Domenica La
di
DOMENICA 30 APRILE 2006
Repubblica
la memoria
L’Italia povera che giocava la schedina STEFANO BARTEZZAGHI e PINO CORRIAS
i luoghi
Cercando le vite perdute sull’ultimo ponte CONCITA DE GREGORIO
Addis Abeba Lettere Le truppe fasciste la presero
settant’anni fa
FOTO CORBIS
Oggi i reduci della resistenza etiope raccontano l’impero difa, Mussolini Trent’anni dal garage di una casa californiana, usciva un nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo
PAOLO RUMIZ
«S
cultura
NELLO AJELLO ADDIS ABEBA
ì… c’era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti… in italiano». A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki. «Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c’era la taglia col suo nome». Che faceva? «Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola». Cosa urlavate? «Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!». E poi? «Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!». Abboccavano? «In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c’era l’imboscata». Comincia a sorpresa il nostro viaggio nella memoria, settant’anni dopo il 5 maggio del ‘36, quando Badoglio prese Addis Abeba e Mussolini annunciò il ritorno dell’impero romano. Gli ultimi testimoni vivi non ci sbattono in faccia le stragi fasciste. Non ci parlano dei gas, dei 700mila morti, dei pogrom, ma di misteriosi italiani nella resistenza etiope. Dell’ombra di Paolo che torna, ci chiama verso una collina piena di pioggia, oltre i palazzi coloniali, gli eucalipti nel vento, i lebbrosi, le ambasciate e le baracche di prostitute da mezzo euro al colpo. (segue nelle pagine successive)
ROMA
Fleming racconta le città di James Bond
uella che si concluse, provvisoriamente, nel maggio di settant’anni fa — dice Angelo Del Boca, il massimo studioso delle nostre imprese d’Africa — non fu una classica guerra coloniale. Nessun conflitto di quel tipo ha mai richiesto l’impiego di 500mila uomini, di migliaia di cannoni, di così rilevanti mezzi aerei. Alla base di quell’impresa c’erano motivazioni particolari». Quali motivazioni? «In primo luogo, la rivincita di Adua. Nel 1896, quando noi subimmo quella storica sconfitta, Mussolini, tredicenne, ne fu durevolmente colpito — lo racconterà nelle sue memorie — fino a maturare l’idea della vendetta contro quell’Abissinia che, grave errore, considerava una terra barbarica. Salito al potere, fin dal 1925 promise agli italiani di conquistargli “un posto al sole”. Alludeva a una fetta d’Africa». Non era tardiva l’ambizione di entrare fra le nazioni colonialiste d’Europa? «Tardiva ma veemente. Nel 1884-85, quando nella conferenza di Berlino venne anticipata la spartizione del continente africano, l’Italia non vi esercitò alcun ruolo. (segue nelle pagine successive)
CORRADO AUGIAS
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la lettura
Conoscere il vino, tra gusto e ricordi GIORGIO BOCCA
il racconto
Azzurro tenebra, torna il mondiale tedesco MAURIZIO CROSETTI e GIANNI MURA
spettacoli
Amália, la regina-popolana del Fado GIUSEPPE VIDETTI e SANDRO VIOLA
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la copertina
Settant’anni dopo
Quando il 5 maggio 1936 il maresciallo Badoglio entra in Addis Abeba l’inutile e infame guerra fascista all’Etiopia non finisce ma comincia. E oggi gli ultimi resistenti - ormai quasi centenari - ci raccontano dei cinque anni che impiegarono, scalzi contro i cingolati e gli aerei, a riprendersi il loro paese E degli antifascisti italiani che combatterono al loro fianco
I guerrieri rasta e l’impero di latta PAOLO RUMIZ (segue dalla copertina)
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S
uccede per caso, nel cimitero dei reduci, accanto alla chiesa dove dorme il Negus Hailè Selassiè, con un novantanne che va tra le tombe e racconta. La sua storia non lascia dubbi. L’ombra è quella di “Paulus”, al secolo Ilio Barontini, da Cecina (Livorno), comunista italiano creduto francese — Paul Langlois — dalla polizia fascista. La memoria di questo Garibaldi del ventesimo secolo dimenticato dall’Italia vive ancora in Etiopia. «Aveva gli occhi folli» narra il veterano, sbarrando le pupille, come posseduto dal grande spirito. Ed evoca la leggenda clandestina del combattente di Spagna, Etiopia e Italia, che morì senza lasciar nulla di scritto. “Paulus” l’imprendibile, che insegna agli africani la guerra psicologica e l’uso delle mine, ciclostila giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette gli ordini del Negus. Nella pioggia che va verso i monti del Nilo Azzurro, tornano pezzi di memoria su questa guerra inutile e infame, inghiottita dalla cattiva coscienza di noi italiani «brava gente». Torna l’epopea dei fantastici vecchietti, ultimi cavalieri erranti dei grandi altopiani. Ci misero solo cinque anni a riprendersi il Paese, scalzi contro i cingolati e l’aviazione. Cinque anni, esatti come una cabala, fatali come una maledizione. Vinsero anch’essi il 5 di maggio, come annunciato dai loro indovini. Non era il ‘45 ma il ‘41; prima che le panzerdivisionen si impantanassero in Russia e gli alpini in Grecia. La macchina del nazifascismo si inceppò allora, davanti agli africani «razza inferiore». In Africa, si sa, non c’è confine tra la vita e il dopo. Il quartier generale dei Patrioti sta davanti al cimitero che li ospita da morti, e attende gli ultimi cinquantamila sopravvissuti della guerra italo-etiopica. Giovanotti tra gli ottanta e i novantacinque, barba argento e pellaccia dura color cuoio. I loro padri furono i primi africani a battere — nella guerra di Adua — un esercito coloniale europeo (il nostro). I loro antenati sconfissero arabi e turchi. E tutti tennero dritto nel cuore dell’Africa il vessillo della nazione cristiana più antica del mondo. Alemu Menghistu, 86 anni e sei figli, non ha di che mangiare. Ma ogni giorno si stira la divisa kaki per esserci, vestito come si deve, davanti alla sua Associazione. Lo invito a pranzo con due compagni d’arme. Mi benedice: «Dio ti ha mandato, sarai nelle nostre preghiere». Come i camerati, sa poco o niente della storia mondiale. Nessuno di loro sa di essere partigiano antifascista, di avere accelerato il ritorno della libertà nel pianeta. Gli basta di aver liberato il suo Paese. È uscito il sole, in una nube di vapore fluttua un popolo che va, con vacche, asinelli, capre. Nessuno litiga, nessuno grida, il rispetto dei vecchi è assoluto. L’Etiopia è uno struscio permanente di poveri che sorridono, e davanti a quel sorriso ti chiedi con che cuore abbiamo potuto prenderli a sprangate, avvelenarli, stuprare le loro donne. I reduci raccontano della fame nera, del cibo che non si cucinava per non dare segnali di fumo alla nostra aviazione, della selvaggia capigliatura rasta degli uomini da prima linea, dei mitici comandanti Nassibou, Ras Abebe, Ras Imru e Mulgheta. Chiedo: e oggi? «Che vuoi, amico. Non viviamo, non moriamo. Sopravviviamo». Eroi dimenticati, eppur privi della cupezza del reducismo di casa nostra. Non li ha sconfitti la guerra, ma la pace: il latrocinio dell’era globale, i massacri del comunista Menghistu, lo scontro fratricida con l’Eritrea, la corruzione, il colonialismo delle corporation mascherato da antiterrorismo. La città vecchia, un cuore mercantile che — prima di essere brevemente italiano — fu greco, ebraico e armeno. Chiese che sembrano sinagoghe, preti che cantano come muezzin, un immenso bazar di nome “Mercato”, la piazza che si chiama “Piassa”. Ovunque, nel bene e nel male, i segni della nostra presenza. Strade e palazzi, il bar Juventus, il monumento alle migliaia di etiopi massacrati nel pogrom — peggiore di dieci Marzabotto — ordinato dal proconsole Graziani come ritorsione per l’attentato che lo ferì nel ‘37. E di nuovo le tracce di un’altra Italia: quella
che si ritrasse orripilata dalla politica del Fascio. L’università, gli archivi dell’Istituto di studi etiopici nell’ex palazzo del Negus, dove fu ospite Tito e Graziani fu sfiorato dalla bomba che scatenò la rappresaglia infame. Nell’ufficio che fu camera da letto dell’imperatrice, il pro-
Il quartier generale dei Patrioti sta nel cimitero che ospita i loro morti
fessor Demeke Berhane mi apre una grossa busta. Sono i documenti lasciati da Alberto Imperiali, poco prima di morire, ottantenne, a Palombara Sabina (Roma) nel gennaio di quest’anno. Figlio di Cesare, un colono d’Etiopia che cooperò segretamente con la resistenza, Alberto si considerava etiope e non si fidava dell’Italia. Temeva che anche le sue carte finissero, come tante, nell’imbuto dello «scurdammece o’ passato». Così le ha spedite ad Addis Abeba.
(segue dalla copertina)
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ello stesso 1885 ci fu il nostro sbarco a Massaua e sullo scadere del secolo l’acquisizione di Eritrea e Somalia. Ma a Mussolini non sarebbe bastato. Aveva in progetto di mandare in Africa due milioni di coloni. Di fatto, i contadini che vi sbarcarono non furono che 36mila, e intorno ai 60-70mila nell’intera Africa. Un fallimento. Stabilire dei villaggi in colonia era molto costoso. La guerriglia, poi, non lasciava tregua. Gli italiani erano padroni del territorio solo durante il giorno. Di notte, tutto era in mano dei partigiani, il cui numero, fra il ‘39 e il ‘40 si aggirava intorno ai centomila». Una guerra disumana. A proposito dell’impiego dei gas da parte italiana tu hai ingaggiato con Indro Montanelli — all’epoca giovane ufficiale dislocato in Africa — una lunga polemica. Tu colpevolista, lui innocentista. Finì per darti ragione. «Nel 1969 pubblicai sul Giorno centoventi telegrammi con i quali Mussolini ordinava l’impiego dei gas. Lui sarebbe ricor-
Del Boca.Quelle stragi segnarono il mondo NELLO AJELLO
Foto impressionanti. Colonne di etiopi in fuga bombardate dall’aviazione. Lo storto, maledetto profilo dell’Amba Alagi e quello, a roccaforte, dell’Amba Aradam. Le cataste di corpi insanguinati dopo la rappresaglia Graziani, che convinse gli ultimi incerti a passare alla resistenza. E, ancora, centinaia di tukul messi a fuoco, nobili etiopi in partenza per la detenzione in Italia. Corpi di uomini e asini, uccisi dai gas vescicanti sulle sponde del lago
so addirittura alla guerra batteriologica se Badoglio non si fosse dichiarato contrario». Con quali argomenti? «Temeva la reazione negativa del mondo. E poi osservava che, trattandosi d’uno strumento bellico del tutto nuovo, non si sapeva come avrebbe agito». La campagna abissina fu davvero, come hai scritto, «il prologo alla più grande carneficina della seconda guerra mondiale?». «Proprio allora, di fatto, si distrugge la Società delle Nazioni. È davanti a quel consesso, a Ginevra, che Ailè Salassiè pronunzia uno stupendo discorso. Dice, in sostanza: oggi è toccato all’Etiopia, domani capiterà a qualche paese europeo. E infatti dopo tre anni appena verrà il turno della Polonia. E così via. Fu, quella del Negus, un’anticipazione profetica. Mi chiedo come mai egli non sia stato poi stimato per quanto valeva. E mi rispondo: era africano». Salvemini definì la Libia «uno scatolone di sabbia». Quanto a economia, neppure la Somalia valeva granché. E l’Etiopia? «Era, ed è, una contrada ricchissima. La sua vastità, per cominciare, la colloca al terzo posto fra i paesi africani. L’alto-
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GUERRA COLONIALE Nella foto grande, un momento della guerra coloniale italiana nel Corno d’Africa. A sinistra, tre copertine della “Domenica del Corriere” tra il maggio 1936 e il gennaio 1937 narrano la conquista dell’Etiopia Nella foto di copertina, tre ascari abissini
to, lo sanno in Italia i pochi che lo conobbero, come i venticinque soci dell’Associazione Exodus di Carmelo Crescenti, morì con la rabbia per una «vergogna nazionale rimossa» e col desiderio di sapere se i suoi compagni d’avventura fossero ancora vivi. Comunista scomodo, di parlata schietta, polemizzò con ex partigiani per quella che riteneva una conciliazione nazionale prematura. «Perché — diceva — mi invitate alle vostre rievocazioni? Io
piano ospitava, all’atto della nostra impresa, mandrie ingentissime. Ma la sua economia aveva bisogno di capitali, di investimenti a lungo termine. La presenza italiana durò meno di sei anni». Fu un’impresa popolare? «Collocò il fascismo sulla vetta del consenso. L’Africa era “la nuova frontiera”, quasi sul modello del West americano. Caddero nella trappola intellettuali della raffinatezza d’un Elio Vittorini o d’un Romano Bilenchi. Lo stesso Montanelli definì l’Etiopia “il grande regalo che ci fa il Babbo”. Il Babbo era Mussolini. Con poco rischio, si accumulavano onori. Si lucravano medaglie». Ci fu qualche momento in cui si poté dubitare della vittoria? «Ce ne furono. Il più grave fu nel dicembre del ‘35: quando Ras Immirù, il migliore fra i generali etiopici, sorpassò sulla destra il nostro schieramento italiano penetrando in Eritrea. Sia Mussolini che Badoglio presero paura. Fu allora che il dittatore diede l’ordine di usare i gas. Era l’ultimo giorno dell’anno. Mi ha raccontato l’episodio lo stesso Ras Immirù, la cui armata, forte di 30mila uomini, si trovava sul fiume Takazzè. Gli aerei italiani lanciavano bombe di una tonnellata. Ogni bomba, carica di 200 litri d’iprite, s’apriva in aria come un ombrello di gocce micidiali. Al suolo, i combattenti si contorcevano morendo nell’acqua. Immirù telefona al Negus: che faccio? La ri-
I monaci raccontano Debre Libanos, il massacro di 500 religiosi
vi ho sparato contro». Un tè nel giardino di Richard Pankhurst, storico inglese ottantenne che — come il nostro Del Boca — lavora da una vita per scoperchiare il pentolone. «Non c’è mai stata una Norimberga — taglia corto — per i crimini dei fascisti in Etiopia. Eppure le evidenze ci sono. Terribili». Tira fuori altri nomi di italiani della resistenza. Antonio Uckmar detto “Johannes”. Bruno Rolla detto “Petrus”. Paolo De Bargili, che con
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Ashangi. L’abbattimento notturno della statua equestre del Menelik, vincitore ad Adua. La testa decapitata del Degiach Hilù, esibita da allegri italiani come un melone, insaccato in una trama di corde con l’impugnatura a treccia. «Sono stato amico di Imperiali», racconta Demeke. «Come suo padre, anche lui aiutò la resistenza etiope. Aveva un motociclo, e con quello scarrozzava i capi della guerriglia, Daniel Abebe Therson, Ras Abebe Aregai». Alber-
sposta è: mettete del succo di limone sulle ferite. Un rimedio rudimentale. In mancanza di maschere antigas, non ce n’erano altri». La guerra, a tratti, fu una “carnevalata”. «Erano presenti in quel lembo d’Africa tutti i gerarchi fascisti. E i Savoia di tutti i rami: oltre dieci personaggi, compresa la principessa Maria Josè». Ruggero Zangrandi definì “geniale” la raccolta dell’oro per finanziare la guerra. «Fu, in effetti, un’ottima idea. Mobilitò la nazione. Nessuna famiglia rifiutò questo omaggio alla patria (e, per essa, al regime). Anche se pochi donavano la fede “vera”, che conservarono gelosamente per ricordo, ma ne consegnavano un’altra comprata per l’occasione: così fece mia madre. Si raccolsero, comunque, tesori». Finisce la guerra, comincia la guerriglia. E si preannunzia la delusione. «Un disinganno terribile. Alla fine della seconda guerra mondiale c’erano laggiù 100mila civili italiani e 190mila militari. I primi, in parte, vengono imbarcati per Napoli su quelle che si chiamavano le “navi bianche”. I soldati finirono in campi di concentramento in Africa o in India. Vi restarono a volte per anni. Avevano assistito allo spuntare dell’Impero sui colli fatali di Roma, come diceva la propaganda stampata sui muri. E adesso?».
