavi del cambio, le pastiglie dei freni, la sella, la copertura delle gomme. Tutto è in ordine, solo il battistrada della ruota posteriore pare abbastanza consumato, ma al momento può andare bene. La bicicletta è straordinaria, resistente, possente, affidabile, mi sostiene con sicurezza e a volte stento a credere che non mi abbia mai lasciato a piedi. Nella reception, il responsabile sta istruendo una nuova dipendente, una ragazza di colore molto giovane, sul modo di accogliere i clienti, sulla compilazione dei moduli e la modalità di ritiro delle chiavi. Approfitta del mio pagamento con il bancomat per farle provare la procedura e poi mentre sorseggio una tazza di caffè, li osservo. Colgo la pazienza dell’istruttore e la modestia della bellissima ragazza con la camicia bianca e la testa piena di treccioline, il sorriso abbagliante sotto il naso leggermente schiacciato e gli occhi dolci, scuri e profondi. Emana profumo di mandorla. 141
Uscendo saluto il direttore e auguro buon lavoro alla ragazza che leggermente imbarazzata risponde soavemente in francese: “Grazie signore, le auguro una buona giornata.” Sono subito in sella, sulle carreggiate a cercare la via di uscita nel fresco del mattino. Per non perdere tempo, dopo un paio di giri a vuoto mi affido alla navigazione elettronica e imbocco un asse viario diretto al quartiere di Neuhof. (Play What a Way to Wanna Be –Shania Twain) - Coltivo l’illusione di essere arrivato in un parco attraversato da una ciclabile destinata, senza ulteriori deviazioni, fino al ponte che segna il confine tra le nazioni, e invece l’idillio termina trovandomi nel più caotico e ruggente traffico di camion del lunedì mattina, su una bretella di collegamento pericolosa, a doppio senso di marcia, priva della pista erroneamente indicata dalla segnaletica, con il bordo pieno di buche, terriccio e ghiaia. Non c’è molto da fare, non ci sono alternative, le mappe spingono indiscutibilmente verso sud per arrivare al ponte scavalcante il Reno. Affianco un camion aspettando il verde del semaforo e senza guardarmi in giro scatto contemporaneamente alla luce di via. Passano in accelerazione dallo start tre mezzi pesanti, rombano prepotenti spingendo la prima al massimo dei giri, il quarto si accoda, si fa sotto impaziente e suona, pedalo nella nuvola di polvere sollevata dai bestioni perché altro non posso fare. Se dovessi fermarmi su quel bordo, con buona probabilità potrei cadere, e scansando il panico, incurante dello scalpitare, viaggio sulla mia linea quanto veloce posso per un interminabile chilometro fino a un nuovo semaforo, dove la lingua d’asfalto si allarga per canalizzare le svolte. Da qui vedo il grande fiume, dall’altra parte si trova la sconfinata Germania. Tengo la sinistra per scendere verso un viottolo seguendo un’improvvisa indicazione di percorso ciclabile alla volta del confine. Scendo verso il terrapieno della sponda sinistra del corso d’acqua e intraprendo un pittoresco dedalo che passa tra pozze d’acqua affioranti lungo gli argini di contenimento. Dal bordo di un profondo acquitrino, quasi fosse la creazione di un eclettico artista, vedo immersa una motocicletta con il serbatoio rosso bordò, rovesciata sul fianco, fare da base alle alghe svettanti che ondeggiando nell’acqua limpida. Poi inizio la dolce risalita verso il ponte Pierre-Pfimlin-Bruke, sulla statale francese N353 che dalla metà in poi, in Germania, prende il nome di L98. Qui la carreggiata di scorrimento dei veicoli è separata dalla pista, 142
riservando un’ampia porzione di ciclabile. A metà del viadotto, rendo onore alla Francia, salutata con un senso di nostalgico distacco. Un territorio amico e disponibile, con una lingua alla mia portata, di facile comprensione. La saluto ringraziando di essere stata ospitale e incantevole, augurandomi di trovare in Germania un uguale trattamento, di riuscire a gioire appieno di un nuovo territorio tutto da esplorare. Guardo la sponda tedesca, morfologicamente uguale alla gemella francese, sotto un cielo che non disegna confini nella volta, e lascia libero il sole di scorrere verso ovest. Il fiume Reno ha una portata immensa, s’infiltra e si allarga nella vallata, crea anse e affioramenti, riceve piccoli affluenti e ritorna acqua alle pozze disseminate ovunque lungo il suo corso. Opere idrauliche mastodontiche cercano di contenerlo, indirizzandolo dove è necessario. Ho percorso gli ultimi quattordici chilometri in Francia e sono le otto e quaranta di un mattino radioso quando mi muovo risalendo l’argine verso nord, per ricollegarmi alla rete viaria “ridotta” che consente il transito alle biciclette. Giunto nei pressi di una chiusa, noto con immenso piacere che anche nella regione tedesca del Baden-Württemberg le piste ciclabili sono elementi fondamentali delle vie di comunicazione e su un palo segnaletico trovo una moltitudine di indicazioni sulla direzione delle piste qui intersecanti, sulle distanze chilometriche verso il prossimo centro e sulla denominazione numerica del percorso. Devo soltanto riagganciare le scarpe e dirigermi nel verso della freccia che punta verso Offenburg trovandomi immediatamente sommerso dalla vegetazione di latifoglie del clima temperato: querce, tigli, frassini, faggi. (Play Easy-Faith No More) - A macchia di leopardo, si alternano prati di un verde scintillante macchiati da boschi di un verde intenso. A tratti diventano scuri quando sono composti da abeti, rimandando al nome caratteristico della foresta nera. Pedalo entrando in contatto con una natura scaldata dal sole, con l’aria satura d’ossigeno profumato. Il centro abitato protende verso di me l’immagine della sua presenza, trasformando i prati ora in vigne e ora in campi coltivati a cereali, i caseggiati si fanno più frequenti ed entro a 143
Offenburg, il cui nome tradotto significa città aperta, attraversando il viale principale sul quale si affacciano i palazzi istituzionali tra i quali spiccano la Rathaus, il municipio tinteggiato di rosa antico e color crema, vicino la sede della polizia municipale entrambi in stile barocco. L’impatto è considerevole, colgo la concordanza architettonica con la Francia e la sua influenza sullo stile mescolato a quello più prettamente rigoroso e teutonico, delle case nelle vie laterali del centro storico. Passo sotto la colonna che da una decina di metri consente alla statua di santa Ursula, patrona della città, di vigilare fermandomi a osservare le curiose sculture di bronzo raffiguranti due enormi corvi seduti con gambe e braccia umane. Il centro pullula di vita, propone contrasti accecanti, è coloratissimo, e centinaia di fioriere adornano i davanzali delle case. I negozi sono titolati in tedesco e rimango spiazzato, dal repentino cambio linguistico perché ora, sarà inevitabilmente il tedesco ad accompagnarmi fino al ritorno in Italia ed è una lingua che purtroppo non entra nella testa, risulta difficile comprenderlo e soprattutto parlarlo. Nemmeno con le altre lingue europee sono un portento, ma il tedesco mi ammutolisce nell’ignoranza per non sfigurare con le persone che lo parlano quotidianamente, poiché mi esprimo con grugniti, gesti e mescolanza d’inglese italianizzato. Ora, come i bambini delle elementari mi istruisco usando le immagini abbinate alle scritte quando vedo sotto il cartello backerai, la porta del negozio del pane, oppure l’insegna Delikatessen sopra il negozio dei salumi, leggo Metzgerei sulla vetrina del negozio pieno di carne e imparo la traduzione di “dentro” e di “fuori”. Sapevo già da prima, chiedere quanto costa quello che m’interessa comprare, ma stento a capire una risposta veloce e a gestire un confronto, una differenza, tra una strada e un'altra o comprendere rapidamente cosa significa il nome di una pietanza su un menù in una trattoria. Non precludo la capacità di adattarmi e imparare nei giorni successivi, quando la pratica avrà trasmesso più sicurezza. 144
(Play Alpentrio Tirol - Rot Sind Die Rosen) - Ora però per ambientarmi con sufficiente gradualità in questa prime ore di Germania, sfrutto il richiamo di un segnale goloso sedendo ai tavoli all’aperto del caffè Palazzo la numero due di Lindenplatz, attirato dalle immagini stampate sulla lista dei dolci esposta all’esterno e dal nome in italiano del locale. Un buon numero di locali nei paesi di lingua tedesca tra pizzerie, ristoranti e gelaterie hanno un nome di chiara fonetica italiana, quasi a garantirne la qualità che ha reso il nostro paese famoso nel mondo, e per testare la fondatezza della mia impressione cerco un dolce stuzzicante. Il menù propone il tiramisù, la cassata, un dessert alle mele, ma vengo catturato dalla foto di una fetta di torta della foresta nera. La signorina con blocchetto e matita saluta in tedesco, io provo a risponderle in italiano con un “salve!” Fortunatamente sorride dicendomi “buongiorno”, quindi sollevato dall’imbarazzo, le chiedo di spiegarmi come è fatta la torta della foto indicata sulla lista. Esalta la bontà unica del dolce illustrandomi i pregi della Schwarzwälder Kirschtorte che letteralmente significa: “Torta alle ciliegie della Foresta Nera", un dolce alla panna e al cioccolato, che include l'impiego del Kirschwasser, un liquore alla ciliegia simile allo cherry. Se viaggio di scoperta si tratta, allora è opportuno assaggiare quella che sembra a tutti gli effetti una prelibatezza e la prego di servirmene una porzione assieme a una tazza di the caldo. La bicicletta appoggiata al muro sembra fissarmi con insistenza, quasi a significarmi che sarebbe opportuno degustare velocemente per riprendere il viaggio e mi preoccupa accorgermi dell’emersione di un pensiero di scuse, giustificandole la pausa come fondamentale per una carica energizzante. Arriva il vassoio con una regalissima fetta a strati prelibati accanto a una caldera di the fumante. L’appoggia sul tavolo e poi dispone piatto, tovagliolo e posate, teiera, tazza e cofanetto di buste da the e zuccheriera. Principesca merenda delle dieci del mattino, in venerazione all’alternarsi di strati di pan di spagna al cioccolato con quelli di panna montata e ciliegie che poi è ricoperta sul lato posteriore e in superficie con un'ulteriore dose di panna montata ed è decorata con ciliegie candite e scagliette di cioccolato. Mentre una busta di the è in infusione nell’ acqua calda la forchetta affonda e taglia, raccoglie e offre al palato il gusto di una tradizione nata nel caffè Agner di Josef Keller a Bad Godesberg nel lontano 1915. Tra un sorso e un morso, termino con gran soddisfazione l’esplorazione del gusto e vado verso la cassa all’interno del locale per regolare i
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sei euro e cinquanta dello scontrino. Il signore produce il resto dei dieci euro, chiedendo da quale parte dell’Italia arrivo, dando inizio a una chiacchiera. Loris Tonon si presenta come titolare dell’attività, complimentandosi per il mio viaggio ed io per la torta squisita appena mangiata. Racconta qualcosa del “Baden-Württemberg”, noto tra le altre cose per i suoi ciliegi, spesso piantati in passato dalle coppie di sposi appena uniti in matrimonio, a tutto vantaggio della torta che fa delle coppiette di frutti rossi un ingrediente fondamentale. Mi propone di installare un’applicazione sullo smartphone che permette di ricordare ai clienti quante consumazioni sono state fatte all’interno di vari locali nella zona, consentendo di ricevere dei premi una volta raggiunto una certo cumulo. Una sorta di carta fedeltà elettronica delle attività aderenti, insomma, utile se avessi avuto intenzione di fermarmi nella regione, ma considerando di essere soltanto di passaggio e non avendo modo di compiere spese mirabolanti, scarto l’idea ringraziandolo per la proposta, quindi saluto per inforcare la bicicletta. Passeggiando nella zona pedonale leggo la moltitudine di insegne di origine italiane sulle gelaterie: Michelangelo, Capri, Dolomiti, Serenissima e le pizzerie, da Cataldo, Italia, Nuovo Vesuvio, Da Tina e Romantica, e riattraversata la piazza, trovo di nuovo i corvi umani accorgendomi di un loro diverso orientamento rispetto a prima e a una più attenta osservazione, noto che sono montati su piedistalli girevoli. Simpatico! Queste due statue sono opere di una coppia di artisti di Offenburg, Ingrid e Dieter Werres ai quali era stata commissionata dal comune un’opera di design che risultasse piacevole ai bambini e gradita agli adulti in occasione della trasformazione in zona pedonale di un trafficato asse viario. Dapprima aveva suscitato perplessità fino poi a diventare un’attrazione ammirata entusiasticamente da tutti gli abitanti. I bambini adesso li usano come un carosello mentre quelli più cresciuti, si accomodano nella confortevole seduta tra le loro gambe distese, diventate nel tempo lucide per il continuo strofinarsi. Gli uccelli sono stati addottati e sono diventati parte integrante di Offenburg, e in diversi angoli della città sono riproposti in pose diverse. Mentre cerco la via d’uscita, mi ritrovo davanti all’imponente 146
facciata romanica della chiesa della Santissima Trinità, con due torri di trenta metri ai lati, coperte dai tetti spioventi coperti di ardesia. È ora di andare, faccio rifornimento d’acqua sostituendo quella della borraccia alla fontanella della piazza, mettendomi a pedalare risalendo controcorrente la via costeggiante il fiume Kinzig, che dopo quindici chilometri va a confluire nel Reno. Mi compiaccio del paesaggio con le case somiglianti sempre più significativamente alla forma architettonica tedesca a graticola, e dei campanili slanciati a fianco delle chiese con la cupola che assume la forma a cipolla appuntita. Lo Schloss-Ortenberg-Baden, è un fiabesco castello all’uscita della città e saluta da un colle sulla sinistra. Ricostruito solo nel diciannovesimo secolo, in stile neogotico, dopo la distruzione del 1687, ora è destinato a ospitare l’ostello della gioventù. Può accogliere un’ottantina di persone nelle quattro aree comuni offrendo anche un delizioso giardino delle rose per grigliate in compagnia. Dista soltanto cinquecento metri dalla mia posizione, ma la salita impegnativa per raggiungerlo e l’orario, convincono a proseguire rinunciando senza tanti indugi. Ora riprendo lievemente quota, di poco ma risalgo, lo scarso traffico consente di controllare le previsioni del meteo, annuncianti una lieve brezza dai quadranti nordoccidentali e quindi alle spalle. Sulla carta si sbroglia lentamente il mio dubbio sulla rotta da seguire, e allo stesso tempo sullo schermo dello smartphone ingrandisco i dettagli, allargandoli nella forbice tra pollice e indice. Ogni dettaglio che scorre è incredibilmente corrispondente, tranne io e la bicicletta. Questo mondo reale è infinitamente grande e noi così inversamente piccoli da non riuscire a spuntare nemmeno dentro un pixel. A tratti sul programma di Runtastic che registra la traccia dell’itinerario, vedo la frecciolina spostarsi lentamente sull’asse viario rilevato dal GPS. Strano connubio la visuale elettronica e l’erba alta o la traccia che si muove in relazione all’albero di mele al quale passo vicino. Sembra non vi siano relazioni tra i freddi dati di altimetria e velocità, con la mucca annoiata dentro la stalla ma tutto si fonde se accompagnato dal sottofondo di musica nelle cuffie e l’umore si esalta perso nel nero della foresta. (Play Ola-I'm In Love) - Pedalo nel vivo contrasto, tra una salita che vuole fermarmi e la voglia di arrivare più lontano possibile, quando giungo sul pianoro 147
che introduce a Gengenbach. Pedalare per le sue stradine selciate (Höllengasse ed Engelgasse) con i davanzali delle finestre adornati con moltissimi fiori, è come vivere in una favola, infatti, non a caso qui furono girati alcuni esterni del film fantastico “La fabbrica di cioccolato” di Tim Burton. Il suo centro storico è molto piccolo, una perla tra le città gremite di case con travatura di legno a vista, le cosiddette Fachwerkhäuser. Il Rathaus, (municipio) risale al diciottesimo secolo, e nel periodo natalizio dà forma al più grande calendario dell’avvento del mondo. Si tratta di un conto alla rovescia che inizia la domenica dell’avvento e il municipio fa le veci del calendario fino al giorno di Natale, rappresentando con ognuna delle sue ventiquattro finestre un giorno di questo conteggio. Nel centro della piazza del mercato, mi accoglie la statua del cavaliere di pietra che con il suo portamento altero è orgoglioso di mostrare le bellezze della sua cittadina, quindi esco dalla città passando sotto un tipico campanile a torre quadra attraversando l’arco della Porta Superiore. Mi congedo dalla cittadina, guardandola dopo essere transitato oltre il passaggio a livello della linea ferroviaria Schwarzwaldbahn. La ferrovia della foresta nera a doppio binario elettrificato è la linea principale del BadenWürttemberg, parte da Offenburg per arrivare a Singen am Hohentwiel. Il tracciato è lungo centocinquanta chilometri e arriva a seicentocinquanta metri di altitudine, passando attraverso trentanove gallerie. Particolarmente importante è la salita dove il treno si arrampica per 564 metri di altezza, tra le città di Hausach e Sankt Georgen. Le due stazioni sono poste in linea d’aria a soli ventuno chilometri di distanza tra loro ma per ovviare a un dislivello troppo ripido passa per un binario lungo trentotto chilometri snodato sui fianchi delle montagne. La linea mi seguirà passo passo per tutto il percorso, fino a Costanza e questa è una bella garanzia di sicurezza nel caso dovessi avere qualche difficoltà nell’affrontare gli scarti di altezza che prima o poi, si metteranno sotto le mie ruote. In fin dei conti, il timore di dover affrontare la traversata della foresta nera è infondato, considerando la vicinanza delle vie di comunicazione alternative e il grado di difficoltà dei vari dislivelli. 148
Cercando sula carta le vette più elevate, individuo il Feldberg, una montagna di 1493 metri sul livello del mare, situato nella parte meridionale, ben più modesto dei massicci alpini, svizzeri e austriaci, che raggiungono facilmente i tremila metri. Emerge poi, un territorio arduo e allo stesso tempo seducente come pensavo, perché la vallata è incantevole e ogni metro di avanzamento sembra un fotogramma di un documentario naturalistico. A Steinach incontro sul prato di un giardinetto, la scultura in ferro dello scheletro di uno stegosauro e poco più avanti nella piazza l’attenzione rimane preda di un palo, dove sono affissi gli stemmi con i nomi delle famiglie della città. Alla gasthaus Rose, l’orologio segna le dodici e venti, quando ho percorso cinquanta chilometri sulla strada numero trentatré, salendo di sessantasei metri arrivando a quota duecentoquattro sul livello del mare. Il ristorante è invitante, entro per rifocillarmi e seduto al tavolo, leggo la carta delle pietanze offerte, riccamente illustrata con foto stuzzicanti. I primi piatti abbondano, e tra questi trovo le Bandnudeln (tagliatelle) e gli Spätzle (una varietà di gnocchi di patate dalla forma allungata, saltati nel burro), usati per ad accompagnare le carni di tutti i tipi preparate in diversi modi. Oppure piatti unici come i Maultaschen, (tortelloni ripieni) conditi con diverse salse. Sono attratto dal gulasch di manzo, ma anche dai Bauernbratwurst con contorno di purè di patate ma alla fine mi conquista l’idea di assaggiare gli asparagi bianchi di Schwetzingen. Questi ortaggi, si sono iniziati a coltivare dal 1668 nei giardini del castello di caccia, nei pressi dell’omonima città, conquistando il titolo di capitale degli asparagi. Il piatto ”Kalbsteak Prinzess" è composto da una bistecca di vitello con gli asparagi di Schwetzingen in salsa olandese, patate duchessa e insalata. Leggo il menù in tedesco, ordinandolo con un’inaspettata scioltezza assieme a una birra e in poco tempo, sono servito di un piatto assomigliante a una scultura. Gusto la raffinata delicatezza di un insieme indimenticabile, e la birra agevola la cascata di gusto, frizzando. 149
Dodici euro spesi appetitosamente e uscendo con la pancia piena riavvio il motore al glicogeno delle gambe spingendo sulla ciclabile verso Haslach im Kinzigtal sfiorata appena, trovandomi al cospetto delle rovine del maniero Burg Husen sopra un colle alla mia destra, poco prima di abbandonare la pista e immettermi sulla statale. Ad Hausach, vedo parcheggiato sul marciapiede un carro con l’insegna Kuckuck-Uhren. Mette in mostra quindici marchingegni a cucù di medie dimensioni, volto a pubblicizzare un negozio di orologi prodotti in proprio, e proseguendo verso il centro della cittadina, ne incrocio altri, ridondanti di bellissimi manufatti artigianali. All’uscita dell’abitato indugio a un bivio, valutando due diversi itinerari. Come capita frequentemente ci sono pro e contro: una strada continua a seguire il corso del fiume Kinzig arrivando a quota 785 metri sul livello del mare ma è lunga cinquantasette chilometri, mentre l’altra mi farebbe percorrere cinquantatre chilometri di fianco l’alveo del fiume Gutach, portandomi a 870 metri di altezza con il vantaggio di correre lungo la linea ferroviaria. Nell’inconscio sale la voglia di alleggerire il viaggio, sono tentato da un passaggio in treno per avvantaggiarmi sui tempi che iniziano a stringere e decido di andare per il percorso di scorta alla ferrovia. Ho qualche vaporoso cedimento mentale, sono contrastato fortemente dalla voglia di arrivare quanto prima al traguardo di giornata evitando la fatica e l’impegno di fare tutto il viaggio sulle mie gambe. La salita inizia ad avere una pendenza rilevante da subito, la L33 è aperta anche al traffico pesante e solo in alcuni brevi tratti ho a disposizione una pista ciclabile per andare su tranquillo. Per tre volte il percorso riservato termina con un indispensabile arresto, dove interseca bruscamente con la via principale, a causa della mancanza di spazi adeguati nella ristretta vallata. Stabilisco allora di non compiere deviazioni per fare solamente per pochi metri e perciò prendo l’asse viario normale per evitare di spezzare troppo spesso il ritmo. Metto la catena sulla seconda volantina e gioco con i rapporti corti dietro, permettendomi un cambio molto frequente di pedalata, dalla posizione seduta a quella di running. La percentuale di pendenza aumenta e ogni 150
tanto sono costretto a una sosta per rifiatare e far riposare le gambe, con la scusa di bere acqua o mangiare un biscotto, frenando un battito forsennato. Alla terza pausa ho davanti a me quello che è reclamizzato come il kuckuck più grande del mondo a lato di un negozio di orologi e con la scusa di fargli una foto, tiro su gli occhiali sulla testa fino a tornare a un livello cardiaco accettabile. Riposiziono gli occhiali appannati sul naso riprendendo a macinare i pedali sulla salita con un venticello da dietro somigliante a una carezza che svanisce nella vergognosa velocità di undici chilometri l’ora. Lo sfinimento intermittente, architetta logiche per sopperire allo sforzo determinando che non posso cambiare le strade, sono loro a cambiare me. Questa diventa la regola alla quale adattarmi, perché ovviamente le condizioni dell’ambiente non mutano e nella convivenza con la fatica trovo equilibrio in un rapporto leggero che non tiene più conto della media segnata dal tachimetro. I numerini sul display sembravano lampeggiare a caratteri cubitali nelle pupille, in sincrono con i battiti forsennati del cuore e adesso tornano a essere strumento indicante la velocità e non un tormento. Acquisto fiducia nei miei mezzi, eliminando del tutto l’idea di un passaggio in treno, con l’arroganza sfidante per la conquista della vetta. Sono arrivati a nove i chilometri di salita, accumulando centoventicinque metri di quota, un’oretta circa di paziente lavoro sui pedali, quando arrivo davanti alle indicazioni di una galleria, la Hornbergtunnel che perfora per due chilometri la montagna, e sul lato destro propone un cartello rotondo con una macchina bianca su uno sfondo blu, inconfondibile segnale che il transito è consentito soltanto alle macchine. Rimango interdetto perché questo significa che le motociclette e tantomeno le biciclette possono passare. Cerco sulla mappa un’indicazione con un’ombra di deviazione poiché il GPS non funziona tra i monti e non aiuta per niente. Innervosito, mi guardo attorno per capire cosa fare, e battendo i palmi sulle manopole scarto l’ipotesi di tornare indietro verso un incrocio, decidendo di proseguire con la massima attenzione con le luci accese. Sono due chilometri di galleria piatta da pedalare e calcolo di non metterci più di cinque minuti. Tiro su gli occhiali e parto dopo il passaggio di una macchina sperando non ne arrivino altre, la galleria gelida mi inghiotte nel giallore soffuso delle sue luci, le gambe spingono a tutta forza rasentando il cordolo. 151
Il marciapiede è troppo stretto per accogliermi ma nello specchietto vedo sopraggiungere una macchina e passa senza nessun problema. La galleria curva dolcemente verso sinistra e dopo la sgroppata a trenta l’ora, esco alla luce del sole accostandomi non appena trovo uno slargo per rifiatare e dare linfa ai muscoli. È fatta, ho superato anche questo sbarramento nei pressi di Gutach e riprendo a salire sulla Triberg strasse passando a fianco del parco Friebad Hornberg (piscine del monte Corno), una vasca di cinquanta metri con scivoli e trampolini e ampie zone di prato affollato di persone rilassate, distese a prendere il sole. La pendenza è quella di prima, arranco con lo sguardo fisso in avanti senza la sconfortante sensazione di ruggine nelle gambe e anche se la velocità è ridotta, sono sereno e determinato. Mi oltrepassa a tutta velocità un’auto della polizia tedesca con i lampeggianti blu accesi e penso ai destinatari delle loro attenzioni che non saranno contenti di vederli arrivare, ma poi li vedo fermarsi su una piazzola sulla destra cento metri più avanti e scendere. Penso stiano istituendo un posto di blocco, mi fissano mentre mi avvicino, non distolgono lo sguardo tranne che per un attimo scambiando una breve battuta tra loro. Vestono una divisa marrone spezzata, chiara sui pantaloni, scura sulla camicia, con cravatta e cappello in testa, uno di loro mi fissa negli occhi, fa cenno di accostare e fermarmi, cosa non difficile considerando che procedo come una lumaca, sgancio i pedali e accennano un saluto militare accompagnato da quello verbale ricambiato. Appare evidente di essere l’oggetto delle loro attenzioni e non è una bella cosa. Uno di loro domanda da dove sto arrivando e rispondendo, rifletto sull’origine del controllo, anche se già sospetto sia poco simpatico ciò che mi attende. L’agente più giovane vuole sapere se sono transitato nella galleria un chilometro più a valle e la mia risposta può essere soltanto un sì. Negare l’evidenza davanti a una domanda, conoscendo incontestabilmente già la risposta, sarebbe una provocazione che costerebbe parecchio di più di quello che sto immaginando. Chiedono da quale nazione provengo e anche se la tutina azzurra con le scritte a caratteri cubitali non dovrebbe lasciare molti dubbi, specifico di essere italiano. Non battono ciglio, chiedendo se conosco il significato del cartello rotondo con la macchina bianca con il fondo blu e ammetto di aver trasgredito l’indicazione, e tento di giustificarmi esibendo la
