SOMMARIO
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI ABSTRACT 1.IL VISIBILE E L’INVISIBILE Oggettivo trascendente L’incomprensibile ricerca dell’oggettività ovvero: il vuoto positivo Il razionale: l’ideale astrazione Il pensiero del fuori1: il linguaggio 2. TECNOLOGIA DELL’ESSERE Giacometti architetto, le architetture nel ventre Vista first sight 3. IL TERRITORIO DEL LIMBTE Il viso di Bacon Tridimensionale sacro 4. TUTTO IL NULLA Progetto di torre e faro segnalatore 5. APPENDICE Sinonimi: antologia del visibile e dell’invisibile Bibliografia
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5 7 11 12 18 22 36 57 59 73 91 93 107 123 125 163 165 177
TRA VISIBILE E INVISIBILE 4
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
25. Gina Pane, Warm Milk, 1972 33.Stephen J. Shanabrook, Evisceration of waited moments. Morgue Chocolates. Restitution after the meeting of thirteen. Morgue chocolates. 43. Stéphane Mallarmé, Da Un tratto di dadi mai abolirà il caso, Ed. Scheiwiller - Playon, Roma 2003, p. 51 53. Stéphane Mallarmé, Da Un tratto di dadi mai abolirà il caso, Ed. Scheiwiller - Playon, Roma 2003, p. 45. 55. Alberto Giacometti,Palla sospesa,1930-31.Gesso e metallo, 61 x 37 x 35,5 cm. Kunsthaus, Zurigo, Fondazione Alberto Giacometti. Foto di Walter Drayer. 61. Alberto Giacometti, Il carro (1950) 69.Alberto Giacometti, Piccolo busto su doppio basamento (1940-1941). 71. Alberto Giacometti, Testa su basamento (Testa di Silvio), 1944. 77. Progetto di camera a gas, Auschwitz, Germania, 1943. 85. Auschwitz Birkenau, 87. Campo di sterminio nazista, diagramma funzionale, 1943. 87. Peter Eisenman, Monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei in Europa, Berlino, 1998-2005. 89. Peter Eisenman, Monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei in Europa, planimetria. Berlino, 1998-2005. 101. Francis Bacon, Portrait of Isabel Rawsthorne Standing, 1969. 103. Francis Bacon, Paralityc child walking on all fours, 1964. 105. Francis Bacon, Franci Studies for portrait looking left and right, 1964.
113. Mark Rothko, Black on Grey, 1969. 115. Mark Rothko, Trittico per la Rothko Chapel, Houston, Texas, 1971. 117. Mark Rothko, Rothko Chapel, Houston, Texas, 1971. TRA VISIBILE E INVISIBILE 5
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Abstract
La ricerca muove da un’osservazione: moltissime componenti della realtà che ci circonda rimangono inafferrabili e sfuggenti per l’occhio della ragione. Eppure, si tratta di costituenti fondanti del nostro universo. Qual è la sostanza dell’arte, del silenzio, dello spazio vuoto? Con che peso queste sostanze ricoprono il mondo misurabile e ben visibile? In che modo ne determinano la risonanza nel mondo interiore? Il metodo scientifico deve necessariamente, per la natura dei suoi mezzi, astenersi dall’analisi di questi elementi. Ma la ragione — nelle vesti della riflessione filosofica — non può permettersi di tralasciare di interrogarsi su fattori tanto importanti per la vita e il progresso dell’uomo. Studiare l’irreale e il reale, l’immaginario e l’oggettivo equivale a interrogarsi su cosa contribuisca alla costruzione del mondo tutto percepito. Una risposta ci viene dalla filosofia di Maurice Merleau-Ponty il quale, ponendo sullo stesso piano percezione e ragione, di fatto abbatte la contrapposizione fra reale e irreale nel grande alveo del pensiero. L’architetto è progettista del mondo tangibile, si avvale di tecniche costruttive e di materiali da costruzione. Cosa implicherebbe una nuova consapevolezza della materialità del pensiero, equivalente all’essenza pensata della materia e dello spazio? TRA VISIBILE E INVISIBILE 7
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– Preambolo –
Questo lavoro inizia con un fallimento; perché dirò qui ciò che non è possibile dire. Questo testo è concepito come un macchinario che porterà ad un rivoltamento. La pretesa è di realizzare la contraddizione del concetto fondativo di quest’opera nel trasporto parallelo dei suoi principi fra i sensi del non detto. Perché la mia tesi si sappia pure se mai si sarà letta. L’azzardo consiste nel fondarsi su intuizioni che verranno trattate con approccio razionale per giungere a minare le basi del metodo. Il succedere di questo paradosso si compirà nella sua distruzione evidente.
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IL VISIBILE E L’INVISIBILE L’arte, il luogo, la forma, il vuoto, il silenzio, l’identità nella riflessione filosofica. L’approccio fenomenologico di Maurice Merleau-Ponty.
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1. IL VISIBILE L’INVISIBILE E
Oggettivo trascendente
“È però subito da escludere che il visibile stia all’invisibile come il reale all’irreale”1. L’ingresso nell’invisibile avviene cercando una sostanza fondamentale per l’arte, la lingua, il luogo, la forma, il vuoto, il silenzio, l’identità. Ci si sofferma su cosa sia l’oggettivo, si intuirà la precarietà insoddisfacente di ciò che si definisce razionale e la sua non contrapposizione con l’irrazionale nel dominio dell’intelligenza. Il territorio denominato fin qui «il buio della ragione» potrà forse riscoprirsi terra vergine e pure ben conosciuta alla sola condizione di un appiattimento della distinzione gerarchica fra reale e irreale. La percezione delle cose si scoprirà artefice della definizione del sé e di ciò che lo circonda. Questa presa di coscienza aprirà la via per una concezione tutta mentale dello spazio con tutte le proprietà di flessibilità del pensiero. La filosofia di Maurice Merleau-Ponty sarà il supporto di queste scoperte nell’affermazione che percepire dipende dalla potenza di pensare; il mondo percepito, dunque, è il frutto di un atto puro di creatività. TRA VISIBILE E INVISIBILE 13
OGGETTIVO TRASCENDENTE
1. IL VISIBILE L’INVISIBILE E
C’è un luogo del pensiero che oscilla fra la percezione delle cose e le cose stesse; si trova precariamente incistato nell’istante del passaggio esitato fra percezione ed esistente, forza reticolare eugenetica e pure distruttiva prodotta dall’esistenza; lì scoperti nudi con il proprio stesso pensiero scarnificato dall’essere, si è ritti in fronte all’esistenza. Quest’ancora incomprensibile è nell’alzare lo sguardo sul silenzio e muto del folle, del rituale, dell’oscuro, del religioso, del simbolico, dell’invisibile. La metafisica alfabetica è al fondamento del pensiero occidentale, il linguaggio è il motore del processo di condensazione dei significati e del loro allineamento sequenziale, la spinta da esso prodotta è insieme centrifuga e centripeta: verso l’analisi del mondo com’è e verso al sua modificazione attraverso un fare rispondente a una logica congruente, lineare e astratta, come congruente lineare e astratta è la lingua. Il fondo del mondo rimane però interamente dietro questo andamento, potentemente incompreso, nodo di gravità oscura. Uno scardinamento erosivo di logica a-lineare abbatte l’ordinata disposizione delle cose di fronte all’uomo, appiattisce fino all’infinitesimo l’ingenua semplificazione razionale del mondo fuori da conoscere. Si spiana il campo dove l’assenza di causa ed effetto concatenati non necessiterà di giustificazione. Questo sforzo di sfinimento estremo nello stiramento percettivo sarà utile per raggiungere la pacificazione piena pur nella visione sgomenta degli esistenti. L’arte millenaria vive di questi stratagemmi, limpidamente vitale nel muoversi lì in quell’oscuro che le da forza ipnotica. L’osservazione disillusa del concreto lo scopre altrettanto trascendente dell’oscuro? La contrapposizione stessa tra oggettivo e trascendente svanisce ora e non è mai avvenuta; quel contrasto muore nell’osservazione fonda dello spazio esistente, nell’inciampare percettivo dalla cui caduta il razionale ci protegge; scopriamo così l’imbracatura lineare necessaria per domare lo sgomento, euforici del successo.Il metro dell’oggettività misura gli stratagemmi necessari per rendere tangibile l’invisibile strappando con violenza le ragioni e forzando le contraddizioni mentre la strada si perTRA VISIBILE E INVISIBILE 14
OGGETTIVO TRASCENDENTE
IL VISIBILE L’INVISIBILE E
corre fino a consumarne il lastricato, fino a che la necessità di abbandonare risulta evidente nella distruzione del successo. Una volta imbrigliato questo oscuro silenzioso, si potrà ipotizzarne un utilizzo fuori dall’estremo? Si potrà eleggere coscientemente a luogo di vita questa rete oscura sulla struttura complessa costruita dei fatti e del tempo? Il potere di chi riuscirà nell’intento sarà immenso e macchinicamente soprannaturale. Cosa renderebbe rassicurante il mondo misurabile? Guardo e delineo il profilo degli oggetti, il tempo e il luogo degli accadimenti, le linee di contorno, distinguo il corpo dal fuori-il-corpo e, per analogia, i fenomeni dal sé. La possibilità di individuare rapporti di causa/effetto tra i fenomeni? La possibilità di delineare i fenomeni? L’illusione che esista una realtà in sé, fuori di noi, a disposizione della nostra capacità di avvicinamento? E cosa posso vedere nel vuoto? Le forme finite sono gravi di sensi e sommovimenti trascendenti che ignoriamo perché terrorizzati dall’incapacità di dominarli. Il pensiero razionale si rivela fallace fede percettiva. “I metodi di prova e di conoscenza, che un pensiero già installato nel mondo inventa, i concetti di oggetto e di soggetto che esso introduce, non ci permettono di comprendere che cosa è la fede percettiva, proprio perché essa è una fede, cioè una adesione che si sa al di là delle prove, non necessaria, intessuta di incredulità, in ogni momento minacciata dalla non-fede. La credenza e l’incredulità sono qui così strettamente collegate che troviamo sempre l’una nell’altra, e in particolare un germe di non verità nella verità: la certezza che io ho di essere innestato sul mondo mediante il mio sguardo mi promette già uno pseudomondo di fantasmi, se lascio errare questo sguardo. Nascondersi gli occhi per non vedere un pericolo è, si dice, non credere alle cose, credere soltanto al mondo privato. Significa invece credere che ciò che è per noi è assolutamente, che un mondo che noi siamo riusciti a vedere senza pericolo è senza pericolo, e dunque credere nel modo più intenso che la nostra visione vada alle cose stesse.”2 Cessa la contrapposizione fra razionale e irrazionale, fra immanente e trascendente, fra oggettivo e soggettivo, tra oscuro e limpido. Illuminare l’oscuro non ha più senso; persino il domandarsi se ora sia tutto oscuro o se tutto sia limpido non ha senso. La contrapposizione fra vida e sueño TRA VISIBILE E INVISIBILE 15
OGGETTIVO TRASCENDENTE
IL VISIBILE L’INVISIBILE E
non è mai esistita ed è il disperato, potente, processo di semplificazione e di messa in relazione causale dei fenomeni che si rivela oggi fragile sostegno all’impaurita osservazione del nostro mondo. “Ciò che si chiama visione dipende dalla potenza di pensare!3. Pensare è dunque un atto creativo del mondo? Una autogenerazione del pensante, la riflessione sul mondo è puro specchiarsi in sé. “Grazie alla conversione riflessiva, percepire e immaginare non sono più se non due modi di pensare. Della visione e dal sentire non si conserva più se non ciò che li anima e li sostiene indubitabilmente, il puro pensiero di vedere o di sentire, ed è possibile descrivere quel pensiero, mostrare che esso è fatto di una correlazione rigorosa fra la mia esplorazione del mondo e le risposte sensoriali che questa suscita. Si sottoporrà l’immaginario a una analisi parallela, e ci si accorgerà che il pensiero di cui esso è fatto non è, in questo senso preciso, pensiero di vedere o di sentire, ma che è l’assunto di non applicare, e anzi di dimenticare, i criteri di verificazione, e di prendere per “buono” ciò che non è visto e non potrebbe esserlo. Così le antinomie della fase percettiva sembrano rimosse; è ben vero che noi percepiamo la cosa stessa – giacché la cosa non è altro di ciò che noi vediamo – ma non la percepiamo in virtù del potere occulto dei nostri occhi: essi non sono più i soggetti della visione, sono passati nel novero delle cose viste e ciò che si chiama visione dipende dalla potenza di pensare, la quale attesta che l’apparenza ha qui risposto secondo una regola ai movimenti dei nostri occhi. La percezione, quando è piena o attuale è il pensiero di percepire.”4 Percepire e pensare sono in tutto disegno di ciò che già ci appartiene, appropriazione dalle fondamenta di ciò che ci circonda, creazione del mondo. Nel pretendere che le cose siano di per sé, di fatto trasferiamo su di esse – per analogia con la percezione della differenza fra il nostro corpo e il mondo – il nostro concetto di identità, il miracolo dei punti di vista singolari. E ciò equivale ad assegnare loro un’identità cosciente che non è altro che la nostra propria identità, tutto il nostro essere percepito che è nelle cose: le cose che sono pensiero. Il pensiero dei sensi e il pensiero immaginato: “percepire e immaginare non sono più se non due modi di pensare”5. Eppure, forse ancora per analogia con il nostro corpo distinto dalle cose, TRA VISIBILE E INVISIBILE 16
OGGETTIVO TRASCENDENTE
1.IL VISIBILE L’INVISIBILE E
siamo portati a vedere due livelli di significato, uno esterno e ben definito e l’altro oscuro, avviene un’incomprensibile selezione percettiva che ignora con che peso il non detto, l’indicibile, sostanziano le cose. Più radicalmente: Il vuoto, l’oscuro, il simbolico, il folle, il religioso l’invisibile si materializzano incontrollati dietro alle cose per contrapposizione al razionale e all’intelligibile. È vero pure il viceversa paradossale; laddove l’intelletto si è spinto all’estremo della razionalizzazione, l’esasperazione della ragione è andata assumendo connotazioni mistico-religiose: J. S. Bach costruttore di limpide religiose impalcature matematiche; e così pure le linee algide del minimalismo, tanto ragionate quanto mistiche. È questa una conferma della cieca codificazione del razionale e dell’oggettivo? L’oscuro ha la stessa natura, una natura di pensiero, la natura di chi guarda, del nitidamente distinguibile razionale. “Un’apertura iniziale al mondo che non esclude un possibile occultamento [...] sia alla percezione sia ai fantasmi”6.