MONACI Qui sopra da sinistra, i monaci etiopi padre Wolde Amanil e padre Mengheshà A sinistra, lo storico Angelo Del Boca
Barontini raggiunse l’Etiopia via Khartoum subito dopo la guerra di Spagna. «C’era anche un siciliano, Saverio Sbriglio si chiamava. Era dottore, curava i feriti etiopi anche se le leggi razziali non lo consentivano. Quando i fascisti vennero per arrestarlo, si diede alla macchia con i ribelli, divenne il loro medico sulle montagne del Nordovest». Come mai se ne sa così poco? «Alcuni militari che furono teneri con gli etiopi — racconta Pankhurst — fecero una brutta fine. Vennero uccisi dai fascisti nei campi di prigionia inglesi dopo il 5 maggio del ‘41. Di un caso ho la documentazione». Altri soldati e camice nere furono rimpatriati prima: ragazzi che si ribellavano alle prepotenze razziali o si innamoravano delle «belle abissine». «Macché missione civilizzatrice, loro erano migliori di noi», diceva il friulano Giacomo Corona detto “Giarabub”, che fino alla morte andò col cappello coloniale alla processione della Quaresima. «Il vero uomo nero eravamo noi», brontola ancora Carlo Cataldi da Bologna, anni 93, rimpatriato prima del termine. Anche allora c’erano, a fronteggiarsi, due Italie. Chiesa di San Tekle, assediata da mendicanti e bambini magri nelle pozzanghere. Dentro, c’è uno “slum” nel cimitero, morti e vivi che abitano assieme. Cerco i monaci, la storia del primo massacro di Debre Libanos, la città delle chiese dove Graziani passò per le armi cinquecento religiosi, rei di avere predetto la rapida fine dell’impero. Alto, ossuto e splendente, in una gran tunica bianca, padre Wolde Amanil, 82 anni, spiega che «se gli occupanti non avessero ucciso a quel modo, forse oggi ci sarebbe ancora l’Italia in Etiopia». Eravamo fratelli, aggiunge allargando le braccia, «ma è proprio tra fratelli che si litiga più duramente». Quella strage, lo dicono i numeri, fu all’altezza del peggior terrorismo islamista. Ma non ha mai sfiorato la nostra coscienza di cattolici. Ancora tombe e lebbrosi, lapidi e mendicanti, donne silenziose ed eucalipti strepitanti di uccelli come una foresta amazzonica. Il buco nella memoria si allarga. I vecchi se lo ricordano. Il 5 maggio ‘36 non fu affatto la fine della guerra. Cominciò, invece, la parte più feroce del conflitto. Gli italiani controllavano solo le strade, la resistenza continuava imperterrita. Mussolini era fuori di sé dalla rabbia, da Addis Abeba partivano ordini di rappresaglie contro i civili. L’uso dei gas continuò, anche se nei villaggi erano rimasti solo i vecchi, le donne e i bambini. Il monaco ci porta da un altro monaco, più vecchio di undici anni: padre Mengheshà. Veneratissimo, vive in una baracca piena di santini, candele, rosari, croci e cartoline. Narrano che anni fa andò in Italia invitato da altri etiopi, e quando entrò a San Pietro in Roma, una folla di fedeli, riconoscendone la santità, gli si strinse attorno con uno strepito tale che dovette intervenire il servizio d’ordine. Portamento da re, capelli rasta, occhi febbricitanti, tunica rossa, al contrario di padre Wolde il grande vecchio stava con gli italiani. E il Negus, al suo ritorno, lo sbatté in galera per otto anni in un sotterraneo. Ma con gli italiani il Negus non volle rappresaglie. Tornato sul trono, ordinò alla gente di non torcerci un capello. Anche di questo ci siamo dimenticati. «Mio padre ospitò trecento italiani e diede loro scorta nei giorni della sconfitta» racconta Daniel Jote Mesfin, un pezzo d’uomo, figlio del Ras Mesfin allora maggiore della guardia imperiale. Chiede come accedere ai nostri archivi, perché «qui non hanno conservato quasi niente di scritto». Capita che un etiope chieda a un ex nemico italiano di trovare notizie su questo o quel massacro. «Venga in Italia» gli dici, ma spesso lui non ha i soldi per pagarsi il viaggio. Così continua il gioco a nascondino con la memoria, e Roma se la cava con la stele di Axum, un bell’obelisco restituito. Dopo settant’anni, chissà che non arrivi il tempo di chiedere scusa. E rendere omaggio a un grande popolo fratello.
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la memoria Riti collettivi
Sessant’anni fa nasceva la schedina Sisal, l’azzardo innocuo
che infiammò un popolo distrutto dalla guerra ma pronto a scommettere sul proprio futuro. Così in pochi anni la crescita del montepremi si fece impetuosa, come quella dell’industria, del reddito, delle strade. E il Totocalcio divenne l’emblema del miracolo economico di un Paese che però oggi non c’è più
PINO CORRIAS
Repubblica Nazionale 34 30/04/2006
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ROMA
rima del gioco globale, teleplanetario, e delle cento lotterie informatizzate, dei tornei quotidiani e dei multipli jack pot feriali, la gloriosa schedina — tatuata Totocalcio e Lamette Bolzano — ha navigato in solitaria anni d’autentico miracolo, regnando su domeniche italiane di puro incanto e sigillando, lei sola, i novanta minuti dagli stadi, scanditi dalle voci vorticose dei radiocronisti — «grazie Ameri, a te Ciotti» — fino al rendiconto algebrico della colonna vincente. Fino al montepremi che da qualche parte, in un bar, in una cucina al neon, avrebbe avverato tutti i sogni sognabili grazie a una parola d’azzardo innocuo, casalingo e al tempo stesso favolosa: Tredici. Ma ora che la schedina compie sessant’anni, ora che il suo montepremi si è smagrito di dieci volte dalle stagioni d’oro — 34 miliardi di lire il record di una domenica nel 1993, neppure 2 milioni di euro la scorsa settimana — la sua storia di carta ha davvero imboccato il viale del tramonto delle dive. Il fondale è in questo stanzone impolverato di un corridoio secondario del Coni, sede centrale di Roma, periferia di tangenziali e scatoloni multipiano, assediati dal traffico. Questo stanzone doveva diventare un museo, invece è un ripostiglio. Il funzionario si guarda intorno sconsolato, ti dice: «È tutto abbandonato qui da anni». Ci sono le insegne gialle e verdi delle ricevitorie. Gli albi d’oro dei primi vincitori. I tamponi della colla. I posacenere di antiche Tabaccherie. Le vecchie obliteratrici in ghisa dette Totomeka. Addirittura il 78 giri in vinile Marcetta dei milioni canta Aldo Alvi con l’Orchestra Sequirini. Addirittura la primissima schedina, conservata sottovetro, prima partita Internazionale-Juventus, fischio di inizio più o meno alle due del pomeriggio di domenica 5 maggio 1946. Quando tutto cominciò. In una dissolvenza da cinema. La schedina compare come un fiore di carta quasi gialla tra le macerie d’Italia, dopo gli inverni di polvere e di morte, nella seconda primavera del nuovo inizio, mentre si ascolta il primo boogie-woogie nei cortili, si ricostruiscono i tetti e i ponti, ci si divide la minestra. L’Italia è talmente povera che il suo presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, in partenza per la conferenza di Parigi, deve farsi prestare il soprabito dal ministro Piccioni. Senza quella povertà così completa non si capirebbe l’imminente trionfo del nuovo gioco a premi. La pace ha appena vinto in casa: Uno. La guerra ha perso: Due. La vita si è rimessa in pari col destino: Ics. Si ricomincia sul verde ancora scolorito dei campi. Il pallone è di cuoio marrone. Gli atleti hanno la faccia scavata, però allegra. Gli stadi non sono del tutto crollati, ma già carichi di applausi. La schedina prevede dodici pronostici, una sola colonna, trenta lire per la giocata, l’equivalente di un Vermut. Il campionato di calcio viene dal mondo di prima. Porta la luccicanza del grande Torino di Valentino Mazzola che vincerà tutto, prima della catastrofe. Della Nazionale di Angelo Schiavio e di Silvio Piola. Ma il gioco dei pronostici è nuovo di zecca. È sempli-
E l’Italia riprese a sognare L’inventore fu un geniale giornalista
ebreo perseguitato dal fascismo
L’ATTESA Sopra, giocatori della Sisal in un bar romano degli anni Cinquanta confrontano i risultati delle partite con i loro pronostici
ce come la vita. Attraente come una scommessa. Imponderabile come il destino. Si chiama Sisal. Si pronuncia 1, 2, X, schedina. Se l’è appena inventata un tipo elegante e sveglio, Massimo Della Pergola, con due amici e 300mila lire di capitale. Massimo Della Pergola all’epoca ha una trentina d’anni e una storia da film alle spalle. È nato a Trieste. Fa il giornalista sportivo. È ebreo. Quando fugge dai tedeschi e dalle leggi razziali, il suo ex giornale, Il popolo di Trieste, titola: «Della Pergola espulso. Si respira aria nuova». Lui scappa a Firenze travestito da mendicante. Poi da Milano in una notte di coprifuoco. Recupera la moglie e il figlio piccolissimo. Approda sul lago di Como. Un paio di spalloni lo accompagnano sino al confine. Entra in Svizzera a piedi la sera di Natale del 1943. Finisce in un campo di prigionia. L’accusa di espatrio clandestino è il suo salvacondotto. La pena da scontare la sua salvezza. Racconterà che lavorava nel campo di Pont de la Morge come manovale alla bonifica delle sponde del Rodano. Che portava cucito addosso il numero 21915 e che «per reagire alle sofferenze e a quello stato d’animo di sentirmi
un numero» pensava alla sua passione, il calcio, e agli stadi bombardati e a quando sarebbe potuto rinascere lo sport in Italia. Pensava a dove e come si sarebbero rintracciati tanti soldi per innaffiare l’erba dei nuovi campi bruciati dalla guerra e le caviglie fragili dei ragazzi prossimi venturi. A come far rifiorire il tifo. Finché non ebbe l’idea: un concorso milionario e un sogno domenicale in cambio di uno spicciolo leggero quanto un aperitivo per dissetare lo sport. Così quella prima domenica di maggio del ‘46 — mentre a Torino sfilano gli ex partigiani coi gonfaloni e a Roma c’è il comizio dei monarchici al Palatino — sotto al cielo appiccicoso dei bar compaiono 5 milioni di schedine. L’incasso non arriva a 2 milioni. E il montepremi quasi non si vede, 463.146 lirette, tutte giocate tra le macerie, i sacchi di farina, e l’ironia dei giornali. Dirà Della Pergola: «Nessuno ci credeva alla mia Sisal. Quando andavo al Coni dicendo che con quei soldi si sarebbero ricostruite le piste di atletica, le palestre, gli stadi, mi sfottevano: è arrivato quello dei regali milionari, ecco a voi babbo Natale. Ma io ero deciso, ero un idealista». Un idealista che però conosce gli ita-
liani. Sa che la febbre del gioco ha una sua forza autonoma. Che la speranza settimanale è contagiosa. Perciò il montepremi cresce. Le schedine entrano nel paesaggio quotidiano del tempo libero maschile, come le giocate del Lotto, come le tappe del nuovo giro d’Italia con Bartali in testa, come il ramino o le Alfa senza filtro. E anche quando scompaiono dai bar, riaffiorano sui banconi dei barbieri: alimentano le discussioni sulle prossime partite, moltiplicano le contese, ripuliscono i rasoi. In due stagioni la Sisal triplica gli incassi, conquista gli italiani, e tutta intera l’attenzione dello Stato. Il presidente Luigi Einaudi la nazionalizza con un decreto, anno 1948. Il ministero la ribattezza Totocalcio, le assegna 13 squadre. Della Pergola protesta, chiede un indennizzo, fa causa, ma è una partita di carte bollate all’italiana, si trascina senza reti per sei anni, poi amen, neanche le scuse. Ma non è che Della Pergola ci perda l’anima e il buon umore. La sua creatura funziona a meraviglia e cresce come l’economia, il reddito, le strade. Il Coni d’ora in avanti incassa un terzo delle giocate. Un terzo va all’erario. L’ultima fetta ai vincitori. I titoli dei
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I PRONOSTICI Sotto, due appassionati di Totocalcio degli anni Cinquanta discutono la schedina da giocare
I segreti del fenomeno Totocalcio
Quella vertigine fra sorte e calcolo STEFANO BARTEZZAGHI
FOTO OLYCOM/PUBLIFOTO
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Repubblica Nazionale 35 30/04/2006
Dopo l’era dei “13” miliardari i concorsi si moltiplicano. E inizia un lento declino
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Nun piglio niente, ‘o ssaccio... e che mme ‘mporta? io campo solamente cu ‘a speranza. Cu chi mm’aggia piglià si chesta è ‘a sciorta, chisto è ‘o destino mio... che nce aggia fà? ‘A quanno aggio truvato stu sistema io songo milionario tutto ll’anno. ‘A ggente mme pò ddi: - Ma tu si scemo? Ma allora tu nun ghiuoche pe piglià? Si avesse già pigliato ‘e meliune a st’ora ‘e mo starrie già disperato. Invece io sto cu ‘a capa dinto ‘a luna, tengo sempe ‘a speranza d’‘e ppiglià IL CIMELIO Qui sopra, la prima schedina, giocata per il 5 maggio 1946. In alto, una ricevitoria di inizio anni Sessanta
TOTÒ ‘A speranza
giornali lanciano i nuovi milionari della domenica. Il Cinegiornale intervista il minatore sardo Giovanni Mannu, 77 milioni di vincita, che alza le braccia come un atleta quando s’accendono i flash e lo speaker grida: «Eccolo a Roma mentre ritira il primo milione di anticipo». O il bigliettaio della Salemi-Messina Giovanni Cappello che fa frusciare i pacchi di diecimila lire formato lenzuolo. O la signora Giovanna Taoro che «contro il parere del figlio e del buon senso» ha dato l’Inter sconfitta a Catania e adesso incassa 60 milioni. Nei primissimi anni c’è ancora qualcuno che scrive sul retro della schedina cognome, nome e indirizzo, come all’anagrafe, poi si smagano tutti, per via dell’odiato ministro Vanoni, predatore di tasse nascoste. In televisione nasce il nuovo tormentone del lunedì la caccia al tredicista fuggitivo: «Si insegue uno zoppo con un soprabito verde. Forse è un ex carcerato. Forse il giornalaio. L’indiziato nega». I rotocalchi inquadrano facce di contadini con occhi sbarrati su titoli a scatola: «Cento milioni di felicità», con l’elenco dei sogni da realizzare, il matrimonio, l’automobile, la cucina americana, il bar da comprare, il milioncino «alla nonna e ai parenti tutti». Ma poi a seguire anche esiti meno edificanti e più realistici, tipo: «Quei 150 milioni che mi hanno rovinato la vita», magari con un sovrappiù di moralismo che disseta le invidie, ma che in fin dei conti non dissuade nessuno. Con il Miracolo economico la schedina diventa uno degli emblemi del sogno consumista, una serratura a portata di mano. Entra nella commedia all’italiana come le bionde, la spider, la spiaggia. Scrive lo storico Giuseppe Imbucci: «Il Totocalcio e la sua schedina trasportata dal vento, così come appariva in una famosa pubblicità, sono stati una delle scorciatoie di questa nuova etica dei consumi. Un’ideale ricchezza straripante e milionaria». Tanto reale da avverarsi ogni settimana e lentamente moltiplicarsi fino agli anni stellari, gli Ottanta e specialmente i Novanta, quando distribuisce fino a mille miliardi di premi all’anno. Il declino comincia da quelle vette, per ridondanza di troppi trionfi. Per moltiplicazione dei concorsi, Intertoto, Totogol, per i montepremi astronomici del Superenalotto, per la legalizzazione delle scommesse, per gli ascolti televisivi che si nutrono di nuovi campionati, nuovi trofei con incognite da calcolare. L’immensità della tavola da gioco internettiana ha finito col rendere residuale quella promessa di fortuna impaginata in un solo rettangolo di carta. Tutto sta dentro a questo stanzone al neon. Pure una delle ultime fotografie di Massimo Della Pergola che se n’è andato un paio di mesi fa, il 12 marzo scorso, a 94 anni. Sempre con quel suo mezzo sorriso con cui diceva: «No, non ho mai giocato in vita mia». Contento però di avere vinto l’unico montepremi che contasse, quando si sentiva un numero da nulla e così infelice da inventarsi un destino con tre variabili, perpetuo. O quasi.