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mappa in mio possesso, priva di una traccia di deviazione certa e il GPS che non prende, ammettendo di avere fatto l’azzardo non sapendo come muovermi. Gli agenti mi fanno osservare di aver violato il codice della strada e sono in possesso delle registrazioni delle telecamere per comprovarlo se avessi voluto contestare l’accaduto. Replico che non è necessario, di essere consapevole dell’errore commesso. Spiegano che poco prima della galleria, c’è un incrocio che porta sulla circolazione vecchia dove è consentito il traffico delle biciclette e questo sarebbe di nuovo capitato nei pressi delle successive gallerie. Mi scuso ammettendo l’ignoranza e di aver sbagliato a passare, si allontanano di qualche passo verso la macchina, si allisciano i baffi. Sono sicuro che toccherà la scocciatura di una contravvenzione e per ingannare il tempo controllo il navigatore che prende qualche brandello di segnale confrontandolo con la mappa, loro gesticolano mimando deviazioni e circoli e poi raggiunto un accordo, si avvicinano comunicandomi di avere deciso di lasciarmi andare senza ulteriori strascichi e raccomandano severamente di non percorrere strade interdette perché è importante per la mia sicurezza e quella degli automobilisti, ricordando che il rispetto delle regole del buon senso è uguale in tutta Europa e con sorriso beffardo chiedono se anche in Italia le nostre forze dell’ordine avrebbero concesso un attenuante sorvolando. Mi astengo dal fare qualsiasi replica per mantenere la condizione di perdono, poi mi stringono la mano, dapprima il giovane e poi il più anziano che chiede da dove provengo con la bicicletta e verso quale posto sto andando, gli racconto due cose e sempre trattenendo la mano serrata, si complimenta battendomi la spalla. Infine, con un breve cenno di saluto alla fronte, s’infilano in macchina e ripartono. Sono solo nel nero della foresta, a cavallo, sulla piazzola con una sensazione liberatoria nella pancia, quella di avere evitato una considerevole ammenda e una perdita di tempo mostruosa per verbali e pagamenti, riflettendo sul dettaglio che mi ha salvato: l’ammissione di colpa. In Germania, più che in altri paesi, mal si digerisce la propensione a cercare delle scuse, ad accampare lamentele scansando la responsabilità di gesti impropri, a maggior ragione se l’autore della scorrettezza proviene dalla nazione additata a simbolo di indisciplina. O più probabilmente sono stato fortunato nell’avere incontrato due persone ragionevoli e mi è andata bene. Risistemo la tutina, bevo un sorso e seleziono il lettor mp3 dello smartphone, indosso le cuffiette on-ear e scivolando con il dito sullo start del menù, apro la sala della musica nel teatro cerebrale. Sono dotato di uno strumento di ottima qualità, un paio di altoparlanti che si infilano nei canali auricolari, suonando senza disperdere 153
nulla, indispensabile per assorbire il massimo dalle note. La musica ha un effetto dopante, comanda il movimento e lo ritma. Riparto ancheggiando sulle gambe agganciate ai pedali, iniziando a farle stantufare come due pistoni nei cilindri. Si abbassano le luci quando calo gli Oakley sul naso mentre fisso un piacevole punto di bosco a venti metri di distanza. Fai un inchino. (Play Take a Bow-Madonna) - Ascolto le Inchinati, la notte è finita,questa campanelle duettare con il violino all’inizio del messa in scena è andata per le brano e le battute diventano parallele al ritmo lunghe. del cuore, di quando sono tranquillo, La luce è spenta, la tenda è percepisco Madonna la sublime interprete di abbassata. Non c'è nessuno qui... una voce dolce, ovattata e profumata, Di i tuoi versi...Ma puoi sentirli? Sei serio quando parli e non c'è musicante la mia foresta nera, un eden di nessuno intorno? montagna. Ti osservo, mi osservi, una stella Non grida, non strepita, avvolgendomi nei solitaria duetti eseguiti con il coro. Non conosco bene Farli ridere, è così facile, quando l’inglese ma riesco a carpire qualche parola entri in ruolo, nel quale spezzi il del brano “Take a bow” e sembra far mio cuore Nascosto dietro il tuo sorriso, tutto riferimento allo scampato pericolo, il mondo ama un pagliaccio all’atteggiamento remissivo, a tratti di succube Ti auguro tutto il bene, io non imploranza verso la sorte e la magnanimità posso rimanere. Meriti un premio per il ruolo che hai recitato. dei due agenti. La melodia riempie le strofe cantate e allora Niente più messinscene, sei una chiudendo la mente su queste note, davanti a stella solitaria. Una stella solitarie e non sai chi sei me si aprono scenari straordinari a ogni metro di salita strappati dalle ruote. Salgo ancora, spinto sul pentagramma perche le note sono infine qualcosa che alleggerisce la pendenza. Senza fiatone, senza controllo ferreo di velocità media o energia consumata. Dopo due chilometri ecco arrivare un’altra galleria proibita, devio per una laterale a destra che aggira il cono roccioso sotto il quale scompare la via principale, pedalando tra le cataste ordinate e geometriche di tavole di abete. C’è un profumo di legname incantevole, ma devo stare attento al terreno fino quando rientro sulla carreggiata principale perché spesso i trucioli si accompagnano ai chiodi e tra la segatura e la ghiaia può nascondersi qualche insidiosa punta. Dopo quest’ansa e un altro chilometro, sulla successiva deviazione arrivo allo stabilimento Finkbeiner, una segheria risalente a circa trecento anni fa, tra le prime edificate nella valle del fiume Gutach della foresta nera, nominata anche Steinbissäge (sega di pietra). 154
Dal 1922 la quinta generazione della famiglia Finkbeiner inizia a gestire il mulino della segheria per il taglio e la piallatura, mosso dalle acque del fiume. Negli anni l’azienda si è sviluppata dotandosi d’impianti automatizzati e forni per essiccare in breve tempo il legname, diventando così la più grande segheria nel circondario di Schwarzwald-Baar e impiega attualmente oltre sessanta addetti. Resto affascinato dal sistema di smistamento dei tronchi, dalla selezione fatta in base al calibro, senza notare traccia d’intervento manuale. Quando il tronco arriva alle lame dentate, lo riducono in tavole e altri meccanismi le sistemano in mazzi. Sono presi, infine, in carico dai muletti per sistemarli al bordo dello sterrato, impilati fino a cinque metri di altezza. Ricomincio il viaggio, ma dopo altri due chilometri, piazzo una pausa per riposare perché la salita è irragionevole facendomi inerpicare in questo breve tratto per settantacinque metri. Approfitto per sgranchirmi le gambe dentro il negozio di orologi della famiglia Eble che dal 1880 si occupa della preparazione di meccanismi e delle caratteristiche casette dei kuckcuk. Anche qui si vantano di avere fuori dal negozio l’orologio a kuckcuk più grande del mondo ed effettivamente è ampio come una casa, alto circa quattro metri, e onestamente non saprei dire quale sia il più grande, dei due finora reclamizzati da record. Dentro vi sono esposti orologi di tutte le dimensioni, dai più piccoli con un costo che parte dai trenta euro e sono estremamente semplici, a quelli più elaborati con le catene pendenti nella parte inferiore. Muovono complessi meccanismi ogni qualvolta scocca l’ora e sono decorati con legni fregiati, riproducenti il bosco e la sua fauna. Sono esposti anche semplici souvenir, casette di legno, sculture di animali, portachiavi e pupazzi di peluche. Sono attirato da un tronco infilzato dalle bandiere-trofeo che cercavo, aventi un costo notevolmente conveniente di tre euro e cinquanta. Prendo quella della Germania, e siccome hanno anche quella della Svizzera e dell’Austria, mi avvantaggio evitando di doverli cercare nei prossimi paesi da attraversare, risparmiando tempo prezioso. Prendo una coca e una fetta di crostata ai lamponi ed esco mentre inizia a piovere. Non me lo aspettavo piovesse perché ero entrato con il sole, ma infine è 155
una pioggerellina di qualche nuvola dispettosa in transito. Finisco di mangiare e isso la bandiera tedesca a poppa del bagaglio, sistemo le altre nella sacca e riparto dopo avere indossato la giacchina che dopo pochi metri devo immediatamente levare per non esplodere di caldo. Inizio un tratto che si rivela ostico, con l’intenzione di non fare altre soste prolungate. (Play Prayer In C - Lilly Wood & The Prick) Il traffico è rilevante, la via di comunicazione è tortuosa e con pendenze da gran premio della montagna. Arrestandomi tre volte e guardando indietro, si palesa l’entità della pendenza e prima dello scollinamento mi aspettano ancora otto chilometri con trecento metri di quota da fare. Mentre pedalo, seguo con lo sguardo un percorso carrabile che passa quasi parallelamente alla mia nell’incavo della vallata poco più sotto e sale con una pendenza più ragionevole, ma ormai non posso raggiungerla e proseguo, reggendo comunque abbastanza bene alla fatica. Nel mezzo di una conca, compresa da un tornante molto ampio, m’imbatto in un allevamento di lama beatamente ruminanti, composto da due femmine accucciate dentro un ricovero e un maschio intento a fare la guardia. Questi camelidi sono animali bene integrati nel territorio montano della foresta nera e vi è un notevole sviluppo dei loro allevamenti nella regione perché producono una lana con una fibra di alta qualità. Questa escursione andina nella dolina dei lama termina dietro uno degli ultimi tornanti, disegnato sbuffando a pieni polmoni, ossigenando quanto più possibile. Arrivo fino allo scollinamento a Sankt Georgen, nel punto in cui si congiunge la strada sulla quale ho pedalato, con quella che sembrava meno faticosa e che invece nell’ultimo chilometro si inerpica su una ascensione che stenta a stare in piedi da sola, tanto è ripida. Immediatamente dopo, inizio una lenta discesa con qualche brevissima salitina a ripigliare le gambe. Snervato dal traffico, inseguendo una traccia del GPS, vado dietro alla linea ferroviaria persa nella foresta nera, nel fresco corroborante e rilassante della vallata che ospita il primo tratto del fiume Brigach, quello che prenderà a Donaueschingen il nome Danubio. (Play Beautiful- Christina Aguilera) 156
Nel senso opposto passano ragazzi che spingono in salita sui pattini in linea mentre mi sto compiacendo del successo premiante. Pedalare, è l’infinito di un verbo multiforme e a seconda di chi lo vive assume connotazioni diverse. L’andare in bicicletta di cui parlano alcuni ciclisti è sofferenza, traguardi, gelate indimenticabili, cronometro, fatica, come la mia per arrivare fin quassù. Per me e altri del mio stampo, è sopra ogni cosa il desiderio di congiungermi al mezzo. Fondermi, diventa un quadro con lo sfondo silvestre, meditazione catatonica, sudata poesia, romanzo in discesa lungo diciassette chilometri. Perdo ben centoquaranta metri di quota arrivando a 708 sul livello del mare fino al centro di Villingen-Schwenningen, una sorta di fortino racchiuso dalle case, che si apre con quattro porte ai punti cardinali, sotto le torri dotate di orologio. È una città abbastanza importante considerando che insieme alle case fuori dalle mura, dà riparo a circa ottantamila abitanti ma non vanta grandi tradizioni storiche, a differenza di altre visitate, pur fondando le sue origini nel tardo medio evo. È una città a forte rischio grandine e detiene il record della sesta più grande grandinata della storia, avvenuta nel 28 giugno del 2006 quando una super-cella temporalesca ha scaricato sulla città chicchi grandi fino a undici centimetri di diametro danneggiando tetti, distruggendo automobili e provocando il ferimento di un centinaio di persone. Ora pioviggina, folate di vento freddo si alternano a masse calde provenienti dal senso opposto ma auspico non generi proprio oggi un altro evento da primato. Il centro è pedonalizzato, pulito, ordinatissimo, le case sembrano tutte tinteggiate di fresco e una bella gelateria porta sopra l’ingresso, la scritta “Zampolli” come l’omonima di Trieste, rinomata per essere un punto vendita rifornitissimo. Acquisto un cono e provo a scambiare qualche battuta con la signorina che parla in italiano con un’inflessione veneta, tuttavia mi accorgo che non c’è molta disponibilità a parlare, anche quando racconto di essere rimasto piacevolmente stupito di trovare, sebbene lontano dalla mia città, un marchio facente parte della tradizione casalinga. È algida come il gelato palettato, abbozza un sorriso sforzato e dopo avermi dato il resto, mi congeda con un ciao allontanandosi dalla vetrina. La qualità della crema è ben lontana da quella assaggiata a casa, e accompagnata alla sensazione trasmessa 157
dalla ragazza, sono spinto a staccarmi per iniziare una ricerca a vista, di una camera per la notte. Le stelle accanto ai nomi sulle targhette degli alberghi, fanno supporre costi molto alti e inducono a cercare sullo smartphone, nella selezione ordinata per convenienza. Suggerisce la soluzione più ragionevole fuori dalle mura, poco distante da dove sono in questo momento. La pensione Im Klosterring si trova sull’omonima circonvallazione occupando un bel palazzo anni cinquanta e gli arredi sono in linea con le impressioni proposte dall’esterno. Il prezzo di trentasette euro comprensivo di colazione è sicuramente attraente, il fisico è stanco e necessito di un contatto con l’acqua. Non propriamente di una doccia, ma d’immersione sotto il getto, e guardare fluire sulla pelle i rivoli caldi e per questo motivo dopo essermi assicurato di disporre di un posto per la bicicletta, chiedo espressamente di avere una stanza con la doccia. La risposta è due volte affermativa e compiute le formalità, mi trovo a fissarmi nello specchio dell’ascensore mentre salgo al terzo piano. Ho il volto stanco, scurito dal sole, reso attempato dalla barba da radere, con i capelli arruffati, avverto l’odore di sudore, di spossatezza. Faccio due smorfie, abbozzo un sorriso e poi ne faccio uno sincero perché mi sento ridicolo pensando vi sia mai, dall’altra parte dello specchio, qualcuno a osservarmi. Dietro di me, subito dopo, le porte si aprono sul piccolo corridoio dell’ultimo piano. C’è silenzio e i passi rimbombano ovattati sulla moquette illuminata da una luce fioca. La chiave è classica, di metallo, si infila, si gira e scrocchia. (Play A Hero’s Goodbye-Tino Izzo) - La parete in fondo alla stanza, è la parte interna del tetto spiovente dell’edificio, il letto matrimoniale con le lenzuola gialline è un quadrato sotto il soffitto che arriva al pavimento di soffice moquette marrone. Poggio le borse, levo la tuta lasciandola annodata alle mutande e alla maglia per terra, verifico vi sia il sapone e apro il miscelatore aspettando che l’acqua vada in temperatura. La doccia è ricavata in un altro spiovente del tetto con una finestra a ribalta per arieggiare il minuscolo bagno. La sua configurazione non consente di restare in piedi, costringendomi a un’innaturale posizione ricurva molto scomoda, così siedo sul fondo del piatto di scolo, con le gambe incrociate, tenendo i gomiti sulle ginocchia e la testa appoggiata al palmo di una mano, mente l’altra sorregge la doccia. 158
Perdo la nozione della realtà e immerso a occhi chiusi nel caldo fumante dell’acqua che scende, lascio fluire nella mente le diapositive leggere, destinate a raccontare di un paesaggio alpino, di un mare rilucente, di una donna seducente, di una moto lanciata, di un figlio sorridente, o quella nuvola che di colore in colore riporta nella doccia a insaponarmi. Lavarmi, di per sé non stanca, ma attenua la percentuale di adrenalina e ogni stilla di energia ora fluisce senza strappi mentre mi rivesto con calma per la cena. Tra una scarpa e l’altra prendo in mano la cartina, illuminandomi per un attimo di soddisfazione rimirando il viaggio odierno, lo confronto con la lettura della distanza percorsa, centotre chilometri, dai centotrenta metri sul livello del mare di Strasburgo ai 910 del passo con 1044metri di dislivello positivo, piazzando un bel colpo su un itinerario temuto per le salite. Finisco di vestirmi con il pensiero già rivolto al giorno che verrà, porto la mappa e lo smartphone al ristorante dell’albergo e mentre aspetto un piatto di gulasch di manzo con carote stufate, riguardo anche le foto odierne scattate con la macchina fotografica, la compatta con lo zoom capace di ingrandire fino a diciotto volte il soggetto. Ha una scheda di memoria da otto giga e me ne sono portata una di riserva della stessa capienza, scottato da una precedente esperienza quando sono rimasto senz’altro spazio per immagazzinare immagini. Ha un’ergonomia che consente di usarla con una sola mano, agendo sul selettore dei comandi con la rapidità imposta dalla necessità di scattare mentre pedalo. Se dovessi fermarmi ogni volta che vedo qualcosa di piacevole, impiegherei il doppio del tempo. In effetti, sulla bici raramente mi annoio! Vuoi per il gesto sportivo, come per la vicenda delle foto, o la gestione di mappe e musica Avrei voluto unire in uno strumento unico, telefono e macchina fotografica, ma sebbene esistano prodotti sul mercato, avendoli provati, ho avuto la netta sensazione che sia inarrivabile la qualità delle immagini catturate dalla mia Samsung WB700, capace di riprendere filmati molto ben definiti, con un audio soddisfacente e che la velocità di azione, quando estraggo dal borsello, accendo, inquadro e riprendo, è unica. Ora controllo le strade per arrivare a Costanza e attivo il wi-fi per lanciare le immagini più significative sul social. La cena è proteica, sostanziosa, divoro quasi senza gustare colto da un appetito smodato, accompagno con fette di pane nero, ingurgito quasi un litro d’acqua, pulisco il piatto rendendolo candido, chiudendo il pasto con una macedonia di ananas e finalmente sazio, chiamo casa per un 159
breve contatto con voci amiche che si complimentano per il tragitto finora percorso e per le foto pubblicate, chiedendo se sono ugualmente stanco come traspare dalla voce. Rassicuro spiegando come alla fine della giornata è inevitabile la rilassatezza e che in ogni caso, le gambe sono le osservate speciali e tuttavia, al momento sono in ottimo stato di forma. Chiudo i saluti poco prima di entrare nell’ascensore e arrivato nella stanza, accendo il televisore. Trasmette dall’Estadio Nacional di Brasilia, la partita della Selecao di Scolari che lotta contro i Leoni Indomabili del Camerun. Il Brasile travolge gli avversari nel primo tempo con un gioco frizzante, regolando il risultato sul due a uno trascinato dalla doppietta di Neymar: il fuoriclasse del Barcellona apre e chiude il conto della prima frazione di gioco, vanificando il momentaneo pareggio di Matip. Steso sotto il piumone arrivo all’intervallo con gli occhi socchiusi, preda del torpore, abbasso le palpebre, trascinandomi nell’oblio di un sonno quanto più possibile rigenerante. (Play Gnossiene n.2-Hackett)
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Martedì 24 giugno 2014 Sono le due del mattino quando il lampeggiare dello schermo della tv, rimasta accesa, mi sveglia unito alla musica di un jngle pubblicitario. Smarrito, osservo con un occhio aperto e uno chiuso le immagini della tribuna calcistica di eminenti esperti, plaudenti alla vittoria del Brasile. Commentano il definitivo quattro a uno del Brasile che nella ripresa è andato a segno con Fred e Fernandinho dando al risultato la sua dimensione definitiva. Penso a quanto sono bravi, poi al torpore del mio sonno, quindi cerco il telecomando e spengo lieto di avere ancora cinque o sei ore a disposizione per una buona dormita. Passano in un lampo e mi ritrovo in piedi a raccogliere gli indumenti da indossare. Dopo tante mattine, gli automatismi ormai s’innescano velocemente e in un battibaleno la cerniera chiude il bordo della valigia, le carte sono pronte ed esco dalla stanza con l’ultimo veloce sguardo per sincerarmi di non avere dimenticato nulla. La sala del ristorante è diventata quella ospitante la colazione. Arrivo tacchettando con le scarpe sul pavimento di legno attirando l’attenzione di alcuni signori intenti a consumare qualcosa più somigliante a un pranzo pantagruelico che a una colazione. Seduto a un tavolo Gunther ha messo dentro il suo piatto, una fetta di prosciutto, due salsicce, un pezzo di frittata strapazzata e un brandello di salmone affumicato, sulla destra ha un paniere di tutto rispetto e a sinistra una tazza di yoghurt con il muesli, un cappuccino e mezzo litro di succo d’arancia. Sembra un velociraptor sulla preda, ordinato e lucido, infila la forchetta nella carne per trattenerla, smembra con il coltello sollevando il sopraciglio peloso, teso a osservare gli altri commensali, guarda il boccone e solleva il gomito avvicinando la testa inclinandola leggermente, apre le fauci richiudendole sui rebbi della forchetta, estraendola, libera di andare a infilare altra carne. Tritura tra i denti, e infine ingoia con un breve sussulto indietro della testa mezza calva. Dirige un’orchestra cibatoria, si muove in sincrono per ottimizzare i tempi, spezza pane, sala la carne, afferra il bicchiere e beve, lo poggia e già nell’altra mano compare il cucchiaino che mescola il caffè e lo zucchero. La mia colazione si limita a un croissant con la marmellata e un caffè concedendomi il lusso di due mestolate di yoghurt fresco. Sono a posto, pronto per riprendere a consumare la sella durante la nuova giornata, bruciando il cibo appena messo nel serbatoio. 161
Bello, fuori è meraviglioso, si sente la primavera pronta a lasciare il posto all’estate e appena agganciato, mi metto alla ricerca di indicazioni per Geisingen, distante venticinque chilometri. La statale 33 non è percorribile dalle biciclette, non me la sento di infilarmi in un budello stretto, troppo frequentato dai mezzi pesanti, iniziando allora a percorrere strade in mezzo ai campi. Sono lingue di asfalto viranti ad angolo retto attorno alle colture di cereali, e tenendo sempre d’occhio il GPS e la statale navigo in scioltezza tra i docili saliscendi.
Sembra quasi che in questa regione le piste ciclabili siano state le prime vie di comunicazione e solo in seguito siano state costruite le strade per i mezzi a motore. Corrono sui fianchi dei colli coperti da sconfinate praterie di spighe, tinte di verde pastello, che arrivano a lambire l’azzurro del cielo. Ogni tanto il bosco nero e fitto in lontananza crea un muro impenetrabile e sul bordo del tracciato mi accompagna una processione di papaveri e fiori di lavanda. Raggiungo Geisingen alle dieci, dopo un’ora e mezza di calma e tranquillità e poco dopo, passo il ponte sospeso sul Danubio, in tedesco Donau. Il fiume, lungo 2773 chilometri, punta ad est e in questo tratto ha ancora una portata modesta. Nasce poco distante da qui, a una quindicina di chilometri, vicino la cittadina di Donaueschingen, luogo di confluenza di due fiumi, da nord-est il Brigach incontrato per la prima volta sulla discesa da Sankt Georgen, e da nord il Breg. In un’ampia vasca circolare al centro del parco del castello dei principi di Furstenberg è stata allestita una sorta di sorgente celebrativa del lunghissimo corso d’acqua e solo da qui in avanti, le città lambite potranno fregiarsi del titolo “an der Donau” (sul Danubio). Nella realtà la sorgente s’identifica in quella del fiume Breg, il suo emissario più lungo e ricco d’acqua, che si trova nel cuore della foresta nera alla Martinskapelle nei pressi di Furtwangen. Sono cavalcioni della bici, con i gomiti poggiati sul manubrio, a metà del ponte. Mentre osservo il flusso inarrestabile e costante, immagino il lungo viaggio di 162
una foglia caduta qui nel suo corso, la sua difficoltà nell’affrontare le chiuse da superare, un po’ invidioso del suo passaggio nei paesi che si appresterebbe ad attraversare per sfociare nel Mar Nero. (Play Bridge Over Troubled Water-Simon&Garfunkel) Sento di somigliarle nella missione, rimuginando Simon & Garfunkel il disegno del mio tragitto a pedali, partorito Ponte Sull'acqua Tempestosa poco più a nord del canale della manica, volto Quando sei stanca, ti senti piccola infine a terminare con lo sbocco nell’Adriatico. Quando le lacrime si affacciano ai tuoi Ora riprendendo verso sud-est, monta la occhi sensazione che saranno ore faticose, ma vivo io le asciughero' tutte Sono dalla tua parte un’estasi ipnotica, una sorta di sublimazione. Quando i tempi si fanno difficili L’inclinazione aumenta, la salita assume una E non si riescono a trovare amici Come un ponte sull'acqua tempestosa pendenza costante affrontata pedalando in piedi Mi distenderò concentrato sulla postura, sulla presa delle mani Come un ponte sull'acqua tempestosa al manubrio, sull’ondeggiamento e la centralità Mi distenderò del peso. Controllo il respiro, spingendo un Quando sei esausta rapporto molto agile e cerco di mantenere lo Quando sei per la strada Quando la sera cala così spietata sguardo fisso sulla linea bianca, una ventina di Ti darò conforto metri davanti a me. Il paesaggio è attraente, il Prenderò le tue difese sole scatena l’evaporazione delle essenze della Quando giunge l'oscurità E' il dolore è tutto intorno a te foresta che mi avvolgono profumate e senza la Come un ponte sull'acqua tempestosa minima sensazione di stanchezza sulle gambe, Mi distenderò Come un ponte sull'acqua tempestosa rilassandomi, pedalo più sciolto. Da quando ho Mi distenderò iniziato questa salita, ho trovato un gran numero di limacce che strisciano in prossimità del Continua a navigare ragazza d'argento Continua a navigare confine tra asfalto e bosco. Sono delle grosse È arrivato il momento in cui brillare lumache nere senza guscio, molto spesso Tutti i tuoi sogni stanno per avverarsi Guarda come brillano vittime di pneumatici e m’impegno per non Se hai bisogno di un amico arrotarle a mia volta, fantasticando siano degli Sto navigando proprio dietro di te spiriti del bosco ai quali devo riconoscenza, Come un ponte sull'acqua tempestosa renderò sereni i tuoi pensieri prestando attenzione e rispetto. Alla velocità cui Come un ponte sull'acqua tempestosa sto andando, non è difficile questa sorta di gioco renderò sereni i tuoi pensieri di schivate sul versante umido della montagna e dopo sei chilometri e mezzo di salita ho prodotto 125 metri di quota, scollinando a 785 metri sul livello del mare nei pressi del ristorante panoramico Hegaublick fermandomi per una sosta rigenerante sulla terrazza.