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(NOTE) 1 Renato Barilli su Merleau-Ponty in Per un’estetica mondana, ed. Il Mulino, Bologna, 1964. p. 234. 2 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, ed. Bompiani, Milano 2003, p. 53. Da qui in poi denominato ‘MP’. 3 MP, op. cit. p. 55. 4 MP, ibidem. 5 MP, ibidem. 6 MP, op. cit. p. 54-55. TRA VISIBILE E INVISIBILE 18
1.IL VISIBILE L’INVISIBILE E
L’incomprensibile ricerca dell’oggettività ovvero: il vuoto positivo
Per volgere il pensiero attivo verso ciò che si dice sfuggente e oscuro, è necessario superare la contrapposizione fra questi territori e il razionale. Si scoprirà che aspetti essenziali del pensiero non sono inscrivibili nel linguaggio e sono dunque profondamente silenziosi ma duramente influenti sull’esistenza. La realtà dell’arte è testimonianza della possibilità di interazione con questi aspetti del pensiero e dunque delle cose in virtù della sua immisurabilità. Avviene un capovolgimento, la conoscenza non sarà più una esplorazione di strati posti al di fuori di noi ma una presa in esame degli elementi concatenati nella struttura del sé manifestata attraverso i sensi. Nella scoperta dell’importanza concreta e strettamente legata all’identità del vuoto, del pieno e del silenzio, quali orizzonti si aprono per un architetto, costruttore di cose tangibili?
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IL VUOTO POSITIVO
1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
Riuscendo a superare la contrapposizione fra l’oscuro e il razionale potrebbero aprirsi nuovi orizzonti verso cui dirigere il pensiero attivo. Il buio del silenzio potrebbe trasformarsi in un territorio su cui divagare agilmente. Spenta la pretesa di illuminare col pensiero, usciti dalla metafora del percorso da compiere, ben compresa la consapevolezza dell’assenza di separazione tra l’inconoscibile e il conosciuto, cessando di utilizzare il pensiero per capire il mondo visto, ormai consci del fatto che questo sia già immagine del pensiero, negli aspetti che appaiono limpidi quanto in quelli fino a oggi misteriosi. Schiacciando perfino il concetto dell’oggi che prepara un domani di scoperte sovrapposte l’una all’altra, di trivellazioni di conoscenza, di strati geologici del sapere, dimenticando la ragione e risvegliando l’essere. Sono tutte azioni queste di negativa cancellazione distruttiva ma nell’essere senza tempo e senza consequenza, l’eliminazione non pesa più dell’aggiunta, non ha pure senso parlare del togliere o del levare come di vento o bonaccia. Lo spazio compreso nel recinto del tempio contiene il lato oscuro del pensiero, le assi della palizzata sono lo stratagemma per renderlo visitabile. L’aspetto essenziale del pensiero è rimasto per sempre non detto né preso in coscienza; la mente e la vita sono parse sempre oppresse da questo lato di sé e cioè del mondo, ma è forse in questa reticente essenza a-verbale e dunque a-razionale che si sostanzia il silenzio e dunque mai tutto ciò avrebbe potuto dirsi e, anzi, la rutilante assenza delle coscienze sarebbe la conferma della sua natura in esistenza levitante, senza il prima e il dopo, senza nulla perché fatto di nulla. Sono tanti i congegni inventati allo scopo di brancolare in questo campicello che io oggi voglio chiamare limbte uno e il più distruttivo è l’arte. E cosa sarebbe per un architetto poter costruire in questo e di questo? Scoprire i mezzi per edificare di sé, dove il sé è tutto l’uomo. Lo spazio è grave di questi sensi perché lo spazio esiste solo marginalmente al di fuori del corpo e la potenza del pensiero appare tanto più grande nel misurare la durezza della convinzione opposta. TRA VISIBILE E INVISIBILE 20
IL VUOTO POSITIVO
1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
Lo spazio dell’aria trasuda il sangue che irrora il pensiero di chi la guarda. Ecco perché avviene che l’aria sotto gli archi di un portico, il volume concluso dalle superfici dei piedritti e dell’intradosso degli archi, specialmente l’aria che ne tocca le pietre, si soffi baluginante del sé di chi guarda. Questo è il mistero del vuoto e del silenzio rivelati dal vento, dalla polvere fra le colonne del foro di Palmira e delle scabrosità sul calcestruzzo armato da Ando. E gli abissi visti da Giacometti fra le teste, e il dio visto da Bataille nei sessi; e le parole. Nel parlare avviene l’estrema contraddizione dell’illusione rivelata e contraddetta. Perché le parole sono insieme la vista definita e il salto nel piccolo immenso. Ogni parola è un catalizzatore che si racchiude e si codifica in un’implosione subitanea, eppure ogni parola è dispiegata lasca al di là del proprio confine, rilasciata piena nell’essere senza tempo. Un blocco di testo letto è l’ordinato ribollire rovesciato di bui sensi di profondità immeditate sull’affiorare dell’esistenza ma ogni fondo di bolla è laggiù nell’eterno.
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1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
Il razionale: l’ideale astrazione “Nascere è proiettarsi in un essere che aspira al possesso dell’universo”. (Maria Zambrano)
I concetti di razionale e di concreto si sovrappongono facilmente. Il percorso del pensiero razionale – comunemente oggettivo – si immagina parallelo a quello della realtà. Maurice Merleau-Ponty afferma che la percezione di una realtà fuori di noi è insita nella struttura della percezione. L’interpretazione razionale di questa sarà dunque uno dei possibili metodi di definizione e ordinamento creativi del mondo delle cose. Questo processo è di forza tale da finire per sostituirsi ai messaggi percettivi originari e da assumere le sembianze della realtà. Si parla quindi di una «illusione oggettivista». A questo punto si pone il problema delle rappresentazioni fedeli della realtà, del disegno bidimensionale e prospettico in particolare. Il disegno tecnico e architettonico si scopre tanto più creativo e trascendente quanto più tende all’oggettività ideale. L’approccio empirico dell’artista o del bambino, di contro, sono dettati da una nostalgia primordiale. La rappresentazione del mondo si scopre ricalcata sulla struttura dei sensi e del loro corpo. La stessa idea di spazio – come osserva Maria Zambrano – riecheggia le cavità delle viscere, vero universo e unico tutto dell’io. In questa luce si spiegano le opere di body-artists come Gina Pane che, nell’infliggere ferite e mutilazioni al proprio corpo, operano la cancellazione della rappresentazione nell’anelito disperato di una introspezione impossibile rivolta al mondo. Si prospetta all’orizzonte una visione nuova – esemplificata da Michel Foucault – in grado di comprendere nella potenza del pensiero il razionale quanto l’irrazionale, ritrovati contigui nella carnalità del corpo. TRA VISIBILE E INVISIBILE 22
IL RAZIONALE,
IDEALE ASTRAZIONE
1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
Scopriamo che il razionale è l’ideale astrazione, che chi vive con i piedi per terra cataloga e ordina per blindarsi nel perfetto astratto. È sembrato naturale, fin qui, contrapporre il razionale all’astratto. L’oggettivo dovrebbe stagliarsi limpidamente definito contro l’indefinibile arbitrio dell’irrazionale, sognato, delirio. Il tentativo millenario del pensiero razionale è scavare fondazioni su un terreno comune, invariante delle soggettività. Il potere creativo di questo processo di moto circolare – dal pensiero alla realtà e da qui ancora indietro al pensiero – è talmente grande da occupare quasi del tutto l’orizzonte di esplorazione e da sostituirsi camaleonticamente ad esso. La concreta plasticità della nostra massa neuronale si imprime della matrice da lui stesso forgiata mentre questa si fa in tutto la sua concreta presenza. Un deflagrante biunivoco processo fonda la realtà conformandola al pensiero, suo vero artefice. Nell’estasi della creazione questo si frantuma per identificarsi con l’opera e ricostruirsi gradualmente nutrendosi dei suoi propri umori razionali. Uno sdoppiarsi incosciente – fuoriuscire di sé – consente di parlare e di racchiudere i sensi nelle parole, innesca il moto dell’apprendimento e dell’esplorazione, ché, altrimenti, gli esseri dovrebbero immobili contemplarsi nel brodo esistenziale. Dice Nietzsche: “Si deve imparare a vedere, si deve imparare a pensare, si deve imparare a parlare e a scrivere”1. La spavalderia da peccato originale sta nell’inventare l’universo per poi dimenticarsene2. “Forse l’universo ci sogna come suo compimento e siamo già sognati, pre-sognati nel fiore e nell’albero che si erge, nella stessa materia estesa, sognata a sua volta, che aspira alla realtà e si mette a servizio per raggiungerla; e che serve instancabilmente come fa l’universo, questa domestica: serva, madre che serve fino a vedere ergersi sopra di sé l’uomo che la calpesta, di lei dimentico”3. L’organizzazione razionale è dunque l’ideale astrazione, la creazione concreta di cose pensanti. L’io si trova fra i due fuochi dell’essere e del sé. Quest’ultimo è dominatore del mondo ma della nostalgia per il primo tutto è intriso e quando ne scorgiamo il barlume invisibile, nell’arte ad esempio, ne sentiamo forte il misterioso potere di attrazione: il fascino autoerotico dell’essere sul sé. TRA VISIBILE E INVISIBILE 23
IL RAZIONALE,
IDEALE ASTRAZIONE
1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
Carlo Sini, per chiarire «l’illusione oggettivista» (l’espressione è di Merleau-Ponty) si sofferma sull’interpretazione del modo di disegnare dei bambini: “Il disegno infantile non va valutato rispetto alla prospettiva planimetrica, cioè confrontato col metodo «corretto» di disegnare cui sono avvezzi gli adulti. Va compreso per se stesso in modo «positivo» (non «difettivo», cioè per difetto o come errore). Se il bambino disegna i due genitori come figure enormi affiancate a una piccola casa dietro la cui parete traspare magicamente la figura di un cane, ciò non va letto come frutto di incapacità o immaturità raffigurativa ma anzi come «testimonianza» della «risonanza segreta con la quale la nostra finitudine si apre all’essere del mondo e si fa poesia»”4. Di contro, la rappresentazione prospettica pretende di essere conforme all’oggetto rappresentato ma questa posizione è perfettamente illusoria, si tratta “solo del frutto di una convenzione grafica che ha deciso di proiettare l’oggetto rappresentato sulla carta e di fornire in tal modo un certo numero di informazioni relative alle invarianti che si ritrovano nella percezione di ogni spettatore, quale che sia il suo punto di vista”5. “Ciò che qui è raffigurato non è un concreto incontro percettivo di mondo, ma una rappresentazione valida per tutti. Ecco perché l’artista, i cui scopi espressivi non si riducono a quelli informativi, può senza danno ignorare la prospettiva, se gli aggrada, oppure può utilizzarla entro i suoi fini”6. La rappresentazione prospettica oscilla dunque fra il soddisfacimento delle regole della visione soggettiva e la sua oggettivazione nell’assumere che tutti gli osservatori si pongano nel medesimo punto di prospettiva. L’atto di disegnare oggettivamente presuppone l’esistenza di una realtà in sé che docilmente si lasci rappresentare ed esplorare ma questa realtà finisce per essere la rappresentazione stessa. Accade che il cervello percettivo (il cervello con i suoi orpelli sensoriali pensanti, dai bulbi oculari alle papille) inventi creativamente le regole astratte per ordinare ciò che gli sta intorno e che queste regole finiscano per essere l’intorno stesso. “Nella purezza dell’algoritmo la significazione si libera da ogni compromissione col decorso dei segni che essa domina e legittima e, contemporaneamente, i segni corrispondono in modo così TRA VISIBILE E INVISIBILE 24
Gina Pane, Warm Milk, 1972 TRA VISIBILE E INVISIBILE 25
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IL RAZIONALE,
DEALE ASTRAZIONE
1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
perfetto che l’espressione non lascia nulla al desiderio e ci sembra che contenga il significato stesso; i confusi rapporti della trascendenza fanno posto ai rapporti appartenenti a un sistema di segni che hanno vita interiore e a un sistema di significazioni che non scendono nell’esistenza animale”7. La distruzione della distinzione fra cose dell’io e cose fuori di esso ci libererebbe da un’inibizione creativa che costringe lo spazio di movimento all’interno di una semi-realtà. Merleau-Ponty definisce gli oggetti dell’immaginario come «semi-oggetti» nel mondo del «pensato a metà»; oggetti a tutti gli effetti concreti ma con la proprietà di essere “fantasmi che non hanno nessuna consistenza, nessun luogo proprio”8. Di contro, il pensiero razionale genera la rimanente semi-realtà. Una realtà di oggetti con la stessa consistenza di pensiero degli oggetti dell’immaginario ma con la proprietà di una localizzazione spazio-temporale. Questo parrebbe un invalicabile ostacolo all’assimilazione della realtà immaginata a quella percepita; il dettaglio dello spazio-tempo è, in verità, trascurabile. Lo spazio e il tempo sono plasmati sulla matrice del nostro corpo. Maria Zambrano fa una bellissima analogia fra gli alvei del nostro cuore cavo e lo spazio che ci circonda, riverbero del battito cardiaco. Il cuore è metafora del centro dei sentimenti, delle emozioni, dell’io profondo. Un centro geometrico sarebbe per definizione adimensionale immobile motore di un’esistenza turbinante; il muscolo cardiaco è invece un centro dispiegato nello spazio e nel tempo battente, calotta interiore di emozione esteriore, calco di uno spazio rivoltato fin fuori dal corpo che gli si fa volta domestica. Il corpo pensante, visualizzando un cervello reticolare piuttosto che cavoliforme, è la misura costruttiva dello spazio e del tempo con quello che Foucault definisce «un carnaio di segni». La body-artista Gina Pane in Escalade (1971) si infligge delle ferite con una lama da rasoio di fronte al pubblico della performance. “I miei lavori erano basati su un certo tipo di pericolo. Arrivai spesso ai limiti estremi, ma sempre davanti a un pubblico. Mostravo il pericolo, i miei limiti, ma non davo risposte. Il risultato non era vero e proprio pericolo, TRA VISIBILE E INVISIBILE 27
IL RAZIONALE,
IDEALE ASTRAZIONE
1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