el Totocalcio si incontrano e si combinano i principali impulsi al gioco censiti — proprio negli anni in cui in Italia nasceva la schedina — dallo studioso Roger Caillois. Gli impulsi sono: il caso, l’agonismo, la maschera e la vertigine. Per trovare nel Totocalcio la maschera (simulazione e travestitismo) bisognerebbe arzigogolare. La vertigine è invece certamente costituita dalla posta in gioco, che fin dal suo alpinistico nome di “montepremi” dà il senso dell’altezza, appunto, vertiginosa. Il tredici più fortunato risulta sempre foriero di una cifra che è di un ordine di grandezza superiore alla normalità piccolo-borghese. Centomila, poi un milione, poi cento milioni, poi un miliardo, dieci miliardi, trentaquattro miliardi... Un’escalation di “somme da far girare la testa”, come si dice. Si gioca, o si giocava, per quello? Sì: e no. Il Totocalcio era una passione popolare, andava ben oltre la cerchia degli ambiziosi, a cui oltretutto richiedeva un grado di pazienza e di accettazione della sorte poco compatibile con la loro pulsione. Si può dunque pensare che alla causa materiale della vincita si associassero gli altri due impulsi, l’agonismo e la sfida alla sorte. Sono complementari e, in linea di principio, incompatibili. I giochi agonistici abrogano il caso con la tecnica individuale; i giochi di alea sono colpi di dadi. Il ritratto del perfetto giocatore di Totocalcio si trova così a essere pazzamente eterogeneo. Un primo profilo è quello del giocatore sistematico, e agonistico. Soffre di un eccesso di fiducia matematica: convinto che i numeri abbiano una logica totalizzante pensa che la schedina, con la sua rassicurante precisione ortogonale, riduca a ragione la proverbiale rotondità della palla. Per ottenere quella che ritiene la corretta sequenza di 1, X, 2, cerca con seriazioni statistiche scrupolosissime (gol fatti, gol subiti, partite vinte in casa o in trasferta, frequenza dei pareggi sul campo di Marassi) di cogliere la quintessenza della giornata di campionato. Risolve d’istinto il dilemma del giocatore analitico: a puntare ai risultati più probabili si rischia sì di vincere, ma in compagnia di troppi altri concorrenti, e quindi di vincere poco. Il calcolo deve prevedere anche qualche clamorosa improbabilità, e così nel nugolo di doppie e triple, opaco e laborioso come uno sciame d’api, si calerà un due fisso, a produrre una beata solitudine attorno all’eventuale tredici. Ma il ritratto non sarebbe completo senza il secondo profilo, che è quello del giocatore descritto da Totò nella sua poesia ‘A speranza. «Ogne semmana faccio ‘na schedina: / mm’ ‘a levo ‘a vocca chella ciento lire...». Motore e carburante del mondo, per costui, è la sorte. La sorte ha deciso la posizione sociale in cui gli è toccato venire al mondo, e solo la sorte può fargliela cambiare. Non gioca per vincere («Si avesse già pigliato ‘e meliune / a st’ora ‘e mo starrie già disperato») ma per sognare («Cuccato quanno è ‘a notte, dinto ‘o lietto, / faccio castielle ‘e n’aria a centenare»). Anche questo giocatore ha un “sistema”: non è un’elucubrata razionalizzazione del pronostico, ma una filosofia. Fra la puntata e i risultati della domenica si apre una settimana di fiduciosa speranza: coltivarla costa pochissimo, e produce benefici che non è possibile disprezzare: «‘A quanno aggio truvato stu sistema / Io songo milionario tutto ll’anno». Chi dei due ha ragione, o ha meno torto? Se il Totocalcio è stato una durevole mythologie italiana forse è per la sua ironica dimostrazione delle possibili irrazionalità della ragione, e delle possibili ragionevolezze dell’irrazionalità.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 30 APRILE 2006
i luoghi
Le tombe, a saperle guardare, dicono tutto di un uomo e di chi ha vissuto accanto a lui. E le tombe degli uomini famosi dicono molto delle vicende di un paese. Convinti di questo, un giornalista e un fotografo hanno raccolto in un libro il loro giro d’Italia alla ricerca delle sepolture
Viaggi nella memoria
di chi ha fatto la storia del nostro secondo dopoguerra
Cercando la vita sull’ultimo ponte P
Repubblica Nazionale 36 30/04/2006
CONCITA DE GREGORIO
eccato, davvero. Peccato per quelli che nei cimiteri non ci vanno mai perché sono posti lugubri, dicono, e che non sono capaci di fermarsi davanti a una tomba a immaginarsi per un’ora la vita intera di quella persona che ride dalla foto ovale, che non sanno camminare nei viali con le siepe di bosso ricordandosi una poesia imparata a scuola, fermarsi davanti a una lapide che porta solo un nome inciso e pensare chissà come mai, chissà chi l’ha voluta così, se è stata la moglie, i figli, se è stato un amico, chissà da quanto tempo non ci viene nessuno, chissà cosa pensava chi ha portato questi fiori e cosa spera, cosa ricorda e cosa non vuole ricordare più. Quelli che non sanno camminare sopra milioni di passi altrui, perdersi in un labirinto di pensieri e poi sedersi su una panchina a leggere un libro o anche niente, stare fermi lì in compagnia di gente che ha attraversato i secoli e c’è ancora, c’era prima e ci sarà dopo di te. Peccato perché i cimiteri custodiscono lo spirito dei tempi e dei luoghi, lo raccontano molto ma molto di più di qualunque museo, di qualunque strada luccicante. Non c’è vivo più longevo di un morto, ciascuno lo sa, né più presente. Non c’è luogo a Roma più soave del cimitero degli Inglesi, non c’è posto a Praga più emozionante del cimitero ebraico, non si può nemmeno dire la bellezza del cimitero dei cinesi all’Havana, la meraviglia senza nome del cimitero della Chacarita di Buenos Aires dove Gardel ha sempre una sigaretta accesa, una sigaretta vera che qualcuno di continuo gli accende tra le labbra di marmo. E i lindi cimiteri portoghesi con le casette coi tetti e le maioliche blu, e quelli ordinati di Francia, e quelli d’erba dei paesi scandinavi, quelli gerarchici dei paesi dove laggiù c’è il signore, qui sotto il fattore, lì la famiglia numerosa con le figlie belle, una s’è sposata al barone e difatti manca, bisogna cercarla in cappella. Storie che parlano. Nel nuovo film di Pedro Almodovar, nella Spagna che coi morti — appunto — ci parla, la prima scena è così: donne spettinate dal vento forte di pianura, decine di donne coi fazzoletti in testa che lustrano le tombe dei loro morti col secchio di acqua e sapone come se fosse il tinello di casa. Che si raccontano le cose del giorno gridando da una tomba all’altra, chiamandosi per nome. Che tengono in ordine la propria, quella dove andranno un giorno e ci portano una sedia per sedercisi sopra, certi pomeriggi, e si riposano un momento prima di andare a fare la spesa e riprendere il filo dei giorni. Due giornalisti umbri, Giuseppe Cardoni e Luca Cardinalini, il primo fotografo l’altro giornalista del Tg2, hanno pubblicato un libro strepitoso: le foto delle tombe degli uomini e delle donne che hanno fatto e disfatto il secondo dopoguerra, in Italia. Hanno avuto non poche difficoltà a trovare un editore, i grandi lo hanno rifiutato: porta jella, non vende — gli hanno detto. Il mistero della selezione del personale ai vertici delle aziende culturali resta insondabile. Lo ha stampato DeriveApprodi, alla fine. Una piccola casa editrice. S’intitola STTL, l’acronimo latino di «Ti sia lieve la terra». È un viaggio che nessun altro ha mai fatto prima e che nessuno avrebbe il tempo e il denaro per fare: un’escursione nell’istante finale della vita delle persone — quello che come spesso capita le spiega e le riassume — persone qui ritratte nella posa e nel modo, nel luogo, nella forma che spesso loro stessi hanno desiderato per riposare in eterno. La tomba, a saperla guardare, dice tutto di un uomo e di chi ha vissuto con lui. La galleria di queste immagini dice tutto della storia del Paese. Ci sono i delitti (Moro, Mara Cagol, Don Puglisi, Falcone, Borsellino) e i suicidi: Alex Langer, Luigi Tenco, Primo Levi, Raul Gardini che si sparò mentre cento metri più in là si celebravano i funerali di Gabriele Cagliari, lui pure suicida. Già solo i motivi di questi suicidi sono un’antologia del pensiero e dei malanni del secolo. Una storia di battaglie e di misteri (Feltrinelli e Pasolini, Sindona), di
Le tombe di Palmiro Togliatti e Nilde Iotti nel mausoleo al cimitero del Verano, Roma criminali (Pacciani, Liboni, Galesi), di poeti e di eroi. ta, qui siamo vicino a Firenze, Ponte a Ema. Bartali Italo Calvino riposa in mezzo agli allori e alle giche è sepolto anche lui accanto al fratello minore nestre che crescono selvaggi. Giovanni Spadolini Giulio, e anche Giulio era morto prima di lui duranha fatto incidere sulla sua tomba la sua firma autote una corsa in bicicletta. Le vite si specchiano, si legrafa e l’epigrafe: «Un italiano». Su quella di Enrico gano con fili invisibili. Racconta Cardinalini che GiBerlinguer c’è solo il cognome perché Berlinguer è no Bartali dopo ogni gara andava al cimitero a racuno: è Berlinguer. Anche di Mastroianni c’è solo il contare al fratello com’era andata, qualunque ora cognome, con la i lunga però: Mastrojanni. Solo il fosse anche di notte, anche scavalcando il cancello. cognome come nelle conversazioni da bar anche Anche Enzo Ferrari, che riposa in un immenso per Sindona, che non si sa se fu davvero un caffè, formausoleo neoclassico accanto al figlio Dino, passase era una capsula di cianuro, va ogni mattina a salutarlo: magari fu suicidio anche quelmorto a ventiquattro anni, dilo: un mausoleo con l’altoriliestrofia muscolare. I figli morti I NOSTRI RICORDI vo dei quattro evangelisti, un prima. Eduardo De Filippo è in LAPIDE PER LAPIDE manufatto altisonante e inquella tomba coi rami spinati Il libro “STTL-La terra ti sia lieve” congruo, un monumento al insieme ad Isabella, ingoiata a (editore DeriveApprodi, 156 dubbio. La tomba di Almirante 12 anni nel 1960 in un incidenpagine, 20 euro) è un viaggio l’ha donata il Comune di Rote sulle piste da sci. Fellini con per i cimiteri d’Italia, una sorta ma, si apprende. Almirante Pierfederico, dieci giorni. Totò di visita guidata alle sepolture che alla camera ardente di Berè col neonato Massimiliano dei personaggi che hanno scritto linguer, accolto dalla Iotti e da sotto un altare coperto di foto e pagine importanti nella storia Pajetta, deve rientrare due voldi fiori. Massimiliano avuto del dopoguerra italiano: politici, te per esigenze di riprese tv: la dalla moglie Franca Faldini e scrittori, attori, cantanti, sportivi, prima volta, quella vera, non vissuto poche ore, ma nella imprenditori, giornalisti, avevano filmato il fatto storico. tomba Totò volle anche Liliamagistrati, militanti della lotta Le polemiche per la mancata na Castagnola, la cantante che armata. Le foto sono state diretta ai funerali di Togliatti: saputo di una sua altra relazioscattate da Giuseppe Cardoni, era il 1964 la storia gira in tonne aveva ingoiato trenta pai testi che le accompagnano sono do, e la smorfia sul viso della sticche di sonnifero, morta stati scritti da Luca Cardinalini moglie — Rita Montagnana — d’amore per lui. Le amanti. quando Breznev porge le conQuelle che alle esequie restano doglianze a Nilde Iotti. in ultima fila e in perpetuo torGiulia Occhini, la dama nano a portare i fiori, quelle bianca di Coppi, in ultima fila mescolate alle mogli nell’abin chiesa coperta da un velo nero. La famiglia di lui, becedario degli affetti di marmo e quelle che non la moglie e il prete non volevano nemmeno farla enhanno nessun posto mai. trare. E la tomba di Coppi a Castellania, vicino ad Le paure. «Mi applaudiranno perché sanno che Alessandria, il suo busto di bronzo coi capelli spetsto morendo o perché sono bravo?», chiedeva Matinati dal vento, ci vanno ancora oggi a decine in pelstroianni da ultimo a Enzo Biagi. Una tomba piatta legrinaggio, ci partono e ci arrivano le gare di ciclinella terra riarsa. Troisi, che ride dalla foto dove ha smo. Coppi che è sepolto accanto al fratello minore scritto di suo pugno «ciao» e che del suo cuore maSerse, morto nove anni prima di lui durante una galato non voleva parlare. «Quando c’è l’amore c’è ra ciclistica. Nella pagina dopo Bartali. Un nome tutto», dice un’attrice in un suo film, e lui: «No, chilpiccolo piccolo in mezzo a una lapide bianca infinila è la salute». Gassman, sepolto con una cravatta
con le balene che spruzzano acqua: «Muoiono solo gli stronzi. Certo un momento di stronzaggine prima o poi capita a tutti. A me sarebbero bastate due vite: una per capire, una per agire». Sciascia, una bara bianca in mezzo all’erba alta, che aveva il terrore di essere sepolto vivo: «Prolungate il più possibile la veglia funebre. Accertatevi che sia morto davvero». Pasolini che la morte invece la cercava, «io vado ogni giorno all’inferno», diceva il pomeriggio prima di essere ammazzato, «ci vado e vi dico che siamo tutti in pericolo». Feltrinelli che sul traliccio aveva in tasca documenti falsi e la foto vera del figlio Carlo bambino. Fellini, che forse l’ha ammazzato un morso a una mozzarella, sepolto in una tomba orrenda voluta da Giulietta e salutato da Benigni col più bello dei congedi: «È come se fosse morto l’olio. Come se fossero entrati in coma i cocomeri». Falcone e Borsellino, due siciliani, due foto dentro cornici d’argento come quelle che si regalano ai matrimoni e alle prime comunioni. Cornici appoggiate sul marmo come fosse un mobile del salotto. Più piccola quella di Borsellino, più grande il nome scritto come l’intestazione di un fascicolo, come l’avesse scritto lui con la Olivetti. «Chi non ha paura muore una sola volta nella vita», diceva. L’anarchico Pinelli, sepolto a Carrara, ha incisa sulla tomba la sua preferita delle poesie dell’Antologia di Spoon River, il libro che aveva regalato al commissario Calabresi ricevendone in cambio una copia di Mille milioni di uomini. Nella pagina successiva Calabresi in una foto dove ride felice. Ride Gaetano Scirea, morto bruciato su una strada polacca: ride bello e un po’ timido come un attore d’altri tempi al primo provino, non riusciva a dire di no. Ride Mara Cagol, accucciata in posa da ragazza. «Chi dona la sua vita la salva», c’è scritto sulla lapide. Su quella di Mario Galesi, brigatista, qualcuno ha fatto incidere versi di Bertolt Brecht: «I fortissimi lottano per tutta la vita, costoro sono indispensabili». Ai suoi funerali non c’era nessuno, adesso però ha sulla tomba una stele di marmo con un cuneo rosso, una stele nuova. Per Alex Langer un cristo in croce come in certe cappelle di montagna. Per Augusto Daolio, uno dei Nomadi, gli orsacchiotti di pelouche e i biglietti che ogni giorno gli lasciano vicino a quel pino. Walter Chiari aveva chiesto che sulla tomba ci fosse scritto: «Non preoccupatevi, è solo sonno arretrato». Sulla parete del piccolo famedio di milanesi illustri la frase non c’è. Solo barre strette, una in colonna all’altra: Paolo Grassi, Franco Parenti, Luigi Berlusconi, Walter Annichiarico. A Tiberio Mitri, vecchio pugile ormai solo — il figlio maschio morto per eroina, la figlia femmina di aids, le donne e gli amici spariti — hanno costruito una tomba come un ring di bambino, le corde attorno al piccolo quadrato. A Don Pino Puglisi, che sorrise al suo assassino, hanno scritto: «Nessuno ha un amore più grande di questo. Dare la vita per i propri amici». La beatificazione per martirio è in corso. Di Alighiero Noschese si ricorda l’oscura storia delle intercettazioni dei servizi segreti sulle indagini per le stragi, anni di servizi deviati e di P2, in cui ricorreva una voce che imitava benissimo Andreotti e Leone. Di Domenico Modugno le tartarughine che avrebbe dovuto rimettere in mare quel giorno. Di Pasolini l’etichetta della lavanderia col suo nome sulla camicia insanguinata. Di Rino Gaetano, uno schianto sulla Nomentana, quel nome d’arte degli inizi, Kammamuri, che con l’accento sulla i sembra un presagio. Di Giorgio Gaber la frase più limpida del libro: «Io non temo Berlusconi in sé: temo Berlusconi in me». Pietro Pacciani ha una croce di legno come nei disegni infantili. Enzo Baldoni nessuna: non c’è il corpo, non c’è tomba. Di Carlo Giuliani ucciso a Genova restano le ceneri in un’urna e sempre fiori sotto, e biglietti, e poesie. Tiziano Terzani è in un bosco. Lo hanno soffiato via, disperso sui monti e sui fiumi dell’Orsigna. È tutto bianco, intorno. Come voleva lui. Com’era lui. Il posto dove resti è alla fine il posto che ti dai, è quel che sei.
Roma, 11 maggio 2006, Auditorium del Massimo
Le foto nelle cornici d’argento per Falcone e Borsellino,
che diceva: “Chi non ha paura muore una sola volta nella vita”
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Il congedo più bello
per Fellini venne da Roberto Benigni: “È come se fosse morto l’olio...”
DOMENICA 30 APRILE 2006
Da sinistra, le tombe del dirigente politico Enrico Berlinguer; del cantante Rino Gaetano; del pugile Tiberio Mitri
Repubblica Nazionale 37 30/04/2006
Da sinistra, le sepolture di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse; della brigatista Margherita Cagol; del cantante dei Nomadi Augusto Daolio
Da sinistra, i monumenti funebri dell’attore e autore teatrale Eduardo De Filippo; del banchiere Michele Sindona; del regista Federico Fellini
Da sinistra, le tombe dello scrittore e regista Pier Paolo Pasolini; dell’attore Walter Chiari; del poeta Giuseppe Ungaretti
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Era il 1959 e un settimanale inglese chiese a Ian Fleming, autore di “Dalla Russia con amore”, di fare il giro del mondo per raccontare le città di James Bond Il risultato, un brillante libro di viaggi e di costume, viene pubblicato oggi in Italia per la prima volta
Il papà di 007, turista nelle metropoli della guerra fredda CORRADO AUGIAS
S AGE Y IM ETT OG FOT
Repubblica Nazionale 38 30/04/2006
T
ra il 1959 e il 1960 accadde che una normale committenza di servizi giornalistici desse vita ad un’assai curiosa serie di réportage. Si trattava di andare in giro per il mondo a raccontare quelle che il redattore capo del settimanale inglese Sunday Times definì “Thrilling cities”, le città dell’avventura o se si vuole del brivido. Infatti ci sono nel mondo città che si presentano con forti connotati da “giallo”. Anzi, che devono almeno parte della loro fama al torbido fascino del crimine. Macao, Hong Kong, Chicago, per fare solo qualche nome. Giunche che scivolano sulle acque torbide del porto, una misteriosa avventuriera che fuma impassibile sul molo in attesa di chissà che cosa; gangster, traffici illeciti, armi dissimulate sotto la giacca; prostituzione, gioco d’azzardo, droga: quel bel pezzo di sottomondo, ma anche di economia, intorno al quale gira una metà del pianeta; e che l’altra metà si diverte a farsi raccontare. Dunque una bella mattina il redattore capo del Sunday Times chiamò uno tra i più illustri collaboratori del giornale e gli disse più o meno: fatti dare un anticipo dall’amministrazione, prendi un aereo, raccontaci come sono fatte queste “thrilling cities”. Quel collaboratore si chiamava Ian Fleming, proprio lui, il padre di James Bond 007. Nel 1959, quando l’avventura ebbe inizio, Fleming aveva avuto un considerevole successo soprattutto con Dalla Russia con amore, pubblicato due anni prima. Ma quando nel 1963 uscì il libro che metteva insieme quegli articoli la sua fortuna era decisamente in ascesa e sarebbe addirittura esplosa nel 1964, l’anno del film Missione Goldfinger nonché l’anno in cui lo scrittore purtroppo, a soli 56 anni, morì. La casa editrice Alacràn pubblica ora questi réportage del brivido nella sua collana di Saggi con una postfazione del “bondologo” Edward Coffrini Dell’Orto. Se devo essere sincero le impressioni più vivaci e immediate che ho avuto da questi brillantissimi racconti sono due, una riguarda alcuni dettagli riferiti da Fleming, l’altra lo stesso autore. La prima cosa che si capisce leggendo è la montagna di novità che l’ultimo mezzo secolo ha immesso nelle nostre vite. Il viaggio aereo, per esempio, che era allora un’attività riservata ad alcuni viaggiatori agiati, infatti trattati a bordo come piccoli principi da hostess belle come attrici fasciate da seducenti uniformi (e l’aeroporto di New York si chiamava ancora Idlewild); la novità delle radio a transistor; la vivacità delle memorie di guerra, anche se ormai s’era conclusa da quindici anni; le automobili equipaggiate in modo così diverso che Fleming può suggerire: «Forse sarebbe utile mettere una levetta per lampeggiare con i fari, invece di suonare il claxon». Sono passati meno di cinquant’anni e il mondo è cambiato sotto i nostri occhi non solo con la fine della guerra fredda, il crollo dell’Urss, la riunificazione della Germania, ma nelle piccole e grandi cose che fanno la vita: dai supermercati ai computer, dal turismo di massa ai surgelati. L’altra caratteristica riguarda l’autore. Fleming, che nella sua vita ha fatto tanti mestieri compreso, per un breve periodo, l’analista di dati nell’Intelligence della marina di sua maestà, si stupisce continuamente di quante poche tracce del famoso “British Empire” siano rimaste nel mondo. Nel 1959, un uomo avvertito come lui non aveva ancora capito che l’esito della guerra aveva mutato profondamente gli equilibri del pianeta e che la mano ormai era decisamente passata agli Stati Uniti. Alla fine della parte asiatica del viaggio (Macao, Hong Kong, Tokyo, Honolulu) scrive: «Era fonte di una continua depressione notare quanto poco della nostra influenza fosse rimasto in quella porzione di mondo in cui eravamo stati pionieri»; oppure: «Gli statunitensi stanno penetrando persino in Australia, il nostro ultimo bastione». Ritengo che sia nell’unica tappa italiana del viaggio, Napoli, che l’autore rivela fino in fondo le ben note caratteristiche dell’animo, e dei pregiudizi, britannici. Si possono riassumere nella famosa sentenza che l’Italia sarebbe un paese molto bello… se non ci fossero gli italiani. Di passaggio per Roma nei giorni convulsi che prece-
Thrilling Cities
RACCONTO INTROVABILE “Thrilling Cities-Le città dell’avventura” di Ian Fleming (1909-1964), finora inedito in Italia, viene pubblicato da Alacran Edizioni nella sua collana I Saggi e contiene l’introvabile racconto “007 a New York”. Il volume verrà presentato al Salone del libro di Torino giovedì 4 maggio alle 13 nello spazio autori B
Lo scopo del rèportage era quello di descrivere le grandi capitali mondiali
dell’avventura e del brivido
DOMENICA 30 APRILE 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
Macao L’oro, a braccetto con l’oppio, gioca un ruolo straordinario e segreto in Estremo Oriente e tanto Hong Kong quanto Macao sono il punto nodale di questo traffico sotterraneo
Isole Hawaii Sono di grande bellezza e, da quando Cook le scoprì, avremmo dovuto tenercele e continuare a chiamarle Isole Sandwich.Ma l’America (si vergogni!) se ne impadronì una sessantina di anni fa
New York A New York l’unico modo per trovare gentilezza è comprarla. Qui l’usanza delle mance sfiora la follia. Si è alla mercé del capocameriere, dei fattorini, del bancario, del bagarino
Amburgo Il normale “vizio” eterosessuale è autorizzato, per quanto confinato in apposite riserve e a condizione che sia praticato apertamente e senza ipocrisie. Che differenza rispetto all’Inghilterra!