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Domino la vallata sottostante, dal lato più secco ed esposto al sole dell’altura e scrutando con allegro stupore, vedo per la prima volta, sul confine tra cielo e terra, il lago di Costanza. Se la mente non m’inganna, l’orizzonte potrebbe collocarsi a una ventina di chilometri di distanza e considerando di trovarmi in una posizione rialzata, la discesa dovrebbe essere molto veloce, permettendomi di raggiungere la destinazione a un orario certamente favorevole. Sono le dieci e tre quarti quando ripongo il set fotografico nelle borse, usato per gli scatti commemorativi. Entro nel ristorante per una pausa prima di riprendere a pilotare verso la città al confine con la Svizzera. La bocca articola un saluto e la richiesta di una tazza di caffè nero in un tedesco stentato e poco credibile, attirando l’attenzione dei viaggiatori in sosta, scesi da due pullman di pensionati. Io sono vestito da ciclista, in azzurro, con la scritta Italia a lampeggiare ovunque e con un accento, se mai fosse necessario, inconfondibile. Loro sono un centinaio di persone vestite sobriamente, signori con i gilet di lana cotta e dame con graziosi vestitini infiorati, con i pon pon sugli scialli, con cappellini decorati da nastrini e le scarpe con un accenno di tacco. Sono in ordine sparso, parlano piano, ridono con garbo, si muovono lentamente, altri siedono compostamente sulle poltrone del terrazzo. Sorseggiano le bevande, beneficiando di ogni minuzia offerta dal posto di sosta, sia un tè caldo o il colpo d'occhio, il sole abbagliante o la scritta “libero” sulla porta della toilette. Io rapisco in qualche modo la loro discreta curiosità e me ne accorgo perché muovendomi, è come se mi muovessi dentro una circonferenza invisibile, spostando lo sguardo di quelli toccati mentre passo ciondolando. Nel tempo in cui sono sul terrazzo, sorseggio il caffè bollente, con i gomiti poggiati sul passamano della balaustra, cercando giù, nella direzione del fondovalle, il movimento di mezzi per avere un’indicazione sul posto dove sarò tra poco. Ripenso a quella sorta di curiosa indifferenza, meditando su ciò che è reale o frutto della mia immaginazione e così, mi giro provando a fissare per un po’ gli occhi delle persone, verificando di non riuscire a incrociare lo sguardo di nessuno. Forse sono una serie di casualità a determinare questa fissazione, termino il caffè e guardo la barista e solo lei, forse sentendosi osservata, alza gli occhi aprendo un sorriso cortese, ricambiato salutando prima di andare alla bici per riprendere a macinare copertoni. 164
Se la salita era stata bella, la discesa giù per i curvoni verso Engen (traducendo significa Vicino) mette allegria. (Play Virtual-Insanity-Jamiro Quai). Ascolto musica compiacendomi del vento caldo che arriva addosso senza fare alcuna fatica, controllo la velocità pinzando frequentemente sui dischi e in tre chilometri arrivo sul piatto di una pianura, o meglio, un falso piano che consente una media di venticinque l’ora con punte di trenta senza fatica. Le gambe sono toniche, il panetto di muscolo sulla coscia è sempre più robusto e le venature più spesse. Non le sento affaticate, prevale un segnale d’intorpidimento muscolare che s’irradia dalle cosce, giungendo al polpaccio, invece di un fastidioso pungere localizzato, che arriva quando le energie calano e il corpo chiede riposo. Sto pensando a come e dove terminare la giornata, se fermarmi a Costanza o proseguire lungo la costa del lago per passare ad affrontare le Alpi. Il nome, il solo pensarlo spinge adrenalina, contenuta meditando a quando ho provato lo stesso brivido prima di scalare il passo della foresta nera. Foresta che ora ha lasciato il posto a prati molto più estesi, ad abitazioni, diventate agglomerati urbani con più rilevante frequenza. Consultando la mappa, durante una brevissima sosta per dissetarmi, adocchio le linee di navigazione che attraversano il lago partendo da Costanza per approdare sul lato est a Friedrichshafen. Sarebbe bello se fosse possibile caricare la bicicletta e compiere una piccola crociera per consentirmi di tagliare cento chilometri di lungo lago. Sul ruolino di marcia sono una giornata intera di pedalata e devo iniziare a pensare a come gestire il tempo rimasto per arrivare a casa. Riprendo avvicinandomi a una montagna di origine vulcanica che si erge appartata, come molte altre nella pianura, a 644 metri di altezza sul livello del mare e dalla cui sommità si domina la vallata. Ospita il castello di Hohentwiel che con i suoi nove ettari è una delle più estese rappresentazioni di fortezze in rovina di tutta la Germania. I pendii sono ricoperti da arbusti e alberi di tiglio, formando di nuovo una fitta e impenetrabile vegetazione, regno incontrastato dei ghiri. La passo sul fianco sinistro e arrivo a Singen (in tedesco, cantare) una città ospitante numerosi opifici industriali legati al marchio Maggi, nome di un inventore, padre tra le altre cose del dado da brodo, derivato da sfarinati di legumi 165
ricchi di proteine. Interessante la storia di Giulio Maggi, questo pioniere dell’industria alimentare, figlio di Michele Maggi, emigrato dalla Lombardia per andare a stabilirsi a Zurigo, dove costruì e si occupò di un mulino. Alla morte del padre brevettò il dado di glutammato, entrando subito in una controversia giuridica con quello a base di estratto di carne “Liebig”, dimostrando infine la diversa origine della materia prima. In Singen organizzò la prima fabbrica occupando sette addetti che lavoravano alla produzione e imbottigliamento di salsa per insaporire minestre, la Wurze Maggi, progredendo poi nell’acquisto di una birreria, trasformata più avanti per le esigenze della fabbricazione di diversi prodotti del marchio, impiegando duecento persone. L’industriale creò un sistema integrato di assistenza per i suoi addetti, adottando misure sociali, fornendo loro case, scuole per i figli, stipendi adeguati e sostegno sanitario. Trasferì una parte dei suoi interessi anche in Francia lanciando sul mercato il latte pastorizzato, limitando sensibilmente il rischio di contrarre il colera e altre infezioni, dovute alla deteriorabilità del prodotto e per questo ricevette nel 1907 il riconoscimento della Legion d’Onore francese. Visse gli ultimi anni della sua vita a Parigi e sulla costa francese. Morì in seguito a un ictus il 19 ottobre 1912 e fu sepolto nel cimitero di Lindau nel cantone svizzero di Zurigo. Con l’avvento della Prima guerra mondiale, essendo la Maggi un’azienda di provenienza tedesca, subì gli attacchi della politica francese riducendo fortemente il suo raggio d’azione e in seguito a una fusione, il marchio entrò a far parte della galassia Nestlè. Singen, è una cittadina di quarantamila abitanti presumibilmente trafficata e per questo motivo, non mi addentro nel centro e considerando sia mezzogiorno, cerco un supermercato per agguantare qualcosa per il pranzo. Nella periferia abbondano i centri commerciali, ho l’imbarazzo della scelta e questa cade sul marchio della grande distribuzione Aldi, perché già in un’occasione vi avevo trovato quello che cercavo. (Play Mrs.Robinson-Chet Atkins) - Passo rasente a un concessionario, espone sul piazzale davanti alle sue vetrine tre aggressive Ferrari 458 Italia, belle da togliere il respiro, estraggo la fotocamera, irrigidisco le braccia per fare un ritratto proprio quando quella gialla accoglie il suo pilota che accende il motore con un ruggito e dopo una breve discesa, sterza a destra per instradarsi con un cupo gorgoglìo, attirando lo sguardo di tutti i passanti. 166
Il capannone del supermercato è la consueta riproduzione fotocopiata di struttura commerciale con annesso parcheggio e individuata una sistemazione sicura per la bicicletta, mi appresto a entrare. L’appoggio su una vetrata vicino l’ingresso, in modo da poterla tenere d’occhio dall’interno del negozio, la lego, sgancio il borsello, lo metto a tracolla e alla luce dei neon inizio la raccolta del cibo, sistemato dentro gli scatoloni sugli scaffali. Rapisco un branco di gamberetti, ghermisco una mozzarella, mi approprio di una scatola di frutta sciroppata, m’incapriccio di una coca-cola, poi capito nell’angolo del pane fresco, dove l’elenco delle specialità da forno è un tour europeo e la mia attenzione è soggiogata dai bretzel. Scelgo veloce, imbusto i fiocchi di pane bruniti ricoperti di granella di sale. Peso, incollo il prezzo e lancio nel canestro blu a ruote proseguendo. Sono in fila alla cassa e penso al chiacchiericcio tedesco della cassiera con i clienti, a come sia vellutata la sua voce e a come sto bene in questo momento. La mente si libera e nel vuoto, affiora la sensazione piacevole di essere parte di qualcosa d’inestinguibile, di questo viaggio vissuto per mio conto, immaginato e pensato senza volerlo condividere con qualcuno, per l’incapacità manifesta di staccarmi da qualcosa che mi appartiene intimamente, governandolo nel bene e nel male. Sono un egoista, un terribile egoista, non riesco a privarmi di ciò che amo, convinto di avere il diritto di gestire, di riservare e vivere in separata sede un’idea. Il viaggio è mio, lo è stato da quando è apparso nella testa e sono qui solo perché lo voglio. Mi appartiene perché è un dono del destino cucito nell’anima, uno straccio lungo mille miglia che non si lacera e non riesco a dividerlo con altri nemmeno se è imposto. È un effimero stato di compiacimento, un esuberante esempio di attaccamento alla bicicletta, all’estasi, a quello che voglio conquistare, a tutto ciò che evito affinché non complichi un gomitolo ordinato da svolgere sul percorso. Sono succube del posto dove sono, di un raccontarmi complicato, di un vivere esaltato, di una morfologia multicolore, di una mancanza esagerata di casa, di un’integrazione perfetta in un momento indovinato. C’è poco da aggiungere: io cercavo la mia piccola avventura e lei cercava me. Anche se a tratti non sembra possibile, anche se appare irreale, mi suggestiona l’idea di essere una mente che cerca completamento e usa tutto quello di cui dispone per trovare il piacere e la gioia di pedalare ingordamente, che vuole bere ogni giorno una bevanda diversa o sempre uguale e saziarsi di qualcosa mai assaggiato prima o del solito cibo, una mente desiderosa di conquistare, possedere, conoscere, chiudendo nel cuore i ricordi più belli per non farli scappare via. Guardo la bicicletta poggiata sulla vetrata rimasta ferma ad aspettarmi. 167
(Play Lei-Aznavour) - Non vanta un titolo mondiale, non propone un biglietto da visita, non è una premessa, una conclusione, qualcosa di passaggio, ora è l’anima all’altro capo della mia anima. Ritrovo unità una volta tolto il lucchetto e legata la borsetta della spesa sotto la sella, posizionandomi sul manubrio, torno in pedalata uscendo dal centro abitato, alla ricerca di un posto dove dare di mandibola al pranzo. Poco più tardi, sul lato sinistro quasi fosse un regalo del destino, scopro un parcheggio che mette a disposizione quattro tavoli con le panche davanti a un corollario di pioppi e arbusti con una fontanella nel mezzo. Lavo le mani e rinfresco il viso con molta calma, sotto il sole rassicurante, poi addento, osservo le macchine transitanti e il volo di una coppia di falchi che fischiano. La sosta diventa lunga, dura più di mezz’ora perché è un’estasi e mi scoccia interromperla, la vivo con calma e con la medesima distensione, prendo di nuovo la via per Costanza. Pedalata lenta, agevolata da una discesa tesa a semplificare ogni gesto, che ingentilisce lo sguardo arrivando sulla riva nord del lago. Avverto l’odore dell’acqua, nelle strette vie di Radolfzell am Bodensee. La cittadina deve il suo nome al vescovo veronese della famiglia Ratoldi, giunto in questi luoghi nell’Ottocento dopo cristo, per evangelizzare gli abitanti, dediti principalmente alla pesca nelle ricche acque dell’invaso. Scruto tra i vicoli per cercare qualche bagliore di riflesso sulla destra ma ancora non sono vicino alle rive, tuttavia le raggiungo frontalmente, dopo aver percorso una leggera curva. Mi omaggiano di una vista incantevole sullo specchio lacustre e quando lo vedo, per l’ennesima volta riabbraccio il mio scopo e la ricerca di acqua si compie. È una sorta di rigenerazione, di purificazione, il riacquistare liquidità per uno come me, abituato ad affacciarsi quotidianamente al golfo sotto casa. Non è mare con il suo profumo di salsedine, ma è proprio questa mancanza di sale a consentire alla vegetazione di imperversare aromatizzando l’aria. È un turbinare di pollini, di lanugine dei pioppi, è un firmamento di stelle rosseggianti sui ciliegi, è l’ondeggiare di erba alta nei prati in fiore, alternanti ai boschi di tiglio, è l’adescamento elegante del profumo di un roseto che fa da sponda sulla sinistra della “radweg”. 168
Sento il mio rinnovamento e ascolto, dapprima leggere e in seguito distinte, le dolci armonie del mio amplesso rotolante, mentre una incontenibile gioia riversa calore sanando ogni stanchezza. Tramortito dalla bellezza incantevole della giornata, seguo le indicazioni sulla pista ciclabile, segnalate a ogni snodo su frecce con lo sfondo marrone, dove leggo il numero dell’itinerario, la distanza per la successiva località e di quella appena passata. Capito davanti a un cartello ragguagliante le caratteristiche del lago Bodensee sul quale si affaccia anche Costanza. Apprendo che il lago, originatosi durante le glaciazioni, è posto a 395 metri sul livello del mare e arriva a una profondità massima di 254 metri. Copre attualmente una superficie di 536 chilometri quadrati, bagnando Germania, Austria e Svizzera. Ormai la direzione appare scontata e viaggio tra un numero sempre più elevato di pedalatori di ogni tipo, età e nazionalità. Si va dalla coppia di pensionati a spasso per i sentieri costeggianti il lago, ai free rider di ritorno da scalate, passando per le folte compagnie di cicloturisti, in ordinata fila indiana a seguire il capo gita come fosse una processione. Metto gli occhiali sulla testa per compiacermi pienamente dell’incrocio di movimenti contrari senza sosta. Fisso l’immagine di una barca a vela comparsa sul lago dopo una macchia di cipressi, la seguo mentre incide una traccia sul placido risplendente, fino a quando filando, scompare dietro ai pioppi. Questi, rimandano al cielo, dove la pancia di un aereo plana fischiando cento metri sopra la testa, scomparendo dietro la torsione del collo. Rapito ancora a sinistra, dallo sguardo corrucciato di un locomotore che sferraglia arrogante e trascina sulla ferrovia, vagoni a decine. Poi passa una pattinatrice trainata da un labrador, quindi, una biciclettina rosa confetto con le rotelle condotta da una mini-ciclista con un caschetto enorme allacciato sulla testa, seguita dal padre ciondolante come un tuareg su un cammello, sopra una bicicletta con ruote da ventinove. Sono le quindici e trenta quando mancano una decina di chilometri per il centro della città, una sciocchezza se paragonati alla distanza finora percorsa, captando quanto il soprasella abbia bisogno di riposo, di staccare dallo sfregamento compulsivo. (Play Wah Wah Blues-Earl Hooker) - Ora passo davanti a una delle tre isole del lago, quella di Reichenau, debitrice del suo nome all’abbazia benedettina fondata nel 724 dal vescovo itinerante san Pirmino. La Bodenradweg (la pista ciclabile) si mantiene parallela alla ferrovia addentrandosi alle spalle dell’urbanizzazione, esplosa improvvisamente tutto attorno. È un cammino racchiuso, diventa noioso 169
e claustrofobico perché stretto tra la rete delimitante la sede ferroviaria e i giardini sul retro delle villette, pertanto giro a destra, immettendomi sulla “Reichenaustrasse”, la viabilità ordinaria larga come un’autostrada, con tre corsie per senso di marcia, avvicinandomi infine sulla riva nord del Seerhein, un emissario del lago di Costanza lungo quattro chilometri. È il primo tratto del fiume Reno, ritrovato dopo averlo incontrato a Strasburgo, e a breve distanza il suo corso si romperà in spettacolare cascata a Schaffausen. Sgorga in prossimità del confine con l’Italia e dopo aver serpeggiato tra le montagne svizzere con la denominazione di Reno alpino, si introduce nel lago dalla costa meridionale. Qui, su questa riva del Seerhein, le persone sono stese al sole, si tuffano nelle acque tranquille e limpide. Un gruppo di ragazzi seduti a gambe incrociate sui plaid, sorseggia vino, fuma, gioca a carte e mangia all’ombra di un enorme salice piangente carezzante il fiume con le fronde più sottili. Osservo il sincronismo dell’equipaggio di canottieri voganti su un quattro di coppia e il ritorno di un singolo controcorrente lanciato dentro il lago. Riaggancio le scarpe ai pedali e tornando alla gita, incappo nella maestosità del minareto di trentacinque metri, a lato della moschea Mevlana. Annuncia l’edificio religioso affiancato da un piccolo centro commerciale, che ospita un bazar, un negozio di materassi e un bar-kebab. È un immobile semplice con il minareto bianco e le restanti pareti dipinte di verde. La collettività di Costanza è attenta al dialogo interreligioso e considerando che la comunità islamica disponeva soltanto di un cortile per riunirsi in preghiera, ha concesso uno spazio per costruire un edificio adeguato. La moschea è stata inaugurata nel 2001, ma a causa di copiose perdite del tetto nei giorni più intensi di pioggia, ha subito una corposa ristrutturazione terminata nel 2013. Non avevo ancora visto una moschea in suolo europeo, e sebbene mi avvicini curioso, cercando un ingresso per visitarla, non trovo nessun varco aperto. Proseguo immergendomi nuovamente nello stile più propriamente continentale degli edifici e arrivo al ponte, che attraversando il fiume Seerhein, porta alla strada del Concilio, nella parte storica a sud della città.
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Prima di passare dall’altra parte, mi arresto per rubare immagini agli edifici posizionati di fronte al lago che avvicinando linee gotiche, romaniche e barocche compongono un delizioso insieme art-nuveau d’inizio secolo. Poi scendo sul tornante che porta nella parte ciclabile sottostante il ponte per sbucare dall’altra parte risalendo una curiosa salitina a spirale fino a sotto la torre delle polveri, un edificio a pianta quadrata, una delle tre torri superstiti dell’antica cinta muraria della città, posto a guardia del fiume. Proseguendo sulla strada del Concilio, incrocio una pensilina in stile orientale e dirigendomi al confine con la Svizzera, transito davanti alla stazione dei treni, l’ultima del tragitto della ferrovia della Foresta Nera. L’edificio è simmetrico, con una torre da quaranta metri al centro e sei ordini di arcate laterali, concluse con due imponenti edifici in pietra a perfezionare l’insieme. È un continuo arrestarmi e partire, per salire o scendere un gradino, per evitare un pavè troppo sconnesso, per guardare, contemplare, fotografare. Sono parte di un insieme in movimento e nel folle rotolamento collettivo, sgancio i piedi dai pedali per una pausa umanizzante. (Play Whising On A star-Rose Royce) - Torniamo a essere lei biruota, poggiata stancamente allo schienale della panchina ed io bipede seduto a sgranchire il corpo troppo abituato alla postura da ciclista. Senza gli occhiali, senza le cuffie, senza pedali, assorbo l’essenza di quel momento, di quella calura umida, catturando rumori di traffico e vociare di persone a passeggio, l’odore gommoso di grasso da barca o di treno, oppure il profumo portato da chissà quale forno ad accendere la voglia di un pezzo di pane da addentare. Chiedo in prestito alla bicicletta, il telefono alloggiato sul manubrio per andare a organizzare mentalmente il seguito, anche se non ho nessuna voglia di schiodarmi dalla seduta. Sono le sedici e dieci e ho percorso ottantacinque chilometri restando in sella circa sei ore e mi pare di capire di essere in un luogo di villeggiatura che non concede sconti per le sistemazioni della notte. Se proseguissi, avrei da circumpedalare il lago e la situazione di sistemazioni extralusso non muterebbe più di tanto. Sarebbero altre ore di sella e di Costanza avrei visto ben poco, fuggendo dalle sue attrattive per arrivare poco distante. Controllo il costo degli alberghi della zona e sono cifre spaventosamente alte, tranne per un ostello in direzione della moschea. 171
Le immagini lo presentano elegante, proponendo comunque un posto in una stanza da otto per venticinque euro. Si dirada la nebbia nel cervello, i dati da incrociare e confrontare brillano, organizzando una scaletta. Decido di puntare per prima cosa al porto per vedere se ci sono trasporti per attraversare il Bodensee assieme alla bici il mattino successivo. Ecco arrivata la molla, si carica e scatta spingendomi fuori dalla catarsi! Riorganizzato immediatamente, tutto diventa irrilevante, ogni suono, ogni colore si spegne fino a quando arrivato al porto entro nella biglietteria per chiedere informazioni. Sembra non ci sia nessuno ma quando sfrego il campanello sul bancone appare il genio dello sportello che soddisfa il mio desiderio, dicendomi che alle sette e mezza del mattino partirà il catamarano veloce, per arrivare a destinazione dopo cinquanta minuti a Friedrichsafen, al modico costo di dieci euro venti per me e quattro euro e sessanta per la bicicletta. Bene, il genio dello sportello si dissolve alle mie spalle con l’uscita dalla biglietteria e con il primo significativo desiderio esaudito, schizzo immantinente verso l’ostello, che svela il trovarsi alquanto distante. La struttura è come da foto, quella di un moderno albergo di lusso, la reception è solenne come l’interno di una cattedrale, arricchita da una vetrata enorme sul vasto piazzale e le scalinate ampie, illuminate da giochi di luce che arrivano alla balconata dei piani superiori. Lo stile del ristorante dell’albergo Aqua si rifà al mondo della pesca da lago, collocando nasse e reti sul soffitto ed è abbellito da lampade antiche. Riproduce alle pareti bellissime onde che sembrano frangersi sul pavimento di legno di betulla grigia del locale. Entro in punta di piedi chiedendo alla ragazza alla reception se dispongono davvero di un posto letto a venticinque euro e lei prontamente conferma chiedendo se sono interessato. Compiaciuto, fisso immediatamente il posto, colpito dal suo elegante fascino. La ragazza pigia tasti a ripetizione, il suo viso vive delle sfumature proiettate dal monitor, mentre roteando il capo sul collo, compio una panoramica per contemplare la vasta sala. Pago con il bancomat, ricevo la chiave elettronica e la biancheria per il letto, mi accompagna al ristorante e arricchendomi le mani col menù, illustra le specialità, facendo notare che le pietanze, sebbene di alta qualità, sono nel contempo economiche e vengono servite a preferenza dentro il locale oppure fuori nel giardino, dove posso, se interessato, assistere alla
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partita dell’Italia. Sono senza parole, annuisco, e nella mia testa si organizza il seguito della visita. Una volta nella stanza, mi presento ai miei compagni di camerata. Ci sono una coppia di belgi e due ragazzi americani di Minneapolis che stanno girando l’Europa a piedi, scambiamo due chiacchiere per raccontare i posti toccati e le successive mete da raggiungere. Infine, deposito i bagagli nella rete sottostante il mio giaciglio, scendo nello spiazzo dalla mia bella bicicletta che aspetta scarica, dirigendomi una volta in sella, nuovamente verso Costanza per un giro turistico di un paio d’ore. La bicicletta scarica scatta ed è una meraviglia ciondolare in giro. Senza indugi, dirigo verso il confine con la Svizzera. È strano arrivare a un confine presidiato dalle forze dell’ordine, pare di tornare indietro, agli anni del confine con la federazione jugoslava, periodo di netta divisione tra paesi, culture e ideologie. Sotto la tettoia campeggia l’insegna “ZOLL”, verificano i documenti e aprono i bagagliai delle macchine per un rapido controllo. Un gendarme mi fissa e poi con un cenno del capo concede il passaggio. Arrivando al confine svizzero, si ripete l’uguale procedura. In buona sostanza, in Svizzera poco varia, la lingua è la stessa, le indicazioni stradali cambiano di un niente, l’aria ha lo stesso profumo e temperatura, il contesto osservato guardando verso la Germania mi mette a disagio perché è un breve allontanarmi in posizione di fuorigioco, pertanto dopo aver consumato un caffè svizzero e acquisito il diritto di piantare la bandiera rosso-crociata sul posteriore della bici, torno in terra tedesca per iniziare il mio giro di Costanza. Offre scorci pittoreschi di rilievo come quello dell’edificio che fu di proprietà dell’inventore del dirigibile e adesso ospita il “Graf Zeppelin hotel restaurant”, completamente affrescato con stemmi della casata prussiana e figure cittadine. Proseguendo verso il centro mi imbatto nell’austera torre con l’orologio, la Schnetztor, un’altra torre dalla quale si accedeva all’antica città medievale, e a pochi passi, l’elegante casa a graticcio costruita nel 1899, ospitante al piano terra una farmacia che presenta una particolare torre d’angolo finestrata, terminante con una guglia alta e appuntita ricoperta di piastrelle smaltate verdi, rosse e gialle con altri tre pinnacoli che 173
s’innalzano dal tetto. Spingo la bicicletta a mano per ridurre ancora la velocità ed esplorare meglio i vicoli che riecheggiano del tacchettare delle scarpe, arrivando nella zona del porto dove gli spazi si allargano a dismisura giungendo a lambire le acque del lago. (Play Sleep Away-Bob Acri) – L’edificio del Consiglio è in bella vista sul litorale del lago di Costanza. I tre piani della massiccia costruzione in pietra con un tetto a padiglione sono stati eretti nel 1388 e destinati a essere usati come magazzino per il transito delle merci. Prende il nome attuale, durante il Concilio di Costanza del 1417 quando si tenne il conclave per l'elezione di papa Martino V. Oggi, è il più grande e meglio conservato edificio medievale secolare nel sud della Germania e viene chiamato dalla popolazione locale semplicemente "Consiglio". È adibito dal 1912 a oggi, a ristorante, sala banchetti e centro conferenze. Il consiglio tenutosi in Costanza dal 1414 al 1418, aveva lo scopo di porre termine allo scisma d’occidente, iniziato nel 1378, sconvolgendo la cristianità, con l’elezione di papa Urbano VI. I cardinali sostenenti Clemente VII, contestarono fortemente l’elezione della maggioranza e nominarono anche quest’ultimo papa, creando di fatto, l’antipapa e posero la sua residenza ad Avignone. Per rimediare allo scisma, nel tentativo di risolvere la grave crisi del papato, si aggiunse l’elezione di un ulteriore papa destinato a sostituire i due precedentemente incaricati. Nel concilio di Pisa, fu nominato Alessandro V ma questo, finì per aggravare ancora di più lo stallo con un terzo papa, creando caos a ogni livello politico e religioso. Il risolutore della controversia fu il Sigismondo, futuro imperatore del Sacro Romano impero che sancì l’inizio del concilio di Costanza. Furono destituiti con stratagemmi giuridici i tre diversi papi che nel 1414, dopo le successioni, erano Gregorio, Giovanni e Benedetto. Le accuse furono per tutti simili: scisma, eresia, spergiuro e simonia. I cardinali riuniti nell’edificio protetto militarmente, elessero papa Martino V e promulgarono nuove regole per evitare scismi nel futuro. Dal Concilio scaturirono anche le condanne di morte sul rogo per gli eretici e il più noto fu Jan Hus teologo e riformatore religioso boemo, nonché rettore all'Università Carolina di Praga.
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Jan Hus è considerato il primo riformatore cristiano della storia, essendo vissuto prima di Lutero. Promosse un movimento religioso e andava denunciando la corruzione e i crimini della Chiesa cattolica e per questo motivo fu scomunicato nel 1411. Venne invitato a Costanza sotto la protezione di un salvacondotto del futuro imperatore ma fu infine imprigionato e condannato a morte dai membri del Concilio di Costanza e arso vivo il sei luglio 1415. Mi smarrisco in questo viaggio a ritroso nel tempo, sembra di pedalare in una dimensione senza asfalto, immagino la lotta di potere vestita di sacralità, capace di decidere della vita e della morte terrena, tralasciando la spiritualità. Trascinato a ipervelocità nel presente, torno a oggi quando nulla è cambiato nella sostanza e basta poco a creare un qualsiasi pretesto per spaccare l’opinione pubblica. Volgendo lo sguardo ancora verso l’azzurro del lago, non posso fare a meno di notare Imperia, una statua alta dieci metri e pesante diciotto tonnellate, realizzata in calcestruzzo dallo scultore tedesco Peter Lenk Bildhauer . Dal 1993 domina l’ingresso del piccolo porto, sottolineando quanto siano ancora attuali gli eventi all’epoca del Consiglio. Imperia la provocante bellezza, gira intorno a sé senza pausa ha un seno prorompente, a malapena celato dalla vestaglia slacciata dalla quale sfugge la pancia tonica e una gamba nuda. La scultura di Imperia raffigura una famosa cortigiana ferrarese il cui vero nome era Lucrezia de Paris, molto colta e apprezzata dai più influenti intellettuali a lei contemporanei. La donna, nata a Ferrara nel 1485, non visitò mai Costanza e poco ha in comune con la prostituta descritta nel romanzo del 1837 di Balzac “La belle Impéria mariée”. Ai tempi del Concilio Papale, la città ospitò circa trentamila uomini, laici e religiosi, trasferitisi qui insieme ai loro seguiti e per l'occasione, anche un grande numero di cortigiane era presente in città. Nel testo dello scrittore francese, Imperia è la donna che seduce e controlla i partecipanti al Concilio di Costanza, siano principi o cardinali, tenendo in scacco i due piccoli uomini che avrebbero dovuto essere le personalità più eminenti di questo concilio.
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Infatti, il monumento regge sulle mani, portate in alto, Papa Martino V e l’Imperatore Sigismondo. Entrambi sono rappresentati con dei corpicini nudi, con la tiara e la corona poggiate sulle loro teste, rendendoli pertanto quasi ridicoli. L'installazione della statua aveva causato qualche subbuglio in città. Collocata di notte, era stata scoperta al momento dell'inaugurazione dinanzi al consiglio comunale rimasto malamente stupito, che pretese l’immediata rimozione della provocante bellezza. Si era dell'avviso che la scultura fosse controproducente per l'immagine della città e neanche la chiesa era particolarmente divertita della nuova presenza nel luogo. Ma gli abitanti l'avevano subito spontaneamente accettata e oggi non si pensa più, nemmeno lontanamente, a rimuoverla. Mi avvio verso il luogo del ritiro, sono arrivate le otto di sera, la luce cala consumata dal tramonto, e in direzione dell’ostello, nella corsia ciclabile chiacchiero al telefono con colei che non pedala raccontando qualcosa di ciò che ho visto e raccolto, delle sensazioni provate attraversando il confine, senza dilungarmi eccessivamente per evitare di oltrepassare il limite giornaliero del bonus minuti. È rassicurante dialogare con una voce amica, prendo la mia dose d’incoraggiamento e ne uso una parte per limare uno spigolo di solitudine, saluto poco prima di parcheggiare la bicicletta e giunto nella stanza momentaneamente vuota, preparo il “necessaire de toilette” per una doccia veloce e con una rasatura, elimino l’imbarbarimento. Scendo nel giardino del ristorante, dove è stato acceso uno schermo da cinquanta pollici dal gestore dell’ostello che attende impaziente l’inizio del match, regola il volume, tira una tenda, sposta lo schermo, sistema la platea di sedie. Ho modo di accomodarmi nel posto più favorevole, a un tavolo appena un po’ laterale al centro delle immagini con un audio effetto cinema, rombante un po’ più in su del pavimento in ghiaia. La cameriera porge una lista, dove spicca il nome della specialità odierna, gli Spatzle, i gnocchetti tedeschi e senza indugio ne ordino un piatto, evitando così di dovermi destreggiare tra nomi aventi la necessità di essere 176
tradotti in immagini prima di essere trasformati in acquolina. Mentre aspetto la cena, si riempiono ancora due tavoli poi il fischio dell’arbitro sancisce l’inizio delle ostilità. (Play Waka Waka-Shakira) - Sono scettico perché deluso dalla precedente partita della nazionale, lenta e impacciata, attenta più all’immagine che rende ricavi pubblicitari ai singoli che a un collettivo di calciatori disposti a lottare su ogni pallone. Prandelli manda in campo cinque difensori per una monumentale prova di catenaccio. E il primo tempo trascorre con pochi sobbalzi di rilievo, Buffon salva la porta, Pirlo sembra una ballerina della scala, Balotelli è uno spettro senza struttura fisica. Non ho nemmeno la scusa di una bevuta per giustificare un travisamento di quello che sto guardando. Nella ripresa l’indecente Balotelli resta nello spogliatoio sostituito da Parolo, Marchisio prende il rosso e se fino allora l'Italia era chiusa in difesa, in dieci si cominciano a vedere palloni sparati in avanti, quando non in tribuna. Immobile non è ancora in grado di far reparto offensivo da solo, e allora Prandelli lo cambia con Cassano, il cui contributo sarà soltanto folklore. E quando si fa male Verratti, uno dei pochissimi azzurri votati a giocare a calcio sul serio, anziché in difesa sarebbe meglio chiudersi in preghiera e castigando l’anticalcio italiano, l’Uruguay passa in vantaggio con un gol di Diego Godin. Suarez rifila un morso sulla spalla di Chiellini, dimostrando come nel calcio, s’impone chi ha più fame e voglia di vincere e a poco servono le rimostranze postume, perché la nazionale esce a testa bassa, diretta all’aeroporto e in volo già si disgrega quando i singoli firmano via mail contratti milionari con i club di mezza Europa. Poco amore, poco attaccamento alla maglia, allo scopo, poco rispetto per il ruolo di cui sono stati rivestiti. Fossero stati ciclisti nella mia Mille Miglia, si sarebbero fermati a Londra. I clienti del locale che hanno guardato con me, non sono italiani, non commentano, scuotono la testa sconsolati perché questo tipo di calcio riveste troppo frequentemente i professionisti del pallone e al fischio finale, tutti, me compreso, sono contenti che questa squadra non faccia più parte del torneo. Il piatto era buonissimo, meritava di sicuro più attenzione invece di farmi distrarre dalla bolla di sapone dissoltasi in Brasile. Rientro in camera prendendo la via della branda con un pensiero di meno, certo che non influirà sulla mia resa e la convinzione di essere sportivamente e non, molto più serio di quel tipo di calciatori, ai quali piace apparire per stupire, essere per piacere. Sistemo le carte della navigazione del giorno dopo, allaccio i caricabatterie, e prima di addormentarmi immagino la traversata in battello, la sponda est del lago e il
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saliscendi preannunciati dalle mappature altimetriche. Sono pensieri intensi, ma si spengono con un click. - (Play Polonaise-Shigeru Umebayashi)
Mercoledì 25 giugno 2014 (Play Baby i Love Your Way- Big Mountain) - La luce azzurrognola penetrando nella stanza dalla finestra attiva la fotosintesi delle retine che dormono coperte dalle palpebre. Sono le sei e venti del mattino, in anticipo di poco sulla sveglia regolata alle sei e mezza, e approfitto per riallacciarmi immediatamente alla realtà dopo un breve ma erculeo stiracchiamento. La preoccupazione di non riuscire a prendere il traghetto ha innescato una sorta di meccanismo, una vigilanza ipnotica, in grado di produrre una sveglia in orario e il mio essere prontamente operativo. Niente doccia questa mattina, per non disturbare gli altri ospiti sdraiati a dormire e uscire velocemente dall’ostello, tant’è che sono frettolosamente giù con i bagagli, monto in sella e infine mi indirizzo sulla ciclabile per transitare ancora 178
davanti alla moschea. Percorso il ponte del Seerhein, giungo infine alla biglietteria del porto in largo anticipo sull’orario di apertura. Ne approfitto per fare colazione al Pano-Brot&Kaffee, un locale che funge da rivendita di pane e serve colazioni, dalla continentale alla mia classica, costituita da cornetto e cappuccino, in un’ambientazione a cuore di faggio che propone banchi peni di candele, confetture artigianali e piccoli articoli da regalo. Su ogni tavolo sono sistemati bicchieri con una rosa a profumare il mattino e accomodato su uno sgabello con la seduta rivestita di morbida pelle, raccolgo un’energia limpida e serena cercando di cogliere almeno una parte della miriade di dettagli proposti dal locale. Arrivato alla biglietteria, acquisto i titoli di viaggio per me e la bicicletta, facendomi indicare il punto di approdo del catamarano e dopo avere aspettato un paio di minuti, lo vedo arrivare e attraccare al molo. Aspetto la discesa di tutti i passeggeri, presentandomi all’imbarco. Il capitano mi squadra dalla testa ai piedi e con un’aria altezzosa e arrogante mi comunica che non è concesso portare a bordo la bicicletta. È un uomo di media statura, gonfio, con la divisa verde petrolio perfetta e stirata che rischia lo strappo a ogni movimento, i bottoni cromati sulla giacca gridano a ogni suo respiro, ha un ciuffetto di capelli schiacciati dal frontino del suo cappello militare e le guance che sugli occhi si trasformano nelle lenti di un occhiale RayBan aviator. Da sotto i baffi, la bocca emette un chiaro effluvio d’aglio. Rimango interdetto e chiedo spiegazioni avendo pagato anche per il mezzo, ma ribatte chiarendo che alla biglietteria si sono sbagliati. Il tempo stringe, tra cinque minuti la barca riparte ed io voglio a tutti i costi salirci sopra. Schizzo rapidissimo alla biglietteria, salto la fila di persone in attesa del proprio turno e in modo molto concitato e nervoso, faccio le mie rimostranze all’impiegato che ha emesso il biglietto. L’impiegato appare stupito, e nemmeno lui capisce il motivo del rifiuto del capitano a farmi salire con la bicicletta e scusandosi con gli altri clienti, mi accompagna fuori per parlare con il prototipo di top-gun. Confabulano in mia presenza, l’impiegato, esibendogli i biglietti spiega che è tutto regolare e la compagnia di navigazione consente il trasporto. Il capitano con le mani intrecciate dietro la schiena, ha un sobbalzo sulle punte dei piedi e chiede furbescamente da quando. L’impiegato con i biglietti in mano 179
abbassa le braccia stizzito e capisco chiaramente il suo invito a smettere di fare avanti l’idiota. Come se dovesse gioco forza attenersi a una nuova direttiva, il capitano allarga le braccia e poi seccato m’invita a salire velocemente a bordo perché il catamarano deve ripartire. Lo fisso truce per fargli capire quanto vorrei gli cadesse un fulmine sulla testa rispondendogli “Grazie” in un italiano chiaro e scandito, poiché sospetto che il suo sia stato uno sgarbo per la scritta portata sulla maglia. Il campione dei generali da lago non si scompone andando a occuparsi delle faccende attinenti al suo lavoro mentre un marinaio di bordo lega la bicicletta all’apposito stallo. Fortunatamente parto in orario, ho raggiunto lo scopo e salvo un inverosimile naufragio su questo lago pacifico, tra poco meno di cinquanta minuti sarò sulla sponda est del Bodensee. Il generalissimo è chiuso in plancia e avendo già dimenticato il nervosismo mi concedo la rilassante seduta a poppa del “Ferdinando” per dare un ultimo saluto a Imperia che mi rivolge le spalle. Scambio quattro chiacchiere con un’elegante signora incuriosita dalla mia bicicletta. Chiede la destinazione del mio giro ed io del suo. È un avvocato svizzero, parla in un ottimo italiano e oggi deve rappresentare gli interessi di una sua cliente a Friedrichshafen, confessandomi di coltivare la passione per le passeggiate in bicicletta, anche se un viaggio lungo come il mio le incute timore. Le confido che un viaggio di questo tipo, in fondo, è una questione di tempo, di pazienza, e la fatica è una componente ma non lo scopo, ammettendo che le gratificazioni talvolta non sono garantite. Nella mente transita il crescendo costante di un microcosmo in espansione di dettaglio in dettaglio, poi le racconto di quanto sia difficile per me il tedesco, ma non si scompone e rassicurandomi proferisce che è come tutte le altre cose, con il tempo lo si comprende e ci si appassiona. La chiesa di San Nicola, sfilando con la sua bella e corpulenta torre campanaria, annuncia il nostro arrivo a Friedrichshafen e dopo aver salutato l’avvocato rientro in possesso della bicicletta sbarcata dal marinaio. Guardo attorno per entrare in contatto con la porzione di territorio che mi attende, intravedendo anche la legale sedersi sul divano posteriore di una grossa mercedes insieme agli attori della causa che va a dibattere. La porta la chiude il solerte autista, nel medesimo istante in cui il pedale cattura la tacchetta della scarpa sinistra per l’imminente giro di pedali.