ma solo la struttura che avevo creato. E questa struttura dava all’osservatore un certo tipo di shock. Non si sentiva più sicuro. Era sbilanciato e questo gli creava un certo vuoto dentro. E doveva rimanere in quel vuoto. Non gli davo nulla. Nel mio lavoro il dolore era quasi il messaggio stesso. Mi tagliavo, mi frustavo e il mio corpo non ce la faceva più. […] La sofferenza fisica non è solo un problema personale ma un problema di linguaggio. […] il corpo diventa l’idea stessa mentre prima era un trasmettitore di idee. C’è un ampio territorio da investigare. Da qui si può entrare in altri spazi, ad esempio dall’arte alla vita, il corpo non è più rappresentazione ma trasformazione”9. Se la realtà è il corpo, incidere gli arti equivale a trafiggere gli strati dell’esistenza per arrivare alla fusione truculenta dei sensi materiali. La ferita pubblica rivela la natura di avvenimento della percezione, del suo essere nel tempo e nello spazio che di riflesso rende spazio-temporale il mondo percepito. Il dolore e il sangue sgorgano dal corpo percettivo e – come dice l’artista – svuotano lo spettatore perché svuotano la realtà fuori del corpo, altra che il corpo. Si afferma che il corpo è tutto e così lo spazio tutto cola di sangue. Nell’abolizione della rappresentazione che a questo punto appare una superstizione radicata avviene il ribaltamento della coscienza comune che vede “un essere in sé del mondo «prima» della percezione”10, una realtà serenamente cheta che ingenuamente si lasci esplorare dall’occhio curioso dell’uomo. “Il mondo percepito sta ovviamente nella percezione, e non prima e fuori di essa. Il senso […] è ciò che caratterizza la percezione proprio in quanto «avvenimento», il che testimonia appunto l’essere già nel mondo di ogni percepire, l’essere coinvolto fin dall’inizio in campi percettivi che caratterizzano strutturalmente il corpo percipiente dell’uomo”. L’illusione retrospettiva del mondo – continua Merleau-Ponty – deriva dal fatto che “anche la percezione ha una necessità di principio e uno «stile»”11, un “abito abduttivo ed euristico” (così lo definisce Pierce), ed è su questa impronta costitutiva che si fonda l’inganno, “ciò che davvero preesiste è la «familiarità primordiale» costitutiva della relazione percezione-mondo. Il fatto che la percezione ci presenti una cosa che ci induce a ad assumerla come TRA VISIBILE E INVISIBILE 28
IL RAZIONALE,
IDEALE ASTRAZIONE
1. IL VISIBILE E L’INVISIBILE
più antica della percezione stessa, come in sé, come un puro essere prima del soggetto, «non è una contraddizione della percezione, ma al contrario la sua stessa definizione di essere un avvenimento e di aprirsi su una verità»”12. Che fare delle rappresentazioni fedeli, del fotografismo, del fotorealismo? Della prospettiva? Delle proiezioni planimetriche, delle proiezioni ortogonali, della computergrafica tridimensionale, delle proiezioni di Monge, dell’assonometria militare, dell’assonometria cavaliera? “Il disegno mostra le cose stesse come in universale le vede Dio; o meglio […] mostra «la conoscenza che può avere della visione umana un Dio non coinvolto nella finitudine». Vale a dire «ciò che è il mondo rispetto a una conoscenza infinita». La prospettiva planimetrica non è dunque che la «finitudine della nostra percezione proiettata, appiattita, divenuta prosa sotto lo sguardo di Dio»”13. È singolare che la scoperta dell’essenza imperfetta e astratta della rappresentazione oggettiva di rimbalzo all’umana finitudine finisca per inventare il punto di vista di Dio: creato un creatore. Potrebbe essere questa la testimonianza del fatto che «la finitudine della nostra percezione» essendo in fin dei conti tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, può senza sforzo essere sinonimo di infinitudine. Richard J. Shanabrook è un artista che utilizza dolciumi per le sue opere, spesso cioccolato. Restitution after the meeting of thirteen è un insieme di dodici calchi in cioccolato dei volti di altrettanti giovani artisti. L’opera è consistita nella documentazione dell’interazione dei dodici giovani con la propria riproduzione facciale in cioccolato. Dice l’artista: “La mia parte come antagonista (il tredicesimo) consisteva nel presentare l’artista in quanto essere conflittuale, rendendo la sua immagine desiderabile e digeribile anche se questo significava infliggersi in qualche caso una forma di autodistruzione, o di vendetta sul proprio ego. Vista la qualità del cioccolato non mi aspettavo di avere molti avanzi da mostrare ma con mia grande sorpresa si è verificato il contrario: almeno la metà dei prescelti non aveva preso parte a questo atto di cannibalismo virtuale”. Divorare mutilare e assimilare la propria TRA VISIBILE E INVISIBILE 29
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effigie mortuaria non è quello che è avvenuto nella maggior parte dei casi, si prova la stessa resistenza nell’accettare che ciò che vediamo è precisamente la nostra percezione. Divorare la propria immagine: avviene questo invero quando guardiamo la riproduzione prospettica della realtà? L’atto creativo del riprodurre è la masochistica digestione eccitata dal dolce del proprio specchio? La propria identità nella raffigurazione è trasloco del sé verso un mondo eroticamente commestibile forgiato di cioccolato? Così faceva il Caravaggio leggendario che usava, si favoleggia, una vecchia tavolozza come piatto: l’arte che divora se stessa. Maria Zambrano con innumerabile grazia espressiva: “Quando ci avviciniamo a guardare il volto dell’Oriente, troviamo sempre una maschera [...] La maschera nasconde mentre il volto rivela; il volto umano è il luogo in cui la natura, l’intero cosmo, esce dal suo ermetismo. Questa condizione rivelatrice che ci sembra essenziale all’uomo si è prodotta solo in Grecia. In precedenza c’è sempre la maschera. Nella maschera si innalza davanti all’uomo l’ambiguo, il demoniaco, il sacro insomma, con quella sua caratteristica di ambivalenza. Forgiare un volto nell’arte è conseguenza di averlo forgiato già nella mente; è lo specchio, è il risultato di aver deciso di essere uomini. [...] Senza di esso, come sarebbe possibile la nitida immagine, la semplicità raggiunta da un Fidia, in una scultura che è tutta una definizione? Un’immagine plastica che è tutta una filosofia, strumento che l’uomo ha forgiato quando ha deciso di esser tale.”14 In una leziosamente agghindata scatola stanno adagiati cioccolatini ricavati dal calco di lacerazioni sulla pelle, da fori di proiettile, da cancrene, da ferite grossolanamente suturate, si tratta di Evisceration of waited moments. Morgue chocolates, Toledo USA, un’altra opera di Shanabrook. Qui la riproduzione, illusoriamente oggettiva, è la fusione nello stampo della propria essenza smascherata da un disfacimento commestibile. Com’è invitante il profumo del cioccolato, la sua consistenza, il suo sapore e il desiderio amaro di vendicarsi sulla propria fine distrutta, di assimilare l’essenza familiare ma estranea del proprio corTRA VISIBILE E INVISIBILE 30
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po. Com’è sgradevole guardare il mondo tutto di carne e sangue. Si tratta di opere banali e pretestuose ma lo spunto di riflessione sull’onda del disgusto è formidabile. La rappresentazione oggettiva si distacca ora dalla struttura di consequenzialità lineare per collocarsi, insignificante fra insignificanti, nell’ammasso dell’essere delocalizzato. L’orizzonte incrostato dal razionale è campo libero. Cosa si vede? Qual è l’oggetto dell’algoritmo percettivo? “Esso non è nient’altro, in ogni istante, che l’insieme delle relazioni che sono stabilite a tale proposito, più un orizzonte aperto di relazioni da costruire. Questo orizzonte non è un tipo di presentazione di un essere matematico in sé compiuto: in ogni istante non c’è veramente nient’altro nel cielo e sulla terra che quelle proprietà (quelle e solo quelle che sono note; per esempio le proprietà delle serie di numeri interi). Si può dire, se si vuole, che le proprietà sconosciute sono già operanti negli insiemi degli oggetti che incarnano i numeri, ma non è che un modo di dire: si vuole esprimere con ciò che tutto quello che si rivelerà dei numeri sarà istantaneamente vero per le cose numerate, ma esso non comporta alcuna preesistenza del vero”15. Il pensiero può essere ora sempre vertiginosamente cosciente, sempre esteso sul nulla, in grado di vedere l’oscuro come «un orizzonte aperto di relazioni da costruire». Così Michel Foucault, nella prefazione a “Le parole e le cose”16, si sofferma su “una certa enciclopedia cinese” evocata da Borges in cui gli animali vengono suddivisi in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche. “Le misture pericolose sono scongiurate, i blasoni e le favole hanno raggiunto il loro centro; niente anfibi inconcepibili, niente ali artigliate, nessuna immondezza di pelli squamose, niente facce polimorfe e demoniache, niente ali di fiamma. La mostruosità non TRA VISIBILE E INVISIBILE 31
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altera qui nessun corpo reale, non modifica in nulla il bestiario dell’immaginazione; non si nasconde entro la profondità di nessuno strano potere” 17. La vertigine è, dice, nell’inconcepibile ordinamento alfabetico, in quel pensiero generativo della breve teoria delle lettere a, b, c, d, e, … Il fatto evidente è nella cancellazione del figurativo nell’arte dove, per usare la terminologia di Maria Zambrano, il volto sublima la maschera: “Avviene nel nostro tempo un fatto strano. [...] È l’istante in cui l’arte europea dai diversi luoghi presenta il raggelante aspetto della distruzione delle forme. [...] Anche la poesia lo verifica; e all’interno della poesia un certo filone che silenziosamente giunge alla distruzione in modo più attivo e violento di quell’altro che urla. [...] Era evidente e sembrava irrefrenabile una volontà che abbracciava tutte le arti e dunque non poteva provenire da esigenze estetiche. […] Era di nuovo la maschera. Si chiudeva il lungo spazio in cui il volto umano si era impadronito del mondo, il tempo in cui aveva goduto della luce e si era permesso di mostrarsi in tutti i suoi modi possibili.”18
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Stephen J. Shanabrook, Evisceration of waited moments. Morgue Chocolates. Restitution after the meeting of thirteen. Morgue chocolates.
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(NOTE) 1 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Rizzoli, Milano 1998. 2 A questo proposito è divertente riflettere sul passo biblico in cui a Adamo viene assegnato il compito di dare un nome alle cose, vero e proprio compendio sintetico della creazione divina. 3 Maria Zambrano, Delirio e destino, ed. Scienza e Idee, Milano 2000. p. 17 4 Carlo Sini cita Merleau-Ponty in Disegno e verità, Negli specchi dell’essere, a cura di Mauro Carbone e Claudio Fontana, Hestia Edizioni, Como 1993. p. 152. 5 Maurice Merleau-Ponty, La prose du monde, texte étabili et presenté par C. Lefort, Gallimard, Paris 1969; La prosa del mondo, tr. it. di M. Sanlorenzo, Editori Riuniti, Roma 1984. p. 150. 6 Carlo Sini, op. cit. 7 MP, op. cit. p. 128. 8 MP, Il visibile e l’invisibile. p. 55. 9 Gina Pane citata da Francesca Alfano Miglietti in Nessun tempo, nessun corpo…, Ed. Skira, Ginevra-Milano 2001. 10 MP, La prosa del mondo. 11 Ibidem. 12 Carlo Sini, op.cit. Il testo tra virgolette nella citazione è di MP, La prosa del mondo. 13 Carlo Sini, op. cit. Il testo fra virgolette nella citazione è di MP, La prosa del mondo 14 Maria Zambrano, L’agonia dell’Europa, ed. Marsilio, Milano 1999. P. 95. 15 MP, La prosa del mondo. p. 131 16 Michel Foucault, Le parole e le cose, ed. BUR, Milano 2004. 17 Ibidem. 18 Ibidem, p. 97. TRA VISIBILE E INVISIBILE 35
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Il pensiero del fuori1: il linguaggio
Il linguaggio ha una funzione contraddittoria nella definizione del mondo percepito. È potente strumento ordinatore attraverso il reticolo di significati di cui ricopre le cose, ma anche linea di demarcazione indispensabile per raggiungere un oltre l’ideale. Questo oltre è forse ciò che Michel Foucault definisce «il pensiero del fuori»: “Un pensiero che si tiene fuori da qualsiasi soggettività per farne sorgere come dall’esterno i limiti […] per farne scintillare la dispersione e non raccoglierne che l’invincibile assenza”2. La concezione di un linguaggio riflessivo, rivolto al trasporto verso l’esterno dell’interiorità, si rivela limitata e si fa viva la necessità di un pensiero in grado di abbracciare “non l’intimità di un segreto ma il puro fuori in cui le parole si susseguono indefinitamente […] il vuoto nel quale sta per scomparire”3. Le conseguenze di questo capovolgimento si ripercuoteranno su ogni attività che pretenda di fondarsi sull’introspezione, compresa la progettazione architettonica e il suo linguaggio. Si analizzeranno, a esemplificazione dell’ubiquità della lingua, il racconto erotico di Georges Bataille, Madame Edwarda4, e il poemetto di Stéphane Mallarmé, Un colpo di dadi mai abolirà il caso5. TRA VISIBILE E INVISIBILE 36
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Lo spazio invulnerabile della parola è nell’ossimoro del senso definito accanto al precipizio dell’essere. Il volume della parola è un elemento architettonico capace di definire in modo preciso i confini dello spazio. La contraddittoria precisione del linguaggio è nella proiezione del significato verso gli opposti della definizione e del suo schiacciamento. Parlare edifica uno spazio ubiquo, definito e concreto pienamente esteso all’intangibile. “L’eccesso eccede il fondamento: l’eccesso è ciò per cui l’essere è innanzitutto, prima di ogni cosa, fuori da tutti i limiti. Senza dubbio l’essere si trova anche entro certi limiti: tali limiti ci permettono di parlare (anch’io parlo, ma parlando dimentico che la parola, non soltanto mi sfuggirà ma già mi sfugge)”6. Il potere della parola è di limitarsi e contemporaneamente distruggere i propri limiti. Georges Bataille in Madame Edwarda, nel mezzo del racconto, scrive: “È deludente se devo mettermi a nudo, giocare con le parole, ricorrere alla lentezza delle frasi. Se nessuno mette a nudo quel che dico, togliendogli l’abito e la forma scrivo invano. [Il mio sforzo, lo so bene, è disperato: il lampo che mi abbaglia – e che mi folgora – avrà reso ciechi solo i miei occhi.] […]. Questo libro ha il suo segreto, ma devo tacerlo: è al di là di ogni parola”7. Al di là della parola, dunque. Se la parola va al di là di se stessa, quale territorio raggiunge? Un territorio di silenzio o di frastuoni? Come si trasforma l’ammasso dei corpi tipografici nel dito che punta fino a toccarlo l’essere muto? E’ attraverso la parola che il pensiero pare uscire da se stesso per essere e per guardarsi cancellandosi qualunque luogo e tempo, dimostrandosi magicamente inconcepibile. Quando il pensiero, attraverso la parola raggiunge questo anti-spazio scava un’orma perfettamente intelligibile, edifica un traliccio di spazio vuoto chiaramente esposto al senso. La costruzione dello spazio della parola è di dualità contraddittoria: “La verità greca ha tremato, un tempo, in quest’unica affermazione: «io mento». «Io parlo» mette in crisi tutta la finzione moderna”8. Si tratta del celebre paradosso di Epimenide in cui il senso espresso dal TRA VISIBILE E INVISIBILE 37