Berlino Ogni capitale ha il suo odore caratteristico Londra sa di pesce fritto e di sigarette Player's Parigi di caffè, cipolle e Caporal. Mosca di colonia da quattro soldi e sudore. Berlino odora di sigari e cavolo bollito
Repubblica Nazionale 39 30/04/2006
Ginevra A uno scrittore di thriller fa venir voglia di prendere un apriscatole e vedere che cosa si nasconda sotto la superficie o nelle grandi famiglie, e il tormento interiore dietro il volto bello e banale del paese devano le famose olimpiadi del 1960, Fleming nota con disappunto che: «Tutta Roma e buona parte delle città italiane sono classificate “zona del silenzio”. I frequenti cartelli in tal senso sono, naturalmente, uno spreco di metallo e di vernice». Si riprende un po’ nell’antro della Sibilla a Cuma, tra gli scavi di Pompei, ma rimane annichilito dalla «durezza quasi bestiale di Napoli» dove «si viene ancora truffati, derubati e genericamente intimiditi dagli abitanti… è come se al vostro arrivo l’intera città si leccasse le labbra dicendo: “Eccolo qui”». Nell’intero libro non ci sono altri giudizi di durezza pari a questi. Tutto il meridione d’Italia viene giudicato «immerso in un’atmosfera di barbarie e oscurantismo quasi medievali», «a stento si trovano vestigia del ventesimo secolo». L’aspetto propriamente thrilling è invece affidato al resoconto di un bel colloquio con Lucky Luciano avvenuto nella hall di un grande albergo napoletano. Qui, finalmente, aspetto e comportamento del gangster («un diplomatico o un funzionario di governo a suo agio in questo rituale civilizzato») riesce quasi ad intimidire l’altezzoso visitatore. Un altro gangster di notevole taglia, il dottor Lobo, Fleming lo aveva incontrato a Macao in un’atmosfera ovviamente molto più suggestiva e fitta di mistero. Già il personaggio si presenta (o ci viene raccontato) con un perfetto fisico del ruolo: «Lobo è un cino-malese basso e magro, sulla settantina, dalla bocca imbronciata e dagli occhi vacui… un robusto maggiordomo il cui aspetto ricordava piuttosto quello di una cintura nera di judo, ci offrì un Johnny Walker…». Questa sembra
Napoli È come se, al vostro arrivo, l’intera città si leccasse le labbra dicendo: “Eccolo qui” E la persecuzione continua incessante, finché non ve ne andate con quel che resta del vostro portafogli
Montecarlo Ciò che una volta era un passatempo oggi è un modo spietato di ammassare capitali esentasse. Montecarlo e il casinò erano pensati per personaggi assai più decorativi: granduchi, milord e maharaja
già una scena tolta di peso da un’avventura di James Bond. Infatti, il misterioso dottor Lobo potrebbe essere benissimo il capo della Spectre, compresa la sua vanità di ritenersi un buon compositore di musica e soprattutto la sua diabolica abilità nel rispondere alle domande senza dire assolutamente nulla. Macao e Hong Kong sono forse le due tappe più elettrizzanti. Località esotiche dove per una notte Fleming scioglie la sua freddezza britannica addentrandosi nel Mondo di Suzie Wong, avvenente protagonista del romanzo, allora celeberrimo, di Richard Mason. Il mondo di Suzie Wong è quello della prostituzione asiatica, del quale gli uomini occidentali avvertono a tal punto il fascino da averlo fatto diventare un’attrazione di massa, compresi certi risvolti decisamente infami. Proprio nel 1960 dal romanzo di Mason era stato tratto un film dove si raccontava l’appassionato amore tra Suzie, bella e perduta, e un visitatore occidentale (l’attore William Holden) in una versione aggiornata ed eroticamente insaporita della pucciniana Madame Butterfly. Una prostituzione di altro tipo, il viaggiatore Fleming la trova ad Amburgo, città verso la quale non nasconde il suo entusiasmo. «La città — scrive — è estremamente orgogliosa del proprio atteggiamento liberale nei confronti delle debolezze dell’uomo». E prosegue, scivolando nella sociologia: «Non è per nulla impressionata dal fatto che la Francia e, più di recente, l’Italia abbiamo bandito la prostituzione costringendola a diventare un’attività sotterranea con le inevitabili conseguenze: racket, malattie, squallore». Ad Amburgo invece, nel celeberrimo quartiere di St. Pauli la strada delle ragazze in vetrina è «un posto allegro, pieno di luci e di colori, di piacere e di risate». Per un diverso aspetto Amburgo era in quegli anni una città che ancora esponeva, nude, le ferite della guerra. Quello che non avevano fatto con i bombardamenti, gli alleati lo completarono dopo il 1946 facendo esplodere molti cantieri e piattaforme del grande porto. Tale la furia che a un certo punto rischiarono di far crollare il tunnel dell’Elba con conseguenze che sarebbero state disastrose. Qui Fleming racconta uno di quegli episodi che riempiono di fierezza il cuore di ogni vero inglese. Alle troppe discussioni sul pericolo di quell’esplosione «mise fine un gesto sportivo del console britannico che si mise a fumare la pipa su una sedia piazzata in mezzo al tunnel che avrebbe potuto saltare. Per ragioni che non mi è stato possibile scoprire, la demolizione fu sospesa». Potere di una pipa, purché Made in Britain! Dopo l’allegria disinibita di Amburgo, colpisce la tristezza di Berlino divisa in quattro spicchi tra le potenze vincitrici. La vita notturna comunque è in ripresa, i locali fumosi, le cantanti dalla voce arrochita come negli anni Trenta, i travestiti. In uno di questi locali Fleming conversa a lungo «con una fioraia di mezza età come se ne possono vedere a Piccadilly Circus. “Costei” era stata caporale in una Panzerdivision e parlava un misto sorprendente di berlinese e di cockney… le cameriere erano assai ingegnose nel servire tenendo fuori vista mani e piedi poco femminili…». Vienna non lo colpisce particolarmente tanto più che «la città non sorge sul Danubio che del resto non è affatto blu». Lo incuriosisce però il fatto che sia «una fantastica macedonia di razze con una base di polacchi, cechi, ungheresi, rumeni e un forte ceppo ebraico». La cifra d’epoca è data dall’incontro con Anton Karas, che oggi pochi ricordano ma che allora era uno dei nomi più famosi del mondo in quanto autore del celebre motivo per il film Il terzo uomo. Ma un’altra cifra d’epoca, ancora più significativa, è data dalla visita alla “Cortina di ferro” sulla sponda del Neusiedler See poco fuori Vienna: «Le grandi e desertiche pianure paludose della puszta ungherese e un’interminabile tozzo reticolo di filo spinato alto sei metri e punteggiato di torrette. Sembra malinconico e sciocco finché non si sente parlare degli ungheresi che di tanto in tanto vengono trovati all’alba sul filo spinato, crivellati di proiettili». Anche questo, allora, era motivo di brividi, di “thrilling”, oggi ne abbiamo altri, non meno pericolosi. Infatti un altro pregio di questi racconti è di farci vedere, sul punto di nascere, o appena nati, molti dei fenomeni oggi completamente esplosi. Il turismo di massa, per esempio, che già allora, quasi mezzo secolo fa, Fleming poteva liquidare come «il vizio dei turisti di guastare quanto di bello rimane nel mondo. E non ci si può fare niente».
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
la lettura
Che ne sanno gli italiani della bevanda nazionale? Tutto e niente, risponde uno scrittore ripercorrendo la complessa rete di sapori, ricordi e sapienza popolare che sottende il gesto di scegliere una bottiglia E per saperne di più un noto eno-critico scrive un libro
Bere con arte
che svela i retroscena di un’industria e di una moda
SCALPORE “Vini d’Italia, era quello il nome della guida, fece scalpore più per il fatto che un gruppo di persone che scrivevano sul ‘manifesto’ si occupavano di vini di qualità”
Il Nebbiolo e il Dolcetto lo fanno i vignaioli ma il Barolo pare che lo faccia il buon Dio
CHAMPAGNE/1
Repubblica Nazionale 41 30/04/2006
“Insomma, quando ci capita di aprire una bottiglia di Champagne, pensiamo di bere soprattutto un vino, non solo un sorso di sogno”
CHAMPAGNE/2 “Se bevendo un Dom Pérignon ascolto un’intera orchestra, assaggiando lo Champagne di un ‘vigneron’ mi concentrerò sull’assolo di un singolo strumento”
Si fa presto a dire vino quel lungo viaggio tra gusto e memoria GIORGIO BOCCA
C
he ne sanno del vino gli ma queste del reverendo mi parevaitaliani? Tutto e niente no inoppugnabili. perché il rapporto che C’è una cultura del vino in Italia? Se hanno con il vino è un sto a quelli che vengono a pranzo da rapporto di memorie, di me c’è un apprezzamento ancestrasentimento assai più le che arriva da lontanissimo per i viche di gusto. Intanto dividiamoli fra ni buoni. Metti in tavola quattro botquelli che lo fanno e quelli che solo lo tiglie di vino buono ma normale e bevono. Io per parte di nonno apparquattro di eccelso e tutti, anche queltengo ai primi. Mio nonno era uno di li che bevono solo acqua o Coca Coquei piemontesi delle terre di grano la, scelgono subito l’eccelso. E non lo e di frutta che l’uva se la fanno arribevono come una rarità, come un vare dalle terre di vigna. È peccato di gola ma come se quasi sempre uva di seconfosse il loro vino, quello di da qualità e il vino che fanogni pasto. Ma non lo comL’ASSAGGIATORE no acidulo resta sullo stoprerebbero mai, l’idea di L’editore Einaudi ha mandato maco. Posso dirlo perché spendere cinquanta o cento in libreria in questi giorni, seguii in alcune campagne euro per una bottiglia è nella collana Stile libero Extra, elettorali un mio cugino seinimmaginabile, nessuno le “Memorie di un assaggiatore natore socialista: risalivadi loro ha una cantina, se indi vini” di Daniele Cernilli. mo le valli del Cuneese e a vitano qualcuno scendono Considerato a livello ogni paese si doveva berne a comprare quattro bottiinternazionale tra i più influenti una, «beivumne una», con i glie dal vinaio o dal droghie“uomini del vino”, Cernilli cura compagni. Alla sera eravare. E ti chiedono: «Ma come da diciannove edizioni la “Guida mo fuori combattimento. fai ad avere questo videi vini” del Gambero RossoAnche mio nonno Giovanni no?». «Lo compero», Slow Food (ed è anche Re si faceva arrivare l’uva dico. «Da chi?», chiecondirettore della rivista dalle parti di La Morra. Ma dono. «Dai produttori. “Gambero Rosso”). Le citazioni solo ora ho saputo le uve Ci sono libri in cui si diche arricchiscono questa pagina che quelli di La Morra vence come si chiamano e sono tratte dal volume, il primo dono a quelli della pianura, cosa producono». Sembrain cui Cernilli si presenta sono del versante nord che no interessati ma ordinare direttamente al pubblico scende su Cherasco, terre del vino per la maggior pardi gesso per un vino duro e te della gente è una impresa senza profumo. misteriosa. Comunque per noi È scoppiata la moda del erano il massimo: riempivamo vino, l’Italia intera è piena di mostre, il tino nella cantina e le pestafeste, cerimonie in cui folle di italiavamo con i piedi. Quando ni fanno ruotare il vino dei calici comio nonno si accorgeva me degli esperti, non fai in tempo a che i fumi del mosto staversarglielo nel bicchiere e sono già lì vano dandomi alla teche lo guardano in trasparenza, lo sta, e vedevo le fiamodorano, lo girano e rigirano come se me delle candele avessero passato la vita a fare il somoscillare come se melier. E ogni mese c’è una nuova in cantina fosse arrivato un moda: del vino siciliano, di quello vento, mi prendeva in braccio e mi umbro, del pugliese. Perché oggi tutportava a dormire. Il vino vero della ti hanno imparato a lavorare il vino e Morra l’ho bevuto più tardi, negli ani bianchi meridioni Quaranta, quando eravamo partinali sono di gugiani a Monforte e il vecchio Contersto fino come mo dell’osteria del ponte scendeva quelli del in cantina, anzi nell’inferno, la sottoFriuli e gli cantina per le bottiglie rare, e tornas p u va su con quelle che aveva murate manti per il matrimonio dei figli, ma ora della con la guerra ci aveva ripenFranciasato: «Meglio che le becorta soviamo noi che i tedeno meglio degli chamschi». pagne e quelli della ValIl vino di tellina barricati e irricoBarbarenoscibili. sco me lo Ci sono delle macchis o n o ne che danno al vino la bevuto gradazione alcolica che nei primi vuoi, di tredici, di quatanni del tordici gradi, che un temdopoguerpo erano vini da dessert. ra nella canIn certo senso si beve metina di Bianco glio che in passato, porAlfredo, che lo spillava dalle botti cherie come i falsi Barolo, i con una provetta di vetro, lo scolafalsi Dolcetto, che per deva nel bicchiere l’alzava alle luci del cenni si sono bevuti nelle tramonto e gli usciva fuori un grido di nostre osterie e che hanno giubilo che planava sulle colline nel provocato le morti precoci tepore della sera. Il Nebbiolo e il Doldi nostri padri e nonni, sono cetto lo fanno i vignaioli ma il Barolo scomparse ma le forzature pare lo faccia il buon Dio, se è vero si scoprono ancora, i vini quel che diceva a un pranzo da Cesameridionali rivelano il loro re a Albaretto della Torre quel revefondo marsalato, quelli che rendo ultracentenario arrivato da in ogni regione hanno trovaFossano con gli amici a festeggiare to il loro appassionato procon peperoni in bagna cauda e tajaduttore rivelano ancora la lorin tartufati. Uno di quei pranzi che ro inconsistenza. hanno inizio lento ma poi affondano Perché i vini buoni vengono nelle ore come un coltello nel burro, dai terreni da vino buoni, dalsolo il crepuscolo ti avverte che è ora le Langhe e dal Novarese in di tornare a casa. E il reverendo, picPiemonte, dal Veneto e dal colo e spelacchiato, si alzò a parlare e Friuli, da alcune province toringraziava il buon Dio che ha creato scane e aveva ragione quel veil seme che poi germoglia e poi discovo tedesco a piantare i suoi venta albero e che dà il frutto da cui avvisi di Est Est Est per avvisare questo meraviglioso Barolo. E chi se che dalle parti di Chiusi c’era vinon Dio ha creato il sole che fa matuno buono. E infatti Angelo Gaja, rare i grappoli? Le prove di San Tomche del rosso buono è il re, ci ha maso non mi avevano mai convinto aperto le sue cantine.