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Nei pressi del porto, incappo nell’ex stazione marittima diventata sede del museo Zeppelin, che ospita la più grande collezione al mondo di documenti storici e oggetti riguardanti i dirigibili. Questa città deve molto a Ferdinand von Zeppelin. Nato nel 1838 nell’ex convento domenicano di Costanza, frequentò la scuola militare di Ludwigsburg e diventò tenente nel 1858. Nel 1859 fu chiamato alle armi, nel corpo del genio, e partecipò dal 1863 alla guerra civile americana come osservatore. Dopo numerosi conflitti, nel 1891 fu congedato in qualità di tenente generale e nel 1906 fu promosso a generale di cavalleria. Diede il via a un importante e vasto processo di industrializzazione per sviluppare la sua idea del dirigibile, dapprima usato nell’aviazione civile tedesca. Con 1500 voli e 35.000 passeggeri trasportati senza alcun incidente, venne infine rivolto a un uso marcatamente militare e impiegato nella Prima guerra mondiale come bombardiere. Zeppelin, morì nel 1917 a Stoccarda prima della conclusione del conflitto lasciando un’eredità tecnologica di prim’ordine, fino al superamento del mezzo con i più efficaci aeroplani e il declino culminò con l’incidente disastroso dell’Hindemburg, incendiatosi negli Stati Uniti. La successiva fine della Seconda guerra mondiale mise la parola fine a molti dei settori industriali, in precedenza avviati allo scopo di rifornire l’esercito tedesco di materiale bellico. Affascinato dalla storia di questi luoghi, scatto un paio di foto al museo costruito accanto al “K42”, un centro socioculturale in vetro e acciaio affacciato sul lago, e alla riproduzione in miniatura di un dirigibile in acciaio con una scaletta abbinato al classico scivolo per bambini. Dispongo di due dirigibili circolari di gomma nera attorno ai cerchioni e fremono impazienti di inoltrarsi in Algovia, la regione geografica che in tedesco medievale significava “distretto dell’alpeggio”, comprendente anche Füssen, l’ultima località tedesca del mio peregrinare prima di passare il confine con l’Austria. La rotta è semplice, non servono calcoli e orientamenti complicati, le tappe di oggi sono inserite in una vallata tra le dorsali montuose che puntano a est per arrivare al castello di Neuschwanstein, l’onirico traguardo di questo viaggio nato davanti alle immagini fiabesche che lo ritraggono nella sua perfezione. Colmare la distanza di centoquindici chilometri è eccessiva considerando la presenza delle salite da affrontare, quindi, anche se non pongo una meta 181
obbligatoria, sono conscio di dovermi fermare nei paraggi di Kempten im Allgau, distante circa ottanta chilometri. (Play Shine-Aswad) - Immesso sulla Strada L333 verso Tettnang, ho una segnaletica chiara ed esaustiva. Lunghi tratti sono a bordo della statale e altri in ciclabili con sede propria nei quali posso rilassarmi ascoltando musica e gioire di una prospettiva pennellata di verde e azzurro. Ogni casa è un’opera d’arte, i recinti non chiudono, ma come cornici esaltano quello che contengono, sia un prato per il pascolo delle mucche oppure il giardino fiorito a lato di una chiesa. Strano viaggiare da soli. Libero di andare, di tornare, di fermarmi senza attenermi alle necessità di qualcuno. Quasi come nella vita di sempre, quella di tutti i giorni. Quasi… Nuovamente isolato tra panorami adatti a stendere pensieri, in questo segmento di viaggio, incontro lady fatica e mister organizzazione con le più buone intenzioni di arrivare a Füssen, per completare un percorso tra le mie fissazioni romantiche. Sono attratto dal principio dell’essere libero come voglio comparire, finalizzando una fantasia evoluta in reale, unendo uno scopo e un motivo, quello di espandermi e conquistare o al meglio quello di evitare di annichilirmi. Non sono un ciclista, non sono un turista, ma un ciclonauta e adesso spingo pedali per ansimare come i protagonisti di incontri appassionati. Adesso durando a lungo la salita, senza limiti di tempo stringenti e non dovendo dimostrare ad altri qualcosa, testo la mia resistenza cercando di portarla oltre limiti già raggiunti. Arrivando poi sul dritto guardo e annuso, mi calmo e filmo, fotografo posti e assaggio colori da non scordare, da metabolizzare. La mia bicicletta veicola il mio fiatone, il mio sorriso, le mie strette di mani, il mio parlare italiano dove non lo capiscono, cercando di renderlo internazionale nell’algebrico sottrarre e sommare vocaboli stranieri. Sulla bicicletta non trovano spazio infinite finzioni, non porto corazze ma mappe da scorrere con il dito e borse pesanti piene di vestiario per la pioggia che spero non scenda. Tettnang, viene immediatamente incontro proponendo edifici in stile rinascimentale tedesco di pregevole fattura. M’inerpico su una salita assorbendo a ogni giro di pedale i dettagli di un borgo che sembra restaurato integralmente da pochi giorni. 182
Ci sono tre castelli che in diversi periodi hanno ospitato i membri della nobile famiglia dei conti di Montfort: il nuovo palazzo, uno dei più belli della Svevia, il palazzo vecchio, ora sede del municipio e il Torschloss, ospitante una scuola e il museo civico della cittadina. Davanti a quest’ultimo, mangio un bretzel al burro preso in una backerai sulla Karlstrasse e seduto su una panchina resto affascinato anche dall’hotel ristorante Rad, un robusto edificio a graticcio d’epoca, costruito nel 1585 dal principe Thurn und Taxis. Destinato a ufficio postale, ben presto divenne una locanda e ospitò illustri personaggi come ad esempio la zarina di Russia. Uscendo dall’abitato cerco di tornare subito sulla Strada L333 smarrendo la via in un intricato dedalo di viottoli di campagna inerpicati sui colli e da subito appaiono fuori da quelli inquadrati nelle altimetrie delle mappe, costringendomi a faticare un bel po’ per ritrovare la giusta direzione. Finalmente si suda, il caldo aggredisce e tonifica i muscoli rendendoli pronti agli sforzi sulla salita che trascina in alto con proverbiale costanza. Poco dopo raggiungo l’abitato di Wangen im Allgau, situato nella parte sudorientale del Land del BadenWürttemberg, nel circondario rurale di Ravensburg, altro esempio di perfezione e pulizia. Il selciato è stato da poco sostituito e in alcuni punti sui marciapiedi si rivelano ancora tratti da completare. Wangen è oggi formata dalla fusione del suo centro storico con i suoi sobborghi più vicini e sorge sulle rive del fiume Argen superiore, a poca distanza dalla confluenza con l'Argen inferiore. Trovandomi davanti all’ingresso di un punto vendita della catena “Muller”, entro per vedere se riesco a soddisfare il desiderio di acquistare i dvd dei film parodia “Siben Zwerge” (sette nani) visionati nella stanza d’albergo di Neufchâteau. Senza dover perdere tanto tempo scartabellando tra le mensole ridondanti di titoli, mi rivolgo a un commesso che divertito dalla mia inusuale richiesta, si lancia fuori dal banchetto della cassa diretto verso lo spazio dedicato ai film in promozione trovando entrambi gli episodi per un costo totale di dieci euro. 183
Contento del souvenir acquistato, lo metto nel sacco usato per conservare le bandiere del gran pavese da viaggio e la tutta da calcio presa a Metz. Compio una breve escursione nelle stradine del centro stipato di decine di bancarelle che danno vita a un mercato zeppo di prodotti alimentari tipici del territorio, abbandonandomi a un assaggio di salamini e formaggi, rimettendomi in carreggiata subito dopo. L’abitato è cinturato da un paesaggio agreste e macinati cinque chilometri, muta ancora, improvvisamente inselvatichendosi, la macchia nera di abeti occupa il posto dei campi coltivati e l’odore della foresta si sostituisce a quello del concime sparso dai trattori. Anche gli effluvi di letame diventano identificativi della purezza dei posti attraversati, sanno di natura, di sinergia tra forze animali e umane, tra i mezzi agricoli e territorio. A tratti diventa nauseante, in altri sopportabile in altri ancora trasporta il mio sguardo compiaciuto verso alcune mucche pascolanti e altre sdraiate a ruminare sul terreno. Pedalo per diciotto chilometri su una salita dolce con centonovanta metri di dislivello, portandomi in un’ora ai settecentodieci metri sul livello del mare di Isny am Allgau. Tengo d’occhio il cielo vestito di una leggera velatura, ora orientato ad annuvolarsi, e controllando il sito del meteo trovo conferma di una concreta possibilità di pioggia sulla statale St2055 che mi appresto a percorrere. Sembra una lingua bagnata la striscia d’asfalto, parte dalla sommità di un dosso, a riflettere il grigiore del cielo già prodigo di una scarica di pioggia. (Play Somewhare Over The Rainbow-Steve Vai) - L’aria è rinfrescata improvvisamente, costringendomi a vestirmi in modo adeguato, a riporre il telefono nel borsello, ricoprendolo con una borsa di nylon in previsione di qualche rovescio. La pioggia mi precede, le corro incontro senza mai incontrarla creando una suggestiva ricerca di quello che non cerco. Le macchine incrociate hanno i fari accesi e le spazzole dei tergicristalli che si sbracciano sul vetro, le ruote rotolano con un rumore stropicciante, alzando la consueta nuvola di pulviscolo. Forse lo spirito della pioggia teme la mia avanzata e si ritira, forse è la bicicletta a soffiare più in là il maltempo. Niente di tutto questo la volta grigiastra castiga la mia fantasia con una secchiata d’acqua costringendomi a
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riparare sotto la tettoia della fermata di un autobus che non aspetto. Evolve rapidamente la cupola nuvolosa, si apre per un attimo tornando subito uniforme. Il cielo è velato da pennellate di cipria grigia, ha le guance albine di una perturbazione all’orizzonte, esibendo riccioli impennacchiati di nero. Nella ripartenza giù dal cordolo della pensilina il mio dissenso è una trasposizione del clima, della difficoltà nel muovermi sulla carreggiata. Il luogo in cui prima correvo cavalcando un arcobaleno è un plumbeo antro invernale, freddo e uggioso, pedalo con il ticchettare delle gocce sul frontino del cappello, strizzo lo sguardo tenendolo rigidamente indirizzato a seguire la striscia bianca al margine destro della corsia. Una sorta di ipnosi s’impossessa e l’inventiva mi trasporta in un romanzo, in un’onirica e rissosa stanza, trasformando le gocce di pioggia in meteoriti e i fari delle macchine nella scia ionizzata di motori a impulso di astronavi in fuga dalle lune di Kempten im Allgau, dove conto di arrivare tra un parsec, un parsec e un quarto al massimo, per fare rifornimento di caffètronico e viveri di sussistenza in qualche spazioalbergo dell’infinita galassia tedesca. Nel manga immaginato pedalando, non esistono regole e limiti che chiudono porte o creano spazi raccolti, e giostro le emozioni in un circolo vizioso. Sono uno squilibrato ammaliato dai chilometri, adoro sentire il freddo sulla faccia e la pioggerellina punzecchiante, sognando contemporaneamente il solleone che graffia la schiena. Ripenso alla palestra, alla gente che mi osserva perché pedalo in modo bizzarro sulla cyclette senza scrutare nello specchio di fronte, mentre a occhi chiusi fischietto e canto sommessamente, rivedendo mille posti alla ricerca di dettagli, tendenti a dissolversi nel tempo. Allora mi sforzo di imprimere questo momento tatuandolo nella memoria, perché viaggiare, è anche questo, portare un’immagine, un suono, un odore estraneo dentro la testa per farne un buon uso in una lezione in palestra o ancora meglio, la sera prima di addormentarmi. Ora è questa pioggia e la teatralità dello scenario a dare un ruolo da protagonista a un tronco cavo al limitare di un giardinetto pieno di stelle alpine, tirate a lucido dalle gocce nei primi chilometri del territorio bavarese. Lasciato il Baden Wurttenberg, mi addentro nella Baviera, lo stato più grande della federazione tedesca con capitale Monaco, transitando sul suo confine sud-occidentale. La prima città che incontro e mi darà presumibilmente ospitalità per la notte è Kempten im Allgau, una delle più antiche città della Germania, chiamata in latino dai romani Cambodunum, o in italiano antico Campidonia, quando divenne 185
capitale della provincia romana di Augusta. Adesso è un’importante città del distretto di Svevia, sviluppata attorno alle rive del fiume Iller, che finisce la sua corsa nel Danubio. È un centro culturale, amministrativo e commerciale e in particolare si dedica alla produzione del latte e dei suoi derivati. Dopo una gradevolissima discesa convogliante all’incavo del corso d’acqua, risalgo fino alla sorprendente basilica di sankt Lorenz e la vicina abbazia di Kempten. Girandole attorno, mi trovo davanti a una semplice fontana con una vasca a forma di ciotola e leggendo il pannello accanto, apprendo che è stata inaugurata nel 2002 per commemorare le persecuzioni subite dalle donne e altri malcapitati nel periodo della caccia alle streghe. (Play The Grand Duel-Luis Bacalov) - C’è questo clima grigio a esaltare le storie gotiche e terribili dei processi alle streghe e in questa città, l’ultimo fu celebrato nel 1775 ai danni di Anna Maria Schwegelin condannata a essere trafitta a morte da una spada. Fu poi graziata ma lasciata in carcere fino alla sua morte avvenuta nel 1781. Ma ad altre famiglie della regione, toccò una sorte molto più crudele. Come quella della famiglia Pappenheimer nel 1600, sterminata per ordine del giovane fanatico cattolico duca Massimiliano I, fresco di reggenza sul trono della Baviera. Era costume dell’epoca concedere attenuanti e sconti di pena a chi veniva arrestato e denunciava presunti atti di stregoneria, assieme al nome di chi li promoveva, e fu un ladro ad additare i Pappenheimer come autori di omicidi di donne incinta per produrre candele sataniche con i feti non battezzati. Questa famiglia (composta dal padre Paulus, la madre Anna, figlia di un becchino, e i loro figli grandi Jacob e Gumpprecht con il più piccolo di dieci anni Hoel) venne arrestata nel cuore della notte e condotta a Monaco di Baviera per estorcere una completa confessione. Va detto che queste persone mendicavano, e facevano lavoretti saltuari, e nonostante fossero luterani vagavano in un ducato cattolico e tutto questo non depose a loro vantaggio. A Monaco furono sottoposti a un’efferata tortura durante la quale confessarono centinaia di furti e omicidi. Con le pinze roventi furono strappati i seni di Anna e infilati nella bocca dei figli grandi nella macabra parodia della madre infermiera. Paulus e i figli furono sottoposti alla ruota di ferro che devastò loro soprattutto le braccia e il tronco. Vennero infine condotti nelle piazze e insultati dalla folla sotto gli occhi del piccolo Hoel che assistette alla tortura e alla lenta agonia della famiglia a cavallo con lo sceriffo che annotava le sue reazioni.
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Ai Pappenheimer non fu concesso il privilegio di essere strangolati prima di essere bruciati sulle pire, in armonia con l’estrema brutalità del procedimento. Hoel venne arso vivo a sua volta sei mesi più tardi con altri sei presunti stregoni. Un’improvvisa folata di vento distoglie lo sguardo dalla lettura, giusto in tempo per osservare tre corvi che s’involano e torno lucidamente a comporre il quadro della situazione che mi vede alle cinque del pomeriggio affaticato dopo avere vagato per ottanta chilometri, salendo di 800 metri. Le mappe indicano pochi centri abitati sulla via di Füssen, il tempo non è buono, sono stanco e affamato, le gambe reclamano una posizione orizzontale. Tutte buone motivazioni per cercare una sistemazione in albergo e nemmeno a dirlo, qui è molto costoso. Il più economico tra tutti è il Waldhorn, e propone una stanza per sessantadue euro. Devo percorrere a ritroso un bel pezzo di salita, ma è lo scotto da pagare per non sborsare cifre ingenti. L’albergo è magnifico, domina la vallata e lasciata la bici nel parcheggio, entro con l’intenzione di trattare ma purtroppo alla reception la signora è coriacea come una cozza, non si scalza dal prezzo e non ha tempo da perdere. Esco un attimo per fare un’ulteriore ricerca in internet e il consulto stabilisce definitivamente il miglior prezzo a due metri dalle mie scarpe. Mi piacerebbe avere le chele dell’astice e frantumare la sua inespressiva faccia di madreperla. Non tergiversa, scrive i dati, consegna la chiave, indica l’ingresso del parcheggio coperto per la bici e passa ad altre faccende. Senza pensarci ancora tanto prendo la chiave, ripongo il mezzo, salgo al terzo piano con l’ascensore e mi impossesso della stanza. Piccola, raccolta, con un letto singolo sul lato sinistro, la moquette al pavimento e un bel televisore in alto a destra. Il calorifero sotto l’enorme finestra che dominante la valle dal terzo piano, è acceso irradiando un tepore molto gradevole. Mi spoglio e vado sotto l’acqua, a braccia conserte, per lavare quell’appiccicosa stanchezza che non si stacca dalle spalle, dalla schiena. Finisco steso sul letto una volta asciugato, penso di non aver onorato a dovere il compito dei chilometri, di non avere dato abbastanza ripromettendomi di partire l’indomani di mattina buonora per recuperare qualcosa sulla media da viaggio. Schiaccio distrattamente i tasti sul telecomando ma i programmi non sono un gran che avvincenti e avvertendo un certo appetito, scendo al ristorante per banchettare.
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Il locale è pieno di gente e quello che colpisce è la riservatezza delle persone sedute ai tavoli. Pasteggia e chiacchiera, e viene naturale fare un paragone al vociare, al gridare, al riso spesso sguaiato di momentanei commensali ai tavoli di pizzerie e ristoranti in Italia, che concedono ai bambini di fare chiasso immotivatamente, e si chiamano da un capo all’altro di tavolate lunghissime, alzando il tono per farsi sentire sopra lo schiamazzo inevitabilmente disturbante. Ci sono serate nelle quali apprezzo la quiete, il silenzio, la discrezione e altre invece quando adoro la confusione che diventa ingrediente fondamentale per creare un supporto divertente. Ora, in questa sala con arredi di legno di abete, con il banco del bar in stile baita di montagna e le vetrate a coprire il lato est del ristorante, ci sono tre cameriere abbigliate con il Dirndle, il costume tradizionale tirolese e camminano su scarpe da ballerina ovattate. Vestono una blusa bianca sotto una guepiere, indossano il grembiule color verde pastello sopra un’ampia gonna verde scuro decorata con ricami di rose rosse, terminante con un merletto in tinta con il grembiule. Portano un’acconciatura stretta, un sorriso non invadente, una di esse prende la mia ordinazione di petto di pollo ai ferri con contorno di spinaci. Mentre attendo sia servita la cena, chiamo casa mantenendo un tono pacato ispirato dall’ambiente, scambiato per spossatezza. Rassicuro spiegando di essere comodamente seduto al ristorante e di non essere fiacco ma disteso, poi arriva la cameriera depone il piatto vicino alla birra, sistema le posate e infine serve il pane, costringendomi a salutare con la promessa di richiamare prima di andare a dormire e finalmente inizio a mangiare. Aggiungono i dodici euro del pasto al conto della camera, saldando con il bancomat immediatamente, prevedendo una partenza anticipata al mattino successivo. Sono da poco passate le nove, e il clima rilassato del locale, la stanchezza fisica dei giorni di pedale sommati agli altri, la doccia bollente che ha annullato qualsiasi stimolo adrenalinico e la pancia piena, collaborano per un coricarsi anticipato, non prima di avere onorato alla promessa fatta di un ultimo saluto di giornata al telefono. Infine, giunto nella stanza, imposto il timer della televisione che trasmette tribune calcistiche dell’emittente tedesca, con moviole infinite e commenti su ogni minimo dettaglio 188
degli incontri odierni, nella previsione di un addormentamento veloce, mi giro di fianco dando le spalle allo schermo, ma il lampeggiare continuo, quella variazione luminosa intermittente diventa un inutile disturbo da spegnere definitivamente, ritrovando il buio della notte. Un ironico sorriso illumina il mio ultimo pensiero di giornata: non starò mica diventando un po’ tedesco? Poi mi attacco alle cuffie, come fossi all’altro capo di un cordone ombelicale di una madre che rassicura cantando. È dolce, massaggia il cuore già dalle prime battute - (Play How Deep Is Your Love-Chris Standring) Quanto profondo è il tuo amore? Conosco I tuoi occhi al sole del mattino, sento che mi tocchi sotto la pioggia torrenziale e quando ti allontani da me voglio sentirti ancora tra le mie braccia. Tu vieni da me come una brezza d’estate, mi riscaldi con il tuo amore e poi piano te ne vai ed è a me che hai bisogno di dimostrarlo. Quanto profondo è il tuo amore? Devo veramente impararlo perché viviamo in un mondo di pazzi che ci deprimono quando loro ci dovrebbero lasciarci stare. Noi apparteniamo a te e me Credo in te, tu conosci la porta della mia anima, sei la mia luce nei miei momenti più oscuri, tu sei il mio salvatore quando cado e forse non pensi che mi prendo cura di te quando sei triste. Questo lo faccio veramente ed è a me che hai bisogno di dimostrarlo
Giovedì 26 giugno 2014
(Play 10cc-I'm Not In Love) - Ho dormito profondamente, e la luce penetrando dalla finestra ha un’energia capace di attirarmi magneticamente per prendere visione della vallata rischiarata da un’alba gelida. Ampi cumuli nebbiosi si spostano come fantasmi tra le case avvolgendo infine anche l’albergo e dopo avere fatto scorrere la finestra sulle rotaie del davanzale, sporgo una mano fuori constatando come sia opportuno vestirsi adeguatamente. Genera una sensazione di fastidio perché pronosticavo un clima più estivo, ma poi scendo a patti con la realtà ai margini di un territorio di montagne, su un alpeggio a 670 metri di quota, destinato a salire ancora.