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parlante contraddice l’atto stesso del parlare. Michel Foucault ne “Il pensiero del fuori” vede l’«Io mento. Io parlo» accerchiato da contraddizioni minacciose, il soggetto che parla è lo stesso di cui si parla questo genera una circolarità vorticosa di sensi impossibili eppure chiaramente visibili. Ma cosa accade se ci si barrica dentro il puro «Io parlo»? Le minacce di insensatezza sembrano ritirarsi e il discorso è al sicuro nella fortezza del senso (la metafora architettonica è di Foucault). “Eccomi protetto nella fortezza inespugnabile in cui l’affermazione si afferma, scongiurando qualsiasi pericolo di errore giacché nient’altro dico se non il fatto che parlo”9. “Ma le cose potrebbero non essere così semplici. Se la posizione formale dell’«io parlo» non suscita problemi ad essa specifici, il suo senso, nonostante la sua apparente chiarezza, suscita un numero forse illimitato di domande. «Io parlo» in effetti si riferisce a un discorso che, offrendogli un oggetto, dovrebbe servirgli da supporto. Ma questo discorso non regge; l’«io parlo» non situa la propria sovranità se non nell’assenza di qualsiasi altro linguaggio”10. Il detto si erge a monumento risonante ed enuncia uno stato di esistenza di cui si fa simulacro. La lingua dell’«io parlo», il solo «io parlo», è uno dei possibili linguaggi ed è l’unico, il più sottile e il più distruttivo degli altri, esile nel suo essere schiacciato nel silenzio eppure deflagrante e sovrano. “Il discorso di cui io parlo non preesiste alla nudità enunciata nell’istante stesso in cui dico «io parlo»; ed esso svanisce nell’istante stesso in cui taccio”11. L’affermazione è preceduta da un baluginare di senso che non può essere tempo-spaziale e se ne lascia dietro un altro parimenti scevro di spazi e cronologie. Pare che questa lingua sappia, nelle sue costitutive taciute, toccare corde esistenziali. Un nulla significativo appare e scompare all’apparire e allo scomparire dell’«io parlo», all’apparire e allo scomparire del detto, forse all’apparire e allo scomparire dell’essere parlante. Continua Foucault: “Ogni possibilità di linguaggio è qui prosciugata dalla transitività in cui esso [l’«io parlo»] si compie. Il deserto lo circonda […]. Sempre che il vuoto in cui si manifesta l’esilità senza contenuto dell’«io parlo» non sia un’apertura assoluta attraverso cui il linguaggio non possa espandersi all’infinito, mentre il soggetto – l’«io» TRA VISIBILE E INVISIBILE 38
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che parla – si frammenta, si disperde e si sparpaglia fino a sparire in questo spazio nudo”12. Ancora si mostra evidente l’ubiquità debordante della lingua sempre in sé e fuori di sé, come «io» che si partorisce per tramite di «parlo» per poi esistervi e in esso modellarsi. Cosa al mondo è capace di rivelare questo segreto equidistante dal sé e dal nonsé? Cosa spia più sfacciatamente dell’«io parlo» il nostro mondo-essere creato-creatore? “Se in effetti il linguaggio risiede unicamente nella sovranità dell’«io parlo», niente avrà più il diritto di porgli un limite – né colui a cui esso si rivolge, né la verità di quel che dice, né i valori o i sistemi rappresentativi che utilizza; in breve, non è più discorso di comunicazione di un senso ma distendersi del linguaggio nella sua bruta essenza, pura esteriorità dispiegata; e il soggetto che parla non è più il responsabile del discorso […] ma piuttosto l’inesistenza nel cui vuoto s’insegue senza tregua l’effondersi indefinito del linguaggio”13. «Io parlo» reagisce col nulla per rivelare nell’inesistenza in cui si costruisce l’immoto remoto dell’io. Foucault osserva come nella visione tradizionale il linguaggio e per estensione la letteratura siano giudicati forze introspettive; ma la loro spinta è piuttosto verso il «fuori». “La parola letteraria si sviluppa a partire da se stessa, formando un reticolato in cui ogni punto, distinto da ogni altro, distanziato anche dai più prossimi, si situa in rapporto a tutti gli altri in uno spazio che al tempo stesso li ospita e li separa”14. È il vuoto la materia aggregante e sostanziale della lingua in cui il soggetto si rivela tanto più chiaramente quanto più dilaniante è la sua dispersione. Il pensiero del fuori è l’io negli spazi vuoti fra le parole, è pure nell’aria a contatto dell’intradosso di un arco, si imprime nel mondo pensante identico agli alberi vaganti dei sistemi nervosi creatori. In certe opere letterarie questa fuoriuscita di interiora è visibile più chiaramente che in altre, così in Madame Edwarda di G. Bataille: apparso per la prima volta nel 1941, venne pubblicato sotto lo pseudonimo di Pierre Angélique con dodici incisioni di Jean Fautrier, pseudonimo di Jean Perdu. Bataille comparve come vero autore solo quattro anni dopo la morte, nel 1966. Il racconto narra di una notte sospesa tra inTRA VISIBILE E INVISIBILE 39
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cubo e visione in cui il protagonista sarà guidato da una giovane prostituta per le vie di Parigi in un continuo oscillare tra stati di incoscienza, di veglia, di allucinazione, di coscienza alterata, di sonno. Nel racconto, il corpo e gli organi genitali sono sempre crudamente illuminati, la loro contorsione trasfigura il pensiero vissuto dai protagonisti e i personaggi sono a tratti fantocci sfregiati nello stiramento della parola. Il carattere pornografico dell’opera costringe l’autore e l’illustratore all’anonimato. Il tabù infranto è però più che la censura dei genitali il capovolgimento del linguaggio parlante, zittito per travalicarne i limiti. Il racconto scala il suo climax per giungere significativamente al silenzio di un sonno muto di gioia morta. L’estremo del sesso prova a farsi materializzazione del raggiungimento della visione – forse, come sempre – solo in simulacro dell’essere. Come Maurice Blanchot nella postfazione al racconto voglio racchiudere il percorso dell’opera fra i due estremi dell’incipit e della chiusa: “All’angolo di una strada, l’angoscia sporca e inebriante, mi disfece (forse per aver visto due furtive prostitute sulla scala del diurno). In momenti come questo dovrei denudarmi, o denudare le prostitute che bramo: il tepore delle carni mi darebbe sollievo” 15 . “Ho finito. Dal sonno che ci lasciò, un poco, sul fondo del taxi, mi svegliai angosciato, per primo… Il resto è ironia, lunga attesa della morte…” 16. L’iter del protagonista è un guado del sonno per uscire alla luce nei luoghi simili alla morte; si parte dal gettare lo sguardo sulle cose e sulle strade per dire, infine, “dal sonno che ci lasciò […] lunga attesa della morte”. Questo percorso non è la vicenda nell’opera, è l’opera stessa. Intendo dire che sono le parole da sole che portano addosso questo risultato iniziatico: si è lo sforzo dell’autore impresso. Questo è il fatto del linguaggio, capace di limitare e proiettare, al di là della sua stessa creazione. Per questo la forza che muove il racconto non è la necessità della storia che non ha alcuna importanza, ma la gravitazione orbitante attorno TRA VISIBILE E INVISIBILE 40
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ai vuoti abissali che costellano la notte del protagonista: “Non faceva freddo, eppure rabbrividivo. […] Un cielo stellato, vuoto e folle, sopra di noi: mi parve di vacillare, ma procedevo”17. Il vuoto è grave e tangibile, si materializza nel senso della città deserta e delle strade il cui intrico e i cui passaggi sono prove iniziatiche di maturazione, consapevolezza appiattita dell’oscuro del sé. “Gemendo sotto la volta ero terrorizzato, ridevo: «Unico tra gli uomini ad attraversare il nulla di quest’arco!»”18. “Gli specchi che rivestivano i muri, e di cui era fatto anche il soffitto, moltiplicavano l’immagine animale di un accoppiamento: al più lieve movimento, i nostri cuori sfiniti si spalancavano sul vuoto in cui l’infinità dei nostri riflessi ci faceva smarrire”19. Il movimento dei corpi attraverso lo specchio del sentirsi e del sentirsi in parole accende la consapevolezza dell’essere: perdizione rivoltata nel ritrovarsi. Qui la parola è una specie di contraltare del corpo, lo fronteggia e nello stesso tempo vi si immerge; quel corpo che è “una cosaorigine, una pietra di paragone, il livello zero dell’orientamento […] è qui per sempre“20 ed è “Come se lo spazio si mettesse a conoscersi da sé”21, e in questo avviene pure come se lo spazio si mettesse a parlarsi e a raccontare per dissezionarsi per recingersi e in quest’atto scoprirsi senza contorni. Mi guardo allo specchio e mi vedo familiare ma estraneo dietro i bulbi oculari. E ancora: “Seppi allora che Lei non aveva mentito, che Lei era DIO. La sua presenza aveva l’inintelligibile semplicità di una pietra: in pieno centro cittadino, avevo la sensazione d’essere di notte in montagna, tra solitudini prive di vita”22. “La mia angoscia è in definitiva l’assoluta sovrana. La mia sovranità morta è sul lastrico. Inafferrabile – attorno a lei un silenzio di tomba – accucciata nell’attesa di qualcosa di terribile – e tuttavia la sua tristezza si fa beffe di tutto”23.
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“
MAI QUAND’ANCHE LANCIATO
IN CIRCOSTANZE ETERNE DAL FONDO DI UN NAUFRAGIO […]”24 Ora non si può dire di parole in senso proprio, nel significato assorbito in narcosi fin dalla nascita: di recinti del significato. “MAI” si dimostra subito, trascina sotto di sé il vuoto che lo precede per sbiancare i segni appresso. Dopo “MAI” è inconcepibile continuare questa lettura dissennata. Che le parole sopravvivano oltre il “MAI” è il fatto della parola illusoria. “MAI” divarica i margini e si vomita di sotto alle parole che lo seguono. Eppure la lettura prosegue e il chi che legge è per sempre accecato dalla truffa del senso. Si è ingoiata all’istante la grata del sueño e la vita procede nella trance. Il fatto compiuto è lo spazio fra le parole, lì giace l’unico, il silenzio inoffeso, puro e compreso, bianco nel suo vuoto, a non infliggere l’abrasione del vivere. L’unica parte della pagina da potersi dire è il largo piano interstiziale non stampato, il resto è tipografia della morte, architettura di Mausolo. Una morte per niente umana – con tutti i suoi pianti – è una morte pura e senza lutto che rivola del nero dell’inchiostro. Queste stampe partecipano in rito funerale: il sentimento del doppio in vita. Nel corpo delle lettere e nell’assurdo fatto di leggerle ancora, ci sono, proprio sono, i testimoni di impossibili colossi di silenzio. Dov’è il caro spazio riempito della logica coerenza, appiglio estremo, che consente di dire e di riconoscersi un’identità? In questa pagina 43 di questo poemetto si distingue il monito rassegnato a saper disegnare il luogo e il suo opposto, l’esistere e il suo contrario, la parola e la sua architettura del non-essere. “MAI” si apre di niente e dopo appena due righe di bianco sospeso “come un fucile sparato, ancora scosso e riarso”25, già guizza di strali in tutte le direzioni dello spazio e del tempo: “
QUAND’ANCHE LANCIATO
IN CIRCOSTANZE ETERNE DAL FONDO DEL NAUFRAGIO […]”26 TRA VISIBILE E INVISIBILE 42
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Figura 1. Stéphane Mallarmé, Da Un tratto di dadi mai abolirà il caso, Ed. Scheiwiller - Playon, Roma 2003, p. 51
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Non è certo un caso: ancora al fondo per rinascersi: “ SIA che
l’Abisso
sbiancato fermo furioso sotto un’inclinazione plani disperatamente d’ala la sua in […]“27 “SIA” è la dimostrazione di un teorema, porta in sé il fardello dell’essere e del suo silenzio, dimostra la tangibilità dell’invisibile. Ormai, con tutto colato a picco, giù dall’abisso, “SIA” si sdoppia bilocato, non riemerge perché il moto non è dato ed è tra creato e creatore, in fondo di superficie. Qual è la tecnica più o meno consapevole per evocare questa Eco prenascitura? Rothko, secondo Martì Arìs e Irving Sandler si serviva dell’”«illusione atmosferica creata dal delicato strato di colore» o del vago contorno delle forme «che le fanno planare fuori dalla tela, inglobando lo spettatore in un alone luminoso»”28. Il senso oscuro potrebbe quindi nascere dall’indefinito e dal non detto ma questa condizione non è sufficiente. Il taciuto o l’inspiegato accompagnano questa terra ignota e paiono rivelarla ma la sua presenza ha la natura di un marchio impresTRA VISIBILE E INVISIBILE 45
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so non dall’essere, bensì dal volere. Nella cancellazione dell’essere incluso (e illuso), nella comprensione della sua inesistenza, ciò che resta è il volere, forse l’husserliano ich kann. Il gesto dittatoriale dell’artista insinua traccia fra le pieghe dell’osservazione ingannata ed è luccichio per gazze ladre di verità. È dunque l’arbitrio necessario del vuoto fra le parole che sospende queste pagine di Mallarmé nel giardino dell’essere. Lo stesso arbitrio con cui io ora e qui decido di emulare in citazione l’ampiezza degli spazi fra le parole. Io ora imprimo il mio volere a questa pagina che sarà dello stesso silenzio. “
sotto un’inclinazione plani disperatamente
d’ala la sua in[…]”29 Oscilla la presenza precipitata e riemersa, la pagina pretende di esistere e inspiegabilmente fa fiorire immagini di tolde rovesciate e di bordi a coperta. Il senso scintillante sembra vedersi nel taciuto e anche nel contraddetto, pare che il sovvertimento del senso concatenato fra le parole ne possa mettere a nudo la natura di ontologia assurda. E allora “l’Abisso” incupito, “furioso”, “sotto” viene scagliato in alto a planare disperatamente, “plani disperatamente”, “d’ala”, “la sua”, “in”, “anticipo ricaduta da un male a spiccare il volo”. Il mare in tempesta e il suo atavico terrore ondeggiato richiamato subdolamente nella violenza di una tempesta di mente. “e coprendo i getti”, “tagliando a filo i balzi”, “molto all’interno riassuma”, “l’ombra sepolta in profondo da questa vela alternativa”. A fondo sul fondo fino in cima all’albero maestro e su col vento gonfio. Il movimento orbitale di cancellazione è paziente e sistematico nel disgregare gli automatismi linguistici del non senso e gli agganci sonori fra le forme verbali che con cura vengono rivoltati e rimossi: “sepolta in profondo”. TRA VISIBILE E INVISIBILE 46
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“ anticipo ricaduta da un male a spiccare il volo e coprendo i getti tagliando a filo i balzi
molto all’interno riassuma l’ombra sepolta in profondo da questa vela alternativa fino a adattare all’inferitura la sua spalancata profondità come lo scafo di una nave che inclina sull’uno o l’altro lato […]”30 Dietro di essi forse si vede l’antisonoro della parola. Ecco, è qui il vuoto disperato che sovrespone le pagine. L’architettura del niente del linguaggio si rivela ed è tutt’uno con le parole figlie. fino a adattare all’inferitura la sua spalancata profondità come lo scafo Queste parole galleggianti su subflutti sono disperate e suicide, galleggianti senza voce, tristemente moribonde svegliate di felice umano nulla. “Indecisa, appena articolata, si sveglia la parola. Non sembra che riesca a orientarsi mai nello spazio umano che va prendendo possesso dell’essere che si sveglia lentamente o istantaneamente. Poiché se il risveglio si compie in un istante lo spazio lo assale come se lo avesse aspettato lì per definirlo, per farli sapere che è un essere umano e basta. Mentre il fluire temporale, in ritardo sempre, rimane aderente all’essere che TRA VISIBILE E INVISIBILE 47