PROFUMI “Le memorie di un assaggiatore di vini sono fatte di luoghi, di ricordi e di personaggi, ma anche di profumi, di colori e di sapori”
Qui c’è un apprezzamento ancestrale, che arriva da lontanissimo, per la qualità davvero buona
UMANI “Non amo i vini troppo costosi. Ce ne sono di imperdibili, ma ne esistono moltissimi che hanno un prezzo ‘umano’, e vorrei proprio partire da lì”
BORGOGNA “Sono come delle donne meno belle, ma con una tale sensualità da rendere impossibile che non scaturisca una passione travolgente”
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il racconto Calcio scritto
DOMENICA 30 APRILE 2006
Tre anni dopo Stoccarda Giovanni Arpino pubblica un romanzo sulla rovinosa spedizione della nostra nazionale, dove tutto è vero ma tutto è trasfigurato Alla vigilia di un nuovo mondiale tedesco siamo andati a parlare con i protagonisti di quel “calcio liquido” e di quel libro in cui “il ricordo comincia con la cicatrice”
Azzurro Tenebra
Repubblica Nazionale 42 30/04/2006
La Banda crepacuore e il flop mondiale nella Germania 1974 MAURIZIO CROSETTI
U
TORINO
n mondiale di calcio narrato come un romanzo epico, dove tutto è vero ma tutto è trasfigurato dalla scrittura, e dalla gran vocazione che aveva Giovanni Arpino nel raccontare storie. Sono passati trentadue anni dalla rovinosa Coppa del mondo di Stoccarda ‘74, quando sarebbe bastato un pareggio nella terza partita contro i polacchi per non rientrare subito a casa, ma quel pareggio non venne. Tra poco si torna in Germania rincorrendo la Coppa d’oro, nei luoghi di Azzurro tenebra, efficacissimo titolo che annuncia la tempesta sin dalla prima riga, anzi dall’epigrafe: «Il ricordo comincia con la cicatrice». È un modo per accostare atmosfere, ritratti in punta di penna, memorie con e senza ferite di un calcio malato e guarito tante volte. Ed è l’occasione per frequentare uno scrittore ingiustamente trascurato, anche se un Meridiano Mondadori ne ha recentemente raccolto gran parte dell’opera; non Azzurro tenebra, però. Libro randagio, di passaggi e paesaggi e personaggi. Lo Zio e il Vecio, cioè Valcareggi e Bearzot. E poi Giacinto (Facchetti), il Bomber (Gigi Riva), San Dino (Zoff), Giorgione (Chinaglia), il Golden (Rivera), Fabio il geometra (Capello), il Baffo (Sandro Mazzola). Acquistano tutti, pagina dopo pagina, lo spessore narrativo che si sovrappone al profilo umano e sportivo più noto, inventati e più veri del vero. Arpino, che nel romanzo è Arp, ne racconta alcuni tenendo la distanza e con altri, pochi, invece parla. I dialoghi col Vecio, con Giacinto e con Bibì (il giornalista Bruno Bernardi, al primo mondiale della carriera nel ‘74 accanto ad Arp, per La Stampa), ma anche con Gauloise (l’allenatore Carletto Parola, l’uomo della rovesciata più famosa di tutti i tempi) sono il tessuto profondo del libro, lo strumento per raccontare l’avvicinarsi della tempesta, sotto quel cielo ferroso, metaforico ma anche fisico (c’è tanta pioggia) in cui l’azzurro vira verso la tenebra più oscura, passando dalle periferie sconsolanti della «verde Unnia» e da luoghi residuali, l’hotel del ritiro azzurro in mezzo alla campagna e al nulla, certi bar dove consumare liquori e parole fino a notte, le tribune degli stadi, compreso quel magico momento in cui si svuotano e l’inviato resta solo a picchiare sui tasti. Un libro di sport (uscì per Einaudi nel 1977, tre anni dopo il mondiale), di giornalismo, di luoghi. Un libro con tante figure svanite nel tempo, come il Grangiuán Brera o Gauloise, lo Zio Valcareggi e il Manager, Italo Allodi. Ma con altri che invece restano, persone in carne, ossa e parole, a mezza strada tra i gesti di ogni giorno e la fissità della pagina. È il caso del giocatore più amato da Arpino, cioè Giacinto Facchetti. Nella vita fa il presidente dell’Inter, ma è anche un personaggio da romanzo. «Per me il libro fu una sorpresa, Giovanni non me l’aveva detto. Ci eravamo conosciuti quando venne a intervistarmi per un programma Rai, ho ancora la cassetta, si vede che scendo le
scale e lo incontro, tutto in bianco e nero ovviamente. Diventammo amici, mi incuriosiva uno scrittore vero, capace di inventare storie, mentre io avevo sempre fatto una fatica tremenda a mettere insieme qualche riga a scuola. E poi avevo ormai smesso di leggere, così Giovanni mi consigliava titoli, mi regalò La suora giovane che aveva scritto lui, mi fece conoscere Dino Buzzati e, poco alla volta, i classici italiani e stranieri. Se amo i libri, e se poi non ho più smesso di leggere, lo devo a lui». Dentro Azzurro tenebra, che aveva proprio Facchetti in copertina, si vedono giocatori e giornalisti che riescono a comunicare e scambiarsi cose anche importanti. Colpisce, oggi, quando i due mondi sono più che distanti. «Non è più possibile, ci sono le interviste programmate, i doveri verso gli sponsor e le televisioni, ma io penso sia sbagliato. Con Arpino parlavo nell’ora d’aria, al mondiale, e lui cercava sempre di capire le persone. Nel romanzo mi descrive molto meglio di come io fossi, al limite come voleva che io fossi: spero di non avere troppo deluso quella figura un po’ ideale. Noi eravamo una generazione in cui la famiglia aveva ancora un ruolo centrale. Giovanni fece da padrino a uno dei miei figli, e io allo stesso tempo ero sempre legatissimo a mio padre ferroviere; quando presi il premio della Coppa dei Campioni lo confrontai al suo stipendio quasi con vergogna. Quando lui andava a fare la spesa, chiedeva alle mie sorelle dove costasse meno la roba, e io non ho dimenticato». Il libro procede per frasi brevi e scattanti.«Non il partire, ma il tornare è un po’ morire». «Non fare lo snob. Solo le parole guariscono le parole». «È sempre sull’anima che bisogna giocare, si tratti del Papa, di Stalin o di un Bomber. Qualcuno chissà dove capirà».È come se l’inviato speciale si sentisse attratto dallo spettacolo umano del pallone eppure scettico, un osservatore di proprie e altrui solitudini. «Diventa difficile stringere in mano questo mondo: è liquido». C’è una forte, continua solidarietà maschile di passionali raminghi e mai cresciuti, («Siamo solo dei bambinacci, sussurrò il Vecio»), sempre fuori dal coro dove invece si segnalano le Iene (cioè i giornalisti col pennino avvelenato, in cerca di scandali e polemiche) e le Belle Gioie (quelli che aspettano solo di assecondare, con voce melliflua). «Le tegole dei palazzi stavano diventando d’oro acceso. Rimasero in silenzio a guardare quel gracile trionfo». Si parte da uno stadio, «subito presi dall’incanto dell’erba vuota» e si arriva lontano, in luoghi dove quasi mai ci si sente a casa. «Perché il football è anche quello che non è». Il controcanto di Arp spetta in molte pagine a Bibì, cioè Bruno Bernardi. «Aveva un volto di bambino consunto, dove il rosa e il tenero andavano componendosi in rughe precoci».Un volto non troppo cambiato, in fondo, anche ora che Bibì è in pensione. «Con Giovanni nacque un feeling naturale, io avevo 33 anni, lui era un maestro ma mai distante, si sporcava le scarpe e le mani, ascoltava, dava e prendeva. L’ho visto scrivere una colonna in otto minuti, cronometrati: sono più o meno settanta righe, e neppure una sbavatura. Abbiamo girato il mondo insieme per dieci anni, da Cruyff alla lattina in testa a Bordon, lui aveva vinto lo Strega e il Campiello, non poteva sprecarsi, per questo non dettava mai a braccio. Scriveva, di solito, commento e pagelle, e articolesse di co-
Giacinto Facchetti: “Mi descrive molto meglio di come ero, come voleva che io fossi” Dino Zoff: “Sono pagine affascinanti e autentiche, che rendono benissimo l’atmosfera di quei giorni”
DOMENICA 30 APRILE 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
SANDRO MAZZOLA “Il baffo volava sull'erba, magri gli ossi delle spalle e serrati. Evitava un uomo, un altro, sparava il suo affondo quasi per anticipare le infinite frecce d'illusione che la folla gli scaraventava nella spina dorsale pur di aiutarlo”
Le Jene, le Belle Gioie e lo spleen del cronista GIANNI MURA
Repubblica Nazionale 43 30/04/2006
lore. Era come se Arp osservasse la nostra tribù da uno sgabello. I dialoghi del libro sono al novantacinque per cento veri». Ma senza mai esagerare con il tocco d’esterno. «Il talento si mette in mostra anche senza far niente». Tra le pagine c’è grande rispetto per il Grangiuán, per Brera da cui Arpino si sarebbe poi distaccato duramente, per ragioni mai del tutto chiarite. E nella squadra che già puzza di cadaverina, votata allo sfacelo («la Banda Crepacuore») c’è l’affetto per i campioni ruvidi e silenziosi, ad esempio San Dino. «Con Giovanni eravamo proprio amici» ricorda Zoff. «Mi invitava a mangiare da lui, veniva a cena da noi. Era una persona straordinaria che cercava sempre l’uomo. Azzurro tenebra rimane un libro affascinante, che rende benissimo l’atmosfera di quei giorni. Molto autentico, come tutto di lui». «Li vide entrare, figurine smilze negli spazi immensi dell’erba». C’è questo modo di dilatare, di partire da un pallone per arrivare lontanissimo. «Infatti le pagine da antologia in Azzurro tenebra non sono quelle sportive» dice il critico letterario Giovanni Tesio. «Io sceglierei gli incontri tra Arp e il cane randagio e malandato, che rendono molto bene l’atmosfera di solitudine che permea il romanzo. Riletto dopo trent’anni, si coglie una musica profonda e profondamente malinconica. Un libro atipico che parla di sport, non solo di calcio, e delle molte derive all’orizzonte, intuite con occhio profetico, l’occhio di uno scettico partecipe. Arpino è sempre stato considerato un narratore di storie, un agonista generoso, uno che sapeva rischiare e spendersi e pagare. Fuori da qualunque corrente o ideologia, è stato tante cose insieme: romanziere, poeta, giornalista, epigrammista, drammaturgo, favolista. Un moralista nel senso alto, ampio del termine». Procedendo verso la tenebra, il libro si spalanca ad altezze luminose: «Monaco non era lontana, contro il cielo diafano cominciavano ad alzarsi file di palazzi rettangolari, vespai di finestre e balconi aperti al sole. Un aliante tracciava curve lentissime, rovesciandosi poi per offrire il candore del ventre». Arpino aveva la capacità di variare registro all’improvviso, anche nella fatica del vivere. «Un giorno lo incontrai a Torino davanti all’ospedale Molinette» ricorda Bernardi «ma non mi disse di essere stato lì a curarsi. Mi invitò a cena. Si presentò elegantissimo, con un foulard di seta per nascondere la gola malata. Alla fine mi disse: «Bruno, la metteremo in quel posto a tutti quelli che ci vogliono male» e tirò fuori dalla tasca un gettone: «Ecco, tieni, così non hai più scuse per non chiamarmi». Ma io non riuscii più a telefonargli, Giovanni faticava a parlare e io soffrivo nel sentirlo così». Arpino se ne andò col suo stile, appartato come il cane randagio del libro. «Perché noi del football siamo tanti e siamo soli».
N
on si faceva notare, questo va detto. Ma non si poteva non notarlo. Alto, massiccio, impermeabile chiaro o vecchi giubbotti di pelle. Ricordava Robert Mitchum nei panni di Philip Marlowe: il flash è di Tony Damascelli, che con Arpino lavorava al Giornale. Non si faceva notare allo stadio, in quel mondiale di Germania. Non urlava, non imprecava come Brera, per esempio, che commentava la partita in diretta. Arpino aveva una sua presenza-assenza, come seguisse altri pensieri. Era uno dei primi ad alzarsi al momento dell’inno, poi stava seduto tranquillamente, prendendo appunti su un grosso block notes e parlando spesso con Bruno Bernardi (Bibì nel romanzo): Bruno era il cane da trifula, quello che doveva stare perennemente in campana e annusare la notizia (il ruolo esiste ancora). In quel dannato posto di Sindelfingen, il Motor hotel piazzato tra due svincoli autostradali, ero alloggiato anch’io, come Arpino, Bernardi e molti giornalisti italiani. Più lungimirante, Brera stava in un albergo davanti alla stazione ferroviaria. Un babà, non tanto per la stazione quanto per i giornali italiani, che arrivavano sul tardi, e poi perché chi voleva un caffè o un whisky poteva scegliere tra molti locali. Dal Motor hotel a piedi non si andava da nessuna parte, e questo spiega i dialoghi di Arpino con un cane lupo che si trascinava fino al reticolato. Non si può parlare di quel mondiale ‘74 senza evocare le condizioni di lavoro dei giornalisti. Non c’erano telefonini, ovviamente, né pc. I pezzi si dettavano oppure venivano affidati ai telescriventisti. I giornali erano risparmiosi: tutti insieme ogni giorno su un pullman per Ludwigsburg, sontuoso ritiro degli azzurri con tanto di laghetto e cigni neri. Una bella tirata, da Sindelfingen. L’andata sembrava una gita scolastica, il ritorno un mezzo funerale per via del silenzio. Molti si portavano avanti scrivendo il pezzo a mano. Una delle invenzioni più felici di Arpino è la suddivisione della truppa in Jene e Belle Gioie. Le prime in costante ricerca del pelo nell’uovo, le seconde allineate al tutto va ben madama la marchesa. Le Jene più jene si distinguevano per due caratteristiche: al ritorno, sbandieravano l’interpretazione di una frase di Rivera o di Chinaglia (era per indurre gli altri a seguirli, tanto loro avrebbero scritto il contrario) e all’ora di cena, al desolato Motor hotel, entravano GIGI RIVA nella sala dei telescriventisti dicendo “Ruotò, il Bomber, che al bar avevano lasciato l’aperitivo dilaniandosi pagato. Esodo dei telescriventisti e Jenel vuoto. Perse palla ne che consultavano rapidamente le copie dei pezzi altrui, così da parare e cadde: furono eventuali «buchi». Io ero lì per conto di quintali di malinconia un settimanale, Epoca, e non avevo il problema dei «buchi». Non era frequelli che in lui quente l’arrivo di scrittori famosi nel cercarono, nostro orticello e l’emozione di vederne uno mi era passata al Vigorelli nel tra il silenzio ‘67, record dell’ora di Anquetil (non del Neckarstadion, omologato per rifiuto del controllo andi rimettersi in piedi” tidoping), quando Dino Buzzati (il mio autore preferito, ai tempi) venne a chiedermi chiarimenti su rapporti e metri per pedalata. Arpino era amico di Bearzot, Facchetti, Parola. Allora, anche di Brera, che lo chiamava «il mio Nobel privato». Ogni tanto cenavano insieme e deprecavano quella larva di squadra che non sarebbe andata lontano. Il loro tavolo era riconoscibile da una nuvola non d’ira ma di fumo. Non so quanto fumassero, certamente più del doppio di un fumatore normale. E sul bere Arpino teneva il passo (più whisky che vino) e se dalla hall del Motor lo vedevamo andare a dormire significava che il cinese aveva chiuso il bar. Il mondiale è nel ‘74, Azzurro tenebra esce nel ‘77. Mi sono chiesto il perché d’una gestazione così lunga e non ho risposte, e mi sembrava irriguardoso chiederlo ad Arpino. Credo che non attraversasse un bel periodo, in quel ‘74. Il libro, al di là del cazzeggio linguistico fin troppo insistito, nei dialoghi, è intriso di cupezza, di temporali, di ostilità delle persone e delle cose. Era un signore, Arpino, nel senso che non faceva pesare il fatto di essere Arpino. Era scrupoloso come cronista, rispettava i tempi di chiusura (più anticipati, rispetto a oggi). Più che dal calcio in sé era intrigato dalle facce, dalle persone. L’ho frequentato di più alle Olimpiadi di Montreal, nel ‘76. Con Brera era il grande freddo, astio e silenzio. La situazione alberghiera era capovolta. Arpino stava in un bell’albergo tutto cristalli e piante verdi, vicino al mercato coperto. Brera, io e tanti altri giornalisti italiani in un college universitario tristissimo, da suicidio (ma c’erano le sbarre alle finestre). La mia cella era di fronte a quella di Brera, al quinto piano. Lui alla Gazzetta, ma si sentiva isolato e mal tollerato, mi lasciava bigliettini sotto la porta invitandomi al bicchiere della staffa e si finiva alle tre se andava bene. Avessi avuto solo Epoca da smazzare, ancora ancora, ma c’era pure una pagina giornaliera per Repubblica, quindi sopravvivevo a caffè. E per la prima colazione avevo spesso appuntamento con Arpino nel suo albergo. Una mattina che c’era un po’ di tempo a disposizione disse: ho scoperto un bar con un caffè decente, è di un italiano. Così ci andammo: il caffè era buono, il bar era dominato da una gigantografia di Mussolini e sulle bustine di fiammiferi c’era GIANNI RIVERA scritto credere obbedire combattere. Dai, facciamo “E così Arp vide schifosamente i turisti, disse una volta fuori. Così anl'anima nuda dammo nella cosiddetta zona francese di Montreal (strade in pavé, bistrots finti) a fare un giro in carrozza. E e macilenta dopo tanti discorsi su Juantorena, Mennea, la Ender, il del Golden Boy boicottaggio degli africani si parlò delle canzoni di Catherine Sauvage e di come dovevano essere stati gli ulAlla sommità timi giorni di Rimbaud. del fumo ch'era Da un’intervista di Arpino all’Espresso (1980): «Non diventato, solo scriverò di sport finché al Giornale c’è quello là, Gianni Brera. Per ricominciare aspetto che se ne vada. Anle occhiaie gli erano zi, aspetto di incontrare Brera per spaccargli la faccia. rimaste, due macchie Indro Montanelli ha come unica preoccupazione di livide che i fari direttore, oggi come oggi, quella di non farci incontrare in redazione. Ci tiene separati. Perché io a Brera oltraggiavano” gli faccio ingoiare la dentiera a suon di pugni, solo che mi venga a tiro». Non è da escludere che Arpino patisse l’aureola di sommo giornalista sportivo che avvolgeva Brera, e di contro Brera invidiasse i romanzi di Arpino e forse anche il suo fisico da tombeur de femmes. DINO ZOFF Qaundo Arpino morì, Brera era triste: «Se sapevo che “San Dino ha le gote color borotalco, stava così male andavo a trovarlo e si faceva pace. lo sguardo ridotto a una fessura, Queste liti tra vecchi sono autentiche stronzate». E piantò un alberello a Bosisio Parini, come faceva ogni raggrinzisce le mani nei guanti, volta che gli moriva un amico. FOTO POPPERFOTO
GIACINTO FACCHETTI “La sagoma al fondo del prato assunse un trotto più tranquillo via via avvicinandosi... Parve, nel profilo che spezzava la solitudine dell’erba e del cielo, come il materializzarsi arcano e pudico d’una gioia sufficiente a se stessa”
pare assente, chiuso nel vetro d’una sfera lontana”
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 30 APRILE 2006
Due libri rilanciano il mito della Rodrigues, regina della musica portoghese. Torna così alla ribalta un genere nato nei bordelli e diventato fenomeno mondiale. Ma soprattutto un’artista dal fascino immortale, una donna la cui esistenza è ancora avvolta nel mistero. Per scoprire i suoi segreti siamo andati a visitare, a sette anni dalla morte, la sua casa-museo
Fado
il
Repubblica Nazionale 44 30/04/2006
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LISBONA
a casa di Rua São Bento è una come tante, l’hanno dipinta di ocra, le persiane smaltate di verde. All’ingresso, nel sottoscala decorato da azulejos dove una volta gli amici artisti depositavano cappotti e strumenti, adesso c’è una cassiera che stacca biglietti, vende dischi e modesti cimeli. Quando si è formato un piccolo gruppo, chiude la porta sulla strada e accompagna i visitatori al piano superiore. Devota e umile, la perpetua di questa piccola Fatima del fado racconta, recitando un rosario che ormai ha mandato a memoria, di quando quella casa (ora museo) al numero 193, a due passi dal Chiado di Lisbona, era abitata dalla sacerdotessa della musica portoghese. Tutto è rimasto come era il 6 ottobre 1999, quando il popolo si svegliò orfano di Amália Rodrigues, classe 1920, la grande madre che per sessant’anni lo aveva nutrito con amarezze e ansietà, raccontando le tribolazioni della vita con un canto antico e misterioso. «In portoghese esiste una parola che riesce a definire nello stesso tempo passato e futuro: Amália», dice Inés Pedrosa, scrittrice di Coimbra nata nel 1962, l’anno in cui la Rodrigues, dopo vent’anni di cinema e canzoni e un periodo di lontananza dalle scene, diede inizio con il compositore francese Alain Oulman a un vigoroso e fertile rinnovamento del fado, firmando di proprio pugno Estranha forma de vida, capolavoro del nuovo corso. A sette anni dalla morte, escono in italiano le memorie che Amália Rodrigues dettò all’amico giornalista Vítor Pavão dos Santos, (Una biografia, Ed. Cavallo di Ferro, 320 pagg. + cd, 16 euro), che sarà presentato alla Fiera del libro di Torino il 6 maggio. Due giorni prima, sempre a Torino, Rui Vieira Nery illustrerà il volume interamente dedicato alla musica portoghese di cui è autore (Il fado-Storia e cultura della canzone portoghese, 311 pagg, 64 tavole a colori, 27 euro), in una giornata che si concluderà con l’esibizione di Camané, giovane fadista che Amália indicò come suo possibile erede. In una trentina di incontri, di solito a tarda sera a São Bento, Amália parla, Vítor registra e appunta. Sa che ogni parola è preziosa, la diva non ha conservato nulla di scritto della sua immensa carriera, né programmi di sala né contratti. Saranno i diari segreti della sua segretaria, Estrela Carvas, a fornire preziosi dettagli.