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Mi accordo mentalmente con il presente iniziando a prepararmi per la partenza. Consegno le chiavi alla reception e per arrivare al garage transito nella stanza della colazione, dove ci sono pochi ospiti che stamane appaiono come robotici automi inespressivi. Spezzano i cornetti con lo sguardo fisso in avanti, estraniati da qualsiasi cosa stia passando loro accanto. Nel conto dell’albergo già gravoso di suo, non è compresa la prima colazione che sarebbe venuta a costare sei euro e quindi con la convinzione di riuscire a trovare un caffè più economico nei prossimi chilometri e in preda all’aumento di adrenalina, mi avvio alla linea di partenza, con mille domande nella testa: come stanno le gambe, reggeranno ancora? Le ginocchia in particolare tengono? E la bicicletta resisterà? Chissà se capiterà di forare? Devo controllare la pressione delle gomme. Quanta distanza riuscirò a coprire oggi? Arriverò a Füssen, quindi finalmente a Neuschwanstein per la visita al castello delle favole, e poi? Quale itinerario scegliere oggi, quello sconfinante in Austria o è meglio fare un'unica tirata sulla statale in Germania? Ho preso tutto dalla stanza? Arrivo alla bicicletta, rianimandola con una carezza sulla manopola destra e lei accoglie festante i bagagli di poppa e prua. Tasto le gomme ancora dure e toniche, controllo l’usura e noto che quella posteriore inizia a perdere il disegno del battistrada, lasciandomi perplesso sulla sua durata fino all’arrivo a Trieste. Al momento non rappresenta un problema urgente e dopo aver sistemato gli strumenti di navigazione, infilo le mani nei guanti ed esco su per la rampetta inserendomi dentro una nuvola di nebbia artica. Ci sono undici gradi stamattina e vestito in lungo con la giacca antivento, il berretto e i guanti affronto l’inverno d’estate, alla ricerca di un bar per rifornirmi di calorie da bruciare sull’asfalto. Una panetteria vende caffè da asporto dentro bicchieroni di carta, coperti da un curioso tappo con un beccuccio da cui sorseggiarlo, ideale per chi con la macchina si reca al lavoro e non ha tanto tempo per fermarsi al bar. Prendo un cappuccino e un cornetto alla marmellata ma memore di precedenti esperienze, aspetto che il brodo nucleare stemperi almeno un paio di minuti scendendo sotto i cento gradi, gustando intanto il dolce. 190
È un continuo viavai di clienti che frettolosamente si avvicendano nella piccola ma rifornitissima rivendita. Sono le sette del mattino. Oggi ho fatto notevolmente presto perché voglio arrivare a un orario decente agli Schloss di Ludovico, in quel di Füssen e compiacermi della loro vista dopo tanta fatica. Il sole si sta alzando, cercando in tutti i modi di vincere la resistenza dei banchi di nebbia, ma questi si aggrappano ai miei guanti carezzandoli mentre pedalo nel gelo siderale in direzione sud, sull’asfalto bagnato somigliante alla coda di una cometa. Illuminata a tratti, diventa l’abbagliante strascico di una sposa destinata alle nozze con gli austeri alberi neri. Appaiono i tralicci dell’alta tensione, sbucando all’improvviso. Mi chiedo da quale posto arriva il vento, chi muove la massa nebulosa dirigendola su di me. Una pazzia struggente s’insinua, compiacendomi del freddo abbraccio, contrastato dal caldo prodotto dal pedalare sulla salita. La leggerezza consente di vuotare la mente, sono euforico per la nebbia quasi fluida, dei suoi aliti raggelanti e delle folate di microscopiche goccioline nei tratti meno densi. La salita si intreccia alla linea ferroviaria e regala il brivido di un locomotore con il naso luminoso spuntato dal nulla, eclissandosi l’istante successivo, poi scendo giù nel sottopasso, pedalo sopra un ponticello fermandomi a un passaggio a livello incrociando ancora le rotaie. Dopo dieci chilometri di paesaggio perlaceo, raggiungo la sommità del banco di nebbia, illuminato da uno splendido sole che dirompente s’impossessa dell’altopiano con un vigore abbagliante. Poco dopo costringe a togliere guanti e giacca antivento per un tratto a quasi trenta l’ora, fino ai tornanti che portano al centro di Nasselwang, un armonioso paese di montagna, base di partenza per gli sport invernali praticati poco distante, composto da case basse ben spaziate, alternate a piccoli giardini molto curati. Nel centro del paese svetta il campanile barocco con la cupola in rame a forma di cipolla, che arriva a cinquantaquattro metri di altezza, costruito di fianco alla chiesa di sant’Andrea, fregiata internamente in stile rococò. Con una rapida visita, tonifico l’umore, ghermito dalla strabiliante abbondanza di decori sullo sfondo bianco, illuminati dagli ampi finestroni. 191
(Play Donna Summer-I Remember Yesterday) - A pochi metri dalla chiesa il bar “Number One”, propone una degustazione di un italianissimo caffè espresso Segafreddo. Fuori dal ristoro, siedo su una panchina sorretta ai lati da due divertenti statue di pietra raffiguranti due persone rilassate e accondiscendenti, tolleranti nel posare con me, per qualche foto ricordo. Riparto dai novecento metri di quota per un saliscendi alpino, lussureggiante, fino alla ripida calata verso il lago Weissensee, costeggiandolo su una pista ciclabile. Il bacino sul lato sud è contenuto da una montagna digradante rapidamente verso l’acqua, ricoperta da una foresta di abeti e a nord da un dolce altopiano che racchiude lo specchio lacustre. Deve il suo nome (lago bianco), ai depositi calcarei che lo rendono biancheggiante. La fauna volatile comprende cigni, folaghe e anatre. Quella ittica, tinche, carpe, salmerini, anguille e lucci. La fauna umana è composta da gente impegnata a correre, passeggiare oppure rilassata, distesa sui prati. Immediatamente dopo arrivo nel centro di Füssen emozionato per essere giunto a destinazione, quasi bloccato, intimorito, incredulo di avere raggiunto questa meta così importante. Il castello che voglio visitare si trova ancora lontano, ma la distanza ora è significativamente ridotta e la città meta del mio arrivo è attraente, carismatica, sicuramente degna di un giro esplorativo. Il nome originale di Füssen era Foetibus, ed è la più alta città della Baviera a 808 metri sul livello del mare. È anche l'ultima tappa della Romantische Strasse, (la Via Romantica), che partendo da Wurzburg, attraversa la Franconia, la Svevia e l’Alta Baviera. La città nacque come insediamento romano sulla via Claudia Augusta (o anche Castra Augusta) che collegava le colonie tedesche all’Italia. Nulla sembra lasciato al caso, la perfezione è maniacale, ogni edificio propone dettagli imperdibili che rallentano il camminare lungo il viale invaso da frotte di turisti in processione. Roteano la testa, sfericamente catturati dalla bellezza del borgo. Colpiscono i colori, la tinteggiatura contrastante sulle linee di demarcazione dei palazzi e gli affreschi sulle pareti di quelli più eleganti. 192
Su tutto troneggia il maestoso Hohes Schloss (Castello alto), che tiene compagnia all’ex monastero benedettino di san Magno di Füssen(Sankt Mang), il patrono della città, definito l'apostolo dell'Algovia. Il santo è sepolto nella cripta dell'omonima basilica e i suoi oggetti personali e altre reliquie sono collocate sopra l'altare principale. Spingo a mano la bicicletta sul selciato sconnesso salendo sul fianco del colle e legata la bicicletta a una ringhiera, entro nell’edificio religioso ricevendo l’omaggio di un’inaspettata delicatezza di tinte e di decorazioni barocche attorno all’altare sovrastato dalla riproduzione di un solenne sipario a baldacchino, custodito ai lati da due draghi bipedi dorati, intenti a sorreggere un candelabro. Ripresa la bicicletta, salgo ancora transitando in un camminamento e dopo avere passato un portale arrivo a un’intersezione. Prendendo a sinistra, una scalinata di legno conduce nel giardino, ideale per un momento di vero relax, mentre a destra si termina nel cortile interno del castello Hohes Schloss, ex residenza dei principi vescovi Augsburg. Il maniero è uno dei più antichi e meglio conservati complessi della Svevia e dispone di una pinacoteca che ospita dipinti bavaresi, concentrata sui capolavori del periodo tardo gotico-rinascimentale e meriterebbe di sicuro una visita approfondita e lenta. Il cortile è circondato dalle facciate interne del castello, decorate con una geometrica serie di dipinti raffiguranti balconi e finestre, facendo largo uso del chiaroscuro e della prospettiva restituendo l’illusione di un movimento tridimensionale (tecnica del trompe-l’oeil ). È una scenografia volta ad inglobare in maniera oculata gli elementi funzionali per arrivare poi a fondersi con l'architettura e nel contempo a superarne i limiti. La simulazione degli elementi dà vita ad un sottile gioco di rimandi tra realtà e illusione percettiva. Lasciata la bicicletta, salgo la scala della Torre della Cicogna da dove posso contemplare il panorama della città sottostante o ancora una volta il cortile in grado di trasformarsi a seconda del punto di osservazione. 193
Sono le dieci e mezza e il cronometro nella testa inizia a ticchettare, la voglia di entrare all’interno del castello litiga con la consapevolezza di un tempo che passa inesorabile, insensibile alle ricchezze gravitanti nel raggio d’azione delle ruote della bicicletta. A malincuore prendo la via dell’uscita spinto dalla rigorosa programmazione odierna che prevede la visita del castello di Neuschwanstein e la successiva veloce incursione in suolo austriaco verso sud, direzionato verso casa. Al momento sono poggiato pigramente con una chiappa sulla sella, a frenare sulla discesa della Reichenstrasse rallegrandomi di altri capolavori trompe-l’oeil e tra questi, quello sull’intera superficie esterna di un palazzo color mattone ospitante la farmacia. Arrivo alla piazza dell’imperatore Massimiliano che presenta la fontana fatta costruire nel 1995 dallo scultore Christian Tobin per festeggiare il settecentesimo compleanno della città di Füssen, costituita da sette colonne di pietra alte circa tre metri, ricavate da blocchi unici di arenaria. L’acqua sgorgando dalla sommità delle colonne grazie alla pressione esercitata fa girare delle grosse pietre squadrate adagiate sulla sommità creando uno sbalorditivo movimento di macigni sospesi, e acqua che cade al suolo. Transitano accanto altri ciclisti, dalla coppia di corsaioli al carbonio, ai giapponesi sulle city bike, dal solitario che si trascina dietro un carretto pieno di attrezzatura da campeggio, alla signora con le borse della spesa, appese al manubrio. I ciclisti sono una moltitudine variegata, pulsante e ogni singolo si diversifica rendendosi unico nell’abbigliamento, nel fisico, nella mente, nei gusti, nei propositi, nella sorte che spesso gioca un ruolo determinante. Ed è bello essere remissivo, osservare lo spettacolo della natura umana che spostandosi a pedali manifesta una soluzione, per taluni, simbolo dell’ecologia, per certi gesto sportivo e per altri un modo per risparmiare sulle spese del carburante. Mi inserisco nel movimento avvicinandomi all’asse viario con il batticuore della consapevolezza di essere arrivato a un traguardo che poi spingerà a tagliare gli 194
altri sui temuti passi alpini, ma senza il batticuore di quando ho lasciato la pianura a Offenburg per la prima vigorosa salita in Germania. La strada scende per un breve tratto fino al ponte sul fiume Lech, transitando all’incrocio da dove;dopo la visita ai castelli, svolterò prendendo la via dell’Austria. Mi immetto sulla Strasse 2008 per un chilometro prima della svolta a destra sulla via del Parck costeggiata da una ciclabile dentro il bosco, introdotto in un contesto fiabesco. (Play Sinfonia K525-Mozart) - Sul lato sinistro strutture alberghiere dai volumi contenuti, s’innestano alla perfezione proponendo un classico stile di baita alpina. I costi di una singola si aggirano attorno al prezzo di quaranta euro, gli arredi interni sono pregevoli e accoglienti, la cordialità una dote ridondante. Arrivo al parcheggio, svelante nella sua debordanza, il turismo di massa. Autobus stracarichi sbarcano e imbarcano plotoni di orientali e occidentali, australi ed europei e di ogni altra immaginabile provenienza. I più composti sono gli statunitensi che osservano, cercando di entrare in sintonia con il posto. I più caciaroni neanche a dirlo gli italiani aventi tre target nella testa: primo, devono comprare un trofeo, un souvenir. Secondo, devono immortalarsi ad ogni costo in un autoscatto che comprenda moglie, figlio annoiato, figlia aspirante velina che bacia il nulla, panza immensa del marito, marca del telefono, castello alle spalle e il lavoro del dentista contratto in un sorriso che trasudi divertimento genuino. Terzo, devono comprare qualcosa da mangiare e bere al bar, indecisi tra un caffè da paragonare all’irraggiungibile espresso del bar sotto casa, una birra che essendo tedesca è perfetta gioco forza, un gelato per tenere buono il bambino che adotterebbe un’altra coppia di genitori o la coca-cola zero con il “tostone Universus” al plutonio per la bambina scalpitante. Arrivati alla base della salita, si fermano in riga per quattro, chi masticando, chi succhiando e chi ancora sputazzando in giro. Convengono non sia assolutamente il caso di fare tutta quell’impennata a piedi per vedere un castello già fotografato da distanza di selfie, salvo poi scucire dieci euro a testa per salire sulla vettura trainata da cavalli che dopo aver mollato una montagna di cacca, li porta fino in cima profumati, seduti e sazi. Altra categoria gli orientali. Sembra abbiano in mano un libretto di vidimazioni, una sorta di rosario di viaggio dove sgranano le mete timbrate e quelle da conquistare, ma lo fanno in silenzio, con il viso inespressivo, con lo sguardo che 195
evita come la peste di incrociare quello degli altri, portano in testa il cappello floscio dell’esploratore della giungla, hanno nella destra un ombrellino pieghevole che all’occasione diviene parasole e nella sinistra una macchina fotografica per immortalare ogni foglia caduta, fiore o sasso. Ci sono i motociclisti, che si dividono a loro volta in due categorie, la prima viaggia in moto e la seconda porta la moto in parata. Ridicoli i secondi, hanno divise inamidate, bavagli con i teschi e stilografiche nella giacca, caschi interfonici e girano con una compagna sul posteriore della sella vestita in modo identico, stesso casco, stesse scarpe, uguale la divisa. Parcheggiano solo dentro piazzole assicurate, si orientano col tom tom, danno il bacino del buon riposo alla moto, esigono che la fidanzata le faccia tre volte l’inchino e si allontanano al massimo laddove il gioiello entra nella visuale. Il più delle volte prendono l’adesivo del posto, guardandosi bene dall’incollarlo su una carrozzeria illibata. In questo groviglio di umanità, gli abitanti del posto sono pastori che pascolano questa mandria da mungere, li attirano e li respingono, creano ondate e maree di portatori sani di denaro che si agitano, alla ricerca di un giustificato motivo per usare la carta o il contante. Sono immobile, seduto su un muretto di pietra, guardo il flottare mentre gusto anch’io un gelato giungendo alla logica conclusione: se il castello alle mie spalle è la in alto, significa che mi aspetta una salita di tutto rispetto per arrivare alla residenza più bella di Ludovico secondo Wittelsbach di Baviera. Acquisto per dodici euro il biglietto d’ingresso e mi viene consegnata una piccola guida in italiano che spiega la storia del re Ludovico Secondo di Baviera e la storia del castello con la descrizione del posto che mi appresto a visitare. (Play Hands Of The Priestess-Steve Hackett) - Mi immergo nella lettura dell’opuscolo che racconta la vita del monarca nato a Nymphenburg (oggi parte di Monaco di Baviera) il venticinque agosto 1845 che fu re di Baviera dal 1864 al 1886, anno in cui fu dichiarato pazzo e deposto. Una delle sue massime più citate è “Voglio rimanere un eterno enigma per me stesso e per gli altri”. È nominato con molte etichette: come Swan King in inglese oppure der Märchenkönig (il re delle favole) in tedesco. A volte indicato anche come il "pazzo re Ludwig", aveva i titoli di conte palatino del Reno, duca di Baviera, Franconia e Svevia.
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Era figlio di Massimiliano II di Baviera e di Maria Federica di Prussia e da bambino gli veniva continuamente ricordato il suo potere reale, e benché estremamente viziato, fu anche severamente controllato dai suoi precettori e sottoposto a un duro regime di studio ed esercitazioni. Da adolescente divenne molto amico del suo aiutante di campo, Paul Maximilian Lamoral della facoltosa famiglia bavarese dei Thurn und Taxis, ma la relazione si infranse quando Paul divenne più interessato alle ragazze. Durante la sua gioventù, Ludovico iniziò anche una lunga amicizia con la cugina Elisabetta (Sissi) imperatrice d'Austria, entrambi amanti della natura e l'arte. In seguito alla morte del padre, salì al trono bavarese all'età di 18 anni e il suo aspetto, pensieroso e giovane, lo rese molto celebre in Baviera come all'estero e tra i suoi primi atti promulgò il patrocinio ufficiale del suo idolo, Richard Wagner. Ludovico per gran parte del suo regno promosse la riconciliazione fra gli stati tedeschi assicurando alla Baviera un periodo di pace. Era abbastanza popolare tra i suoi sudditi, probabilmente perché cercò di evitare per quanto possibile conflitti armati, grazie alle idee pacifiste e ad uno scarso interesse nei confronti del potere politico. L'aspettativa per un erede fu tra le maggiori preoccupazioni nei primi anni di regno di Ludovico. Nel 1867 Ludovico era fidanzato con la principessa Sofia, sua cugina e sorella minore dell'imperatrice Sissi ma dopo aver ripetutamente rinviato la data del matrimonio, Ludovico alla fine annullò il fidanzamento rinunciando per sempre a sposarsi, sfatando il mito del principe azzurro. Sebbene detestasse le folle, Ludovico amava viaggiare in incognito tra la sua gente e in un secondo tempo, chiunque si fosse dimostrato ospitale con lui, senza sapere che si trattasse del sovrano, veniva ricompensato con cospicui doni. Per tutta la durata del suo regno, Ludovico ebbe una fila d’infatuazioni per uomini di bell'aspetto, tra cui il suo stalliere-capo Richard Hornig, la stella ungherese del teatro Josef Kainz, e il cortigiano Alfons Weber. Tentò di sopprimere i suoi desideri sessuali e rimanere fedele ai suoi convincimenti cattolici e i documenti suggeriscono che Ludovico abbia combattuto fortemente la propria omosessualità. Con il progredire del suo regno, Ludovico si ritirò sempre più spesso passando gran parte del suo tempo sulle Alpi, e portò quasi alla bancarotta la famiglia reale bavarese per costruire diversi e costosi palazzi da favola, ora diventati attrazioni turistiche e fonte di grandi profitti per lo stato 197
tedesco. Lasciò una grande collezione di piani e disegni che aveva commissionato per altri castelli che non furono mai realizzati come anche i progetti per le stanze di Neuschwanstein perché il denaro iniziò a scarseggiare. I progetti degli artisti si fecero quindi più stravaganti considerando di non dover badare all’economia e alla praticità di realizzazione, immaginando che le loro opere non sarebbero mai state realizzate. Il dieci giugno 1886, Ludovico venne ufficialmente dichiarato pazzo dal governo e incapace di esercitare i suoi poteri governativi poiché era un fatto imbarazzante che si disinteressasse totalmente del governo mentre le casse della casa reale erano state totalmente prosciugate. L'imperatrice Elisabetta sostenne: “Il re non era matto, era solo un eccentrico che viveva in un mondo di sogni.” - (Play La cavalcata delle Valchirie-Charlotte Kinateder & Klaus Jäckle) La presa in custodia del popolare capo di Stato fu fatta su ordine del governo in segreto, ma l'inusuale evento, come fu la vita stessa di Ludovico, trapelò e una stravagante ma leale baronessa con un nutrito gruppo di sudditi arrivò ai cancelli della residenza agitando il suo ombrello per redarguire gli uomini che erano andati a prendere Ludovico. Propose di scortarlo fino alla frontiera per salvarlo dalla custodia forzosa, ma il re rifiutò. Ricevette anche un messaggio da Bismarck, che lo invitava ad andare nella capitale della Baviera e di mostrarsi al popolo ma Ludovico non volle lasciare Neuschwanstein. Alle quattro della mattina del dodici giugno fu arrestato e trasferito al castello di Berg, a sud di Monaco. Sospettando un complotto a suo danno, ordinò al custode del castello di Neuschwanstein di interdire le visite dei curiosi dopo la sua morte, perché doveva rimanere una residenza riservata al re e a una ristrettissima cerchia di persone. La morte di Ludovico avvenne il tredici giugno alle 18.30. Chiese di poter fare una passeggiata con il dottor Gudden che accettò dicendo alle guardie di non seguirli. I due uomini non fecero più ritorno: furono ritrovati entrambi morti nelle acque del lago alle 23.30 del giorno stesso. Fu seppellito nella cripta della Michaelskirche di Monaco di Baviera, ma il suo cuore è conservato in una teca argentata presso la Gnadenkapelle di Altötting. Poche settimane dopo la morte del sovrano, contrariamente alle sue disposizioni, il castello aprì le sue porte ai visitatori. Questa lucida follia unita al piacere del bello aveva prodotto la creazione di un castello straordinariamente unico, destinato a suscitare la mia ammirazione. Indubbiamente, il richiamo di questo posto ha prodotto 198
l’itinerario coperto. Forse, se non ci fosse stato il castello, avrei viaggiato comunque attraverso l’Europa, per completare il sogno di una Mille Miglia, ma ero contento di avere dato ascolto al suo richiamo. Ora aggancio e preparando il cambio sull’ultimo rapporto di arrampicata, mi districo tra la folla con attenzione, poi mi avvio su per la salita ombrosa, a schivare montagne di cacca di cavallo, turisti col fiatone e buche nascoste dalle foglie cadute. Curve e pendenze accorciano il respiro fino all’arrivo nei pressi di un bivio, dove il maniero si manifesta in tutta la sua maestosa eleganza. A destra si sale ancora verso l’ingresso e a sinistra si accede a un terrazzo panoramico che concede un’inquadratura perfetta nel mirino della macchina fotografica. Il nome del castello Neuschwanstein, progettato dall'architetto Eduard Riedel e dagli scenografi Christian Janck e G. Dollmann, può essere tradotto in italiano come “nuova roccaforte del Cigno”, e si ispira ad una famosa opera di Richard Wagner, Lohengrin (il cavaliere del cigno o schwanritter) che racconta le gesta di questo epico cavaliere, figlio di Parsifal, uno dei cavalieri della tavola rotonda. Giunse dal lago su una barca trainata da un cigno per salvare l’onore della duchessa Elsa di Brabante, ingiustamente incriminata di avere ucciso il proprio fratello. Vinto in duello l’infame accusatore, Lohengrin sposa Elsa strappandole la promessa di non chiedergli mai il suo nome. Ma Elsa era troppo curiosa e timorosa nell'adempiere ai doveri coniugali di sposa, non seppe trattenersi dal fargli la fatale domanda. Lohengrin l’accompagnò nella grande sala e in presenza di tutti i cavalieri, le rivelò la sua identità. Dopo averle svelato chi fosse, disse che avrebbe dovuto lasciarla, per far ritorno alla Montagna Sacra. Così risalì sulla barca trascinata dal cigno e scomparve. Il brano più famoso dell’opera è la celeberrima marcia nuziale, che sovente si ascolta con partecipata emozione nella maggior parte dei matrimoni. (Play Marcia Nuziale-The Halls of Music) Poiché il re considerava l'opera del suo amico e idolo, alla stregua di una religione, il castello, può essere visto come un simbolico omaggio al genio del musicista, ma tuttavia Richard Wagner, non lo visitò mai.
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Il castello di Neuschwanstein, costruito nel territorio di Schwangau (contea del Cigno), venne commissionato dal re Ludovico come rifugio personale, e diversamente da altri manieri, pagò per la sua costruzione con i propri fondi senza accedere al tesoro di stato. Impegnò tutto il suo patrimonio nella costruzione del castello, sovraintendendo ai lavori direttamente dalla residenza in cui trascorse l'infanzia: il vicino castello di Hohenschwangau (castello alto della contea del cigno). Il trasporto dei materiali da costruzione fu facilitato da un sistema di carrucole per sollevarli sino al cantiere e per circa due decenni il sito dell’opera architettonica fu il principale centro d'impiego della regione, dove circa duecento muratori vi erano stabilmente occupati, senza contare le persone addette ai rifornimenti e quelle ordinariamente impiegate al castello. Ludovico secondo, visse in totale solo centosettantadue giorni della sua vita al castello, pochissimo se paragonato a molte altre sue residenze, mentre oggi sono migliaia le persone che entrano ed escono dal suo portone d’ingresso. Io sono qui per poche ore soltanto a entusiasmarmi per quello che ha prodotto l’intreccio di storia, di follia e vanagloria e dopo un breve sforzo sui pedali sono prossimo a entrare nel complesso del palazzo, fronteggiato da un ingresso con due torri gemelle ai fianchi, nettamente in contrasto col resto della struttura per i caratteristici mattoni rossi rispetto alla corte in pietra. Smonto dalla sella ed entro spingendo la bici nel passaggio attraversante l'ingresso, coronato dallo stemma reale bavarese, tra la gente che fluisce in un senso e nell’altro e arrivo direttamente nel cortile d'onore. Dopo il buio del piccolo tunnel, alzo lo sguardo nel nuovo contrasto di luce, nutrito del riverbero della pietra bianca rilucente al sole, per contemplare il piano superiore del cancello d'ingresso che accoglie un balconcino sporgente, sede della prima residenza di Ludovico secondo a Neuschwanstein, dalla quale occasionalmente poteva osservare il progredire dei lavori. Come fanno molti, cerco punti di riferimento, un’indicazione per rendere piena e interessante la visita ma sono catturato da mille dettagli che imprimo nella scheda di memoria della macchina fotografica. I gruppi trovano ristoro dopo la conquista della vetta su per la faticosa salita, si fermano e chiacchierano scambiando impressioni, si siedono dove possono, o si 200
sporgono dai muretti perimetrali del cortile che danno sullo strapiombo, ammaliati dalla veduta superba. Questo cortile è disposto su due livelli. Il più basso, definito a est dall'ingresso e a nord dalla torre rettangolare, con il lato a sud del cortile aperto per beneficiare della visione sul panorama circostante. Quello superiore, ospita un prolungamento di forma absidale proprio di fronte all'ingresso, a suo tempo progettato per accogliere una cappella mai costruita. Appoggio la bicicletta in un posto dove non dà fastidio e dopo averla assicurata a un sostegno, raggiungo la scala collegata al piano superiore del castello per vivere una prospettiva mutata, consentendomi di vedere la cornice dei tetti circondata da guglie. La posizione del castello è sommamente scenografica: ai piedi di una montagna, poco distante da un lago, sul ciglio di una gola vertiginosa e in vista di un altro castello, immerso nella foresta. La struttura allungata della costruzione, con le sue numerose torri, pinnacoli ornamentali, balconate e sculture è una vera e propria prosecuzione nel disegno delle montagne circostanti. Il castello, composto da una serie di strutture individuali, nel suo complesso si estende per seimila metri quadrati articolati su quattro piani. Manca di appropriate fortificazioni, suggerendo che le numerose torri presenti, alte anche ottanta metri, hanno funzione puramente decorativa. Seguendo lo stile neogotico, molte finestre sono bifore o trifore permettendo, dal picco roccioso, un'ottima visuale sul paesaggio adiacente. Ho la fortuna di trovarmi in visita al castello quando sono da poco tempo terminati i lavori di restauro iniziati quattordici anni prima e ogni parete degli edifici è in ottimo stato. La struttura che unisce oggi i due livelli del cortile è la cosiddetta Torre Rettangolare, alta quarantacinque metri, sulla cui solida piattaforma superiore, si gioisce di uno scenario straordinario. Dietro di essa e per tutto il lato nord si trova la cosiddetta Casa dei Cavalieri, collegata con l'ingresso, da una serie di gallerie continue e da numerose arcate cieche sul cortile d'onore. Doveva essere il luogo di residenza per i fedelissimi servitori del sovrano, 201
parimenti alla Dimora delle Dame, posta proprio di fronte alla Casa dei Cavalieri, costituita da una serie di locali di servizio sul lato sud del cortile, ed entrambe le strutture riprendono le forme del Castello di Antwerp che compare nel primo atto del Lohengrin di Wagner. Il lato ovest del cortile d'onore è delimitato dal castello vero e proprio, unica vera area residenziale del complesso e contiene le sale del re e della sua servitù. La struttura è formata da due elementi cuboidali, incassati tra loro ad angoli sfalsati (per seguire la forma dello sperone roccioso su cui sorge il castello). Agli angoli di giunzione, per addolcire e distogliere il senso di distacco tra le due strutture, si trovano le alte torri di cui la più eminente (quella a nord) si attesta a sessantacinque metri. Il giro dello sguardo spazia sull'intero complesso, sormontato dalla miriade di guglie e camini ornamentali. Il fronte sul cortile d'onore presenta due splendidi affreschi con la scena di San Giorgio nell'atto di uccidere il drago. La punta del tetto a occidente (interna) è decorata con un leone in rame, mentre quella a oriente (esterna) è decorata con la figura di un cavaliere. Alla morte di Ludovico, molte delle stanze interne rimasero senza arredi e solo quindici erano completamente terminate. Le sale sono abbellite con motivi wagneriani ad eccezione di quella destinata al trono, impreziosita con le decorazioni influenzate dall'arte bizantina. Il trono non fu mai realizzato e la stanza, permeata da una atmosfera sacrale, somiglia a una cappella palatina. Una volta completato, il palazzo presentava duecento stanze interne, incluse le aree per gli ospiti, la servitù e per la logistica. Nel primo piano, il palazzo accomoda le stanze amministrative e della servitù. Le stanze ufficiali del sovrano occupano tre piani di cui il quarto e ultimo era quasi completamente assorbito dalla Sala dei Cantori. Sebbene l’aspetto neogotico, gli conferisce un’aura antica, il palazzo fu dotato di tutte le innovazioni tecniche conosciute alla fine del diciannovesimo secolo, come il sistema elaboratissimo di campanelli per la servitù e numerose linee telefoniche. Le cucine si servivano di camini Rumford, in grado di autoregolarsi sul calore fornendo aria calda da utilizzare per il riscaldamento centralizzato del castello, mentre le toilettes disponevano di acqua corrente con scarico automatico. 202
Girando per le stanze, appare evidente sia stato concepito come villa, domicilio, dove soggiornare e non come castello di rappresentanza e tantomeno da difesa. Descrivere ogni ambiente e i dettagli è impresa adatta a un altro tipo di racconto, e il poco tempo a disposizione per soffermarmi nelle stanze, non può consentire nemmeno in minima parte di rendere giustizia a tanta bellezza. Mi ritrovo all’uscita nel cortile ammaliato e incredulo, in uno stato di enfasi per la ridondante ricchezza di cui sono stato parte per un breve intervallo. Una situazione onirica mi lega al maniero, ma la vista della bicicletta suggerisce il ritmo di una pedalata imponendomi ancora una volta, di ricominciare nell’inesorabile ritorno verso casa. Sono appagato, ho raggiunto il culmine e avverto la leggerezza di non dovere arrivare da qualche parte ad ogni costo portando dentro gli occhi immagini indimenticabili. Medito sul traguardo raggiunto sulla bicicletta, a come vi sono arrivato, di scelta in scelta, volando come scimmie tra le liane. Ho inventato questo viaggio per essere felice senza annaspare tra la corrente delle sensazioni, perché navigare nel tempo è prendere in mano un remo per spostarmi dove desidero, alla ricerca di un’ansa tranquilla, prima di rituffarmi nelle rapide, per ritrovare ancora l'adrenalina che fiorisce nella pancia, prima di avvertire forza ed entusiasmo. Fantastico su eventi e luoghi suggestionandomi, creo nell’anima quella sospensione turbolenta vuotandola di soste. Questa è la mia benedizione e contemporaneamente maledizione, il mio esibirmi per sentirmi vivo e fuori dagli schemi di un procedere insipido, e questo stupore drogato, fuori dal castello è mille volte migliore dell'apatia e della noia di un divano e un telecomando perché è preferibile la spina nel cuore di un arrivederci forzato, piuttosto che un torpore comatoso. Invento, creo, produco e metto in pratica un’idea, la porto a compimento per diventare singolo proprietario di un ricordo unico, per destare l'attenzione, per catturare uno sguardo o un complimento. E ora con questo tatuaggio nella mente, riprendo la via, quella in discesa che porta rapidamente nel parcheggio, ancora preda della tempesta circense mossa dai turisti da pullman. Un’ultima occhiata al castello, ai visi stupiti o annoiati di chi è appena arrivato o di partenti sul predellino dei pullman, mi involo nel fitto della boscaglia, ripercorrendo il segmento di itinerario fino all’incrocio e 203
svoltando a sinistra, punto a sud verso il confine con l’Austria. Prima di attraversarlo sosto di fianco al parapetto sopra Lechfall, le cascate che alimentano la centrale idroelettrica. La balaustra si trova di fronte alla parete che precipita verso la gola, un anfratto terminante in gradoni artificiali sommersi nel flusso dell’acqua, e da qui osservo in una nicchia il busto del padre di Ludovico secondo, il re Massimiliano. Sembra quasi un ultimo saluto della Germania bavarese con un’illustre rappresentazione. Si congeda e dal mio canto sono felice di essere stato ospite di un territorio affascinante che aspettava soltanto di essere scoperto. (Play The Process Is Continuos-3rd Force) – Passo il confine all’una e mezza, cambio la bandiera issando sul posteriore quella austriaca e ripongo nella valigia quella tedesca, iniziando a pedalare sulla strada statale diciassette. Dopo una svolta a sinistra su una rotonda, diventa meno trafficata e prende il nome di L69. Avrei potuto imboccare la statale per il Fernpaß, molto comoda e diretta ma ho voglia di vedere movimento e persone, e la via del passo mi avrebbe fatto perdere qualche centro urbano da visitare. Infatti, dopo dieci chilometri tra colline ricoperte di abeti, e il frequente sventolare dei colori bianco e rosso della bandiera del Tirolo sulle case, arrivo a Reutte che deve il suo nome alla parola tedesca “roden” (tagliare gli alberi) riferendosi alla ricchezza di alberi nella regione. In questo paesino molte case sono decorate con preziosi dipinti di Johann Jakob Zeiller (1708-1783). Alcune facciate sono interamente ricoperte da figure sacre e murales, in altre si limita a decorazioni attorno a porte e finestre e come nel castello di Füssen, cornici e decori aprono un movimento tridimensionale. Accanto alla porta d’ingresso dell’ufficio turistico, sono disposti nei raccoglitori gli opuscoli che reclamizzano le attrazioni del luogo, e tra queste, la più significativa è il sito di Ehrenberg, composto da quattro edifici diversi: le rovine della rocca e tre fortezze, posizionate a sud-est dal centro abitato. In tempi antichi chi viaggiava o commerciava tra il nord e il sud, doveva passare da questo complesso e cavalieri, semplici viandanti, come anche gli imperatori dovevano pagare un tributo, giacché la “Stretta di Ehrenberg” era uno strategico punto di dazio. A me, miserrimo ciclista da turismo non viene, infatti, risparmiato il balzello, concretizzato nell’acquisto di un sostanzioso spuntino nel 204
supermercato Billa affacciato alla piazza principale. In sintonia con la località, mi faccio conquistare da pane nero e speck, che divoro seduto su una panchina di fronte all’hotel Mohren, concedendomi di somatizzare le opere pittoriche sugli edifici circostanti. Il tempo è ottimo, la fame appagata, la temperatura si aggira sui diciotto gradi e pedalare è semplice, sulla direttrice che senza possibilità di scelta riporta sulla statale B179 (quella per il Fernpaß), offrendo in compenso una ciclabile su8 ambedue i lati della carreggiata. Sui due fianchi, troneggiano i resti degli antichi castelli reclamizzati sull’opuscolo e molto interessante è il ponte sospeso, tra due massicci montuosi, che collega il castello Ehrenberg con il forte Claudia. L’opera ingegneristica ancora in fase realizzativa, chiamata "Highline179", è stata progettata dall'architetto Armin Walch e si prevede la sua inaugurazione nel novembre 2014, quando sarà il più lungo ponte pedonale sospeso del mondo, in stile Tibetano, con una campata lunga 406 metri, posta a 312 metri dal suolo. Il paesaggio ospita l’asse viario adagiato nel fondo valle tra i massici che s’innalzano vertiginosi in questa rinomata zona d’attrazione turistica. Nella stagione invernale, si popola di appassionati degli sport sulla neve e proprio per questo motivo, Heiterwang e Bichblach abbondano di Ghastahause, hotel di lusso e affittacamere. Pedalare per quanto piacevole è comunque faticoso, salgo con costanza, escludendo qualche breve pianetto, rendendomi conto come la stanchezza inizia ad affiorare perché nelle brevi e ripetute soste per dissetarmi e mordicchiare biscotti, controllo con maniacale ripetizione i percorsi altimetrici, allo scopo di evitare quanto più possibile salite inutili, e allo stesso tempo definire un obiettivo accettabile, in termini di chilometri percorsi. La ricerca, dà per scontato il transito al Fernpaß, sono consapevole di doverlo affrontare e superare e ogni qualvolta esamino la rotta, quest’ultimo, aumenta di altezza, di spessore, di lunghezza quando in realtà è una serie di tornanti che in breve tempo dovrebbero portarmi allo scollinamento. La carreggiata percorsa ora inizia a pianeggiare, fino ad assumere la beneaugurante definizione di discesa. Le gambe girano, hanno acquisito una forma mai avuta prima, spingono a comando, raramente danno il segnale di fine forza, infatti, durante gli strappi in salita, è stato il fiato a diventare troppo intenso costringendomi a soste per 205
calare il battito del cuore e riprendere una pedalata a livelli umanamente accettabili. Nemmeno la discesa libera la mente, divento sospettoso perché è un dato assodato: dopo una grande discesa, c’è una grande salita. Difatti, l’imprevisto arriva sotto forma di cartello di divieto di transito per le biciclette. Lo guardo stupefatto arrestandomi, ricontrollo mille volte la mappa di carta che indica un rettilineo senza nessun ostacolo. Non riesco ad avere una situazione più precisa perché il GPS non prende il segnale e ciò, mi spinge a tentare di violare il divieto come già fatto in precedenza nella foresta nera. Tuttavia memore del rischio corso quando sono stato fermato dagli agenti, cerco un’alternativa che si presenta su un’uscita laterale indirizzata verso il centro di Biberwier. È un fiocco d’incroci e rotonde, un labirinto di segnali, di alberghi e attività commerciali, di nessuna utilità per ritrovare una direzione, alimentando disappunto e nervosismo. Domando indicazioni a due uomini a passeggio (Entschuldigung, wo ist der Weg zum Fernpaß?), sulla direzione da prendere. Chiedono se sono italiano e alla mia risposta affermativa, iniziano a parlare nella mia lingua con sommo sollievo. Sono di nazionalità serba e uno dei due, il più anziano, ha lavorato a lungo nel nostro paese. Racconto di essere rammaricato dell’obbligo di allontanarmi dalla strada principale ma loro spiegano che un chilometro dopo il punto dal quale sono uscito, inizia una lunghissima galleria (il Lermooser tunnel) riservata al traffico veloce, e di non preoccuparmi, perché nel paese corre il vecchio tracciato dell’asse di scorrimento che infine si ricongiunge più a valle, all’uscita dell’abitato. I sorrisi e le pacche sulle spalle, le rassicurazioni e il tono amichevole, ribaltano l’umore e ritrovo la calma interiore. Saluto e ringrazio, riaggancio i pedali e parto su questo viale extralusso proponente una serie di alberghi a quattro stelle molto belli e ovviamente molto costosi. All’interno di un’ampia corte trova riparo un villaggio sportivo temporaneo, ed espone in vendita, materiale per biciclette e abbigliamento, in concomitanza a una prova enduro lady del campionato austriaco. Mi aggiro incuriosito tra gli stand popolato di teutoniche rigorosamente con il caschetto in testa.