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si desta avvolto nel suo tempo, in un tempo suo che custodisce ancora senza crederlo, il tempo nel quale è stato deposto fiduciosamente”31. “Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni e la nostra vita si chiude in un sonno”32 Tutto è già stato detto da Carmelo Bene: “[…] Mi veleggia, volteggia l’essere frequentato dall’errore del vero sì come soffio asincrono della vita impensata. Ecco, non dico un niente, sto esprimendo in voce e non dico niente, un non dico niente che così risuona. Non dico niente, soffio di vento, divento soffio; importa solamente come suono questo “non dico niente”. Anche se orale è niente fuori da timbro e tono, aria da ascolto emessa da un pensato logico senso? No. È perché nulla, nulla, m’è consentito dire che non sia equivoca volontà intenzionata di questa mia identità vanita. Io sono il vortice insensato della trottola, movimento e la sua negazione. Sono l’anti-umanesimo: Lorenzaccio che decapita le statue, Aguirre che si firma “Il Traditore”, Carmelo Bene perché soggetto alla necessità del nome come rassegnazione al destino. Così come il tutto interdisciplinare mi indisciplina nel degenere estetico mi sono degradato anche a poeta. Ho scritto la voce, troviero d’un poema, ‘l mal de’ fiori, perché leggere e scrivere il soltanto lettore è un fuori tema, è un parvenu di fronte a un foglio sempre più sbiancato. Ho discritto la voce con quella nostalgia che riserviamo alle cose che non sono mai state, da per sempre mancate. Le cose, queste, sole, indimenticabili nello sconcerto degli spettacoli oltre il senso: teatro senza lo spettacolo del senso impossibile, come rigorosa impossibilità del trovare negli eventi di scena laddove si consuma il rifiuto dell’arte inteso come rifiuto dell’umano; soprattutto il rifiuto dell’umano linguaggio nella sua eterna fucina delle forme. Ebbene, negli spettacoli sconcerti ho discritto la voce dell’inorganico, dell’inanimato, dell’amorfo, dal non risuscitato alla smorfia dell’arte lasciandomi possedere dal linguaggio e non disponendone (sì come dato in quasi tutta l’espressiva cartolina del ‘900 poetico nostrano). Ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il discorso. Nessun problema finalmente, un incipit è di per sé la fine, la favoletta biblica relativa alla dannazione caoticoTRA VISIBILE E INVISIBILE 48
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linguistica inflitta alla gentaglia tracotante rea di quell’aver tirato su la torre di Babele. Oltre che falsa e stolida non ha un bel niente di eccezionale; babelica davvero è ogni nostrana erranza linguacciuta nella variazione perpetua di qualsiasi mancato presente in divenire. Siamo quel che ci manca da per sempre. Lo so, mi sa, che il nostro delirare in voce è un differire la morte, ché noi si muore appena abbiamo smesso di parlare, appena abbiamo smesso l’illusione d’essere nel discorso (consultare Sossure ecc.). È strarisaputo che il discorso non appartiene all’essere parlante. Lo so, mi sa, l’essere è il nulla, dunque noi non ci apparteniamo; quando crediamo d’esser noi a dire siamo detti. Nel discorso, l’arroganza volitiva d’ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata e dal momento che non siamo noi i dicenti ad argomentare in voce ciò che ci frulla in mente, così come non sei, puoi dire nulla. Questa mia voce è me attraverso, medium equivoco di un discorso altro dal presupposto virgolettato mio discorso. Il dire è la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato, voce che perciò dice nulla (vedi Carlo Signa a proposito della voce e il fenomeno in Derrida). Si può solo dire nulla, destinazione e destino d’ogni discorso. Ma solo questo nulla è proprio ciò che si dice: la verità del discorso intesa come esperienza stessa del suo errore. Altro non resta che in tutto abbandono lasciarsi comprendere dal discorso senza appunto la nostra volontà di intenzione. Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (è Nietzsche mutuato in un distico da Montale) […]. Non c’è soluzione, perché non basta non essere ignorantissimi, perché è il non essere che è indispensabile. Ma ciò è impossibile se prima non vi siete chiodati qui, nella svuota crapa, che l’i-o, l’io dell’uomo ha creato Dio e non viceversa, che insomma il vostro Signore inquilino del superattico tra le nuvole non ha giammai risposto del proverbiale talentaccio del chi s’è fatto da sé, e per di più dal nulla. Il catechismo dogmatico devozionale (non è teologia), Don Occam il Dottore addusse a prova dell’Iddio esistenza che non si può pensare anche le cose che non esistono. Complimentacci Monsignore, …acci. Già”33. “Nulla esiste, e ammettendo che esista, non potremmo conoscerlo, e se ci fosse possibile conoscerlo, non avremmo alcun modo di comunicarlo. TRA VISIBILE E INVISIBILE 49
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Suona così nei secoli dei secoli il ceffone di Gorgia a quel Parmenide che ha inventato l’essere, identificato con il pensiero. Ho in orrore parola e pensiero, e non soltanto perché mascherato sotto gli sghignazzi, smorfiato l’autoinganno, l’errore, ma parola e pensiero intesi proprio in quanto illustrazioni-immagini, colorati segni di che si veste ogni speculazione linguistica. Questa voce si fa cesura tra parola e cosa, tra linea e forma, tra voce e logos, tra detto e dire, tra attore e ruolo. Questa voce è quanto si sottrae al linguaggio...”34.
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(NOTE) 1 Titolo dedotto dall’omonimo saggio di Michel Foucault, ed. SE, Milano 1998. 2 Ibidem, p. 18. 3 Ibidem. p. 24. 4 Ed. ES, Milano, 2004. 5 Ed. Libri Scheiwiller – Playon, Milano 2003. 6 Gorge Bataille, prefazione a Madame Edwarda, ed. ES, Milano 2004. In nota, p. 17. 7 Gorge Bataille, op. cit., p. 52 8 Michel Foucault, op. cit. 9 ibidem, p. 12. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Ibidem, p. 25. 16 Ibidem, p. 67. 17 Ibidem, p. 38 18 Ibidem, p. 42. 19 Ibidem, p. 37. 20 MP, Husserl e il concetto di natura in Negli specchi dell’Essere, Hestia Edizioni, Como 1993, p. 21. 21 MP, Husserl e il concetto di natura in Negli specchi dell’Essere, Hestia Edizioni, Como 1993, p. 21. 22 Ibidem, p. 41 23 Ibidem, p. 23. 24 Stéphane Mallarmé, Un tratto di dadi mai abolirà il caso, ed. Scheiwiller – Playon, Roma 2003. P. 43. 25 Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, ed Einaudi, Torino 2000. 26 Mallarmé, op. cit. p. 43. 27 Mallarmé, op. cit. p. 44. 28 Carlos Martì Arìs, op. cit. p. 89. 29 Mallarmé, op. cit. p. 44. 30 Mallarmé, op. cit. p. 45. 31 Maria Zambrano, Chiari del bosco, ed. Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 28. 32 Edgar Wind, L’eloquenza dei simboli, ed Adelphi, Milano 1992. 33 Trascrizione di Quattro momenti su tutto il nulla, Momento 1: Il linguaggio. Serie di quattro trasmissioni televisive registrate da Carmelo Bene per la RAI Radio Televisione Italiana. 34 Trascrizione di Quattro momenti su tutto il nulla, Momento 2: Conoscenza/ coscienza. Serie di quattro trasmissioni televisive registrate da Carmelo Bene per la RAI Radio Televisione Italiana. TRA VISIBILE E INVISIBILE 51
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Stéphane Mallarmé, Da Un tratto di dadi mai abolirà il caso, Ed. Scheiwiller - Playon, Roma 2003, p. 45.
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Alberto Giacometti,Palla sospesa,1930-31.Gesso e metallo, 61 x 37 x 35,5 cm. Kunsthaus, Zurigo, Fondazionev Alberto Giacometti. Foto di Walter Drayer.
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TECNOLOGIA DELL’ESSERE La materializzazione fenomenologica dell’invisibile, una ipotesi di trasformazione in elemento costruttivo.
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Giacometti architetto, le architetture nel ventre
Le sculture di Alberto Giacometti possono essere considerate delle particolari architetture, materializzazione delle riflessioni filosofiche dei capitoli precedenti. In esse, il volume, il movimento e la forma sono plasmati con un approccio concreto all’immateriale. Gli oggetti che ci circondano sono investiti delle nostre identità in quanto forgiati sull’esatta matrice della nostra percezione. L’architettura è un veicolo di questo sdoppiamento di identificazione con il mondo esterno, l’opera di Giacometti è tale a tutti gli effetti in quanto supporto in grado di rendere esplicito questo processo. Avendo definito “architetture” delle opere d’arte, è possibile formalizzarne le regole costruttive? Quali sono i materiali di cui si serve questa architettura dell’identità? TRA VISIBILE E INVISIBILE 59
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“Una palla di legno incisa da un solco femmineo e sospesa con una sottile corda di violino al di sopra di una mezzaluna che con uno dei lati ne sfiora la cavità”1. Una “palla solcata da una fenditura che può scivolare su una mezzaluna”2 sospesa a sfiorare un piano rigonfio; è un’opera Alberto Giacometti: Palla sospesa, 1931. Un dispositivo di volume, una gabbia che è costruita di pareti inviolabili e di una struttura metallica piantata nel niente di nulla, qui e pure in altro affondato. Questa macchina di vuoto metallico è un negativo di visione. È solida dove impalpabile, ed esile nei ferri, sull’orlo di rifondersi nelle viscere. È un dispositivo, quest’oggetto di balistica infallibile, che proietta e ricaccia in terra, tutto nel medesimo afflato di mondo. Un architetto si ferma sovente a toccare la superficie di una costruzione a scoprirne il materiale portante. Chi posa le dita su questo motore di spazio ed essere scopre la perfetta concretezza e intelligibilità del nulla intatto. Qui si dice dell’aria in aria irragionevole fatta di oggetto e potente di essere. Qui e qui, l’architettura estrema del fuori – fondata di un plasma irriducibile a elementi – è la costruzione primordiale e indubitabile. Per parlare, per spiegare si è costretti a dire: architettura, non scultura, perché in un oggetto simile a questo si riverbera lo spazio di chi esiste, si tratta di scienza costruttiva. Scienza fondativa e insieme rivelatrice della natura risonante delle cose percepite accordata sulla dominante del percipiente. Cosa fondativa e rivelatrice e dunque, negli ambiti di una rivelazione che ora si sa colonizzazione creativa dei mondi3, una scienza che è fondativa due volte. Questo traliccio è la costruzione pura di un tetto domestico sotto il quale prendere a misurarsi e a descriversi. Da qui in poi, proprio come avviene per una capanna nella savana o nella jungla si può partire per descrivere e per parlare, per popolare di sensi, per circoscrivere recinti: per sdoppiarsi a guardare. L’architettura riverberata del vuoto TRA VISIBILE E INVISIBILE 60
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Alberto Giacometti, Il carro (1950)
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è un punto di partenza pur non essendo propedeutica ed è per natura contemporanea e coestensiva dell’esistenza in vita; è un processo non linearmente consequenziale ma simultaneo, per dire meglio, non è affatto un processo ma un fatto ubiquo. L’architettura del traliccio di Giacometti è la costruzione sovvertita delle regole che realizza ciò che sempre vive nell’implicito camaleonticamente mimetizzato nella visione e che qui è scalzato dal suo sottotraccia. La fatica dell’artista, architetto, è consistita in questo: nel portare alla luce la città coesistente agli abitanti e aprirla ai loro percorsi ricalcandola di cose visibili. Questa definizione si riferisce a una costruzione perfettamente concreta, raccontabile quanto l’ammucchiarsi di mattoni cotti in fornace. La natura del processo di conoscenza4 ci illude che questa sostanza di realtà sia una metafora illusoria di altre concretezze accumulate attorno al corpo ma così non è. Il suo senso potente è di simultanea appartenenza alla vita di chi lo guarda, come dire di chi lo trova rivelato, come dire di chi ne è il creatore5. Condizione necessaria per definire architettura un’arte è che i suoi prodotti siano abitabili. Una casa di bambola è progettabile senza scandalo da un architetto. Di essa un piccolo giocatore può impadronirsi e senza sforzo trascendere le dimensioni per identificarsi con le suppellettili, il piccolo mobilio, i piccoli abitanti. Si tende a distinguere nettamente il gioco dalla «vita vera»6 dimenticando per una amnesia esistenziale che lo sdoppiamento, l’uscire dal corpo, è una attività quotidiana e, anzi, necessaria di qualunque individuo si muova nel mondo. Una volta scovato questo segreto, sembra inspiegabile l’illusione della propria integrità, dell’identità circoscritta, mentre il mondo si svela abitato di tanti doppi quanti sono gli oggetti che lo popolano. Tante paia di occhi identici ai nostri (i miei sono castani) ci guardano da ogni parete, da ogni libro, tavola, sedia, telefono, porta, pilastro, asfalto, giardino, filo d’erba, ragnetto. Ognuno di essi con installata TRA VISIBILE E INVISIBILE 63
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nell’intimo la nostra impalcatura di personalità. Un bambino domina perfettamente quel fenomeno che invece vede gli adulti sopraffatti. L’architettura è l’infrastruttura di questi sdoppiamenti e si fa veicolo dell’estensione dell’io sulle cose. L’architettura di Giacometti trasporta il cinetismo vitale nella sua forma nascosta. Trapassa l’immobilità silenziosa ed è un dispositivo capace di vibrare sensibilmente di ciò che di noi serpeggia sotto l’informe. La sfera crepata sospesa su un prisma deformato è immobile e vibra di un’oscillazione supposta. Di questo movimento, la visione tattile richiama il brivido morboso e stridulo di sesso umido, inesplicato e tagliente. È forse il cinetismo immobile di una sfera sospesa che riverbera limpidamente quell’immoto mobile annodato nei fondi cerebrali. Ecco in che senso si definisce quest’opera di Giacometti un’architettura: un supporto di identificazione con lo spazio che invece che limitarsi al sostegno del processo cinetico di intervento sul nostro habitat suggerisce il moto alle nature immobili e silenziose sul piano inclinato dell’interrogativo. Palla sospesa è un oggetto concreto, innegabilmente visibile e infallibilmente funzionale nel muovere l’informe. L’abbiamo definito architettura, deve dunque essere fatto di un qualche materiale. Si vedono bene il ferro, il gesso, il legno ma questa elencazione è insoddisfacente. Il volume qui è un elemento costruttivo e non un attributo. Il volume è un materiale da costruzione che si costituisce e si fa supporto dell’ich kahn Husserliano, la prova riflessa dell’essere in movimento. Avvalendosi di questa concezione del volume come materiale costruttivo si deve valutare il rigonfiamento del piano che sostiene e insieme è attratto dai due oggetti sospesi e pure il volume tutto delimitato dal traliccio metallico. Un’ipotesi analoga va fatta per la forma: non attributo assegnato a posteriori all’oggetto, ma concreto elemento costitutivo. La sfera sospesa non è un ammasso di atomi equidistanti da un punto TRA VISIBILE E INVISIBILE 64