Amália, la diva-popolana che cantò il dolore di vivere L’essenza di quelle canzoni sta tutta nell’ineluttabilità del destino Le prime parole sono taglienti come la voce amara che accarezzava e feriva: «Poiché esiste la morte, la vita appare subito assurda». L’essenza del fado sta tutto qui: nell’ineluttabilità del fato. «La prima volta che ebbi veramente coscienza della morte, fu quando mia sorella Aninhas morì di tubercolosi. Aveva sedici anni e io quasi venti». Fu quel-
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GIUSEPPE VIDETTI
Milano, Palazzo Mezzanotte venerdì 12 e sabato 13 maggio ore 9.00 - 18.00 Evento organizzato da
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lo il giorno in cui l’incubo del suicidio smise di perseguitarla. «Poi, nel 1984, fui un’altra volta sul punto di farlo. Credevo di avere un tumore alla testa, una cosa incurabile. Andai a New York, convinta che mi sarei uccisa là. Portai le pasticche e tutto il resto. Non volevo che mi trovassero morta qui, nella mia stanza, che vedessero quello spettacolo». La salvò Fred Astaire. «Comprai le cassette dei suoi film, li guardavo e rimandavo. Oggi no, mi ammazzo domani. Lo guardavo ballare e il tempo passava. Cominciai a difendermi, a trovare scuse per non fare quello che, in fondo, non ero capace di fare». Come star internazionale poteva difendersi da tutto, non dal passato: la bambina povera che vendeva arance ai marinai nel quartiere di Alcantara, la fastidiosa adolescenza bruciata dallo spettro della morte, il primo infelice amore. Chi ha conosciuto la miseria non riesce a capitalizzare la gloria. Carnegie Hall, Olympia, Teatro Sistina, Bobino, Town Hall: quando tornava a casa Amália era sempre e solo la fadista del Café Luso. Lo scialle nero le scivolò addosso, lei lo tenne sulle spalle con devozione, e quella musica diventò il claustro della sua esistenza. Ci sono cose a cui una fadista di razza non rinuncia, una di queste è lo scialle, umiltà popolare e certezza che dietro ogni felicità c’è in agguato un dispiacere, un lutto. Amália indossò quella musica perché era l’unica della sua taglia. Per vocazione. All’inizio, semianalfabeta, la guidò l’istinto. Poi conobbe i poeti, i grandi compositori (Frederico Valério, Alfredo Marceneiro) cominciarono a inchinarsi al talento, infine arrivò Alain Oulman, il francese timido che la elevò verso l’Olimpo dei Camões e dei Pessoa. La venerò senza pretendere nulla in cambio, con lo stesso amore puro e generoso che Ahmed Rami nutriva per la sua musa, Oum Kalthoum, regalandole una canzone dietro l’altra (Enta omri, sei la mia vita). Mai un popolo si è stretto così numeroso e compatto e commosso intorno alla bara di un artista,
LA BIOGRAFIA A sinistra, la copertina della raccolta di memorie di Amália Rodrigues Le altre illustrazioni sono tratte dal libro “Il Fado - Storia e cultura della canzone portoghese”
come gli egiziani al funerale di Oum Kalthoum e i portoghesi a quello di Amália. «Da una parte avevamo la Spagna, con la quale eravamo sempre in guerra, dall’altra l’Oceano sconosciuto», diceva Amália per spiegare il mistero del fado, canzoni intossicate di esotismo e nostalgia che i marinai cantavano nelle stamberghe e nei postriboli, ebbri per la felicità del ritorno e già colmi di malinconia per una nuova partenza. L’etnomusicologo Rui Vieira Neri ha dato un nome a ognuna delle influenze musicali che dal Brasile e dall’Africa hanno contribuito alla nascita del fado. Storia e leggenda si intrecciano intorno alla figura di Maria Severa, la prima grande fadista. Sul suo certificato di morte è scritto: «Il giorno trenta del mese di Novembre del milleottocentoquarantasei in Rua do Capello N. 35 A, è deceduta apoplettica senza Sacramenti, Maria Severa Honofriana, origi-
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Diario di viaggio nella Lisbona del ‘59
La melodia dei re senza più trono SANDRO VIOLA
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naria di Lisbona, età di ventisei anni, nubile, figlia di Manoel de Souza e di Anna Gertrudes Severa. È sepolta presso il cimitero di Alto de São João». «Questa è l’unica testimonianza documentale del personaggio destinato a diventare il mito fondatore del fado di Lisbona», scrive Vieira Neri. Certo è che Maria Severa era figlia di una prostituta di Mouraria, chiamata “la donna barbuta”, probabile che lei stessa fosse una ragazza di vita, plausibile che la sua voce fosse un’attrazione irresistibile per gli avventori del bordello. Ma se la Severa è diventata un’icona, non è certo per le sue doti canore, di cui non abbiamo testimonianza, ma per la sua scandalosa storia d’amore con il conte Don Francisco di Vimioso, bohémien della vecchia nobiltà portoghese che, instaurata la monarchia costituzionale, affogò ogni velleità politica tra bordelli e osterie. Le cronache di quell’amore proibito, insieme all’esaltazio-
ne della voce della Severa fatta da scrittori dell’epoca come Luís Augusto Palmeirim e Bulhão Pato, hanno trasformato la ragazza di Mouraria nella vestale del fado. Quando agli artisti stranieri capita, dopo un concerto a Lisbona, di cenare in una autentica “casa do fado” (ce ne sono ancora ad Alfama, nel vicino Museo do Fado danno informazioni preziose a riguardo), lo stupore di trovarsi a contatto con una tradizione così viva e stranamente non corrotta dal pop-rock internazionale è enorme. Racconta Lou Reed: «Sul palco c’era un cantante straordinario, aveva nella voce un dolore e una passione che mi hanno lasciato sbalordito. Chiesi: come si chiama? Qualcuno mi rispose: non ricordo, uno che per sbarcare il lunario fa l’autista». Il fado crea leggende, non ricchezze; fa il tassista anche l’ultimo chitarrista di Amália, Lelo Nogueira, che la notte suona in un caffè di Alfama. Dice che i suoi
clienti sono scettici quando racconta di quelle favolose tournée in Europa e nelle Americhe. Risponde a tutti: «Andate al Museo del Fado, se non mi credete». Nella stanza dedicata ad Amália c’è anche lui, perfettamente riconoscibile in una gigantografia dell’ultimo concerto all’Olympia. Quel che è successo ad Amália dopo la morte è la testimonianza di quanto quella signora dai tratti taglienti, Medea e Callas in una sola donna, fosse diventata simbolo dell’identità nazionale. Chi l’aveva accusata di collaborazionismo con il regime di Salazar fu prontamente sbugiardato dal premio Nobel Saramago. La regina del fado fu sepolta dove voleva lei, popolana in mezzo al popolo, nel loculo numero 23 del Cimitero Dos Prazeres. I visitatori lasciavano fiori e messaggi scritti su bigliettini minuziosamente piegati. I muri di Lisbona diventarono un quaderno aperto: cominciarono a scriverci sopra «Amália no Panteão Nacional», che Amália sia sepolta nel Pantheon. E così fu, per acclamazione popolare, nella primavera del 2001, pochi mesi prima che andasse in scena un musical sulla sua vita: 250mila spettatori, un record per la “piccola” Lisbona. Hanno voglia gli imbianchini del comune a cancellare le scritte «Rua Amália» che compaiono regolarmente lungo tutta São Bento, da una parte e dall’altra della casa-museo. Hanno voglia i guardiani ad ammonire i visitatori di non lasciare più bigliettini. Intorno al sarcofago di marmo, sotto la cupola del Panteão che domina i vecchi quartieri popolari dove è nata la leggenda del fado, se ne accumulano così tanti da dover essere rimossi ogni giorno. C’è chi ringrazia, chi ricorda, chi prega. E qualcuno chiede anche una grazia.
LA LEGGENDA Nella foto in alto, Amália Rodrigues durante un’esibizione L’immagine grande è tratta dalla copertina del catalogo della mostra “Fado, Voices and Shadows”, che si è tenuta a Lisbona nel 1994
isbona non era, quarantacinque anni fa, una città allegra. Questo era noto, perché già da tempo la «malinconia lusitana» aveva ispirato a scrittori e viaggiatori montagne di belle pagine. Ma seppure preparati, i pochi europei che vi giungevano alla fine degli anni Cinquanta restavano comunque colpiti dall’atmosfera deprimente della capitale portoghese. Appunto quel che provai io stesso, mettendovi piede per la prima volta — provenendo da Parigi — nel novembre o dicembre del 1959. Le strade lucide di pioggia, le palme afflosciate dell’Avenida da Libertade, gli intonaci scrostati del Rossìo. Quelle targhe enormi, appese ai balconi, dei medici dermosifilopati, a ricordare che Lisbona era la città europea col maggior numero di sifilitici. E quei giornali della dittatura salazarista, scarsi di notizie ma così colmi di propaganda politica da rasentare la comicità. Per fare un esempio, nel giorno del mio arrivo il titolo più grosso del Diario de Lisboa annunciava che Mosca aveva sguinzagliato in tutto l’Occidente, per favorire la sovversione comunista, «centinaia di Mata Hari». No, non c’era da stare allegri. Certo: chi aveva occhi e sensibilità per accorgersene, coglieva rapidamente il fascino della città. Un fascino che veniva dalla bellezza della posizione naturale — le colline degradanti verso la foce del Tago e l’Oceano —, ma soprattutto dal fatto che Lisbona non era stata neppure lambita dalla modernità. Era come una farfalla appuntata in una teca, o un vecchio confetto dimenticato in una cristalleria. La povertà del Portogallo, l’immobilismo della dittatura, l’assenza d’una vera classe imprenditoriale, avevano infatti lasciato la città identica a com’era molti decenni prima. Mentre il resto dell’Europa occidentale ferveva della ricostruzione avviata nel dopoguerra, il Portogallo non s’era mosso d’un passo. Lisbona era tale e quale ad una sua cartolina degli anni Trenta. Solo, un po’ più cadente e ammuffita. Questo «charme» c’era, nonostante che i lineamenti del paesaggio sociale destassero un vago malessere. Gli sforzi della piccola borghesia per mantenere un ultimo decoro, le colossali differenze di reddito tra gli strati alti e bassi della società, i funzionari che tornavano dalle colonie (le vaste, ancora allora, colonie portoghesi in Africa e in Asia) segnati dalle malattie tropicali e veneree. Tutto molto interessante, non c’è dubbio, ma anche assai malinconico, come nei funebri romanzi di Eca de Queiroz, il massimo scrittore portoghese tra Otto e Novecento (Fernando Pessoa era per il momento, fuori da una piccola cerchia di suoi connazionali, del tutto sconosciuto). Malinconico in specie la sera. Che cosa si poteva fare la sera, verso la fine dei Cinquanta, a Lisbona? Poco o nulla, salvo che andare a sentire il «fado». Vale a dire la canzone meno allegra e confortante, la più cupa e accorata, di quante se ne siano mai cantate in Europa. Ricordo bene la sera che l’ascoltai per la prima volta. Avevo chiesto al barman del Ritz di consigliarmi il posto dove andare, e lui suggerì un locale del Barrio Alto, “A Severa”, a quel tempo molto apprezzato dai conoscitori. Un quarto d’ora dopo ero lì, seduto ad un tavolo con davanti un bicchiere di pessimo Porto. Locale squallido, luci da corridoio d’ospedale, tre chitarristi in un angolo che toccavano pigri le corde dei loro strumenti. E finalmente, dopo una lunga attesa, l’arrivo della cantante, gli applausi dei devoti, e l’avvio straziante d’un «fado». Inutile soffermarmi adesso sulla parola «fado» (che vuol dire destino, o giù di lì) e sul concetto di «saudade». Ormai non ci sono lettori di questo giornale che non siano stati infatti una o più volte a Lisbona, e che non abbiano letto quindi, sui dépliants delle agenzie di viaggio, tutto quel che c’è da sapere sul «fado» e la «saudade». Torno perciò al 1959, al mio primo «fado». La cantante si disperava per qualcosa che non capivo, le chitarre e mandole si disperavano anch’esse, mentre ai tavoli tutt’attorno — i volti impietriti dall’emozione, gli sguardi luttuosi — una ventina di portoghesi s’abbandonavano alle onde della «saudade». E non era finita, perché il secondo «fado» proruppe ancora più straziante del primo, e così il terzo, e poi il quarto, in un crescendo implacabile di dolorosità. Insomma, una noia mortale. Tant’è vero che nei vent’anni successivi, pur tornando innumerevoli volte in Portogallo, mi guardai bene dal ripetere la mesta esperienza di quella sera. Ma se a me il «fado» non piaceva, esso aveva in compenso coorti d’appassionati. Portoghesi d’ogni strato sociale (i portoghesi si autodefinivano scherzosamente «il popolo delle tre effe: fado, football, Fatima»), ma anche molti stranieri. Per esempio il gruppo di ex regnanti in esilio, o pretendenti a vari troni, che abitavano a Cascais, vicino Lisbona. Da Carol di Romania a Juan di Borbone, da Umberto di Savoia a Joao di Braganza, per nominarne solo alcuni. Nelle loro ville si tenevano spesso, pervase di commozione, lunghe serate di «fado». In effetti l’esilio ha qualcosa a che fare con i temi della «saudade», la lontananza, la nostalgia, l’irrimediabilità della separazione: così che era buffo immaginare quelle teste coronate straziarsi nei loro salotti alle note desolanti del «fado», il pensiero ai loro troni perduti, come lavandaie dell’Alfama abbandonate dal marito. Poi nel ‘74 cadde la dittatura, e il Portogallo fu vicino ad essere un’Albania dell’Atlantico. Il potere fu preso da un regime militar-comunista: tenenti e capitani che citavano confusamente Marx e Lenin, decisi ad estirpare dal paese ogni presenza del passato borghese e capitalista. Il «fado» compreso. Al punto che «fadista» (termine che indica tanto gli interpreti quanto gli appassionati del «fado») divenne l’insulto politico più diffuso e bruciante. Piccole folle si radunavano sotto le finestre dei grandi banchieri o industriali degli anni di Salazar, gli Espirito Santo, i De Mello, e restavano lì a gridare per ore: «Fascistas, fadistas». Un’atmosfera che convinse la regina del «fado», che per i portoghesi era stata sin allora un misto tra la Madonna e Ingrid Bergman, a lasciare di notte, quasi di nascosto, Lisbona.