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Passeggiano tenendo per le manopole scintillanti biciclette da mutuo trentennale, fatte con materiali provenienti direttamente dal futuro. La mia Cube, stizzita e resa cicciona dai bagagli, girovaga muta con la bandierina sventolante a poppa, fregiandosi di un certificato di tenuta lungo mille chilometri senza il minimo inconveniente, a parte una misera foratura in Inghilterra e un palmares invidiabile, lasciando siano consegnate alle stratosferiche bici da montagna le corone di miss leggerezza. La spingo fuori dal cicaleccio di vanitose snob, trovando ancora la compattezza della sella ad accogliermi per le ultime esplorazioni nella località turistica. Non ho più voglia di proseguire oggi, c’è poco margine di pensiero, l’esperienza insegna a valutare le sensazioni a pedali senza perdere troppo tempo in patinate deduzioni, quindi rispettando i consueti parametri, estrapolo dettagli dal telefono convergenti sulla necessità di trovare una stanza per riposare. La strada che mi attende, è impegnativa, c’è il passo da duecento metri di dislivello da superare in sei chilometri. Per altri otto scende verso un paesino (Nassereith) in una conca selvaggia della montagna, con l’incognita della disponibilità di un accomodamento per la notte. Aggiungo la consapevolezza di trovarmi in quota con il clima in grado di cambiare sensibilmente e in maniera repentina e sommando questi fattori produco la scelta più ragionevole. Preferisco non rischiare e affrontare l’indomani le salite verso Innsbruck. Una prima ricognizione all’albergo Lowen dà il polso di una situazione al di sopra delle mie aspettative economiche appurando che la testolina rifiuta l’idea di sborsare ottanta euro per una nottata e una prima colazione. Senza remore nicchio alla proposta informandomi con la signora dietro il banco sull’esistenza di sistemazioni più economiche nelle vicinanze. Ha le pupille border line sopra le lenti degli occhiali poggiati sul piccolo naso, solfeggia con la mano la frangia spiovente sulla fronte e con superficialità proferisce tra le labbra piegate in un ipocrita sorrisino che ci sono delle pensioni meno esose ai lati della via principale e una volta uscito dalla vista della rigida letizia della consierge, inquadro il cartello sulla parete di un edificio che rivela la presenza di “zimmer frei” (camere libere). La casa in stile tirolese accoglie la “Haus Grünstein”, suono il 207
campanello e viene ad aprire un giovane signore barbuto che alla mia richiesta risponde favorevolmente chiedendo ventitré euro per la notte. È sicuramente un buon prezzo, ho anche il posto nel garage per la bicicletta e un supermercato a portata di mano. Ha fretta per un precedente impegno preso, quindi definiamo l’affare, pago e mi accompagna nella stanza al primo piano, consegnandomi le chiavi e il telecomando del garage, con la raccomandazione di non smarrirlo. Suggerisce che qualora ne avessi avuto bisogno, potevo cenare nella sala da pranzo dedicata agli ospiti beneficiando della compagnia di un televisore e per qualsiasi altra esigenza, avrei trovato sua madre in cucina. Esce di corsa dopo aver sceso le scale. La casa è vecchia, con i muri tinteggiati di marrone e i soffitti bianchi, ingialliti dal tempo. Le lampade sparse in giro emettono una luce fioca, rosata, conferendo un tono quanto più possibile familiare, essenziale. L’odore è quello del fumo del caminetto con qualche folata di carne arrostita e profumo di lavanda. La porta si apre sulla stanza disadorna, pulita, tenebrosa ma rilassante. Il letto matrimoniale sulla destra è solido, il materasso morbido. Sulla sinistra, avvitato alla parete c’è il lavabo e di fronte l’ingresso, una grande porta finestra dà sul terrazzo dal quale mi beo di una vista stupenda sulle Alpi tirolesi. Il piccolo bagno accoglie la doccia e il gabinetto. Ho quello che serve e apprezzo la semplicità del posto. Porge l’idea di essere ospite in casa di amici, un fabbricato non abbagliante, che accoglie senza stupire. Visto l’orario appoggio i bagagli ed esco dirigendomi al negozio a fare la spesa per la cena, appena in tempo prima della chiusura. Velocemente riempio il cestino con il pane, una busta di carote a julienne, una scatola di tonno e una mozzarella. Prendo ancora una confezione di biscotti e una bibita e pago con il bancomat. Tornato in camera, appoggio la busta della spesa sul letto, mi lavo, mi rivesto con la tuta nera e dopo aver preso un piatto di plastica e le posate dal bagaglio, scendo nella sala da pranzo, dove realizzo di essere l’unico ospite della struttura. Accendo il televisore con l’intenzione di guardare la partita di calcio tra Stati Uniti e Germania. Qui in Austria i mondiali di calcio non sono sentiti per niente, non suscitano interessi particolari, L’ho verificato nei negozi che non reclamizzano prodotti con immagini di campioni, com’era immancabile in tutto il tratto, percorso in Germania. Ragionevolmente pochissime persone s’interessano alla competizione, dall’istante in cui la selezione austriaca non si è qualificata alla 208
fase finale del campionato mondiale e per l’appunto, il canale dedicato alla visione della partita è quello tedesco. Il televisore è a tubo catodico, non ha il fatidico schermo piatto, l’immagine è dominata dal colore verde ed è molto disturbata, ma si distinguono calciatori e palla. Almeno fino a quando nella cucina, qualcuno accende un altro televisore rubando quel poco segnale catturato e lo schermo si rabbuia diventando impossibile guardare quello e qualsiasi altro programma. (Play Malaguena Salerosa-Chingon) - Sento il commento alla partita arrivare dalla cucina, mi affaccio e nello stanzone c’è effettivamente un televisore. La cucina avrà circa cinquanta metri quadri, il pavimento è in pepe e sale piombato e le pareti sono rivestite di piastrelle bianche. Ovunque sul mobilio, sono disposti ordinatamente attrezzi da cucina, pentole, stoviglie, corone d’aglio e in alto, sulla sinistra due grossi boiler da cento litri sono appesi in prossimità del soffitto. Da lì, partono collegamenti idraulici e tubi in rame che corrono per tutta la stanza fino ai rubinetti sul muro sopra i lavandini. A destra, addossato per il lato corto al muro, tra due larghe finestre, c’è il grande tavolo. Sulla sinistra, dal suo piedistallo sopra il ripiano del mobile, l’apparecchio televisivo illumina l’ambiente. È uno schermo piatto da quarantadue pollici, sfolgorante, e propone una nitida telecronaca. Seduta su una sdraio pieghevole c’è una signora anziana. Avrà ad occhio e croce novant’anni, ha il fazzoletto sulla testa a contenere una nuvolaglia di capelli grigi, indossa una vestaglia in feltro marrone. Ha i piedi, poggiati sopra il cuscino di una sedia, vestiti con un paio di calze di lana a rombi blu e rossi, spesse un centimetro. Fissa lo schermo in trance, ma si accorge della mia presenza e mi rivolge lo sguardo fissandomi con gli occhi di ghiaccio. Saluto e indicando il televisore, faccio capire di essere interessato alla partita e che sull’altro apparecchio non si vede nulla (nicht…!). Fa un sorriso e poi invita a sedermi al tavolo della cucina indicando una sedia. Ringrazio (danke..) e prima di accomodarmi, vado a prendere la borsa della spesa e le posate di plastica. Il piatto di cui dispongo è troppo piccolo perché contenga le carote e il tonno, per poi mescolarlo senza far cadere fuori qualcosa continuamente. La signora osserva silenziosa, poi a un tratto si alza faticosamente dalla sedia dirigendosi agli sportelli del pensile sopra il lavabo di ceramica e tira fuori una larga ciotola. Zoppicando arriva al tavolo, l’appoggia e la spinge verso di me. La ringrazio sorpreso e trasferisco la cena nel contenitore più capiente. Ha la mano destra con le dita piegate dall’artrite deformante e la tiene appoggiata al petto, torna al pensile e prende un bicchiere porgendomelo.
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In Brasile piove molto forte, condizionando non poco il match, ma al decimo della ripresa, Muller segna il gol del vantaggio, con grande gioia del telecronista, esultante per la prodezza. La signora appoggia la mano deformata sul tavolo, è davanti a me con la testa girata a sinistra per osservare l’azione con catturata attenzione. La sequenza rallentata del goal è riproposta decina di volte e lei rimane a meno di mezzo metro dal mio sguardo, così da riuscire a osservare i particolari delle sue guance solcate da rughe profonde. Scorgendo i bagliori delle immagini riflessi nelle sue iridi, fisso il ciuffo di capelli che esce dal fazzoletto, il grosso naso aquilino, odoro il suo profumo che sa di camomilla. Poi ricominciano le ostilità da centro campo e lei si rianima, va verso un cassetto, lo apre e tira fuori le posate, prende un tovagliolo di carta dal mobile e me li mette vicino alla ciotola, sempre in silenzio, con un occhio alla partita, facendo tutto con una mano sola. Ringrazio ancora ma sembra non accorgersene, ritorno verso la sua poltrona pieghevole, zoppicando e poggiando la mano sciupata sul tavolo. Si siede lentamente, con cautela ma non riesce a sollevare le gambe, mi alzo e con uno scatto sono da lei, gliele sollevo e appoggio sulla sedia. Lei fissa lo schermo, guarda la sua partita e il mio rassicurarla si perde nel nulla. A volte i convenevoli sono sinceramente superflui. È semplicemente naturale adoperarsi per gli altri, come fosse una sana abitudine e i ringraziamenti sono fuori luogo, non richiesti. È quello che avrebbe fatto una nonna con un nipote, apparecchiando per la cena. È quello che un nipote avrebbe fatto per la nonna, facilitando il suo accomodarsi. Vivo una parentesi minima di una rappresentazione teatrale, protagonista a mio buongrado di un intermezzo famigliare. Mastico al ritmo delle azioni da gioco, abbasso la testa sulla ciotola e riemergo con una deviazione dello sguardo ogni tanto verso la nonna che sbadiglia manifestando stanchezza. Ripongo le stoviglie nel lavabo, pulisco le briciole mettendo a posto la sedia ed esco, la saluto e lei ricambia con un gesto della mano arcuata. Salendo le scale rifletto sulla differenza che intercorre tra il viaggiare da soli oppure in coppia. È vero che in due si creano sinergia e complicità ma il rovescio della medaglia propone, talvolta, l’annullamento di una necessaria apertura all’esterno, confinando le esperienze al vicendevole rassicurarsi. Viaggiare in solitaria, porta a dovermi aprire a tutto, comprendendo attimi sfavorevoli o 210
momenti piacevoli, spinto a cogliere quanto più possibile, anche i minimi dettagli. Nella stanza, apro la finestra agendo su un meccanismo a leva che la pressa nel telaio per renderla stagna, e vado nel terrazzo. Sul pendio della montagna che sfiora il retro della casa, sotto le ultime fronde del bosco di abeti, un cervo immobile mi scruta e poi si nasconde nel folto. Le ultime luci tingono di rosso le montagne tutto attorno, resto un paio di minuti fermo a guardare senza pensare a niente, a nessuno, cercando la bellezza delle minuzie e dell’insieme. Poi rientro e mi svesto, m’infilo tra le lenzuola e il resto è dimenticanza e sonno. (play Young and Beautiful-Lana Del Rey) Ho visto il mondo, ho fatto tutto, ho avuto i soldi, diamanti, brillanti. Ora , sono a Bel Air, calde serate d’estate, a metà Luglio. Quando io e te eravamo scatenati in eterno. I giorni folli, le luci della città, il modo in cui giocavi con me, come un bambino. Mi amerai ancora, quando non sarò più giovane e bella? Mi amerai ancora, quando non avrò altro che la mia anima dolorante? So che mi amerai. Mi amerai ancora quando non sarò più bella? Buon Dio, quando arriverò in Paradiso, ti prego, lasciami portare con me il mio uomo. Quando arriverà, dimmi che lo hai lasciato entrare. Padre, dimmelo, se puoi, tutta quella grazia, quel corpo, quel viso, mi fanno venir voglia di festeggiare. Lui è il mio sole, mi fa brillare come un diamante. So che mi amerai. Mi amerai ancora quando non sarò più giovane e bella?
Venerdì 27 Giugno L’orologio annuncia le sei del mattino. I miei occhi sgranati insistono sul quadrante e risulta evidente che tra poco mi alzerò. Raccolgo i pensieri, li metto dentro un filtro, immergendoli nel pentolone d’acqua bollente delle mie 211
ritrovate energie, rendendoli solubili. I dati nella testa, passano come i vagoni di un treno merci al passaggio a livello e dicono: sono a Biberwir, mi aspetta la salita del Fernpaß, devo arrivare a Innsbruck e poi andare il più in la possibile e questo significa fare il passo del Brennero. È già venerdì e poi resteranno ancora sabato e domenica per completare il mio ritorno verso casa, quindi devo essere veloce, anche se ho già il sospetto di non arrivare a Trieste pedalando. Prendo lo smartphone per fare una verifica, e appare evidente manchino 414 chilometri fino a casa, seguendo una direttrice di montagna che passa da Brunico e Sappada sfociando nella pianura friulana a Osoppo, per percorrere infine cento chilometri di pianura sfiancante. Calcolando una media, sarebbero circa 140 chilometri al giorno e non sono i miei numeri questi. Risulta alla mia portata e molto più allettante, l’idea di arrivare fino a Verona e da lì, prendere un treno molto comodo e rilassante dopo tutti questi chilometri. Sarebbero 340 chilometri e questi sono fattibili, anche in considerazione delle quote altimetriche che mi agevoleranno nella discesa dal passo del Brennero verso la pianura veneta. C’è un pizzico di rammarico nel dover approdare a Verona e non completare il rientro a Trieste, ma a conti fatti sono in totale Mille Miglia e onoro appieno il titolo del mio viaggio in solitaria. Non ho mai fatto drammi per una rinuncia, mi adatto alla necessità e alla situazione contingente, perché intestardirmi per raggiungere ad ogni costo un obiettivo non è quello che cerco. Infine, viaggio per diletto, per divertimento e scioglievolezza di pensieri, unendo il gesto atletico alla scoperta, alla fotografia, all’ascolto della musica e alla conoscenza con persone nuove e diverse. Comunque sia, il tempo delle riflessioni è finito e la tuta dell’Italia mi abbraccia trasformandomi ancora una volta nel principe azzurro della bicicletta. L’aria sul terrazzo già di primo mattino è mite consigliando su un uso più leggero dell’abbigliamento. La sala da pranzo diventa quella della prima colazione e la nonna sempre molto discreta appronta il posto su cui accomodandomi. Sono servito di una tazza di caffè e marmellatine con fette biscottate. La scelta non esiste, si limita al gusto pesca o fragola delle vaschette monodose. Bisogna perdonare tutto a una nonna, anche il caffè bollente che non va mai giù di temperatura. Termino quanto più celermente possibile e alzatomi non trovo nessuno nel piano, la cucina è vuota e pertanto esco per aprire il garage e caricare la bicicletta. Lascio il telecomando su un mobile 212
dell’ingresso e parto alle sette e dieci in punto, carico ed emozionato per affrontare la salita. Percorro tre chilometri e la pancia inizia a brontolare, fino a diventare fitte inconfondibili, mentre spingo un rapporto pesante a un ritmo che subisce il rallentamento dovuto al disturbo. Vorrei aspettare per arrivare in un posto più adatto, ma diventa insopportabile e lo sguardo inizia a cercare ansiosamente un posto adatto alla sosta di emergenza. Una rientranza nel fitto di un bosco di abeti fa al mio caso, e appena in tempo mi libero dalle fastidiose fitte al basso ventre. Accucciato, guardo attorno scorgendo un capanno di caccia mimetizzato nel folto, seguo con gli occhi il percorso di un recinto di filo spinato che limita la parte soleggiata da quella ombrosa arrivando a inquadrare il cartello scolorito ma leggibile raffigurante la sagoma di un orso e la scritta “vorsichtig braunbär” (attenti all’orso bruno). Spero vivamente di non rientrare nel territorio di caccia di qualche plantigrado e proprio mentre lo penso, a poca distanza da me, con un improvviso e fragoroso trambusto, un capriolo inizia una fuga da quello che fino a un istante prima pensava potesse essere un buon nascondiglio. Una vampata di terrore m’infiamma in quel secondo, fino a comprendere che si tratta di un innocuo ruminante, indirizzandogli, ad ogni modo, un solenne invito poco amichevole. Tornato sulla salita, mi accorgo con sommo rammarico di avere nella tasca posteriore della maglia da bici, le chiavi della stanza dimenticate nella fretta di tornare a pedalare. Medito sull’andare avanti lo stesso e fregarmene di restituirle, ma la coscienza bacchetta, costringendomi a tornare indietro incontrando sulla porta della casa il proprietario barbuto che mi ringrazia di essere ritornato indietro. Riparto ancora una volta sulla salita e in questo momento libero da chiavi, fitte e altri pensieri. (Play Still Loving You-Lorena) - La salita ha una pendenza tutto sommato accettabile, e ogni cosa fila liscia fino al rientro sulla statale quando il traffico si presenta ruggente, irriverente. Inizia a farsi sentire il caldo e consapevole di cosa mi aspetta, prima di iniziare, tolgo la maglia e resto a petto nudo. Sento di essere io l’intruso, d’invadere una parentesi del pianeta dedicata ai mezzi pesanti e alle macchine veloci, ma una buona volta, dopo avere atteso un momento di calma, regolo il cambio su un giro di gamba snello e inizio una scalata da seduto su una pista somigliante a quella di uno spazio-porto che proietta i veicoli in accelerazione verso l’infinito. Sono cinque chilometri di sfida ad autoarticolati 213
che arrivano rombando, passano alzando nuvole di polvere e regalano esalazioni combuste di motori da cinquecento cavalli. Arrivano a gruppi di sei o sette, seguiti da un codazzo di autovetture in attesa del momento propizio per un sorpasso, li vedo nello specchio con le luci puntate e tremolanti, con le frecce lampeggianti. In senso opposto scendono bestioni ancora più lenti con una scia di automobilisti deliranti pronti a tutto per un sorpasso. È un susseguirsi di mancate collisioni che riescono a darmi la sensazione di abitudine alla paura, reprimendo l’idea del rischio che sto correndo. La salita ha attimi ancora più pendenti, altri più leggeri e il passaggio dei convogli taglia l’aria creando una scia che agevola la pedalata, alimentando l’adagio attestante ci sia un po’ di male nel bene e un po’ di bene nel male. Il paesaggio ora non esiste, l’asfalto marcato dalla linea bianca continua diventando l’icona del mio pedalare. Tengo fisso lo sguardo verso il basso, con qualche rapida occhiata al punto in cui lo scenario montano, scompare immancabilmente dietro la sensuale curva consecutiva. Scorro sull’arteria verso l’obiettivo da raggiungere, spingendo senza sosta l’eccentrica rivoluzione delle ginocchia, trasformando zucchero in energia cinetica. Allo stesso tempo il rischio costante, esercita un adrenalinico fascino magnetico, orientando il ferro del mio sangue che permea i muscoli delle gambe. Poi, dopo l’ipnosi, mi sveglio sul ciglio del parcheggio della Gasthaus Zugspitzblick, un ristorante che domina la vallata sottostante e di fianco l’insegna espone su un palo alto quattro metri il ferrovecchio di una Yamaha XS 750 special. È la testa a giovare della sosta, è un rientro alla normalità. Le gambe reggono, il fiato è regolare, la seduta è sostenibile, ma in questi tratti perdo contatto con l’ambiente e soltanto adesso, guardandomi attorno, percepisco la monumentale bellezza di questa montagna. Giù in fondo nella valle, adagiato alle proprie sponde, risplende il Blindsee, un lago dalle sfumature di smeraldo e cristallo. I rilievi, rivestiti da una vegetazione vigorosa, assomigliano a un tumultuoso e spumeggiante oceano verde con creste d’onda di nudo granito. Dietro di me, le vette di roccia più alte sono pinnacoli di isole innalzate a confondere un orizzonte circondato da nuvole. Ora rifiato con calma, seduto su una delle tante panche ai tavoli esterni, scatto foto fissando sulla pellicola elettronica. 214
Adesso invece, sono poggiato sulla staccionata limitante lo strapiombo sottostante. In questo momento sembra non appartenermi niente, il tempo è una dimensione impercettibile, sono beatamente perduto ad assimilare il paesaggio e solo quando esplorandolo nell’abbraccio di uno sguardo, arrivo alla strada, inizio a scalare il dosaggio di relax per ricominciare a pensare alla pedalata. Adoro viaggiare e arrivare qua, è interrompere l’incedere ma solo per fissare il nuovo traguardo, arrivato dopo dieci minuti di salita a marce ridotte sul punto più alto della sella, a quota 1212 metri sul livello del mare. Questo punto, separa orograficamente le Alpi della Lechtal, ad ovest, dai Monti di Mieming e del Wetterstein ad est. Compio una piccola breve sosta per un sorso d’acqua e mettere la giacca antivento per affrontare al meglio la discesa. Vado giù veloce, a quaranta l’ora, testo ogni tanto il funzionamento dei freni e dopo cinque chilometri di discesa e 276 metri di dislivello arrivo al castello di Fernstein, che si specchia nell’omonimo lago. Il primo insediamento nei pressi del castello vide la luce nel 1288 adibito a stazione doganale, raggiungendo la forma attuale con consecutive trasformazioni nel corso dei secoli. Le rovine della prima torre quadra dominano l’odierna costruzione adibita a lussuoso albergo che concede attimi particolari nelle suite intitolate a nobili dell’epoca e con un costo medio di circa cento euro per persona a notte, mette a disposizione ambienti arredati con preziosi tappeti e letti a baldacchino in stile barocco, e altri, originali rustici tirolesi con tanto di palchi di cervo appesi alle pareti illuminati da lampadari di cristallo. Per di più, un prezzo comprensivo di una ricca colazione con trattamento di mezza pensione nel suggestivo ristorante dell’albergo con vista lago. Lo specchio d’acqua, di proprietà dell’albergo, si estende per una larghezza di cinquecento metri ed è rinomato agli sportivi amanti delle immersioni per la purezza delle sue acque. Non poteva mancare una cascata che si spinge fuori dalla gola posta sopra il fortilizio dell’albergo a dare una pennellata di perfezione a questa gemma tirolese. Sosto in un ristorante self-service a pochi metri di 215
distanza dal ponte che passa sopra un emissario del lago, per una nuova pausa contemplativa sorseggiando un the caldo che fuma di fianco a un piatto di strudel di mele alla cannella. Mi diverte guardare la piccola banchina del molo, dove sono ormeggiati due pedalò e due piccole imbarcazioni a remi a forma di cigno, rispedito alla leggenda di Lohengrin che tanto ha ispirato Wagner e ammaliato re Ludovico secondo di Baviera. Chiamo casa per condividere il momento favorevole e al telefono emerge che, per chi mi aspetta, finalmente mancano pochi giorni alla conclusione della mia assenza, mentre per me si avvicina il traguardo di un’avventura che dura già da due settimane. Contrastanti alla chiusura della conversazione le sensazioni di una fine imminente del viaggio, della gioia del rientro, del dispiacere di lasciare posti incantevoli, della stanchezza che lentamente alza l’asticella, ma poi infine una volta in sella, calo gli occhiali, controllo la rotta e attacco la musica, ripartendo dentro il mio pedalare tra la sorprendente accoglienza del Tirolo. Sono tutto quello che penso di essere, mutando secondo l’umore o le occasioni, avendo il controllo di una parentesi di tempo larga come una finestrella sul corso della vita, e la discesa è un calmante di cui abuso conscio che poco prima di Nassereith, con una svolta verso est, affronterò la seconda salita di giornata per innalzarmi verso l’altopiano di Meiminger. (Play Beethoven’s 5th- Steve Vai) - Aver fatto il Fernpaß senza grosse difficoltà, mi tranquillizza e la nuova salita per quanto trafficata, è dotata di un largo margine che mi consente di pedalare in piedi per quasi cinque chilometri con un ritmo sincrono di un giro di pedali e un respiro. Giù il piede destro e inspiro, giù il piede sinistro ed espiro, arrivando dopo una ventina di minuti a Obsteig. Sono le dieci e quaranta del mattino quando a Krebsbach incrocio un corteo di macchine d’epoca che romba fragorosamente, poi svolto a destra per raggiungere la valle dell’Inn, il fiume che attraversando la prossima città, ispira il suo nome: Innsbruck. Ora il percorso è un rettilineo che lambisce i paesi della vallata e inizio a incrociare centri commerciali e stabilimenti industriali di grosse dimensioni, provando nostalgia per la semplice naturalezza dei boschi selvaggi lasciati alle spalle. 216
Tengo una pedalata spinta mantenendo costantemente i ventisette chilometri l’ora, fino alla sosta a Zirl per rifocillarmi sotto un imponente salice di fianco a una scuola elementare affrescata in stile tirolese, e rinvigorito riprendo la rotta. Entro nel territorio comunale della città a mezzogiorno dopo trentacinque chilometri di leggerissima salita. Sulla mia sinistra, si ergono maestose le cime della Nordkette, la cordigliera rocciosa che protegge la città, mentre a destra, verso sud, cerco con lo sguardo le avvisaglie del temuto passo del Brennero che ripidamente attende per farmi fare ritorno sul territorio italiano. La città è elegante, placida, riversa sulle strade molto ampie una sommessa ricchezza e mano a mano che mi accentro, diventa sfarzosa sfoggiando colori e decori. Entro spingendo a mano la bicicletta nella Rathause Galerien, un centro commerciale dove assisto al numero finale di uno spettacolo di pol-dance messo in scena da due atletiche ragazze avvinghiate attorno a una pertica. Esco da un’altra uscita sboccando in Maria Theresien Strasse, la via centrale e più rinomata, pullulante di vita, di cicloturisti e villeggianti a piedi. Percorro il viale sul quale si affacciano le vetrine dei negozi di marchi famosi, attirato dai ritmi caraibici che arrivano da una manifestazione di ballo latino-americano che si svolge davanti alla chiesa Spitalskirche. L’edificio rallegra lo spirito, alterna le pareti tinteggiate di rosa al colonnato in granito scuro e si arricchisce di numerosi fregi bianchi. Ora proseguendo verso l’edificio con il tettuccio d’oro, attraverso una via maestra molto trafficata, continuando sul viale ora è intitolato all’Herzog (duca) Friedrich. Il viale si restringe e i palazzi si alzano gotici e barocchi in un contrasto di colori. Qui si mescola il vociare della massa ondeggiante da un versante all’altro per cercare l’inquadratura migliore o trovare un souvenir che attesti l’avvenuta presenza. Il vociare è soprattutto italico, è un pot-pourri di dialetti dello stivale, colgo alcuni brani, esclamazioni di meraviglia, di stanchezza, rimproveri a bambini che toccano tutto, oppure non vorrebbero niente di diverso da una palla o un’altalena, al posto di un turismo imposto.