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detto centro a cui gerarchicamente viene sovrapposto il concetto di sfera ma un’entità-sfera la cui natura sta sullo stesso piano di quella delle sue molecole, che semplicemente esiste. È indistinguibile il momento della generazione del concetto astratto di concretezza da quello della formazione del concetto astratto di sfera. La cosa e il significato sono una pasta modellabile creativamente utilizzando gli stessi strumenti del pensiero materiale. Questo ha fatto Giacometti nel porre una cosa sfera appesa a un cosa filo, li ha plasmati prendendoli per cose pensanti. Accertata la natura materiale di cose come la forma o il volume, non è facile individuare le modalità di utilizzo di questi materiali. Tracciare i limiti del senso ci permette di manipolare i concetti come siamo abituati a fare con le cose. Così, ad esempio, le categorie del simmetrico, del proporzionale, dell’equilibrato – assumendo le sembianze di qualcosa apparentemente indipendente da noi in un modo del tutto simile a quanto avviene per ciò che chiamiamo cose – ci consentono di farsi disporre nel mondo con una facilità che ormai dominiamo fin da quando abbiamo imparato nella caverna a costruire gli utensili. Questo procedimento, pur portando a una certa chiarificazione, non risolve la durezza di manipolazione dei materiali di pensiero. La difficoltà deriva forse dalla contraddittorietà fra il cinetismo vitale del pensiero estruso da sé e l’immobilità dell’essere. Palla sospesa di Giacometti si pone fra questi due estremi conflittuali. Provo a spiegare cosa intendo per cinetismo vitale del pensiero estruso da sé: se, banalmente, le cose materiali sono fatte di atomi, i pensieri saranno neuroni, niente di diverso. Chissà perché immaginiamo i pensieri (una tautologia significativa) come fumetti aleggianti sulle nostre teste. Le cose sono cose. E i pensieri allora? Non sono cose della stessa identica natura? Tanto ci estraniamo da noi stessi da riuscire a pensarci come cose fuori di noi; riusciamo a pensare a noi stessi. L’identità perde per un attimo lo smalto del miracoloso e scopriamo che è la struttura della nostra TRA VISIBILE E INVISIBILE 65
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percezione, necessaria alla vita, a rendere possibile individuare le cose al di fuori del nostro corpo e dare loro un’identità. Il movimento diventa il fattore essenziale dell’esistenza; il pensiero percettivo ci consente il cinetismo vitale perché posiziona le cose in punti lì fuori, sufficientemente lontani da poter essere raggiunti. E così l’esistenza immobile diventa un processo. Si potrebbe dire, viceversa, che il movimento stesso sia pensiero. Ma continuano a esistere cose materiali che sembrano irriducibili a una identificazione fuori di noi all’interno del recinto del significato. Sono cose essenziali il cui richiamo è irresistibile e il cui fascino per la vita è pari a quello del cibo (lo dimostra la potenza di quelle attività che si servono di questi elementi, arte e religione in primis). Sono cose che non sono migrate dal nostro io verso il cosiddetto mondo esterno e che continuano a essere definite come cose dell’intimo. Il marchingegno di Giacometti consente l’incongruente movimento dell’inamovibile perché installato senza distanza. Ancora, nonostante questo tentativo di dissezione non è possibile dire come tali movimenti inconcepibili avvengano. Quali sono le tecniche di impasto di questo materiale pensato? Una regola operativa, come fa la visione oggettiva7, tenta di circoscrivere gli elementi di un’azione invarianti delle soggettività, consentendo la ripetizione di quell’atto indipendentemente dal soggetto che lo compierà. La fondazione di una regola necessita di uno straniamento astratto dalla cosa, si fonda su quel creativo sgretolamento senza memoria che permette di identificare le cose lì fuori. Costruendo invece nell’ambito del pensiero non circoscritto, centrato in sé, la codificazione della regola è impossibile. Per questo l’edificazione dei riverberi dell’essere è sempre un’epifania individuale. Nessun artista è in grado di spiegare o insegnare perché e come le proprie opere siano riconosciute con tanta evidenza. Eppure, qualcosa è possibile fare per imparare a costruire (per costruire TRA VISIBILE E INVISIBILE 66
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ci vuole un architetto) di questi inconcepibili così come è possibile riabilitare chi abbia subito un trauma cerebrale. Non si può insegnare o descrivere la tecnica per muovere gli alluci, i mignoli o le orecchie perché non si è in grado di estraniarsi da ciò che è immobilmente installato nella struttura neurale ma si può mettere in condizione il malato di riscoprire in sé il modo per farlo. Forse, la presa di coscienza dell’essere disgregato sulle cose e la condensazione del pensiero in oggetto materiale possono sbilanciare a sufficienza da riuscirci.
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(NOTE) 1 Salvador Dalì descrive così Palla sospesa di A. Giacometti. Citato da Gérard-Georges Lemaire in Giacometti, Art Dossier n. 154, Firenze 2000. p. 11. 2 Alberto Giacometti così descrive la sua opera: Palla sospesa, 1930-1931. 3 Cfr. MP, La prosa del mondo. 4 Cfr. MP. 5 Cfr. ancora MP, La prosa del mondo. 6 È solo uno degli aspetti della tendenza schematizzante dell’impianto di conoscenza dell’occidente. La conoscenza è diretta alla circoscrizione dei significati, delle attività, delle funzioni e alla loro disposizione a strati attorno a tanti ipotetici esseri: “L’ontologia è lo stile dell’Occidente. Il che equivale a sostenere che un certo stile consuma, in Occidente, le possibilità di dire tutto ciò che tramite esso, può essere detto. Potremmo dire in altri termini che una certa «forma» organizza i limiti del senso del «contenuto» dei saperi occidentali, a patto però che «forma» e «contenuto» siano presi insieme: non solo «forma del contenuto» ma anche «contenuto della forma»; non solo «forma» e «contenuto», ma soprattutto «forma» e «contenuto»” (Claudio Fontana, Ontologia e stile in Negli specchi dell’Essere. Op. cit, p. 169. La «forma» è «contenuto». L’interpretazione più ingenua vede una realtà a strati sovrapposti o forse concentrici. 7 Cfr. il capitolo: Il razionale: l’ideale astrazione. TRA VISIBILE E INVISIBILE 68
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Alberto Giacometti, Piccolo busto su doppio basamento (1940-1941).
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Alberto Giacometti, Testa su basamento (Testa di Silvio), 1944.
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Giacometti tenta gradualmente di infondere alle sue opere lo spessore incosciente della vista al primo sguardo. Nella ricerca di questo punto di osservazione perseguirà la distruzione dei diagrammi interpretativi alla ricerca di una fruizione sintetica dell’opera. L’intento di distruzione creativa è evidente nell’opera “Il carro” che si configura come vera e propria macchina: una speciale tecnologia che porta alla luce la materialità costruttiva di elementi immateriali. L’annullamento dell’astrazione diagrammatica della realtà si contrappone all’esasperazione dei modelli ideali la cui estremizzazione si trasforma in una vera sostituzione del mondo vissuto. Sono emblematici i casi dei campi di sterminio nazista e, mutatis mutandis, del Panopticon di Bentham. Quest’ultimo è occasione per una riflessione sul disegno architettonico e sulla sua natura invero trascendente. Sintesi fra la sfuggente, giacomettiana tecnologia dell’essere e il rigore astratto del razionale è il progetto del Monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei in Europa di Peter Eisenman a Berlino. TRA VISIBILE E INVISIBILE 73
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Le opere di Giacometti, da un certo momento in poi, presero a rimpicciolirsi fino a rischiare la scomparsa. Sembrava che la forza di abrasione del moto dell’artista intorno all’opera fosse difficilmente controllabile. Piccolo busto su doppio basamento (1940-1941), Silvio in piedi (1944), Testa su basamento (testa di Silvio) (1944), si riducono a pochi centimetri su tozzi piedistalli. La ragione di questa diminuzione delle dimensioni era qualcosa di simile alla ricerca di quella speciale visione totale nell’immediatezza inesplicabile del primo sguardo; o forse dell’ultima immagine prima della scomparsa di una figura in allontanamento. Il tentativo impossibile è afferrare la concretezza della cosa insieme con la sua informità. Deve avvenire che sia riconoscibile ciò che la riconoscibilità distrugge. La scultura residuale è il superstite di una battaglia di pensiero alto, in grado di afferrare simultaneamente la cosa e la sua antinomia. Il passo rivoluzionario potrebbe essere imparare finalmente a pensare e a pensarsi contemporaneamente. Riuscire a vedere e a vedersi. Imparare a dominare sinteticamente la distinzione fra il gesto creativo del pensiero e l’atto creativo ordinatore della percezione. La intelligenza del primo sguardo è la intelligenza dei vivi al primo stadio di esistenza, quello in cui si coglie la perturbazione primaria delle identità motrici, perturbazione d’universo. Il motore, Il carro (1950) è un’opera di Giacometti che raffigura una donna in piedi su un carro. La figura della donna è allungata, protesa verso l’alto e insieme in avanti. Il carro è costituito da un solo asse di dimensioni sproporzionate rispetto a quelle della donna. La scultura è una applicazione della tecnologia della distruzione, ha tutte le caratteristiche in essenza di una macchina, ne ha l’aspetto e come una macchina rimane in attesa, serva del suo manovratore. Questo speciale macchinario ha però delle caratteristiche peculiari: la prima è l’immobilità. Il carro rivela insistentemente l’impossibilità strutturale di un funzionamento, il movimento infatti ne provocherebbe la rottura. Si tratta dunque di una macchina che reclama il moto nell’immobilità permanente. Questo oggetto suggerisce una natura speciale del movimento; guardandolo sembra di trovarsi di fronte a un veicolo progettato per muoversi in un luogo dalla fisica TRA VISIBILE E INVISIBILE 74
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sovvertita. In un mondo parallelo un carro così costruito si muove rapido, la sua evidenza pare la prova provata dell’esistenza di uno speciale moto immobile. La seconda caratteristica di questa macchina è dunque il suo stato di forsennato moto peculiare permanente Qui è ancora più esplicito ciò che pure si vedeva bene in Palla sospesa, l’energia cinetica primaria dell’opera è contenuta nell’impossibilità del movimento e dunque nella sua negazione. Ciò che rimane è una tecnologia dell’anelito e un motore di vuoto. La seconda parte della definizione, un motore di vuoto, è un tentativo impossibile di definizione di questo apparato tecnologico della distruzione che assottiglia la figura sul carro e ispessisce parallelamente il peso del suo nulla non dicibile e senza forma. Insisto sulla tecnologia per sottolineare la natura semplice di una speciale materialità costruttiva – a disposizione degli architetti – che vede limpidamente le cose come oggetti coscienti. Questa tecnologia della distruzione è feconda e gioiosa perché è tutta sporca di vita, in essa si vede materia e solo materia non è possibile individuarvi segni, sentimenti, o schemi dispiegati e la sua vista è omnicomprensiva come un primo sguardo. Esiste dunque un ragionare tecnologico (con “tecnologico” intendo un po’ grossolanamente un fare concreto, pratico) immune all’astrazione e alla oggettivazione e questo ragionare produce cose ben visibili. Mi ha sempre impressionato il pensiero che anche per un’opera terribile come il campo di sterminio nazista di Auschwitz sia stata necessaria l’opera di un qualche architetto, progettista di una tecnologia di distruzione precisamente speculare a quella costruita da Giacometti. Ci dev’essere stato il momento della schematizzazione del processo di uccisione di massa e della disposizione sullo stesso piano, all’interno di un unico recinto, delle esigenze della vita e della morte: le baracche dei prigionieri e le fosse comuni. Il progettista deve aver curato la razionalizzazione dei percorsi, le esigenze di sorveglianza, il dimensionamento degli spazi per la morte. I metriquadri delle camere a gas e il loro posizionamento alla giusta distanza dai crematori. Impressiona ugualmente il pensiero TRA VISIBILE E INVISIBILE 75
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del momento della pianificazione delle regole, la formalizzazione delle gerarchie di comando e sociali fra gli apparati militari e fra i prigionieri, ad alcuni dei quali venivano affidate mansioni di gestione delle baracche o di utilità pratica. In questi casi, la vita, la morte, gli uomini sono stati messi, in qualità di elementi, all’interno di un diagramma molto più che organizzativo spinto a un grado tale di astrazione da scalzare la vita stessa per sostituirvisi. Nel caso del progetto di un campo di sterminio nazista è perfettamente evidente ciò che nella luminosa vita quotidiana è difficilmente intuibile e sfuggente: la sovrapposizione mimetica del diagramma razionale sulla realtà. Auschwitz è una tecnologia di distruzione antitetica a quella meravigliosa costruita da Giacometti. Se quest’ultima distrugge il diagramma per essere l’uomo, la prima distrugge l’uomo nel trionfo del diagramma1. Ad Auschwitz, il dolore è misero testimone della vita residuale al progetto di verità assoluta. Di esso è perfettamente possibile generare una materializzazione concreta. È ciò che ha fatto Peter Eisenman a Berlino nella costruzione del monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei in Europa. Il monumento è fatto di 2700 pilastri in cemento di altezza variabile e lato 95 cm x 2,375 m fittamente disposti su una griglia ortogonale. Sulla matrice di progetto del campo di Auschwitz e su quella di tutti i campi di concentramento, si posa la maglia rigorosa del progetto di Eisenman e alla concretezza cadente delle baracche si sovrappongono pesanti steli di memoria del dolore. Nei territori dell’estremo, nel maneggiare la morte, diventa facile da comprendere la concretezza materiale del vuoto e dell’invisibile. Si vede bene finalmente – nell’osservare l’ottimizzazione progettuale di un campo di sterminio – la distinzione tra ciò che la visione colonizzatrice e creativa del mondo è in grado di fare e la materialità sostanziale del silenzio e della sofferenza nelle tonnellate di calcestruzzo distillate da Eisenman. Percorrendo gli interstizi fra le steli si comprende che cose considerate immateriali come la memoria si possano lecitamente plasmare e usare come materiali da costruzione. “In un momento di preveggenza Marcel Proust nella ReTRA VISIBILE E INVISIBILE 76
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Progetto di camera a gas, Auschwitz, Germania, 1943.