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i sapori
Dolci invenzioni
Tutto cominciò con un ruzzolare di pentole, con mucchietti di mandorle e caramello salvati a stento e riciclati da un cuoco risparmioso sotto un guscio di cioccolato fuso. Da allora le prelibatezze farcite hanno fatto strada e stregato i gourmet
itinerari I fratelli Tessieri sono gli appassionati proprietari di Amedei, azienda-culto nel cuore della Chocolate Valley, a Pontedera. Alessio si occupa di piantagioni e qualità del cacao, mentre la sorella Cecilia crea tavolette, cioccolatini e praline da meditazione
Torino
Mestre
Ferrara
Nella città-madre del cioccolato italiano, il super artigiano Guido Gobino ha reinventato le praline della tradizione Lunghissimo l’elenco dei marchi storici: Baratti, Caffarel, Ferrero, Novi, Pernigotti, Peyrano, Stratta, Streglio, Venchi
Dino Pettenò è il capostipite di una dinastia. Oltre ai figli Alessandro e Francesco, ha formato il nipote Luigi Biasetto (pasticcere a Padova). Da Ciampi a Carlo d’Inghilterra, tutti conquistati dalla pralina Casanova
L’intuizione del giovane cioccolatiere Franco Rizzati ha promosso la città a luogo d’elezione dove gustare le praline affumicate o ripiene di zenzero candito al momento. A Bologna, stella di merito per Roberto Rinaldini e Gino Fabbri
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL PIEMONTESE Via Berthollet 21 Tel. 011-6698101 Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa
HOTEL ANTICO MORO Via Castellana 149, Zelarino-Mestre Tel. 041-5461834 Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa
B&B D’ELITE Via Francesco del Cossa 9 Tel. 0532-201053 Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
AB+ Via della Basilica 13 Tel. 011-4390618 Chiuso domenica, menù da 40 euro
AL CALICE Piazza Ferretto 70b Tel. 041-986100 Chiuso domenica sera, menù da 30 euro
MAX Piazza della Repubbblica 16 Tel. 0532-209309 Chiuso lunedì, menù da 35 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
GUIDO GOBINO Via Cagliari 15b Tel. 011-2476245
PASTICCERIA PETTENÒ Via Vallon 1 Tel. 041.5348658
OFFELLERIA RIZZATI Via Ginestra 194 Tel. 0532-742173
Praline
Viaggio nel cuore segreto del cioccolato Bacio Inventato nel 1922 da Luisa Spagnoli, si chiamava “cazzotto” a causa della forma Fu Giovanni Buitoni a cambiargli nome
Repubblica Nazionale 46 30/04/2006
Cremino Il più celebre è legato al lancio della Fiat 4, nel 1911, quando il cioccolatiere Majani vinse il concorso indetto dagli Agnelli
Cuneese Nato nel 1923 nella pasticceria Arione di Cuneo, è composto da due meringhe farcite e ricoperte da un velo di cioccolato
Gianduiotto I primi pezzi uscirono dal laboratorio torinese Prochet per il Carnevale 1860: il nome ricorda la maschera cittadina
Latte&menta La pralina più estiva racchiude in una semisfera un goloso richiamo d’infanzia: menta piperita e cioccolato bianco
Mon Chéri
LICIA GRANELLO
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apete temperare? Sicuri? Per fabbricare cioccolatini, il temperaggio è fondamentale. Se non siete mai andati oltre temperino e matite, leggete il box all’interno di questa pagina e applicatevi. Solo allora vi si schiuderanno le porte del paradiso dei cioccolatini: sabato, Paul e Cecilia De Bondt vi aspettano a braccia aperte e stampini pronti nel loro meraviglioso laboratorio pisano, degno del set di Chocolat. Il corso, “Praline fai-da-te” ha un programma da acquolina in bocca: assemblaggi, ripieni, dessert, e tutto quanto serve a trasformare il cioccolato tout court in piccole golosità irresistibili. Cioccolatini o praline non fa differenza. Meglio, erano differenti qualche secolo fa, quando il nome praslin identificò, insieme al Duca PlessinPraslin, i mucchietti di mandorle e caramello recuperati avventurosamente dopo un ruzzolare di pentole in cucina, e ricoperti alla bell’e meglio dal cuoco di casa con cioccolato fuso. Da allora (1671) il concetto di cioccolatino farcito di frutta secca — la pralina, appunto — è stato progressivamente esteso a tutti i ripieni, dai liquori alle creme, dalla frutta fresca a quella candita o in confettura. PerLa percentuale di cacao ché le praline stanno alle “coperture” (i lindel cioccolatino ideale gotti di cioccolato) come un abito di alta sartoria a una bella stoffa: la materia prima è vincolante — abbasso i grassi idrogenati, viva il burro di cacao che fonde alla temperatura corporea (per cui diciamo che «si scioglie in Il peso del “napolitaine” bocca») — per scatenare tecnica e creatività. da degustazione All’inizio, fu semplice cioccolato da masticare, apparso a Londra nel 1647 grazie ai commercianti olandesi. Poi, installate le prime fabbriche (Francia, 1770), i pasticceri cominciarono a prendere confidenza con la nuova prelibatezza. Ma ci volle un secolo, La temperatura prima che i blocchi si trasformassero in gourper una perfetta conservazione mandise: a fine Ottocento, mentre a Berna Rud Lindt creava la prima tavoletta di cioccolato omogeneo e fine, il torinese Caffarell legò per sempre il suo nome al gianduiotto. Il torinese Guido Gobino ha letto e studiato per scoprire che il “prototipo” era fatto di solo cacao, zucchero e nocciole. Solo più avanti, infatti, fu aggiunto il latte. Il recupero della ricetta originaria si è tradotto nel “Tourinot Maximo”, un mini-gianduiotto rigoroso e particolare che ha conquistato i gourmet. Le dimensioni ridotte sono una caratteristica dei cioccolatini-praline di nuova generazione: un po’ per venire incontro alle esigenze dietetiche degli appassionati, un po’ per concentrarne il sapore. «Ci piace produrre cioccolatini che non si mangiano ma si degustano», dichiarano i fratelli Tessieri, freschi vincitori a Londra, dove il “Napolitaine” (quadretto da 5 gr) di cioccolato Chuao è stato eletto il migliore del mondo dalla Chocolate Academy. Così bravi e innovativi da aver appena presentato due cioccolati misti a frutta disidratata che la saliva fa rivivere con esiti goduriosi per il palato… Piccole meraviglie senza limiti di fantasia, dalle praline al Barolo Chinato di Andrea Slitti al peperoncino di tradizione Maya della Dolceria Bonajuto di Modica, fino ai cioccolatini numerati di Franco Rizzati: a ogni numero, corrisponde una ricetta, un gusto, un ripieno. Dentro ogni confezione, un libretto spiega, illustra, racconta: preferisco il 2 (pistacchio), ma riassaggerei volentieri il 5 (affumicato), se poi avanza un 4 (ginger)… Se siete del tipo goloso-ma-pigro, leggete I maestri del cioccolatodi Laura Mantovano (Gambero Rosso), e Cioccolato dolce&salato di Mario Busso/Carlo Vischi (Gribaudo) per scoprire ricette, segreti, indirizzi-culto. L’attesa tra la telefonata e l’arrivo del pacchetto sarà un dolce tortura.
75% 5 gr 18°
Mezzo secolo di vita per il mattoncino di cioccolato che racchiude la ciliegia al liquore, invenzione golosa dei Ferrero
Tartufo È un “sassolino” asimmetrico di cioccolato gianduia, burro, zucchero a velo e panna montata lavorati insieme
Pistacchio Tutto inizia nel 1890 a Salisburgo, quando arrivano le “palle di Mozart” con gianduia e marzapane al pistacchio
Zenzero La radice di zenzero, candita in proprio o importata già lavorata dalla Thailandia, viene inserita in un guscio di fondente
Zucca Un abbinamento per contrasto, con l’amaro del fondente La polpa morbida e delicata richiede una canditura attenta
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Joanne Harris, autrice di “Chocolat”
“Il peccato sensuale che fa paura ai bigotti” STEFANIA DI LELLIS
FOTO OLYCOM
Repubblica Nazionale 47 30/04/2006
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ì, il cioccolato è anche sovversione. Parola di Joanne Harris, la scrittrice che con il suo fortunatissimo Chocolatha tradotto in letteratura l’irresistibile trasgressione del cacao, quel brivido che dal palato passa al cuore e al cervello e ha il potere di rompere le catene del dovere in nome del piacere. Il suo romanzo — portato poi sullo schermo da Juliette Binoche per la regia di Lasse Halstroem — racconta l’effetto deflagrante che l’arrivo di un’affascinante pasticcera specializzata in ricette maya produce in un bigotto paesino della Francia, risvegliando nella gente il gusto della vita. «Ho usato il cioccolato come metafora, ma avendone ben presente la realtà: sono praticamente nata e cresciuta in un laboratorio dove si fabbricavano cioccolatini — spiega al telefono dal suo studio nello Yorkshire —, quello del cacao è il profumo della mia infanzia». Perché un libro sul cioccolato? «Volevo parlare di qualcosa che conoscevo bene, che avevo imparato ad amare accanto a mia nonna, alla parte francese della mia famiglia». Il suo libro è ricco di ricette. Prepara davvero cioccolatini in casa? «Non lo faccio spesso, ci vuole molto tempo. Ma mi piace». È più bello mangiare o preparare la cioccolata? «Sono due piaceri diversi. Mangiarla è un flash, un piacere rapido. Prepararla è un processo. Un lungo godimento. In cucina la cioccolata si odora, se ne sente il corpo, la consistenza, si assapora anche con le mani, con la pelle. Tanto che alla fine quasi non si sente il desiderio di addentarla. Poi però quando si torna ad assaggiarla, si gusta come non può fare chi non la sa preparare, perché se ne percepiscono tutte le componenti, tutte le sfumature». La gente cosa cerca nel cioccolato? «Ognuno cose diverse. A me piace il suo aroma, la sua forza e naturalmente il gusto. C’è chi vi trova conforto, chi lo sceglie per premiarsi. Per tanti è però soprattutto un piacere negato». Intende per chi deve rinunciare in nome della linea? «Conosco tanti che vivono a dieta e si astengono con rigore dal mangiare cioccolato mentre fan- SCRITTRICE-CUOCA no eccezione per altri cibi più in- Joanne Harris grassanti. Si è mai chiesta perché? Perché il cioccolato è buono, è più IL TEMPERAGGIO gustoso. Quindi è considerato Non esiste pralina peccaminoso, trasgressivo. Cresenza temperaggio, do che sia questo il vero motivo tecnica usata per cui si è pensato di stampare per stabilizzare avvertenze di pericolo per la salule sostanze te sulle tavolette al cacao e non, all’interno che so?, sui panetti di burro che del cioccolato pure provoca più danni. Vede, la Al momento gente si allontana dalla Chiesa, di raffreddarsi dalle Chiese, ma continua a crear(intorno ai 37 gradi) si censori. E l’industria della dieta infatti, i grassi ha preso il posto del prete nel dire formano una serie ciò che è buono e ciò che non è di cristalli instabili, buono. E il cioccolato è “il” peccache creano la patina to per eccellenza». biancastra Non a caso sesso e cioccolato in superficie, tipica sono andati sempre di pari pasdei cioccolati vecchi so nell’immaginario dei consuo che hanno subito matori... uno shock termico «Gli Incas lo usavano come In ambiente fresco corroborante. Si beveva come (non sopra i 22 pozione energetica durante le cegradi), dopo aver lebrazioni che includevano riti sciolto il cioccolato sessuali. In Europa Casanova fu a bagnomaria un consumatore accanito di (50 gradi), lo si cioccolata, ne trangugiava dozzistende su un piano ne di tazze. Credo che abbia avuliscio e si mescola to un gran ruolo nel rendere pocon una spatola. polari le virtù afrodisiache di Arrivato a 28 gradi, questa bevanda». si scalda a fuoco Le tavolette di cioccolata dilento fino ai 31 stribuite dai soldati Usa in Euro(fondente) o 29 pa durante la Liberazione, bon (al latte, bianco) bon e ovetti in fila sui banchi dei Così temperato, supermercati di oggi. Come è il cioccolato cambiato il nostro rapporto con è pronto il cioccolato negli ultimi cinalla trasformazione quanta anni? in pralina «Oggi c’è molta più disponibilità. Non è più un bene costoso, di lusso come una volta. Ci sono tanti prodotti anche solo aromatizzati al cioccolato. Ma accanto al mercato basso se ne è affermato uno alto. Si è diffusa una migliore cultura per cui si moltiplicano i laboratori che preparano e vendono prodotti di ottimo livello. Una volta si trovavano prevalentemente in commercio cioccolate con il 25 per cento di cacao, oggi è abbastanza facile comprare quelle al 70 per cento, da degustatori». Meglio quella al latte o quella amara? «Il gusto cambia nel corso della vita. Ai bambini piace la cioccolata dolce, quella bianca. Poi crescendo si impara ad apprezzare il sapore della fondente, si va a caccia di prodotti da intenditori, si cercano nel cacao emozioni diverse. Da vecchi si torna un po’ bambini, si ricercano i sapori dell’infanzia. Mi ricordo mia nonna e la sua passione in vecchiaia per biscotti e cioccolata dolce». Un viaggio indietro nel tempo nello spazio di una tavoletta.
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le tendenze Look estivo
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DOMENICA 30 APRILE 2006
Montature gigantesche, lenti come schermi dietro cui nascondersi. I nuovi modelli, che da venerdì prossimo terranno banco al Mido di Milano, rilanciano miti del passato come Audrey Hepburn, Sophia Loren e Jacqueline Kennedy. Ma senza rinunciare all’uso dei materiali più sofisticati e innovativi
LAURA LAURENZI iganti, misteriosi, da diva: tornano gli occhiali da sole king size, o forse sarebbe più esatto dire queen size. Extralarge e strategici come quelli diventati un mito su donne come Audrey Hepburn, Jacqueline Kennedy, Sophia Loren. Occhiali come schermo dietro cui nascondersi, ritrarsi, sembrare ancora più belle e sofisticate. Nei corsi e ricorsi della moda le nuove tendenze impongono lo stile retrò, uno stile vintage in bianco e nero, da star, che gronda nostalgia e voglia di glamour. Il tutto con l’impiego però di materiali e tecnologie ultrasofisticate, a fare degli occhiali da sole non soltanto un accessoriofeticcio sempre più alla moda, più richiesto e più venduto, ma anche un leggerissimo capolavoro hi-tech dalle prestazioni sempre più evolute, in cui l’Italia continua ad eccellere. Tradizione e innovazione. Gli occhiali diventano una divisa, uno status symbol, un segnale, un modo per riconoscersi. Vedremo occhiali personalizzati, quasi su misura, dotati di effetto memoria, numerati, con microchip incorporato e tutte le informazioni sul proprietario. Occhiali ergonomici, antistress, peso piuma, anallergici, biocompatibili, idrorepellenti, antinebbia. Occhiali che rispondono al telefonino, occhiali col lettore Mp3 incorporato, occhiali cyber. Si apre venerdì prossimo nei padiglioni di Fieramilanocity il Mido, il più importante salone internazionale dedicato al mondo dell’occhiale. Una babele di stili e novità spesso contraddittorie fra loro, con i suoi 1.200 espositori, due terzi dei quali stranieri. Se la Cina è al primo posto per la quantità, noi siamo campioni imbattuti per la qualità. Gli occhiali più belli del mondo si producono in Italia. È l’unico settore del made in Italy legato alla mo-
G
EFFETTO DIVA Occhiale di grandi dimensioni, da diva, ispirato agli anni ‘50 e ‘60, montatura effetto tartaruga Proposto da Gucci
PROTEZIONE SPECIALE Questo modello di Silhouette protegge dalla pericolosa “luce blu” grazie a uno speciale filtro innovativo
Occhiali sole da
L’ORIGINALITÀ AL POTERE
Le aste laterali sono composte da tre anelli color platino, uno dei quali si incastona nella lente sagomata a mascherina. Di YSL
LA FORZA DEL DESIGN Lenti turchese, linea sportiva, design inconfondibile Sono gli occhiali dell’ultima collezione di Giorgio Armani
SAPORE RETRÒ Aste molto alte che proteggono dai raggi per una montatura effetto pelle di coccodrillo, lenti classicheretrò di forma ovale. Di Bulgari
Nell’era hi-tech torna lo stile Jackie
da e all’accessorio che va a gonfie vele e non conosce recessione. Il fatturato si aggira attorno ai due miliardi di euro. Siamo i leader mondiali, in valore, nell’esportazione: 80 milioni circa di occhiali venduti all’estero, oltre tre quarti di quello che produciamo. Il fatturato che cresce più degli altri, a fare da traino, è quello relativo al segmento, esigente e capricciosissimo, degli occhiali da sole, il cui export è aumentato del 20 per cento. A rendere l’esposizione e la presentazione di nuovi modelli ancora più invogliante, nei quattro giorni della maxi-fiera i visitatori saranno bombardati con sollecitazioni sensoriali sempre più mirate. Per evocare di volta in volta i diversi tipi di occhiali proposti — da bambino, da sci, da trekking, da sport estremo, da discoteca e via elencando — profumi di natura diversa verranno vaporizzati nell’aria: l’aroma del chewing gum alla fragola, la fragranza di una torta di mele appena sfornata, il profumo dell’acqua di mare durante una regata, e via elencando. Moltissime le novità, una per tutte — emblematica di una società satolla — l’entrata in produzione degli occhiali da sole per cani. Non è un vezzo, spiegano gli addetti ai lavori, ma una necessità proteggere gli occhi dei cani dal riverbero della luce solare. Per quanto riguarda gli umani vedremo lenti ad altissima efficienza in termini sia di polarizzazione sia di termostabilità. Vedremo i nuovi occhiali col marchio Ferrari con cavallino rampante. Vedremo le lenti spericolate di VidiVici con Vasco Rossi testimonial e la frase «Voglio trovare un senso a questa vita» che appare e scompare. Vedremo gli occhiali Swarovski decorati con 94 cristalli applicati a mano a 980 euro il paio. Vedremo gli occhiali di Playboy, ma anche quelli della linea “Nike Vision”. E il look? Un altro grande ritorno è quello degli occhiali da aviatore, peraltro intramontabili. Per i bambini colori “caramella”, forme aerodinamiche, dettagli spiritosi. Secondo un’indagine condotta dalla Commissione Difesa Vista sono proprio i bambini, assieme agli anziani, la categoria più a rischio di trascurare la protezione degli occhi.