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Il centro storico di Innsbruck offre negozi ben spaziati, collocati sotto le arcate dei palazzi e le mercanzie non si accalcano une addosso alle altre. Offrono una variegata scelta di oggetti artigianali e di prodotti gastronomici tipicamente tirolesi da gustare al momento sugli sgabelli dei tavoli all’aperto, come gli spätzle al formaggio (Kasspatzln) e la rosticciata di carne e patate (Gröstl) o gli insaccati che riempiono il negozio di Handl Tyrol, specializzato in tranci di speck e salsicce di ogni gusto e dimensione. Passando davanti all’ingresso, il profumo costringe a una visita, a un piccolo assaggio. Lo speck è in definitiva un pezzo di carne di maiale salata e poi appesa nell’affumicatoio, e il suo gusto dipende anche dal tipo di legno (faggio, larice, quercia) bruciato. La differenza non è solo olfattiva, avverto anche nel gusto note diverse. Fuori dalla bottega, riprendo la via che torna ad allargarsi per chiudersi alla fine con la casa dal tettuccio (Goldenes Dachl), simbolo della città. Si tratta di un erker tardogotico, essenzialmente uno spazio per proiettare all'esterno di un edificio alcune finestre. Il Goldenes Dachl, sorge sulla facciata del Neuer Hof, l'antico palazzo dei conti del Tirolo, ed è ricoperto di 2.657 scandole di rame, dorate a fuoco. L'erker si sviluppa in due volumi sovrapposti sormontati dal celebre tetto dorato. La parte inferiore è incentrata su una finestra tardo-gotica poggiante su una serie di stemmi scolpiti, inquadrata dagli affreschi di due alfieri e dagli stendardi dell'Austria e del Tirolo. Nella parte superiore sporge un balcone a loggia con rilievi e affreschi raffiguranti la vita di corte di Massimiliano I, sormontati dal tettuccio. Nei pressi di un palazzo sulla destra, si tiene una manifestazione giocosa dei vigili del fuoco che coinvolgono i bambini nella prova di spegnimento di un fuoco con le lance ad acqua o di un’arrampicata assicurata su una palestra di roccia artificiale. Arrivato al fondo del viale, ricevo un divertente inchino di un artista di strada interpretante Charlie Chaplin, che in solenne silenzio, invita a osservare la bellezza di casa Helbling, un edificio borghese caratterizzato da una bella facciata a stucchi policromi rococò,
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costituiti da cornici, mascheroni, tralci floreali, putti, trofei, grappoli di frutta, conchiglie e volute, inquadrata ai lati da due erker alti quattro piani. L’antipasto a base di speck ha stimolato l’appetito ma non voglio appesantirmi con un pranzo indigeribile, quindi scelgo l’alternativa dolce di una tazza di caffè espresso con una fetta di strudel di mele e salsa alla vaniglia allo “Strudel caffè Kroll”, dove lavorano tre baristi italiani che preparano il caffè in modo professionale usando alcune delle regole d’oro per ottenere il massimo dalla macchina: spennellare il caricatore, macinare il caffè di fresco, pressarlo simmetricamente. Omettono, però, di osservare l’usanza di pulire con una scarica d’acqua l’erogatore prima di fare una nuova infusione. Complimentandomi per la qualità del prodotto, chiedo come mai saltano l’ultimo passaggio e uno di loro, confessa che la titolare lo proibisce perché la macchina registra il lavaggio come un caffè erogato e questo alla fine peserebbe sulla contabilità. Poco importa, alla fine sono seduto fuori a una tavolata ad assaporare un dolce eccezionale, chiacchierando con una ciclista tedesca intenta nella degustazione di un trancio di strudel ai frutti di bosco e finalmente riesco a trovare una direzione linguistica in questo tedesco così ostico, riuscendo a fare qualcosa di meglio dei soliti grugniti balbettanti. Lei oggi ha passato una bella giornata sulle piste fuoristrada della regione, si trova a cento chilometri dalla partenza e dopo la sosta al caffè, prenderà il treno per tornare a casa nella sua Germania. Le racconto del mio, sciorino le città toccate durante il viaggio facendola restare a bocca aperta e dell’intenzione di imboccare il passo del Brennero di la a poco. I ciclisti, come altri sportivi, alimentano i loro sogni confrontandosi con altri e ascoltando le avventure intraprese si rendono conto di avere a portata di mano la possibilità di essere protagonisti a loro volta e lo noto quando vedo che si ammutolisce per brevi istanti e guardando il vuoto in alto a sinistra annuendo, lo riempie fantasticando qualcosa di realizzabile. Terminata la degustazione, ci salutiamo vigorosamente con un abbraccio, allontanandoci in direzioni opposte. Passo davanti alle vetrine di un negozio interamente dedicato alle schnaps, le acquaviti e distillati tirolesi di alta qualità, aromatizzate alla frutta. La disposizione ordinata per colore è un trionfo luminoso, sfarzoso e la pubblicità sul cristallo racconta la maestria e la cura dei metodi tradizionali. Una famosa distilleria di Lienz, per esempio, non aggiunge 219
alle proprie schnaps né zucchero, né sostanze aromatiche, producendone soltanto quattromila litri l’anno. Per un solo litro di questo distillato di lamponi occorrono circa settanta chilogrammi di frutta, e ciò significa che l’aroma e il tasso alcolico, derivano esclusivamente dalla fermentazione. Non mi faccio mancare un piccolo assaggio gratuito, di un sapore a sorpresa, trovando conferma nel corposo gusto che infiamma in un istante il palato, lasciando vivo il gusto di fragola per molto tempo. La confusione dei turisti, appare a tratti eccessiva, e quando arriva una zaffata di fumo di sigaro, allora prende corpo il desiderio di rimettermi in movimento cercando la quiete della strada, il silenzio musicato delle foreste, il profumo di una fatica appagante. Estraniato dalla realtà, seduto su un muretto, consulto i dati del passo sulla mappa che racconta di un percorso ovviamente in salita, lungo trentasei chilometri con un dislivello di 988 metri per arrivare a quota 1382 sul livello del mare. Sono le due e mezza del pomeriggio e in tre ore dovrei farcela, scollinare e poi scendere più velocemente possibile sul versante italiano a caccia di una stanza per la notte. Per gestire le gambe decido di eseguire una sosta di un paio di minuti ogni due chilometri, indipendentemente dal grado di affaticamento. Sfilo la chiesa di sankt Jacob, regolo la bussola mentale verso sud e prendo la direzione del Brennero. Innsbruck, sfuma nella mia testa, occupato a gestire le energie, a dosare le forze. Sono un ciclonauta ospite del territorio, non un ciclista stanziale o un preordinato turista, sono da solo e su un passo impegnativo, vicino al traguardo del rientro in Italia, intimorito ma deciso e siccome questa sosta è stata come le altre provvisoria, m’impegno a dare un ulteriore contributo a una felicità di libera scelta. Sarebbe stato bello intrattenermi, visitare monumenti, castelli e chiese, ma non possono bastare un paio d’ore per rendere giustizia a secoli di storia, come in tutte le altre città incontrate sulla rotta della mia Mille Miglia. A destra, mi saluta la basilica Wilten e a sinistra il suo grande monastero, poi punto in alto la vista inquadrando il punto dal quale mi fissa il Bergiel Schanze, il trampolino olimpico per il salto con gli sci, e mentre pedalo in piedi ondeggiando sulla prima rampa che passa sotto la superstrada, con una strisciata di sguardo vedo il torreggiante castello di Amras ammiccare, lasciando un biglietto da visita per la prossima volta se dovessi ripassare. Gli incroci sono leggibili, la pendenza notevole, ma sono fresco e sui tornanti iniziali eseguo la prima sosta, onorando il proposito dell’inizio. 220
La vallata si restringe e ogni via di comunicazione viene a stretto contatto con l’altra, a tratti sovrapponendosi. Sul fondo scorre il fiume Sill, a sinistra salendo, si trova la ferrovia e sopra la testa i viadotti vertiginosi della A13 con il ponte Europa che raggiunge la lunghezza di 819 metri e un’altezza di 190. (Play Rock The Night-Europe) - Pedalo sulla strada 182, la via si snoda sui fianchi della montagna nel lato destro della valle, rombano moto di ogni foggia e colore, lanciate in sfide rumorosissime e quando prendo le prime pause, accosto sul lato destro, osservandoli. Provo un moto d’invidia per la semplicità del girare l’acceleratore e arrivare in un momento cento metri più su, ma la soddisfazione d’essere arrivato lentamente a superare questo dislivello con le mie forze, compensa la fatica. In alcuni tratti, spingo il rapporto più corto di cui dispongo, cercando di rimanere il più a lungo possibile con il posteriore incollato alla sella, evitando di uscire in piedi e bruciarmi le gambe. Arrivo a Matrei am Brenner e la via di comunicazione diventa meno ripida mentre attraverso il borgo tra due ali di palazzi con le facciate dipinte con colori sgargianti, affrescate con i decori floreali attorno alle finestre e le insegne di bronzo a capitanare le entrate delle attività commerciali. Parcheggio nei pressi di una fontana la bici e nel supermercato attiguo acquisto carburante per le gambe sotto forma di snack alla cioccolata e bibite energetiche. Seduto sul granito levigato, mastico golosamente, mi disseto e passo le mani sui polpacci gonfi e invenati. Devo premere parecchio il pollice per avvertire un dolore sul muscolo diventato quasi insensibile. Anche la coscia è tonica e solo all’altezza del ginocchio restituisce al tocco un riverbero di stanchezza. Dopo venti minuti, riparto con le gambe che stentano un chilometro a riprendere il ritmo e infine iniziano a roteare sempre più velocemente, tanto da farmi usare un rapporto di pianura nonostante l’altimetro conferma stia salendo di quota. Forse il cibo ingerito possiede elementi mirabolanti? La ragione dello stato di grazia risiede nel vento alle spalle che ora inizia a soffiare sostenuto. Me ne accorgo vedendo nello specchietto la bandierina austriaca a poppa sventolare nella mia direzione mentre arrivo ai ventisette l’ora, inebriato dal favore reso dalla fortuna. Non oso pensare cosa sarebbe stato se lo avessi avuto contro!
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Trascinato da questa combinazione, spingo forte, recupero sulla media cercando di mantenere un’andatura rapida che dura per dodici chilometri, fino a quando il vento cessa. Mentre prendo una pausa di recupero per l’ultima parte di salita, intuisco mi aspetti un tratto molto ripido, intravedendo in lontananza la A13 insinuarsi in una gola a una quota di circa centocinquanta metri più in alto della mia. (Play I Wanna Be Your Lover –Fratelli la Bionda) La previsione è ampiamente rispettata, inizio a salire dovendo capitolare a continue pause. Ci sono quattordici gradi, il sudore scendendo dalla testa imbratta gli occhiali, il naso cola, il respiro è quello di una fiammeggiante fatica. Cerco di resistere nella spinta più che posso, ma progressivamente le gambe s’impastano e sgancio ogni volta di colpo per non cadere come un idiota. Fermo sul ciglio della strada, con le zampe sulle manopole, guardo la tetta sinistra sobbalzare ritmica ai colpi del cuore, il fiato è a squarciagola, nell’attesa del recupero roteo lo sguardo che pulsa sul panorama, sul timer, nello specchio a controllare il traffico, inganno l’attesa cercando di capire quanta maledetta salita manca sulla mappa del telefono e ogni volta il responso è impietoso: manca una vita! Il fiume Sill diventa infine un rigagnolo fino a estinguersi del tutto, prima dell’ultimo ripido tratto di asfalto che finisce con una svolta a sinistra, tornando a viaggiare all’unisono con la ferrovia e l’autostrada, per un cammino che termina la parte austriaca di viaggio sulla sommità segnata dal confine con l’Italia. L’emozione e la gioia di essere arrivato pareggiano il conto con la stanchezza e sopravanzano di poco quella di essere sempre più prossimo alla conclusione della Mille miglia ma questa magia merita di essere immortalata e vicino al cippo punzonato sul confine, scatto innumerevoli fotografie in ritratti giustamente festanti. Poco distante dal mio set, ci sono i primi centri commerciali e un rifornitissimo negozio che propone completi da ciclismo ma con cifre ben sopra ai miei limiti di spesa. Passata l’euforia, riprendo il ruolo di navigante in questo lembo alpino, riconsegnato ipoteticamente alla mia lingua, alla facilitazione di qualcosa di 222
familiare e improvvisamente come avessi una boccia di vetro con la neve al posto della testa, i ricordi del viaggio iniziano a volteggiare frammentati in mille immagini, offrendo le dimensioni di ciò che è stato pedalare fino a questo punto. Indosso la giacca antivento, il cappello e i guanti per affrontare la discesa sulla statale 12 dopo la faticosa salita, sicuro che scendere senza muovere un muscolo per tanto tempo avrebbe provocato un’infreddatura. La valle è per la maggior parte del tempo in ombra, filo giù liscio sulla pista ciclabile dell’alta val d’Isarco, collocata ai lati della carreggiata destinata ai mezzi a motore, tra i boschi rigogliosi che s’interrompe poco prima di entrare a Vipiteno, quando sono le sei del pomeriggio. Transito sul piazzale, luogo di partenza dell’impianto di risalita verso il Monte Cavallo, famosa meta degli sciatori durante l’inverno e degli escursionisti d’estate, avviandomi al centro storico, un gioiello di architettura medievale perfettamente armonioso, impreziosito da numerosi negozi e alberghi. L’epicentro cittadino, ricostruito nel quindicesimo secolo a seguito di un devastante incendio, è denominato città nuova e impressiona per la generosità degli spazi e le facciate colorate delle case. Quelle borghesi con frontoni merlati, inferriate alle finestre, archi marmorei a sesto acuto ed erker (o più italianamente bovindi) testimoniano la ricchezza del centro abitato. A metà della città nuova si trova il palazzo comunale, ospitante la sala del teatro Vigil Raber una delle più antiche del Tirolo, e nella cui corte interna, si può ammirare una copia di marmo della lapide del dio Mitra di epoca romana. La via è riservata al transito pedonale, spingo a mano la bicicletta sul selciato contemplando questa sorta di imitazione in miniatura del viale centrale di Innsbruck. Nel cuore della città si trova il suo simbolo, l'edificio più alto di Vipiteno: la torre delle dodici. È attraversata da una grande porta ad arco che unisce la città vecchia con la città nuova, ergendosi verso le nuvole per quarantasei metri. Nell'ottobre del 1867 un incendio distrusse la guglia gotica della torre che venne in seguito ricostruita con un tetto sostenuto da frontoni di pietra gradonati.
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Sono arrivate le sette della sera e nella ricerca in internet di un albergo, m’imbatto in un’offerta molto conveniente per una soluzione appena un po’ decentrata. Per cinquanta euro trovo alloggio all’albergo Mezza Luna in una matrimoniale uso singola molto comoda e raffinata, con un bagno spazioso, e nell’offerta è compresa la cena e la prima colazione del mattino seguente. Chi mi accoglie alla reception è un signore dal forte accento tedesco, ed essendo le prime parole scambiate in Italia con qualcuno, resto interdetto perché ero pronto a un’inflessione diversa. Faccio a mente il confronto con il barista di Innsbruck o con le altre persone incontrate per le strade della capitale del Tirolo ed è curiosa questa inversione linguistica. Sono inserito in una realtà di confine che sconfessa le uniformità culturali e linguistiche dello stato di appartenenza e priva di un’identità nazionale rigorosa, crea una miscelanza. Avverto distintamente questo legame regionale di confine, una bolla di usi, tradizioni, costumi, lingua, problematiche e soluzioni che allarga il suo volume e ingloba al suo interno anche questa cittadina. D’altra parte, il Tirolo esiste da secoli e i passaggi di mano dovuti ai conflitti del passato non hanno modificato la gente che vive su queste montagne. Nella stanza, dopo il rituale della doccia e del cambio, mi stendo un attimo sul letto e l’addormentarmi è istantaneo, il risvegliarmi fulmineo, controllando immediatamente quanto tempo è trascorso. Sono stanchissimo, ho dato tanto consumando larga parte delle mie naturali riserve di energie e la fame è il segnale di una necessità da soddisfare nell’immediato. Scendo nel ristorante dell’albergo e ammirando i tappeti orientali sulle scalinate arrivo ai pianerottoli occupati da mobilio d’epoca. Poltrone e divani in broccato giallo e rosso, assieme a piante ornamentali, creano allettanti angoli per soggiornare in tutta tranquillità. L’albergo oltretutto, mette a disposizione una piccola zona con idromassaggio e sauna ma questa sera ho soltanto voglia di mangiare e filare a dormire. Il ristorante, sotto le volte gotiche sorrette da colonnati in pietra grezza, è ampio al punto da ospitare duecento coperti. Il menù fisso propone un antipasto di affettati a buffet con le verdure, un piatto 224
di manzo brasato e una fetta di dolce con la ricotta. Mangio molto lentamente ma con gusto, e colgo nell’aria, proveniente da un tavolo vicino, la chiacchiera familiare, la sonorità della cadenza dialettale di casa. Inconfondibile inflessione che mescola veneto e friulano, slavo e tedesco, una lega fonica squillante e irriverente, una tonalità a impulsi che litiga con un italiano tradizionalmente più rotondo. Non è bisiacco, isontino o gradese, è proprio triestino, qui a Vipiteno. È uno stargate che mi proietta a fionda immediatamente a casa. Mi giro per guardare il viso degli interpreti. Sono una coppia di motociclisti, un uomo e una donna ai quali mi presento e chiedendo conferma sulla loro provenienza, rivelo poi di essere un loro concittadino. Intraprendo con la coppia di commensali una chiacchierata, commentando la bellezza del ristorante e dell’albergo in generale, passando poi a raccontare l’itinerario che ha portato a incontrarci a cena. Loro sono Alessandro e Karen e appena possono, organizzano fughe motorizzate sui passi alpini. È un bel modo di passare le vacanze, sostano in località raggiunte con la comodità di un motore che spinge, in compagnia di una persona complice e mentre espongono le mete raggiunte, si guardano, ricordano, confermano, si rallegrano, si stringono la mano, continuando a sciorinare felicità verbale. Sono persone positive, ottimiste, si complimentano per il mio itinerario e respingono scherzosamente l’ipotesi di farlo a loro volta, per nessun motivo valido al mondo. Poi saluto alzandomi sui quadricipiti a stecche di bambù crepitanti, vado verso l’ascensore e lo specchio di fronte, conferma l’ipotesi di un’aria stanca e raminga, sotto l’accenno di una ruvida barba. Attacco gli elettroaiutanti alla rete, sopperendo alla loro esigenza di ricarica e accendo la tele per cercare una dispersione da qualsiasi pensiero, ma sono tornato in Italia e il calcio giocato ha lasciato posto a tribune pallonare prese ad analizzare i traumi infantili e senili della nazionale eliminata, nicchiando sulle squadre ancora in corsa per la coppa. Una noia mortale, un suicidio culturale, un tentativo di esproprio di giudizio. Seleziono un programma che tratta il tema delle lettere, quelle postali, le semplici missive vergate a mano per comunicare uno stato d’animo, come quelle d’amore di oggi o di una volta. Sembrano soltanto un modo per restare attaccato al piacevole ricordo del profumo d’inchiostro, rianimandolo con pezzetti di presente, e invece realizzo di sentire la mancanza di esternare attraverso la semplice scrittura dei pensieri, portando
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fuori riflessioni e darle in pasto a chi può aiutarmi a masticarle, deglutirle, digerirle e infine eliminarle. È una valvola di sfogo, mi concede di esprimere qualcosa che potrebbe restare compresso. Talvolta i pensieri, mescolati a concetti e riflessioni, diventano un minestrone dentro a una pentola a pressione, che sul fuoco lentissimo fischia all’improvviso. Scrivere per me è quell’ otturatore sbuffante, limita la pericolosità di una cottura rapida. Attualmente, confrontarsi con la cerchia di persone più esterna al quotidiano, è diventato complicato e se fino a poco tempo fa i social avevano riavvicinato persone quasi dimenticate, ora le stesse lentamente tornano a eclissarsi per le medesime ragioni per cui si sono dissolte tempo addietro, creando un vuoto artificiale. Come fossi “l’eletto” entro nella ma “matrix” , quella ideata da Zuckenberg. Questa grande piazza virtuale mangia tempo ha esaurito credibilità, è in declino, deturpato dalla pubblicità, dalla mancanza di personalità, dal rigurgito mediatico di politiche stordenti, è infarciti di cronaca sempre uguale e da errori che non servono a imparare. Dentro la rete, trovare un approdo degno per sbarcare pensieri pesanti, sembra impossibile. Guardo le pagine scorrere e trovo una pochezza spaventosa, un vuoto così deprimente da essere capace di spegnere qualsiasi voglia di rapportarmi. Avrei una marea di cose da dire, di esperienze da trasmettere, di domande da fare, di fisicità da reclamizzare, di lezioni cui aggrapparmi e capita di sentirmi ben oltre la pentola a pressione, più prossimo a un vulcano tappato sulla punta, con la lava che spinge. Devo estinguere quel fuoco, adeguandomi alla mediocrità? Devo pensare che il massimo del patrimonio di conoscenze da condividere sia il volantino del supermercato sotto casa? Scorrendo tra gli annunci degli amici di facebook cerco qualcosa d’interessante, ma le ultime proposta di novità arrivano dal mio viaggio, e non ci sono molte altre sponde incuriosite che prestano attenzione. L’autarchia senza un punto di vista diverso, genera la presunzione di avere in mano la conoscenza e a me piace confrontarmi con qualcuno capace di contraddirmi (non eccessivamente) per creare un conflitto da risolvere, magari con una soluzione innovativa. Chiudo, spengo, mi riapproprio di altri pensieri più docili e lascio che svaniscano, nel nero morbido di una notte tenera come la pancia di un gatto. Un secondo, credo sia passato un secondo. (Play The Trouble With Me-Skin)
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Sabato 28 Giugno 2014 Sono duecentoventi i chilometri da percorrere per arrivare fino a Verona partendo da Vipiteno, certamente uno sproposito, anche se la vallata dell’Adige fosse tutta quanta in discesa e avessi il vento alle spalle. La fotocopia della carta stradale stesa sulla tovaglia bianca della sala della colazione dell’albergo rimanda ai dati più precisi dello smartphone snocciolando le località che mi attendono nella pedalata odierna. Bolzano e Trento le più evidenti e via via tutte le altre. Questa sala è in un’altra ala della struttura, di uno stile diverso rispetto a quella della sera precedente: luminosa, squadrata, con il soffitto in travi e pannellature di legno, con una parete completamente finestrata che lascia passare la luce del mattino filtrata dai tendaggi bianchi. È un abbondante cabaret di scelte e i salumi contendono il ruolo di principe della colazione al carrello dei dolci. Assegno a morsi e bocconi la mia preferenza ai cornetti, deglutiti assieme a una tazza di caffè e termino con un prelibato assaggio dello yoghurt sfuso, pescato dal mestolo in una grossa ciotola. Ho già il bagaglio pronto, indosso la divisa lunga perché il tempo è variabile e le previsioni indicano la possibilità di qualche sporadico rovescio. 227
Indugio con lo sguardo sperduto ancora un attimo pensando alla notte trascorsa mentre i tessuti muscolari si rigeneravano il più celermente possibile, alla lunga doccia del risveglio che assieme a una veloce rasatura mi ha consegnato al penultimo giorno di viaggio, fino a quando una posata cadendo sonoramente a terra da un tavolo vicino, riporta a contatto con il dover andare. (Play Who Side-Planet Funk) - Al banco non c’è nessuno, ed è meglio così, perché sono taciturno, concentrato più che mai ad assorbire le essenze del posto per farne un ricordo, e ora le parole di altri sembrano inutili. Poggio le chiavi sul piatto della reception e arrivo dalla bicicletta, carico la borsa e controllo la pressione delle ruote. Quella dietro è molto consumata, il battistrada si è ridotto a uno spessore di mezzo millimetro risultando quasi liscio e questo mi preoccupa perché tra il peso e le eventuali buche, sento di rischiare forature, se non uno strappo, in una giornata prefestiva nella quale potrebbe essere difficile trovare un negozio per acquistare uno pneumatico. Alzo le spalle e con fatalismo inizio a pedalare per uscire da Vipiteno. Incrocio subito lo stabilimento della Leitner, famosa per essere leader nella costruzione di impianti di risalita a fune sulle piste da sci di tutta Europa. L'azienda fondata nel 1888 da Gabriel Leitner, in origine era un’officina che si occupava principalmente di macchine agricole e teleferiche per il trasporto di materiali. La prima seggiovia Leitner fu costruita nel 1947 a Corvara in val Badia. L'evoluzione tecnica degli impianti funiviari, con l'introduzione dei sistemi ad ammorsamento automatico avvenuta nel 1983, ha aperto nuove prospettive di realizzazione di innovativi sistemi di trasporto di risalita e urbano, come ad esempio il Minimetrò di Perugia, visto nel giro d’Italia in bici di tre anni fa, adottante una moderna soluzione a fune su rotaia. Scendo sfilando l’edificio e arrivo a un incrocio davanti all’indicazione che segnala come svoltando a destra si arriva al passo Giovo e alla cooperativa Latteria Vipiteno. Questa azienda, produce lo yoghurt che consumo spesso a casa, e incuriosito, compio una piccola deviazione per dare un’occhiata. La cooperativa, in tedesco Genossenschaft Milchhof Sterzing, fondata nel 1884 occupa un enorme fabbricato sulla sinistra della strada del passo. Dagli anni Sessanta ha avuto una grande espansione economica e produttiva ed è a oggi la quarta azienda italiana produttrice di yogurt. Peccato aver fatto già colazione, perché lo spaccio aziendale propone assaggi di tutti i tipi di prodotti caseari. Ritorno indietro per la pista ciclabile, iniziando una dolcissima discesa nel tepore soleggiato del primo mattino in direzione sud. La statale dodici non ha la pista ciclabile di lato, ma il traffico è ridotto e la visuale intorno è di un verde 228
stordente. Con buona probabilità c’è qualche percorso ancora più pittoresco, ma preferisco scivolare giù senza rallentamenti. Nei pressi di Fortezza , dopo le cascate Gampelefall, mi accoglie la storica facciata dell'hotel Sachsenklemme, uno dei simboli del luogo. L'edificio, costruito nel 1868, è ora sotto tutela monumentale. Oggetto di continui rinnovamenti interni ed esterni, ospita l’albergo, basato su un accurato intreccio di tradizione storica e modernità che qui s’incontrano armonicamente. È a tutti gli effetti un castello, con gli imponenti muri di pietra e la torre posteriore, con le sue militaresche ante bianco-rosse, i bovindi e i balconi, e su quello sopra l’ingresso prospiciente il parcheggio, è posto a guardia, un fantoccio dentro a un’armatura che sorregge un’alabarda. Sono fermo davanti alle finestre dei locali al pian terreno, ammiro l’eleganza degli interni e le foto su un opuscolo illustrante i prezzi di una doppia, che in questo periodo si attesa sugli ottanta euro. Niente male per una romantica notte in un castello. La ripresa della passeggiata prosegue su una bella ciclabile affiancata alla statale, sovrastata dall’autostrada che vola sospesa tra i piloni. È un divertente saliscendi in riva al lago artificiale in prossimità del forte di Fortezza, una roccaforte a all'incrocio tra la Val d'Isarco e la Val Pusteria, appartenuta al grande sistema di fortificazioni austriache al confine con l’Italia. Costruito a prova di bomba e inaugurato a tempo di record dopo solo cinque anni di lavori nel 1838, doveva rappresentare uno sbarramento invalicabile per qualunque esercito volesse espugnarlo ma nessuno si prese la briga di assaltarlo e quindi si trasformò in una cattedrale nel deserto. Si presenta arcigno sulla via di comunicazione, crea una galleria che induce a compiere una deviazione a sinistra per una rapida visita. Il complesso è formato da tre blocchi, progettati per essere indipendenti. Accedo pedalando al primo, il forte basso, articolato in diverse costruzioni erette sul fondo della val d'Isarco. Ospitava gli uffici del comando, due serie di camere di combattimento e i forni per il pane. Il suo accesso dà attualmente sul lago di Fortezza, realizzato nel 1940 con la costruzione di una diga a doppio arco su una forra profonda sessantuno metri nel luogo in cui scorreva l'Isarco, durante 229
il fascismo, nel contesto della politica dell'autarchia, al fine di sopperire ai crescenti bisogni energetici. Il suo progetto fu elaborato parallelamente a quello della diga di Rio di Pusteria che generò l'omonimo invaso. Vennero a crearsi due laghi, collegati tra loro da tunnel sotterranei ( per una lunghezza totale di sei chilometri) per convogliare le acque direttamente verso la centrale idroelettrica di Bressanone, situata dentro una caverna in prossimità del fiume Rienza, che grazie a cinque turbine, genera ad oggi, una potenza di 90.000 kw, sfruttando la spinta di settanta metri cubi d’acqua al secondo. Salendo, si arriva al secondo forte, il medio, contenente la Kaiser-Villa, orientato verso la val Pusteria. L’ultimo, la "cittadella" del forte alto, parte completamente separata dagli altri due blocchi, si erige sul fianco occidentale della montagna settantacinque metri più in alto, ed è raggiungibile attraverso una scalinata di 451 scalini, alloggiata in una galleria coperta a volta, o un sentiero di accesso lungo due chilometri. Al secondo blocco, alzo gli occhi al cielo cupo e minaccioso. Il tempo cambia rapidamente e ora sciabolate di sole irrompono tra le nuvole che nervosamente scaricano a macchia di leopardo. Torno sulla ciclopista con una leggera pioggia, che smette quasi subito e dopo cinque chilometri devio sulla sinistra. Imbocco vicolo Griess, dirigendomi verso Novacella nel comune di Varna, per visitare ammirare l'abbazia agostiniana, una delle più prestigiose del nord Italia. Il complesso fortificato, al quale accedo tramite un piccolo ponte coperto, dopo aver legato fuori la bicicletta, è costituito da un grandioso insieme di strutture religiose e civili di epoche e stili differenti. Contemplo gli stupendi saloni della Prelatura, continuando all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta, edificata in stile barocco con il presbiterio gotico, che conserva numerosi e pregevoli dipinti e affreschi. Uscendo, capisco che la mia velocità di passaggio è inadeguata se confrontata con quella delle persone che diversamente da me, assorbono lentamente i dettagli, iniziando allora a comportarmi con circospezione per non disturbare, perche anche i passi riecheggiano. Al centro del cortile principale dell'abbazia, mi avvicino al pozzo rinascimentale, sovrastato da un'edicola ottagonale sui cui lati sono raffigurate le otto 230
meraviglie dell'antichità e sull'ultimo, orgogliosamente, l'abbazia stessa. Osservo rapito gli innumerevoli dettagli, ma dedico solo alcuni minuti alla biblioteca, la cui sala principale è un capolavoro del rococò altoatesino. Occupa due piani del monastero, usati per conservare circa 65.000 volumi, e possiede il più piccolo manoscritto del mondo. Fondata nel 1142 l’abbazia è stato diverse volte ricostruita e ampliata fino a tutto il settecento, e a iniziare dalla sua fondazione è stata un luogo di ricovero per i pellegrini. Per contribuire a garantire l'indipendenza economica del complesso, pone tra le sue attività la produzione e la vendita di eccellenti vini bianchi doc della valle Isarco, con le uve raccolte nei pregiati vigneti che si stendono tutto attorno. Completo la mia rapida visita nel più notevole edificio, la cappella di San Michele, detta "Castello dell'Angelo" guardando con attenzione le geometrie pulite e curate di un giardino rigoglioso, pieno zeppo di ogni tipo di fiori, prima di uscire a slegare la bici, abbagliato dallo splendore del posto appena lasciato. Scendo su una dolce ciclopista lungo la via Isarco per ricongiungermi alla statale dodici quando ha appena smesso di piovere. È come se stessi rincorrendo il temporale, che minaccioso e nero, con le barbe bianche delle nuvole più basse si stende sui pendii fiancheggianti la vallata. All’incrocio, sulla rotonda, attirato da una casa dalle geometrie pulite, ispirate ai volumi di un castello, rallento un istante per capire se si tratta di un albergo o di un ristorante. Niente di tutto questo: è lo show-room di un’importante azienda che costruisce lampadari, alcuni dei quali da record. Lo scintillio dei cristalli è ipnotico, trascina senza scampo, addentrandomi sotto la volta che ospita la galassia luccicante. L’azienda Faustig, nel duemila, ha realizzato un lampadario unico nel suo genere, un vero capolavoro per dimensioni e design. La struttura è stata realizzata in acciaio inossidabile, rivestita con profili in ottone e bronzo, ricoperti da una doratura a ventiquattro carati e laccati in forno, mentre per la realizzazione delle decorazioni, sono state impiegate circa un milione di gocce di pregiato cristallo Swarovski, scintillanti come diamanti. All’interno sono state integrate una scala e delle piattaforme, per agevolare gli interventi di pulizia e di manutenzione ai trentasei circuiti con cui sono controllate ben milleduecento lampade alogene a intensità regolabili, per un peso totale di circa novemila chili distribuiti sui quattordici metri di altezza. 231
Nel 2007 si sono superati creandone uno di dodici tonnellate, largo dieci metri e alto quindici con 15.550 led per una moschea eretta ad Abu Dhabi. Indubbiamente sono opere di prestigio, che lasciano a bocca aperta. Nella sala sono esposti lampadari di calibro inferiore, ma le fotografie pubblicitarie alle pareti lasciano comprendere quanto possono essere meravigliosi, visti dal vivo, quelli da record. Lascio la sala per riprendere il viaggio. È bella questa giornata. Propone immagini che arrivano nel calderone della memoria. Filtrate dalle pupille che inseguono dettagli fino ai margini del campo visivo e oltre, realizzo un distillato di sensazioni ubriacanti, emozionandomi ora con gli odori del bosco bagnato, con gli sbalzi di luce continui, come della rilassante guida senza fatica. In una decina di minuti sono a Bressanone, città dall’architettura barocca che si mischia a quella tirolese. Attorno al centro storico si erge una cinta muraria fatta costruire dal vescovato attorno all’anno mille. Castelli, caseggiati imponenti ed edifici religiosi incombono elegantemente sulle vie pedonali in cubetti di porfido, dove trotto con la bicicletta. Al centro del borgo, mi soffermo a riprendere con la macchina fotografica la torre Bianca, risalente al quindicesimo secolo, in origine chiamata torre Nera. Nel 1591 il tetto nero fu murato, cambiandogli il colore e quindi anche il nome. Alta settantadue metri, ospita un orologio lunare e al suo interno, ottantanove scalini conducono a un carillon di quarantatré campane in grado di riprodurre oltre cento melodie. Vicino, trova posto la cattedrale di Bressanone, dedicata a Santa Maria Assunta, imponente chiesa in stile barocco, eretta nella centralissima piazza Duomo. La planimetria della città, presenta due distinti settori divisi dai portici, quello a sud, raggruppante gli edifici ecclesiastici, contrapposto a quello a nord, dal più compatto complesso cittadino. Il panificio Profanter, un negozio con le vetrate spalancate, espone prodotti da forno di tutti i tipi, strappandomi giù dalla sella per una sosta a gustare un bretzel morbido e saporito. Sono consapevole che questa, come altre soste deve avere una breve durata e la partenza si concretizza immediatamente dopo, perché la città tenta di avvolgermi nelle sue 232
meraviglie, incartandomi invita a esplorarla internamente e se dovessi svelarne la sua complessità, si renderebbe necessario sostare una giornata, quindi alla luce di questo, rimonto in sella, aggancio e riparto verso sud. Non ho modo di annoiarmi in questo segmento di esplorazione, esco seguendo il corso d’acqua che inizia a essere imponente, pedalandogli vicino mentre il cielo inizia ad aprirsi in modo deciso. La valle dell’Isarco deve dar spazio oltre al fiume a tre collegamenti di transito importanti: l’autostrada, la statale del Brennero e la linea ferroviaria che per buona parte del tragitto è stata trasferita in galleria, lasciando che il vecchio tracciato fosse trasformato in pista pedalabile. Le indicazioni portano a imboccarla quando la valle è ancora larga e i meleti arricchiscono il paesaggio, con i pendii soleggiati dominati dalle vigne cresciute rigogliose. In poco tempo raggiungo il borgo medievale di Chiusa, caratterizzato dal convento di Sabiona. Poi la valle, dalla località Colma si restringe e la ciclabile occupa lo spazio usato dalla ferrovia dimenticata caratterizzata da ponti e brevi gallerie che rendono il passaggio più interessante e vario fino a Cardano. A Prato all’Isarco, lungo la ciclabile, inizia la “Augenreise”, una catena di opere d’arte, installazioni e disegni sui muri, realizzati nel 2007 dal laboratorio Kimm, usufruendo della collaborazione di una scuola materna, di un’elementare e di un media. I manufatti, sono disseminati lungo il tracciato e spezzano il verde della vallata creando macchie di colore e curiosi punti di vista. Un enorme gatto nero srotola la lingua dietro una panchina, farfalle, pesci e uccelli stilizzati passano ovunque in un susseguirsi di fantasie. Sul cartellone di presentazione, una frase riassume quel breve ma intenso tratto: “andare in bici, stupirsi, sognare, essere felici”. Sono sei chilometri di distrazione fino a quando la valle si allarga e mantenendomi sulla via dedicata alle biciclette, apprendo di essere arrivato in prossimità dell’abitato di Bolzano quando incrocio due ragazzi di colore con enormi cuffie stereo sulla testa che camminano a bordo della ciclopista. Ho scovato raramente tra le foreste, comunità formate da persone di colore che invece nei pressi dei grandi centri abitati trovano con più facilità occasioni di lavoro e accoglienza, perciò l’incontro diventa una sorta di notifica, spesso ripetuta per l’arco 233
del viaggio, come a Londra, a Metz o a Strasburgo. Allargo la mano in cerca del cinque che arriva assieme a un sorriso a battere il palmo e pochi metri dopo prendo a consultare la mappa per decidere il da farsi a cavallo della bicicletta. Quella elettronica mi inquadra immediatamente con il GPS, collocandomi al confine est dell’abitato. Attraverso viale Trieste per un rapido rifornimento di cibo al supermercato situato nei locali sotterranei di un grande palazzo al quale si accede da una scala mobile lunghissima. Scendendo dallo scivolo elettrico a gradoni, penso alla città raggiunta e allo stesso tempo realizzo sia dispersivo proseguire andando in centro a cercare qualcosa da fotografare, quando ho in testa soltanto il proposito di viaggiare. Nelle corsie ordinate raccolgo diligentemente zuccheri e proteine, consegnate infine alla doganiera elettronica alla cassa che in cambio pretende una modesta gabella, autorizzando la rilassante risalita sulla gemella della scala mobile d’ingresso. Con le sacche piene torno in riva all’Isarco. Il cielo è terso, l’aria calda e invitante. (Play Beautiful That Way-Noa) Sorridi, senza una ragione. Ama, come se fossi un bambino. Sorridi, non importa cosa dicono. Non ascoltare una parola di quello che dicono, perchè la vita è bella così. Lacrime, un'ondata di lacrime. Luce, che lentamente scompare. Aspetta, prima di chiudere le tende. C'è ancora un altro gioco da giocare e la vita è bella così. Ecco, sarò sempre nei suoi occhi, vicina a te, pensaci innanzi a tutto. Ora che sei là fuori con te stesso, ricorda cos'è vero e ciò che sognamo, è solo amore. Conserva la risata nei tuoi occhi, presto verrà premiato il tuo aspettare. Non dimenticheremo i nostri dolori e penseremo ad un giorno più allegro, perchè la vita è bella così. C'è ancora un altro gioco da giocare …e la vita è bella così.