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cherche individua due diversi generi di memoria, una nostalgia situata nel passato, con un tocco di sentimentalismo non ricorda le cose com’erano ma come vogliamo ricordarle, e una memoria viva, attiva nel presente e scevra di nostalgia per un passato ricordato. L’Olocausto non si può ricordare con il primo tipo di memoria nostalgica, perché il suo orrore ha per sempre spezzato il legame tra nostalgia e memoria. Ricordare l’Olocausto può essere solo una condizione vitale, in cui il passato rimane attivo nel presente”2. Il tentativo di isolare le metodologie per compiere questo gesto continua a sembrare disperato. Si coglie una estrema consapevolezza nelle parole di Eisenman della consistenza dei sentimenti ma la chiave del gesto concettuale è il suo opposto, l’assenza di coscienza (non sinonimo di incoscienza, di sicuro), ancora, quell’affondo perturbato dell’esistenza sull’inesistenza. Anche Eisenman usa il potere colonizzatore del pensiero linguaggio quando dice: “Il progetto esprime l’instabilità implicita in ciò che sembra essere un sistema, una griglia razionale, e il suo potenziale di dissoluzione nel tempo. Fa pensare che quando un sistema apparentemente razionale e ordinato diventa troppo grande e spropositato per lo scopo cui era destinato, esso perde il contatto con la ragione umana. Inizia quindi a rivelare tutti i turbamenti innati e la tendenza al caos presente in tutti i sistemi di ordine apparente, l’idea che tutti i sistemi chiusi di un ordine chiuso sono destinati a fallire”3. Eisenman piega per i suoi fini i percorsi del ragionamento lineare di tipo linguistico ma il peso del suo progetto si materializza di fatto nello scontro delle ragioni con la loro assenza consistente: “In questo monumento non c’è scopo, non c’è fine, non si tratta di riuscire a entrare o a uscire. La durata dell’esperienza individuale non concede ulteriori comprensioni, dal momento che capire è impossibile”4. Giacometti usa la forma, il volume, la potenzialità cinetica, come elementi materiali della scultura piegati alla inspiegabilità del gesto, così Eisenman fa con il tempo. L’accumulazione del calcestruzzo nelle casseforme imprime nel volume la consistenza temporale delle steli. Lo scarto fra la topografia della base del monumento e la cima dei pilastri TRA VISIBILE E INVISIBILE 79
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è un inscindibile aggregato spazio-temporale. La necessità del gesto progettuale risiede nell’affrontare materiali come il tempo e lo spazio con la sfrontatezza di chi se ne considera proprietario e creatore, non abitante. Eisenman: “Si viene così a creare una divergenza percettiva e concettuale fra la topografia del terreno e il piano superiore delle steli. Questa divergenza denota una differenza di tempo, tra quello che Henri Bergson definisce cronologico, il tempo narrativo e il tempo come durata. La registrazione da parte del monumento di questa differenza ne fa un luogo di perdita e contemplazione, elementi della memoria”5. Anche il progetto di questo monumento si basa sul disegno, guardarne la natura imbrigliata negli esecutivi, nelle sezioni, nei prospetti e nei modelli è la realizzazione del paradosso estremo dei meccanismi di oggettivazione della ragione. La limpidezza del disegno, la sua riproducibilità e la ripetibilità del processo di costruzione sono i testimoni della natura visibile solo di riflesso dell’essere. La purezza nera della linea è la traccia di una onniscienza oggettiva, dello sdoppiamento circolare dell’identità che crea per crearsi. Il mondo “esterno”6 diventa così da continuo a discreto e l’infinitesimo si fa precisamente misurabile: 0,1 mm. La linea 0,1 è insieme definita e definizione: viene tracciata ma nel tracciarsi si fa istantaneamente confine di definizione al di la del quale niente sembra esistere ma che è spesso tramite indispensabile per un salto oltre; esattamente come avviene per la parola. Con il disegno architettonico è dunque perfettamente attuabile ciò che avviene in poesia. Si accostano alle definizioni i sensi del gesto, si estremizza la limitazione per puntare all’essere. La parola della poesia è contraddittoriamente rinchiusa in sé, è l’attitudine mentale del poeta, nel gesto dispotico di accostamento nell’opera, a farne strumento di proiezione al di là di limiti apparentemente intrinseci7. Nel disegno si realizza la divina onniscienza del progettista, nel parallelismo delle linee il punto di osservazione è l’infinito e il rapporto di forza con il mondo è quello del sorvegliante unico del Panopticon verso i prigionieri che lo circondano. Il paradosso è che finché si guarda al disegno, si verifica un capovolgimento ipnotico e subdolo, il sorvegliante/progettista diventa TRA VISIBILE E INVISIBILE 80
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prigioniero del suo mondo disegnato, per l’esattezza, diventa egli stesso il suo mondo disegnato. La via per il fuori di questo anello conchiuso è una vertiginosa consapevolezza, un’inclinazione di pensiero del prigioniero/creatore che lo fa capace di vedere e di vedersi, di delocalizzare la propria posizione e di saper essere in due luoghi in contemporanea: dell’osservato e dell’osservatore, assumendo così la non esistenza di un luogo d’osservazione ma dell’osservazione sola. Questo gesto – nell’inspiegata sublimazione dell’idea nel deserto della linea – rende visibile quelle «tracce» di cui parla Jacques Derrida in Of Grammatology e che Eisenman riassume così: “La traccia è la presenza di un’assenza, una presenza non più nella sua pienezza metafisica e neppure un’assenza in opposizione dialettica alla presenza, ma invece qualcosa che va oltre la dialettica. È più simile a un’assenza non assente. Ma una traccia della memoria non è cosa nuova per l’architettura”8. Le tracce descritte da Derrida sono più evidenti in alcuni casi come il Monumento in questione o la pianta di Campo Marzio di G. B. Piranesi (Eisenman la definisce «una trama di tracce») ma sembrano intrinseche a ogni atto progettuale portato all’estremo. Nel momento del tracciamento delle linee, quando la metafisica del disegno è tesa alla supposta purezza della razionalità le tracce – nel senso di Derrida – diventano sempre più nitidamente visibili. Questo è un passaggio contraddittorio; l’emersione dell’invisibile avviene nell’evaporazione del razionale o nel suo stiramento? Si può osservare come le presenze assenti di cui parla Derrida sembrino risiedere tanto nella ragione al limite dell’ascetismo quanto in informi impulsi espressionisti. Gli assolutismi politici e i fanatismi che li accompagnano fondano il loro manifesto sull’estremizzazione di un impianto razionale talmente spinta da raggiungere l’ascetismo. Si assiste in essi all’invenzione di una verità insieme dominata e dominatrice. Si è già citato il Panopticon di Bentham, “il diagramma di un meccanismo di potere ridotto alla sua forma ideale […]. Un sistema architettonico e ottico puro […] una figura di tecnologia politica”9. Il tendere del disegno architettonico alla rappresentazione oggettiva della realtà ne fa una «realtà sospesa» (Peirce) strettamente TRA VISIBILE E INVISIBILE 81
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2. TECNOLOGIA DELL’ESSERE
imparentata con l’utopia. Il disegno è strumento di potere e insieme di fascinazione magica. Il progetto del Panopticon è infatti svincolato da una funzione specifica, “Bentham lo proponeva per prigioni, manicomi, ospedali, laboratori e scuole”10. Il progetto del Panopticon è profondamente moderno e del moderno rivela la natura astratta, utopica e prepotentemente pervasiva. A partire dall’invenzione della prospettiva, il pensiero ha desiderato essere la vita cosciente non contento di essere semplicemente la vita. Le utopie sono partite da Sforzinda, sono passate per Palladio fino a infangarsi vilmente nei totalitarismi sempre in questo intento. Secondo Giulio Argan, l’architettura di Palladio non si propone di rappresentare lo spazio, ossia di rappresentare la legge naturale, quanto di rappresentare un sistema di logica fabbricazione di valore assoluto disgiunto da ogni significato. Il valore assoluto era l’architettura stessa”11. Palladio è già nel moderno e raggiungerà i livelli più alti lì dove “La distruzione dei rapporti precedenti apporta alle singole forme la qualità di indipendenza e di assoluto. La distruzione determina un […] cambiamento tra soggetto e oggetto. Ora la piattezza della facciata Palladiana è l’opposto della piattezza prospettica della tela. Laddove la precedente architettura cercava di rispecchiare la certezza della natura, l’architettura di Palladio rispecchiava questi interrogativi sullo stato dell’oggetto12”. Mi trovo di fronte alla planimetria del Monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei in Europa, alla sua griglia rigorosa e alla sua modernità inspiegabile. Fin qui, a partire da Giacometti, le forme pensanti sembravano comparire solo dove i diagrammi pensanti non erano presenti. Ho individuato nel plasmare spazio, tempo, forma, pensiero come unica materia indistinta dall’uomo – quest’ultimo indistinto a sua volta dal pensiero – una via per raggiungere quello che Maria Zambrano chiama «chiari del bosco», Merleau-Ponty «invisibile», che io chiamo «limbte», qual è la via dell’Arch. Eisenman? Il pensiero alto domina sincronicamente il proprio sdoppiarsi, nella creazione delle cose fuori del sé, si spinge a prelevare la vibrazione perturbata dell’esistenza in vita per anch’essa cacciar fuori di sé. Nell’opera, per una volta, non ci si vedrà specchiati ma gemelli ermafroditi sessuati-eautò. Forse questo tutti vedono in un’opera quando è opera.
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(NOTE) 1 Si realizza tangibilmente quello che diceva Peirce per cui il diagramma “sopprime la distinzione tra il reale e la copia”. 2 Peter Eisenman, Contropiede, Ed. Skira, Milano 2005. p. 154. 3 Peter Eisenman, Contropiede, Ed. Skira, Milano 2005. p. 152. 4 Ibidem. p. 154. 5 Ibidem. p. 152. 6 Sull’illusione della percezione del mondo esterno di confronti MP, La prosa del mondo. 7 Si confronti a tale proposito Il pensiero del fuori di Michel Foucault. 8 Ibidem. p. 40. 9 Antoni Vidler, Cos’è comunque un diagramma? in Peter Eisenman, Contropiede, Op. cit. p. 22. 10 Antony Vidler, Op. cit. p. 22. 11 G. C. Argan, The Importance of Sanmicheli in the Formation of Palladio in Renaissance Art, ed Creighton Gilbert, harper and Rowe, New York 1973, p. 173. Tratto da Peter Eisenman, The Representation of Doubt: At the Sign of the Sign, in Eisenman Inside Out: Selected Writings 1963-1988, Yale University Press, 2004. 12 Peter Eisenman, The Representation of Doubt: At the Sign of the Sign, in Eisenman Inside Out: Selected Writings 1963-1988, Yale University Press, 2004. TRA VISIBILE E INVISIBILE 83
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Auschwitz Birkenau, Campo di sterminio nazista, diagramma funzionale, 1943.
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Peter Eisenman, Monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei in Europa, Berlino, 1998-2005.
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Peter Eisenman, Monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei in Europa, planimetria. Berlino, 1998-2005.