MODERNO ED ECCENTRICO Creato da Sonia Rykiel: è disponibile in nero con lenti grigie, in bianco con lenti marroni sfumate e in total brown
L’IDEA VINCENTE Montatura robusta, la “X” del marchio che decora e taglia in due le asticelle laterali. È l’idea di Exté per l’estate 2006
DOMENICA 30 APRILE 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
IN VACANZA CON GRINTA Aste king size tempestate di borchie per un modello molto grintoso, a mascherina, la “G” del logo Gattinoni spicca nelle due cerniere laterali
Vedere senza esser visti una superbia divina UMBERTO GALIMBERTI
P
HOLLYWOOD STYLE Ispirato alle dive di Hollywood, questo occhiale-gioiello di Ferragamo è disponibile in acetato nero, navy o cannella
LO SGUARDO DEL BLASCO Le lenti a mascherina riportano il verso di Vasco Rossi “Voglio trovare un senso a questa vita”, i profili metallici sono marcati È la collezione “Il Blasco” di VidiVici
SUPERLEGGERI
SFIDA ALL’ARIA APERTA Quasi una fusione fra la linea aviatore e la mascherina da sci per un occhiale indicato soprattutto nelle attività sportive. Di John Richmond
FOTO TIME LIFE PICTURES/GETTY IMAGES
Repubblica Nazionale 49 30/04/2006
Torna un grande classico: la lente da aviatore, su montatura leggerissima di linea ergonomica, ideale per lo sport. Di Dior
OLTRE L’UMANO Per il migliore amico dell’uomo, la cui vista va protetta dal sole soprattutto sulla neve È l’occhiale per i cani di Doggles
latone dice che «se uno, con la parte migliore del suo occhio (la pupilla) guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso». Questo riconoscimento, reso possibile dal reciproco incontro degli sguardi, oggi è in qualche modo impedito dall’uso sempre più diffuso degli occhiali da sole, grazie ai quali, chi li porta può vedere senza essere visto. Una prerogativa questa che gli uomini hanno sempre temuto, e come tutte le cose temute e scongiurate, hanno espulso dalle pratiche della loro vita comunitaria e attribuito alla divinità che, col suo occhio, vede senza essere vista. Nel primo libro della Bibbia leggiamo che Adamo ed Eva si aggiravano nel Paradiso terrestre in ingenua nudità, ma non appena gustarono il pomo dell’albero proibito «s’accorsero di essere nudi e ne provarono vergogna» (Genesi 3,7). È una vergogna che non nasce dalla nudità del loro corpo, ma dallo sguardo di Dio che li «mette a nudo». Erano nudi, ma solo dopo quello sguardo «divennero» nudi e perciò si nascosero e fuggirono. Ma che succede quando un occhio vede senza essere visto? Succede che chi è visto viene spogliato della sua soggettività e ridotto a «oggetto» dello spettacolo altrui, viene negato come persona e ridotto a cosa. Ne è un esempio l’episodio di Jole, narrato da Erodoto e ripreso da Hegel nelle pagine della sua Esteticadedicate al pudore. Candaule, re dei Lidi, offre la sua sposa nuda alla vista di Gige, suo alabardiere, per mostrargli che è la più bella donna del mondo. Ma Jole, la sposa, vedendo Gige sgusciare dalla porta, ne prova vergogna. L’indomani lo convoca e, per riparare l’onta, gli offre un’alternativa: o uccide il re e si impossessa di lei e del regno, oppure muore. Con la morte dell’alabardiere, la regina ritiene di poter spegnere lo sguardo che l’ha guardata senza essere visto, privandola della soggettività e riducendola a oggetto del suo spettacolo. In alternativa, facendo accedere l’alabardiere al suo talamo, la regina ritiene di poter recuperare la soggettività consentendo al proprio corpo di rivestirsi della reciprocità degli sguardi. Nella reciprocità, infatti, non c’è più il pericolo dell’oggettivazione della persona, del suo decadimento a cosa, della sua alienazione laggiù, in quello sguardo nascosto che segretamente la deruba, esponendola senza difesa. Se queste sono le dinamiche sottese allo sguardo di chi vede senza essere visto, portare gli occhiali da sole, anche quando il sole non c’è, non è un atto innocente. Sotto, inosservato, lavora un esercizio di potenza che degrada le persone a oggetti nel mondo, a cose tra le cose, perché il non poter vedere chi mi guarda disintegra la reciprocità della relazione. Coperti dagli occhiali da sole, gli occhi dell’altro sono su di me senza distanza, e insieme mi tengono a distanza. La presenza su di me dello sguardo nascosto stabilisce infatti una distanza che mi separa da lui e insieme la sensazione di essere vulnerabile, in uno spazio da cui non posso evadere, in cui sono senza difesa, in breve «sono visto». La posizione di «guardato», genera la vergogna. Questa parola che deriva da «vereor gognam», temo la gogna, è quanto vuol ottenere chi guarda senza essere visto, e cioè la mia riduzione a oggetto in un mondo da cui lo sguardo dell’altro mi ha espropriato, come capita agli innamorati quando sono visti. Il mondo delle loro effusioni non è più il loro mondo, perché è diventato lo spettacolo dello sguardo altrui. Nel guardare senza essere visti non c’è solo un esercizio di potenza ma una vera e propria violenza che, oltre a oggettivarmi, mi espropria del mio mondo. Il mondo che poc’anzi era mio defluisce infatti verso l’altro e, in questa fuga senza fine, io mi perdo nella mia esteriorità. In questa esteriorità, scrive Sartre, è la mia alienazione, perché chi mi guarda senza poter essere guardato nega le mie relazioni col mondo e dispiega le sue. Gli occhiali da sole sottendono anche il desiderio di mascherare il proprio aspetto, di non offrirlo nella naturalezza dei suoi tratti. La maschera infatti dissimula il volto, e, quando degrada a trucco, di cui gli occhiali da sole sono una componente, lo altera per ingannare e fuorviare lo sguardo dell’altro. In tutto ciò c’è una spaventosa fuga da sé che fa dire ad ogni donna e a ogni uomo mascherato dai suoi occhiali neri o fumé: «Io sono un altro». Che tradotto significa: io non sono più me stesso, ma il mio simulacro. Tentare di comunicare con chi nega il suo sguardo rischia di arrestarsi di fronte all’incomunicabilità di quella donna o di quell’uomo con se stessi, e chi prova a decifrarne il messaggio coglie solo una negazione, un nascondersi, non solo all’altro ma anche a sé. Se però dovessimo cogliere nello sguardo che si nega dietro gli occhiali da sole l’invocazione a una decifrazione, andiamogli incontro, e, con tutto il garbo necessario a chi sa di mettere in crisi un’identità, chiediamogli per prima di cosa di togliersi gli occhiali da sole.
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DOMENICA 30 APRILE 2006
l’incontro
Eros in laboratorio
Trent’anni fa il suo “Rapporto” sdoganò parole come orgasmo, vagina, clitoride. E ebbe un successo mondiale. Ora esce in Gran Bretagna il suo ultimo libro. Ma questa serissima studiosa, che veste e si atteggia come un’attrice, non è ottimista: “Le donne sono cambiate.Quelli che non sono cambiati sono gli uomini. Siamo lontani da un sesso libero e paritario, vedo un ritorno agli anni Cinquanta, all’idea del playboy, al mito della virilità”
Shere Hite rgasmo. Vagina. Clitoride. Intorno a queste tre parolette, esattamente trent’anni fa, la sessuologa americana Shere Hite elaborò una teoria che sconvolse il mondo, o come minimo ne ha catturato per sempre l’attenzione. Nel 1976, quando era una giovane ricercatrice, la Hite condusse un ampio sondaggio sulle esperienze sessuali delle sue coetanee per il diploma di dottorato che stava perseguendo alla Columbia University di New York. Un editore decise di pubblicarlo, e il Rapporto Hite, titolo poco appetitoso, diventò un best-seller internazionale. Sosteneva che, mentre il 70 per cento delle donne non raggiungono l’orgasmo vaginale durante il coito, il 92 per cento hanno senza difficoltà un orgasmo clitorideo, e ce l’hanno ancora più facilmente se si stimolano da sole. La scoperta provocò dibattiti, polemiche, fiumi d’inchiostro, rendendo celebre la sua autrice. Da allora la dottoressa Hite ha scritto un’altra dozzina di libri, l’ultimo dei quali, The Shere Hite Reader, compendio di tre decenni di ricerche sulla sessualità, è appena uscito in Inghilterra; ha collaborato ai più importanti giornali di mezzo mondo; ha partecipato a convegni, simposi, seminari accademici; ed è diventata una portavoce del movimento della donna. Oggi è indubbiamente riconosciuta come una delle massime autorità mondiali in materia di sesso. La sua reputazione di autorevole studiosa, tuttavia, ha un limite: il fatto che Shere Hite non sembra un’autorevole studiosa. Sembra piuttosto una fotomodella, un’attrice, una cantante di night. E a causa
chiedo, le pare che la sessualità femminile sia cambiata, abbia conquistato terreno o lo abbia perduto? «Dal 1976 le donne sono molto cambiate», risponde, «è certamente cambiato il modo in cui si sentono se non raggiungono l’orgasmo durante il coito, trent’anni fa molte di loro avrebbero pensato di avere qualcosa che non va, oggi pensano che qualcosa non va nell’uomo con cui sono a letto. E non pensano più che il loro unico compito, nei rapporti sessuali, sia compiacere il partner maschile». Bene, ma l’uomo? Non è cambiato, magari un tantino migliorato, anche lui, negli ultimi trent’anni? La dottoressa mi guarda perplessa. «La maggior parte degli uomini non ha ancora capito che cosa sia un rapporto sessuale libero e paritario. Vedo anzi un ritorno agli anni Cinquanta, all’idea del playboy, al vecchio mito della virilità». Non mi dirà, obietto, che noi uomini siano rimasti all’idea del “macho man” anni Settanta? «Non nego che l’uomo, a letto, abbia fatto qualche progresso. Ma facciamo
Il punto è ascoltare i segnali fisici
del corpo del partner e del tuo corpo senza badare a consuetudini, aspettative, conformismi
FOTO AFP
Repubblica Nazionale 50 30/04/2006
O
LONDRA
del suo aspetto non viene sempre presa con la serietà che merita. Per ragioni non immediatamente comprensibili, infatti, si crede che un sessuologo dovrebbe somigliare al capostipite di questa professione, il dottor Alfred Kinsey, colui che rivelò per primo, nei puritani anni Cinquanta, i segreti della camera da letto agli americani. Col cravattino a farfalla, le orecchie a sventola e lo sguardo vagamente bovino, Kinsey faceva pensare a un appassionato di numismatica, di francobolli o di bridge; in ogni caso, poco ma sicuro, non faceva pensare al sesso. Ciò gli valse un’aura di imparzialità e serietà, quasi che uno studioso, per indagare obiettivamente tra le lenzuola, debba essere completamente asessuato, in modo da non lasciarsi influenzare personalmente. Un pregiudizio ridicolo: ma fatto sta che molti anni or sono, quando durante un’inchiesta mi capitò di visitare l’Istituto Kinsey, non potei fare a meno di notare che la maggior parte dei ricercatori — e delle ricercatrici — avevano un aspetto simile a quello del fondatore; senza contare che l’Istituto era in Iowa, piatto stato agricolo americano, che tutto può far venire in mente — placide mucche, campi di mais, potenti trattori — tranne un centro di ricerche sul sesso. Shere Hite, viceversa, ha sempre vissuto e lavorato in luoghi, come New York, Berlino e Londra, in cui il sesso è di casa; e in cui, sia detto senza offesa, lei stessa potrebbe essere scambiata per una vamp. Come se non bastasse, il suo look smentisce pure l’anagrafe: perché sebbene eviti di rivelare l’età, e i suoi libri riportino raramente la data di nascita, deve avere superato la sessantina, considerato che era una ricercatrice universitaria nel lontano 1976, eppure dimostra dieci o vent’anni di meno. E anche questa sua apparentemente eterna giovinezza finisce per ritorcersi contro di lei, come un frivolo contrasto con il rigoroso approccio scientifico necessario a impossessarsi della materia. Chiedo scusa ai lettori per un così esteso prologo; ma era necessario per mettere bene a fuoco il soggetto dell’incontro di questa settimana, oltre che per dare un’idea dell’effetto suscitato da Shere Hite su clientela, dipendenti e sottoscritto, quando entra nella brasserie sulle rive del Tamigi dove mi ha dato appuntamento. È trascorso da poco mezzogiorno, ma sembra reduce da una notte in discoteca: giaccone rosa lungo fino ai piedi, camicetta trasparente, minigonna nera, stivaletti rosa, guanti di pizzo che arrivano ai gomiti, capelli biondi cotonati, rossetto scarlatto sulle labbra che mette maggiormente in risalto l’impressionante pallore della pelle. Non passa, ovviamente, inosservata. Essendomi ripromesso di non cadere nel tranello, di non farmi influenzare dall’aspetto, ordinato il lunch attacco con la prima domanda. Trent’anni dopo il Rapporto Hite,
l’esempio di una coppia che sta facendo l’amore. Lui arriva all’orgasmo, durante il coito, tutte le volte. Lei mai o solo qualche volta. Quando non ci arriva, lei si sente frustrata. È una situazione tipica, a cui raramente l’uomo pone riparo. Oppure, facciamo un altro esempio. L’uomo stimola la donna, che ha un orgasmo. Poi hanno un rapporto sessuale completo, ed è lui ad avere un orgasmo. Ma non è importante chi viene prima, è importante che entrambi abbiano le stesse opportunità di godimento». Va bene, insisto, lei come sessuologa ascolta tante storie e impartisce spesso consigli: ne dia uno anche a noi, quale sarebbe allora l’approccio ideale, il più felice e corretto possibile, per un rapporto sessuale «libero e paritario», come l’ha definito prima? «La chiave di una nuova sessualità è ascoltare il tuo corpo e il corpo della tua o del tuo partner in una continua comunicazione non verbale. Senza badare alla consuetudine, alle aspettative, ai conformismi, bisognerebbe concentrarsi sui segnali fisici emanati dai due corpi e seguirli, assecondarli, lasciandosi trasportare dalla corrente. Se ci si riesce, questo ci condurrà in un’atmosfera magica e nuova, all’orgasmo e oltre le frontiere dell’orgasmo, facendoci raggiungere le più alte vette di eccitazione sessuale, prolungandole quanto si vuole». Ho la sensazione che i nostri vicini di tavolo, da alcuni minuti, abbiano interrotto la conversazione e siano tutt’orecchi. Per distrarli un po’, cambiamo argomento. Il femminismo è fallito, dice qualcuno, la sociologa Alison Wolf sulla rivista Prospect per citare un nome: le donne, ossessionate anche loro dalla carriera, hanno perduto il senso di solidarietà reciproca, la sorellanza, sono diventate egoiste come gli uomini. Concorda? «Dissento. Il femminismo ha vinto comunque la sua battaglia, perché oggi tutte le donne conoscono i loro diritti e questo è stato comunque un grande passo avanti». Ma non siamo entrati nell’era del post-femminismo? Non assistiamo al trionfo del porno-chic? Come giudica serial televisivi come Sex and the City e Casalinghe Disperate? «Ne ho vista qualche puntata, e per certi versi li trovo una liberazione: mostrano che alle donne il sesso interessa, eccome, e che a letto cercano di ottenere quello che vogliono. Non lo chiamerei post-femminismo, questo. Quanto al fenomeno del porno-chic, invece, lo trovo deplorevole. La pornografia è qualcosa che finisce per allontanarci dal piacere sessuale, come una droga che, più la prendi in dosi massicce, meno ti dà soddisfazione, perciò devi sempre aumentare la dose e il piacere continua a diminuire. Per cui ogni tentativo commerciale di elevare il porno, di renderlo di moda, mi pare deteriore, ipocrita, controproducente». Allora è un male, secondo lei, che i porno-shop comincino ad aprire nelle
vie del centro di Londra, frequentati anche dalle donne? È male che si vendano i vibratori in farmacia? «Non ho niente contro negozi che vendono materiale e strumenti per il sesso, e se sono in vie pulite e illuminate anziché in quartieri malfamati, se le donne possono entrarci tranquillamente, è senz’altro una cosa positiva. Il problema è cosa si vende in quei posti. Prendiamo i vibratori: oggetti che trasmettono ancora una volta l’idea di un sesso fallocratico, in cui tutto ruota attorno all’erezione e alla penetrazione maschile come sommo strumento di piacere, mentre le mie ricerche dimostrano il contrario, che è la stimolazione clitoridea il mezzo più facile e diffuso per portare una donna all’orgasmo». E a proposito di erezione, cosa ne pensa del Viagra? «Se serve a risolvere un problema fisico o ad alleviare un timore psicologico, non ho niente contro il Viagra. Anche in questo caso, però, non mi piace l’idea di fondo, che è ancora una volta la solita: l’idea che per un uomo e per una donna non c’è niente di fantastico quanto un membro maschile capace di restare eretto il più lungo possibile. L’idea che continuare a muovere all’infinito quel membro sia l’unico modo per raggiungere il supremo piacere femminile è quanto di più falso ci possa essere. Ma non c’è niente da fare, gli uomini sono ossessionati dall’erezione e cercano di ossessionare con l’erezione anche noi donne». M’accorgo che s’è fatto di nuovo uno strano silenzio, nel ristorante: come se tutti, inclusi i camerieri e gli sguatteri, ci stessero ad ascoltare. «Elezione, ha detto che noi uomini siamo ossessionati dall’elezione», sono tentato di rassicurare i nostri vicini di tavolo. Ma poi rinuncio, e m’accontento di chiedere il conto.
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ENRICO FRANCESCHINI