La pista è meravigliosa e ben curata, procedo tra roseti e cedri, tigli e arbusti, di fianco al fiume, sorretto da sponde coperte da un’erba talmente verde da sembrare finta. Mi fermo ad un tavolo e divento parte di un quadro naif, il panino ha un gusto arcobaleno e ogni morso lo rende diverso dalla posa precedente. Oscillo tra la voglia di esplorare e quella di andare. Ciondolo tra l’esigenza di coprire più distanza possibile per arrivare sotto le mura domestiche e il dispiacere di terminare così velocemente la mia Mille Miglia. Una pedalata istintiva mi trascina verso la 234
confluenza tra l’Isarco e l’Adige, quasi fossi anch’io acqua che arrivando da lontano cerca uno sbocco al mare e fatalmente scorre. Ascolto musica mentre fatico sul viale in mezzo alla vallata e ipnotizzato dalle note, cerco di fornir loro un senso collegandole alle immagini che scorrono: alle montagne in movimento, ai ponti sul fiume che lo attraversano. Prendo di mira la cima bianca e rossa dei tralicci dell’alta tensione con le braccia aperte che inquadrati nell’incedere sembrano ruotare, rapito poi dall’abbaiare secco e sfidante di un cane da dietro una recinzione. La discesa è finita lasciando il posto a una percorrenza piatta che richiede gambe e porta a spingere. Poco dopo l’abitato di San Floriano compare e prende volume il vento. Le prime folate sono accettabili, ma aumenta e diventa costante, devo scalare rapporti. Passo dalla volantina grande alla media e anche dietro inizio a scalare marce. Il tachimetro indica un’andatura a venti l’ora e non è una buona notizia perché per tenerla, sto faticando. Dopo cinque chilometri sono costretto a prendermi una pausa perché le gambe patiscono e ne approfitto per mangiare dei biscotti a uno dei tanti tavoli con le panche, disseminati lungo il percorso. Un attempato ciclista su una Olmo da corsa in acciaio si ferma per una chiacchierata e commenta anche lui il ventaccio che soffia contrario al senso di marcia. Lui è di queste parti e percorre spesso la pista, racconta che è una caratteristica della vallata essere spazzolata da sud a nord dal vento, consigliandomi di portare pazienza. Riparte e resto seduto a gambe distese a massaggiare le cosce mentre mastico e inghiotto. Noto la netta demarcazione dell’abbronzatura, avverto la fibra muscolare sotto le strisciate dei polpastrelli e le vene ingrossate, meravigliandomi della tenuta delle ginocchia e di tutto il resto dell’apparato motorio. Alla ripartenza il vento mi riprende di petto senza accenno a diminuire, su questa ciclabile che inizio a detestare. Contro la polvere, la bicicletta mette a nudo i miei pensieri più oscuri, avanzo con la testa chinata, guardandomi dentro per trovare la forza di superare, ancora una volta, questa sofferenza. Mi convinco che stare al centro della valle, espone senza riparo alcuno a questo freno d’aria e se che avessi pedalato sul lato sinistro, sulla statale, avrei potuto trovare minori difficoltà. A san Michele dell’Adige seguo questa sensazione rivelatasi infondata e aggiunge i brevi saliscendi di collegamento tra i borghi a ridosso delle pendici delle montagne. 235
Arrivo a Trento spossato, svogliato, nervoso. La città m’infastidisce, il traffico acuisce la stanchezza e cerco nella morbida scioglievolezza di un cono gelato un contributo alla distensione, al riappacificarmi con questa condizione. Sono già stato a Trento in occasione di una visita dell’ingresso allo spettacolare Muse, il museo ideato dall’architetto Renzo Piano che attraverso i suoi originali percorsi interattivi accosta il pubblico alla scienza e alla natura, e quindi dopo la breve sosta, riprendo contatto con la sella per un ultimo veloce avvicinamento alla pianura Veneta. Scelgo ancora la statale dodici entrando nella val Lagarina, che accoglie l’ultimo tratto di percorso del fiume Adige tra i monti, e questa volta in totale assenza di vento. La media si alza, la velocità prende una forma da crociera accettabile, ma sento le energie latitare e il sedere irritatissimo, stentando a trovare una posizione indolore. Sono le sei e mezzo del pomeriggio, cerco sul navigatore la distanza mancante per arrivare a Verona o più verosimilmente una scusa buona per fare tappa notturna in qualche struttura in zona. Il responso conferma come in nessun modo riuscirei a raggiungere il capoluogo veneto, coprendo altri settantacinque chilometri nella giornata corrente e quindi le mie ambizioni si arrestano nei pressi di Calliano. Sulla destra, adagiato sulla sommità di un colle calcareo, il Castel Beseno domina la vallata. Di forma ellittica, con i suoi 250 metri di lunghezza e cinquanta di larghezza, è la più grande struttura fortificata del Trentino-Alto Adige. Fermo al cartello informativo, indugio sul da farsi. Sarebbe interessante salire per scoprire l’interno e i numerosi affreschi che le intemperie lentamente cancellano. È dotato di ampi spazi, porte fortificate, bastioni, cortili, mura maestose, cantine e cisterne, ma l’ascensione che conduce alla sua porta è l’esempio classico di rampa e adesso quello che cerco è un posto confortevole dove riposare. Sulla mia sinistra l’indicazione di Calliano invita a una leggera curva, introduce nella via Tre Novembre che attraversa il borgo. Mi colpisce il silenzio del vicolo, la mancanza di passanti tra le case fantasma, che sembrano per la maggior parte spopolate e questo contrasta con la perfetta pavimentazione delle vie, con gli arredi urbani nuovi, le lampade stradali recentissime e le facciate restaurate di recente. 236
Dipende probabilmente dalla giornata prefestiva del sabato, o perche sono arrivato nel pomeriggio inoltrato ma i negozietti sono chiusi, e quando medito di dover passare velocemente questo deserto di pietra, improvviso arriva l’eco di una telecronaca. Il commento animoso del giornalista rimbomba da una strettoia, si carica di bassi mentre rotolo verso la fonte. Compare dietro lo spigolo di una casa che nasconde il dehors di un bar dotato di schermo planetario e casse da concerto. Quattro ragazzini di una volta sono seduti a un tavolo per seguire la palla che vola nello schermo. Otto occhi telecomandati sembrano collegati fisicamente e all’unisono scartano a destra e a manca, incollati alle prodezze della battaglia tra Brasile e Cile. Le squadre sono incartate, non pensano a vincere, piuttosto a non perdere, generando una noia senza pari, finita quando il cameriere esce dal suo antro e lo interrogo sulla presenza di qualche sistemazione nei paraggi. Appoggia il vassoio con gli ordini dei telespettatori, si asciuga con calma fronte e retro delle mani sul grembiule e poi indica con molta sicurezza la presenza dell’hotel Aquila a poche decine di metri dal bar. Passato il sottoportico che dà accesso a un cortiletto, entro nella reception della struttura, sorprendente per ricchezza ed eleganza. (Play Reminiscing-Little River Band) - Ogni dettaglio è un’opera intrecciata con la successiva, una sorta di rococò tirolese. Una Stube enorme si pone come pietra d’angolo tra le varie stanze del ristorante cui si accede da un portale incorniciato da vetrate piombate, gialle e rosse. Sul soffitto, domina lo stemma aquilino dell’albergo, all’interno di una circonferenza e sull’intersezione, si congiungono a raggiera le travi del tetto. Tra le stesse ci sono pannellature verdi con motivi floreali. Ovunque poso lo sguardo, percepisco il calore degli ambienti, la raffinatezza e la cura nella disposizione del mobilio, rallegrandomi per il generoso uso di legno, pietra e tovaglie di cotone in tinta pastello. La signora mi accoglie, mostrandosi gentile e sorridente e valutando l’insieme deduco che il costo di una stanza sarà molto superiore alle mie attese, ma sorprendentemente il prezzo di una matrimoniale uso singola è di cinquanta euro. Si tratta dell’ultima notte passata in albergo nel corso del viaggio e posso anche concedermi il lusso di fermarmi, evitando ricerche estenuanti quando ormai penso soltanto a rilassarmi. Dopo la rassicurazione sulla sistemazione della bici, prendo le chiavi e vado nella stanza che si trova nella dependance dell’albergo, un’ala parimenti caratteristica ed elegante, con le pareti perlinate e la moquette beige a fioroni sul pavimento.
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La camera è in linea con lo stile della struttura, riproponendo un uso universale del legno, arrivando a ricoprire il telefono fisso del modello Pulsar con una cover in tinta faggio. Il bagno ha una forte personalità, con il contrasto delle pareti verniciate a olio di colore verde oliva e i sanitari bianchi, il letto matrimoniale ha una testiera imperiale rivestita di velluto rosso, con il materasso avvolto da una coperta di rose e primule. Dalla finestra posso contemplare il cartel Beseno in tutta la sua lunghezza dall’altra parte della statale. Ho ancora poche energie, il fondo di riserva lampeggia e nel caso dovessi tentennare, sono certo di abbandonarmi sul letto per non fare più nulla. Lavo gli indumenti nel lavabo, li lascio in ammollo per il tempo concesso dalla doccia. Lo sporco di polvere e sudore si emulsionano con il sapone e l’acqua, scivolano sul piatto doccia bianco, sottolineando il metro della stanchezza accumulata, e nel vortice che li espelle dalla mia vista, scarico una piccola parte di logoramento. Mi asciugo e strizzo la divisa. Il detersivo in bottiglietta è quasi finito, è stato sufficiente per tutte le volte che serviva nel corso del viaggio, e così, butto il resto nel cestino considerando l’epilogo, prima del rientro dell’indomani. C’è un'unica pizzeria-ristorante nel paese e propone una cena misurata fatta di prosciutto, ricotta e funghi infornati nella pizza chiusa a calzone. Su un tavolo solitario scostato dal resto della sala, mangio nell’allegro clamore di una metà della truppa di baby calciatori che festeggia una vittoria, mentre l’altra metà sembra quella di una silenziosa congrega adorante, davanti ai vangeli elettronici secondo Mark Zuckerberg, tracciando con gli indici, croci sugli schermi. Il contrasto tra i chiassosi e gli internauti è notevole, sono due culture del tempo libero, diverse. Una frangia si lega a spintoni e rincorse, mentre l’altra si dissolve in un mondo impalpabile. Il Brasile batte il Cile passando il turno, ma con una fatica fuori dal comune, le immagini passano sullo schermo e sono poco appassionanti. Il calcio è precipitato progressivamente in basso nella lista degli interessi, durante tutto l’arco del viaggio. Sono partito con la goliardia di un tifoso, andato a sfidare gli inglesi in casa loro per aggiungere un tocco di particolarità a un’impresa ciclistica fusa a quella calcistica della nazionale italiana in Brasile. 238
Sono tornato a casa dove quella realtà sportiva è alimentata dalla spavalderia di elementi più inclini a far cassa invece di risultati storici, preferendo infine ripercorrere a mente la mia traversata portata avanti con caparbietà e quasi conclusa, senza risparmiarmi mai. Le porte in legno del locale restano indietro insieme al chiasso, mentre cammino, rifletto su ciò che mi spinge a partire ogni anno, pur consapevole della fatica a cui vado incontro, delle possibili difficoltà e della certezza che il divano di casa è molto più rilassante. Cerco di darmi una spiegazione a ciò che l’istinto sprona, rimandando alla ragione un motivo plausibile. Sento spesso i proclami di chi pedala per motivi nobili, per perorare una causa, per scopi salutistici, sento giustificazioni di ogni tipo, e possono essere tutte corrette e tutte sbagliate. Per me, la maggior parte delle volte viaggiare a pedali è qualcosa di privatamente inspiegabile e rimango convinto sia alla portata di chiunque. Sì, credo che un viaggio come quello in via di compimento, è alla portata di tutti. Non servono doti eccelse, mezzi da fantascienza o risorse economiche inarrivabili. È sufficiente avere il coraggio di tentare, di mettersi in gioco e saltare da quel trampolino, avendo il tempo adeguato per arrivare alla conclusione pensata. Il tempo è la dimensione che sfugge. Le altre le controllo, le raggiungo, le supero, le posso dimenticare. Il tempo non lo fermo, non rallenta, non lo comprimo e ogni cosa passa attraverso il suo scorrere diventando puntuale, in ritardo o in anticipo oppure, e soltanto in pochi casi, irraggiungibile. Quasi tutto è possibile, disponendo di tempo. Ho adottato quest’anno la formula del viaggio di rientro, prevedendo di cominciare con il volo per portarmi lontano e questo mi lascia libero di organizzare i giorni senza l’affanno di una porta che in una certa data può chiudersi, lasciandomi a terra. Torno con i ricordi ad alcuni momenti di questo viaggio, nei quali il cronometro perdeva senso e la velocità oraria si annullava davanti allo spettacolo della natura o di una città che mi accoglieva, comparandoli con quelli del viaggio estivo fatto in Spagna due anni prima con il volo di rientro già fissato da Siviglia. Quella era stata, una corsa contro il tempo, un assottigliarsi di sereno incedere con la consapevolezza di un appuntamento da non mancare. Non nego che anche in questa esperienza ho dato il giusto peso alle medie e agli obiettivi di giornata ma ho potuto amministrarmi, libero dal vincolo di un appuntamento. E infine, direi ovviamente che il tempo è quella parentesi concessa tra la nascita e la dipartita e a fino ad allora lo riempirò di ogni immagine, suono, colore e profumo mi sarà possibile cogliere.
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Arrivo sotto il portale ad arco aperto davanti all’hotel e salgo fiacco le scale per ritrovarmi sul letto, abbandonato al desiderio di assaporare l’ultima notte dentro una stanza da viaggio. Vorrei assorbire ogni molecola del posto, tenere stretto ogni suono, ogni fruscio delle lenzuola accarezzate, saturare gli occhi delle ombre danzanti nell’oscurità della camera, ma il predatore incanta, trattiene il suo tributo per la giornata vissuta sui pedali, prendendo in premio la mia notte che svanisce nella nebbia di un sonno profondo. (Play Ben-Michael Jackson) Domenica 29 giugno 2014 (Play Aria-Straight Beat) - Al risveglio, apro gli occhi guardando il soffitto. Somiglia alla visione di una pellicola muta in bianco e nero. Motore, azione, ciak, si riprende. E allora il film scorre con l’immagine che scivola, mentre il proiezionista si dà da fare per sincronizzare la messa a quadro. Affiorano in superficie i dati, sono bollicine di acqua frizzante che liberano il loro carico senza sapere come sono arrivate fino a qui, qual è il meccanismo che ogni mattino mi ricorda chi sono, dove sono e cosa devo fare. Analizzo la stanza, guardo l’orario sul telefono adagiandomi per iniziare una seduta di grattatine tonificanti, di sbadigli da re della foresta, e una spinta adrenalinica, arrivata contestualmente al pensiero che oggi è l’ultimo giorno di viaggio. Settantacinque chilometri dividono Calliano da Verona, un obiettivo modesto se paragonato a quelli prodotti nei giorni precedenti, ma non trascuro che il treno ci metterà abbastanza per arrivare a casa, che le gambe iniziano a dare segni di stanchezza e la ruota posteriore è molto consumata. Voglio beneficiare di questo tratto con calma, senza fretta. La porta finestra che si apre sul terrazzo della camera, restituisce la visione di un cielo color piombo, pesante e minaccioso a nord, velato verso sud. Sarebbe un peccato se la pioggia guastasse gli ultimi chilometri.
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La routine dei preparativi si amalgama a un sentimento già nostalgico, ma poco dopo sono già nella sala per gustare una semplice colazione di cornetto e cappuccino. Salgo in sella in seguito a un piccolo controllo del mezzo. Gli organi di trasmissione sono lubrificati, precisi, la pressione delle gomme buona. Solo l’usura del battistrada posteriore mi preoccupa riaccendendo il timore di arrivare alla tela, ma in fondo sono convinto di riuscire tagliare il traguardo senza problemi. Scende qualche gocciolina di pioggia mentre imbocco la statale dodici che porta a Rovereto e le nuvole da pecorelle coreografiche, passano al ruolo di montoni rabbiosi iniziando a gonfiarsi, ad addensarsi in una massa che scurisce. Pedalo in leggera discesa, con la visiera del cappellino a proteggermi dalle gocce diventate insistente. Fantastico di essere tra le mura domestiche dove il tempo passa comodamente lento e talvolta nel lasso di una puntata del programma preferito e del relativo pisolino, può accadere che al risveglio, guardando fuori dalla finestra, il tempo sia inaspettatamente cambiato e stia piovendo. In bicicletta è diverso, questa trasformazione non la subisco, ma vi partecipo mentre la squadro. Una BMW grigia metallizzata sorpassa suonando il clacson come se volesse salutarmi e, infatti, dal finestrino, spunta un braccio femminile che sventola la mano in un saluto, facendomi pensare di avermi scambiato per qualcuno che non sono io. Arriva l’odore dell’acqua, di terreno bagnato, trasportato dalle folate di vento che ha cambiato direzione. Nelle alzate di capo dalla carreggiata noto immediatamente la minaccia di un diluvio in lontananza e allora inizio a fare i conti con i chilometri, con la meta, con la distanza dal corpo temporalesco. Ho a disposizione mezzi ed esperienza per non trovarmi in una pioggia di guai, limitando i danni. La statale conduce dritta sotto le precipitazioni, costringendomi a una rapida deviazione nel parcheggio di un bar nel momento in cui crescono d’intensità. Nell’area c’è anche l’auto di prima, scende una coppia e la donna che era alla guida, corre sui tacchi con la borsetta a riparare la testa, e passando velocemente saluta nuovamente prima di entrare in tutta fretta. Avvolgo i bagagli nella copertura antipioggia e corro sotto la tettoia del bar per vestirmi all’asciutto. Affascinanti i nembi elevati a quote stratosferiche, i rigonfiamenti di vapore, fluttuanti tra le creste dei monti, le nervature illuminate dal passaggio di correnti elettriche tumultuose. 241
Come sono ipnotizzanti le torreggianti colonne d’acqua che precipitando al suolo sezionano l’aria, tra terra e cielo. La bici è al sicuro, il tempo non manca quindi entro e arrivato al banco, ordino un caffè. In un angolo del locale, seduta a un tavolo assieme a un uomo baffuto, c’è questa donna che mi fissa e incrociando il mio sguardo, saluta per la terza volta, invitando ad avvicinarmi. Ha i capelli ricci e biondi, alla Marylin Monroe, indossa un vestitino rosso leggerissimo che lascia scoperte braccia e spalle sopra un reggiseno blu elettrico. Porta anelli, bracciali, ciondoli e un trucco appariscente. Gentilmente mi avvicino chiedendole se per caso, siamo conoscenti. Nicchia e sorride. L’uomo è sempre in silenzio, legge un giornale disinteressandosi all’universo circostante. Chiede da dove arrivo e dove sto andando, le spiego il mio viaggio e rimane meravigliata. Arriva il mio caffè, le faccio cenno di dovermi trasferire al banco a consumare, si alza e mi segue raccontandomi poi di sentire una venerazione per i ciclisti e di avere sempre desiderato intraprendere un viaggio avventuroso come il mio. Racconta di essere nativa di Verona, di abitare a Trento, la città nella quale cura i suoi affari e insiste a contattarla semmai avessi avuto la bella idea di fare un’altra gita in Trentino con la bici o senza. Prende un foglio di carta e scrive i suoi numeri di telefono, augura buon viaggio strizzandomi l’occhio e poi raggiunge l’uomo baffuto che la attende al tavolo. Piacevole intermezzo, divertente momento che stento a inquadrare nella giusta maniera, termino e pago, esco salutandola riscuotendo l’ultimo sorriso per riprendere il viaggio con il meteo che sembra aver esaurito la sua scorta di pioggia. Corro lungo l’argine dell’Adige tra le pozzanghere e i rivoli che attraversano l’asfalto, nella vallata che lentamente si restringe diventando un canalone formato da due imponenti costoni rocciosi alti un centinaio di metri dentro un naif in costante mutamento. La migrazione trans-europea in volo sulle ruote del velocipede è a un passo del compimento, ogni metro è frenato dall’idea che stia per approssimarsi la linea di arrivo, la testa immagazzina immagini che si spalmano sulle altre, impilate nel grattacielo di fogli collezionati. Sfilo dalla torre quella iniziale di una prima volta di pedali con la guida a sinistra in terra inglese e ora sembra quasi impossibile essere arrivato a questo punto. Questo, porge la sensazione di avere fatto tutto 242
per il meglio, traendo beneficio di ogni singolo istante, senza proiettarmi troppo avanti nelle tappe di ogni giorno o di meditare sulle scelte fatte nei giorni precedenti. Non mi riesce di farlo adesso, di essere perfetto bloccato da una patina di malinconia e dal peso delle immagini che si succedono come riconoscimenti, trofei da esibire, conquiste lontane centinaia di chilometri. A Ospedaletto, la pianura veneta, aggredisce le gambe dopo il falso piano, consumando rapidamente il glicogeno di riserva, costringendomi a qualche breve pausa. Durante una di queste, ascolto Tequila Sunrise - Eagles al limitare di un prato, con i gomiti appoggiati al manubrio, guardando le macchine infilarsi nello spazio che resta tra un cielo grigio e la terra scura. Ecco Verona tra le anse di un ritrovato fiume Adige. Viaggio lentamente percorrendo il lungargine Atterraglio frequentato da pattinatori, ciclisti e runner di ogni colore ed età arrivando fino al centro sul selciato che circonda l’arena. Appoggio la bicicletta di fianco al tavolino del bar Liston accomodandomi e per un brindisi di bene arrivato, ordino una flûte di spumante. Sono seduto, le gambe accavallate, stravaccato, di nuovo sporco per la pioggia e la polvere, gli occhiali calati a difendermi dal bianco lattiginoso che sfuma di madreperla ogni cosa. Turisti dell’Europa settentrionale camminano consultando la mappa del tesoro della città, i camioncini delle consegne dribblano la folla, i veronesi passeggiano con le mani intrecciate dietro la schiena, la bici fissa ammutolita un punto nel vuoto, persa nei suoi ricordi. Intingo le dita tra le bollicine e la schizzo con un paio di gocce. Sembra mi faccia un sorriso. (Play All I Ever Need I You-Cher&Sonny) Tutto quello che mi serve sei tu. Tu sei il mio primo amore, sei l’ultimo. Sei il mio futuro, sei il mio passato. E amare te è tutto ciò che chiedo, oh miele. Tutto quello che mi serve sei tu. Gli inverni vengono e vanno, aspettiamo la neve sciogliersi, sicuri che accadrà, come l’estate segue la primavera. Tutte cose che mi danno un motivo per costruire il mio mondo intorno a te. Alcuni uomini seguono arcobaleni, mi hanno detto. Alcuni uomini cercano l'argento, altri l'oro. Io ho trovato il mio tesoro nella tua anima, miele. Tutto quello che mi serve sei tu. Senza l'amore non avevo mai trovato una via, attraverso gli alti e i bassi di ogni singolo giorno. Non voglio dormire la notte fino a quando tu dici, mio miele: tutto quello che mi serve sei tu.
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Al telefono chiamo casa annunciando di essere arrivato a Verona. Sono contenti perché sanno che tutto è finito bene, sono sano e salvo e tra poco potremo riabbracciarci. Percepiscono stanchezza dalle mie parole, ma non si tratta di questo. Sono contento di essere arrivato, ma non era il mio scopo principale, credo fosse dare permanenza a uno stato di euforia tra le meraviglie, la soddisfazione di rendere concreto di volta in volta un obiettivo e la consapevolezza di una futura condivisione con altri della mia esperienza. È tempo di andare, il treno parte alle quindici e ventuno, e dopo il cambio a Mestre dovrei arrivare a Trieste alle diciotto e trentasei. Stampo ai distributori automatici i biglietti, arrivo al convoglio, carico la bici nel vestibolo dedicato, andando a sedermi sulle poltrone blu della carrozza. Ci sono poche persone, guardo il caleidoscopico passare dei campi geometrici a centoquaranta l’ora nel ritmico dondolio del treno. Ho questa sorta di timore di dimenticare velocemente i dettagli del viaggio, aspetto con impazienza di iniziare a trascrivere le annotazioni, di rivivere attimo per attimo queste giornate a pedali. (Play Alone Again (Naturally)-Armando Sciascia Orchestra) Non è affatto conclusa. Non per me. Si rinnova ogni volta che lo penso, perché il viaggio è un sedimento che si rialza al minimo movimento dell’acqua. È come fosse una malattia cronica resistente agli antibiotici, è un essere vivente che rigetta qualsiasi trapianto. La dimensione temporale non estingue niente, non crea un passato, non aggiunge un prodotto sullo scaffale delle avventure. Mi sono rigenerato cercando un piacere solitario, elitario, elevandolo all’ennesima potenza perché quello che ho vissuto è stato plutonio e non si esaurisce in pochi giorni. Ma ora stento a trattenere la bora di emozioni che soffia, riguardando le immagini catturate con la macchina fotografica. Che viaggio ragazzi!
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