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IL TERRITORIO DEL LIMBTE Un territorio perfettamente concreto e pienamente tangibile identificato da una parola priva di significato: limbte
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DEL LIMBTE
3. IL TERRITORIO
Il viso di Bacon
L’opera di Francis Bacon mostra tangibilmente il peso dell’invisibile sulle forme riconoscibili; Michel Leiris lo definisce «presenza». Il suo effetto sulla forma è di abrasione sistematica tendente alla cancellazione delle fattezze dei soggetti. Emerge così, dalla piattezza faticosamente esasperata delle tele, una peculiare spazialità dimensionata sulle cavità dello spettatore; questi sentirà riecheggiare nelle opere frammenti della propria identità. TRA VISIBILE E INVISIBILE 93
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IL VISO DI BACON
3. IL TERRITORIO
C’è un’opera di Francis Bacon: Paralytic Child Walking on All Fours, 1961 (Bambino paralitico cammina carponi). Il quadro è diviso in due parti, una, il pavimento su cui si muove la figura del bambino, di colore verde scuro; la parte superiore, che fa da sfondo, di colore nero. Sulla destra si vede quello che sembra parte di un infisso, una portafinestra o una finestra molto grande appoggiata sul pavimento, o forse una porta a vetri. Il corpo del bambino è chiazzato di rosa – pare quello di un animale che abbia perso il pelo o che, peggio, sia stato tosato – e si appoggia su tre degli arti mentre il piede destro si torce nello spasmo tetrapodico. I tratti somatici sono indefiniti, cancellati da una spugna o da un panno bagnato di olio di lino sulla tela. Si distingue solo un’ombra scura in corrispondenza della smorfia sulla bocca, del naso. C’è un’opera di Francis Bacon: Portrait of Isabel Rawsthorn Standing in a Street in Soho, 1967 (Ritratto di Isabel Rawsthorn in una via di Soho). Al centro del quadro si vede la figura di una donna in piedi; vestita di nero, tiene qualcosa nella mano destra, forse una borsa; attorno ai piedi scivola un’ombra, forse l’ombra del vestito. È circondata dal pavimento e dallo sfondo su cui pendono drappi di colore blu, forse le tende dei negozi e la loro proiezione blu circolare. Dietro di lei, passa un’auto, un’ombra e la via, al di là di un traliccio che limita il suo passo. C’è un’opera di Francis Bacon: Franci Studies for Portrait looking left and right, 1964 (Studio per un ritratto da sinistra e da destra). Nel dipinto si vede il viso di una giovane donna con lo sguardo fisso su qualcosa che si trova fuori campo, i dettagli del volto sono indefiniti e il naso, le labbra le orbite non sono che masse ruvide. I capelli biondi segnano un’ombra sul contorno del viso lentigginoso nera come è nero lo sfondo. In Portrait of Isabel Rawsthorn Standing in a Street in Soho, 1967, nulla è riconoscibile e il volto è deformato in una smorfia. I suoi tratti sono distorti e tutto quello che si vede sono le orbite e gli occhi sgranati e il naso chiazzato di luce. Il traliccio esile che ne definisce lo spazio di movimento è insensato e incomprensibile, infisso in uno spazio deforTRA VISIBILE E INVISIBILE 94
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3. IL TERRITORIO
mato, assurdamente ortogonale di geometria non euclidea. Il senso del quadro sta nella gabbia in cui si trova Isabel piantato in uno spazio che è tutt’altro che tale, fra i riflessi e le ombre. C’è una vetrina dietro di lei, sulla destra, che è trasparente e pure riflettente. Attraverso essa si può vedere quella che pare una ruota d’automobile e insieme gli strascichi del movimento di cose dentro e fuori il negozio. Il vestito di Isabel è piatto e stanco, si apre sciatto a far vedere il ginocchio sinistro. Nulla di quello che si vede nel quadro è davvero importante e tutto è distratto, l’unica cosa che pare aver peso è il bianco nell’orbita bovina dell’occhio destro rivolta fuori, dall’altra parte della via, fuori della gabbia insensata. Il quadro di Bacon è la fatica della visione. La fatica strenua è nel calare l’essenziale nel quadro. Per questo tutto ciò che si vede è perfetto e inutile. La figura di Isabel, non solo è isolata e sola, è schiacciata dalla solitudine inerme, nel mezzo della vacuità di tutto ciò che si vede a circondarla: tutto inutile fino a scomparire, fino a essere luminoso e cancellato come accade a tutto ciò che ora le si fa sfondo illuminato dietro al circolo che occupa. “Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. È un altro regno che un’anima abita e custodisce.”1 Così Maria Zambrano inizia il suo Chiari del Bosco. Lo spazio in cui si trova il personaggio principale di questo quadro si trova sul limite di un chiaro del bosco o forse di un nodo; un luogo in cui le regole sono apparentemente sovvertite ma invero intimamente portate alla luce dalle radici. Il cerchio all’interno del quale si trova Isabel Rawsthorne è una figura perfettamente geometrica il cui centro si trova sul suo contorno, precisamente sotto i suoi piedi. Quello che si vede intorno alla persona dipinta è la sua presenza; così Michel Leiris: “Che cosa dunque voglio esattamente dire e che cosa, confusamente, do per scontato quando faccio appello alla parola “presenza” per esprimere ciò che ho provato al tempo in cui conoscevo Francis Bacon esclusivamente attraverso ciò che la sua pittura lascia leggere di lui?”2. Che cosa è talmente evidente da essere scontato in questo e in tutti i TRA VISIBILE E INVISIBILE 95
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3. IL TERRITORIO
quadri di Bacon? Che cosa è tanto appariscente da potere o dover essere invisibile, da poter gridare nel buio del non visto? Dentro il quadro e fuori del quadro. “Implicitamente l’ho già riconosciuto: «presenza», nel senso in cui la intendo, designa qualcosa di più che la sola presenza del quadro nella porzione di spazio in cui mi trovo. È una presenza che mi sembra vivente, del tutto distinta non solo da quella degli oggetti inanimati, ma anche da quella di un essere vivente che potrei avere di fronte”3. Bacon voleva che i suoi quadri fossero sempre esposti sottovetro perché anche gli spettatori, pensava, partecipassero fra i riflessi della fatica della visione. La fatica strenua è nel calare il quadro nell’essenziale e fondarlo su questo invisibile; farvi coesistere tangibilmente il soggetto, l’autore e lo spettatore.“Presenza dell’opera e del suo tema, ma anche presenza lancinante dell’animatore del gioco e mia personale presenza di spettatore, che avvolge l’insieme in ciò che essa ha di assolutamente vivente e immediato, poiché vengo strappato da una troppo abituale neutralità e portato alla coscienza acuta di essere lì, in qualche modo presente a me stesso.”4 Dal silenzio dell’istante ritratto immobile, nella tensione snervata di quella gabbia che lo chiude in se stesso, emerge dunque intero l’occhio che guarda che poi è l’occhio che è, insieme alla carne viva, guardando. “I quadri vengono appesi come specchi, mi riconosco in essi” 5. Per questo è ancora più difficile parlare di Paralytic Child Walking on All Fours, 1961. Lì, il grave niente estratto dalla fatica di Bacon dilaga molle e acido pervasivo di tutto: sul corpo del soggetto centrale, sulla sua schiena rosa inarcata, sullo sfondo nero e sul pavimento verde chiazzato di impronte grandi e di ombre. Anche qui un telaio teso e tagliente, pure questo di legno o di ferro snervato, si fa portatore aggravato del senso dello spazio, pesante del senso e di quello che Leiris si sforza di chiamare presenza. Dietro o davanti il telaio d’infisso c’è forse un corridoio, una corsia d’ospedale o una prigione o un sanatorio, c’è il freddo del pavimento crepato di vecchio sotto il verde tanto più le TRA VISIBILE E INVISIBILE 96
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3. IL TERRITORIO
crepe sono invisibili. Il bambino paralitico emerge dal nero di sfondo, pure questo a copertura del bianco probabile di un muro d’ospedale, e a guardarlo pare prodotto vomitato dal nero con un piede perno che è solo supposto appoggiato sul pavimento ma che forse è invischiato nell’ombra dietro al palco. È duro dire e guardare questo oscuro perché se abbiamo scoperto che nell’ombra del guardare c’è la luce di chi guarda, l’ammissione riflessiva è accidentata e bruciante. Sembra ustionata la schiena e la testa del bambino e così pure la sua smorfia ferita dalla colonna di nulla violento interposto tra noi e la sua faccia. Ancora, è perfettamente tangibile e oggettiva questa presenza: “Ciò che Bacon ha di particolare è che la sua presenza – lo si voglia o no – salta agli occhi e che l’opera porta le impronte del suo agire, un po’ come la carne di una persona conserva le cicatrici di un incidente o di un’aggressione. Aggressione, parrebbe, contro il modello sottoposto a questo trattamento spietato e aggressione contro lo spettatore, che facilmente giudicherà mostruose queste figure che potrebbero credere sorprese nella convulsione di un attimo estremo o ridotte da qualche catastrofe allo stato di groviglio di muscoli.”6 Questo sforzo distruttivo non è predilezione per l’orrido quanto inevitabile conseguenza dello sguardo di verità sulla realtà. “Sembrerebbe che, salvo poche eccezioni, il desiderio di toccare il fondo stesso del reale spinga Bacon, in un modo o nell’altro fino ai limiti del tollerabile e che quando si applica a un tema apparentemente anodino […] sia inevitabile che il parossismo venga introdotto almeno nell’esecuzione, come se l’atto di dipingere procedesse necessariamente da una specie di esasperazione, presente o meno in ciò che è preso per tema, e come se, non potendo la realtà della vita essere afferrata che in forma urlante, urlante di verità si potrebbe dire, questo urlo, se non generato dalla cosa stessa, dovesse essere quello dell’artista posseduto dalla furia di afferrare.”7 Lo spazio di Bacon è sempre presente di questa natura intangibile e insieme di ineludibile evidenza; sempre, anche dove la terza dimensione appare schiacciata o eliminata, nel lavorio di cancellazione che segna TRA VISIBILE E INVISIBILE 97
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a gesti rapidi e senza remora le fattezze dei ritratti. E così, in Franci Studies for Portrait looking left and right, 1964, lo schiacciamento stirato della tridimensionalità del volto non intacca e non cancella l’aura di senso che aleggia nello spazio del volto. Parrebbe anzi che proprio il peso di questo oscuro abbia pestato la concretezza dei tratti per appropriarsi e saturare l’aria a contatto delle gote, del naso, delle orbite, delle labbra, sulla fronte. Cosi, d’accordo con Caroli: “[Bacon] trasforma la scena […] in una gabbia priva di aria. Lo spazio prospettico ha subito una violenta contrazione: da centrifugo è divenuto centripeto. Sempre pronto a impadronirsi del prezioso «Diamante riposto nelle profondità», il pittore […] posa il proprio sguardo spietato sul viso.” […] di cui “rimane solo una traccia, l’impronta di un’assenza.”8 È l’assenza misurata dello spazio tridimensionale che rivela con impudica evidenza l’essere del vero e, ancora, l’essere di chi guarda mischiato con quello del guardato. Entrambi i soggetti si perdono e si sfaldano. La cancellazione del ritratto si vede nell’impasto sulla tela, il supposto soggetto guardante sobbalza impercettibile in inosservabili istanti immisurati. Resiste sempre a questa azione rivelatrice attraverso la distruzione, la nettezza dello sfondo. È così anche in quest’opera dove il regno delle ombre sembra fra i pochi a sopravvivere all’abrasione. Si salva l’ombra netta dei capelli e l’ombra del collo che si appropria del profilo, un ciuffo biondo, nero sulla fronte, il labbro inferiore proiettato di nero sul mento. Bacon lo sa bene: “Riprodurre non il fatto nella sua semplicità, ma tenendo conto dei suoi diversi livelli, in modo da toccare nuove aree di sensazioni che conducano a un senso più profondo della realtà dell’immagine […] un modo veramente nuovo di intrappolare la realtà in qualcosa di assolutamente arbitrario.”9 Bacon sente perfettamente tangibile l’essenza sempre misterica dell’essere, il fatto che questa consapevolezza arrivi a condensarsi esplicitamente in definizione ne è la conferma, eppure il peso delle sue parole non è che pallido simulacro dell’evidenza dell’opera.
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3. IL TERRITORIO
(NOTE) 1 Maria Zambrano, Chiari del bosco, ed. Bruno Mondadori, Milano 2004. p. 11.z 2 Michel Leiris, Francis Bacon, ed. Abscondita, Milano 2001. p. 13. 3 Ibidem, p. 14 4 Ibidem. 5 Oti Aicher in Guglielmo di Occam, Il rischio di pensare modernamente, Fabbri Editori, Milano 1987. 6 Leiris, op. cit. p. 16. 7 Ibidem. 8 Flavio Caroli, l’Anima e il Volto, Ritratto e fisiognomica da Leonardo a Bacon, ed. Electa, Milano 1998. p. 612. 9 Francis Bacon, La brutalità delle cose, trad. it., Milano 1991, p. 139. Citato da Flavio Caroli in op. cit. ibidem. TRA VISIBILE E INVISIBILE 99
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Francis Bacon, Portrait of Isabel Rawsthorne Standing, 1969.
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Francis Bacon, Paralityc child walking on all fours, 1964.
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Francis Bacon, Franci Studies for portrait looking left and right, 1964.
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L’apparente piattezza bidimensionale dell’opera di Mark Rothko consente di scoprire la natura interiore dello spazio. L’identificazione con il mondo esterno teorizzata da Maurice Merleau-Ponty trova qui una realizzazione ben visibile. Nella Rothko Chapel di Houston, Texas, questa spazialità interiore trova una applicazione architettonica: nella semplice sacralità del volume e nel fronteggiarsi ieratico delle grandi opere alle pareti. TRA VISIBILE E INVISIBILE 107
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TRIDIMENSIONALE
3. IL TERRITORIO
Mark Rothko: “Fu con estrema riluttanza che mi resi conto di come la figura non fosse più utile ai miei scopi. […] Venne un momento in cui nessuno di noi riusciva più a utilizzare la figura senza mutilarla” 1. C’è un’opera di Mark Rothko: Black on Grey, 1969. Il quadro è diviso in due parti, quella inferiore sommariamente grigia, quella superiore intensamente nera. È perfettamente inutile indugiare nella descrizione e dire se nella parte grigia si possa vedere il lavorio della pittura, se in essa siano distinguibili chiazze o segni, aree di colore più chiaro o di colore più scuro, se in essa si possano cogliere ombre o tratti, graffi o gesti. Ancora meno utile è soffermarsi sulla qualità del nero nella parte superiore della tela, sottolineare o meno se il colore sia uniforme o cangiante, se sia opaco o lucido. Il punto di congiunzione tra le due aree di colore è vagamente sfumato e segnato dal passaggio sicuro e orizzontale di un pennello a setole grosse. Non c’è altro, non c’è forma, non c’è spazio sulla tela, c’è appena il dipingere, c’è la pittura. Il lavoro di abrasione che mutilava le figure di Bacon qui giunge a fine corsa e la figura è schiacciata dal peso insostenuto della stessa assenza che calpesta il viso di Bacon. Si erge una pesante colonna di senso non visto fra la tela e l’osservatore. Credo che non si possa parlare di distinzione tra osservatore e osservato, la differenza fra soggetto e oggetto non è mai stata, la distanza fra i due supposti elementi è precipitata nella massa di pittura. “Vedere, parlare, anche pensare […] non appena si distingue assolutamente il pensare dal parlare si è già in regime di riflessione”.2 Nell’opera di Rothko non esiste l’astrazione sintattica della pittura, la lingua pittorica è stata atrocemente evirata; da questa dolorosa estirpazione emerge forte lo strato pre-riflessivo e antilineare dell’abisso fuso di spazio contenente opere e operatori in un vertiginoso indistinto gravemente concreto. “In ogni caso, la rappresentazione di questi miti nei nostri dipinti deve avvenire alle nostre condizioni, che sono contemporaneamente più primitive e più moderne dei miti stessi. Più primitive perché ci inteTRA VISIBILE E INVISIBILE 108
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3. IL TERRITORIO
ressano le radici ataviche e primordiali dell’idea […]. Più moderne, perché vogliamo restituire il senso di quei miti attraverso la nostra esperienza”.3Ancora si ribadisce quanto questo territorio dell’assenza, l’opaco dell’invisibile, sia precisamente concreto per Rothko. E Anche qui, come in Bacon, l’opera distruttiva è tanto più forte quanto bruciante è la necessità dell’autore di mostrare il vero. Avviene che in un procedere perfettamente equilibrato e simultaneo di distruzione creativa, creazione distruttiva, il concetto stesso di direzione o di volontà o di essere e del suo opposto si disfanno per lasciare il grave inconsistente dell’opera: Nero su Grigio, 1969. “Accetto la realtà materiale del mondo e la sostanza delle cose. Mi limito a estendere la portata di questa realtà, arricchendola di elementi tratti dall’esperienza dell’ambiente a noi più familiare. Insisto sulla parità dell’esistenza del mondo generato dalla mente umana e del mondo generato da Dio al di fuori di essa. Se ho esitato a usare oggetti quotidiani è perché mi rifiuto di mutilarne l’apparenza a beneficio di un’azione che non possono più svolgere, o per la quale forse non sono stati concepiti”.4 Una posizione, questa, di pacata ragionevolezza, pienamente consapevole della necessità di trovare la strada dell’assenza e del tentativo di eliminare ogni presupposto oggettivo al proprio fare. “Ma avviene nel nostro tempo un fatto strano. [...] È l’istante in cui l’arte europea dai diversi luoghi presenta il raggelante aspetto della distruzione delle forme. [...] Anche la poesia lo verifica; e all’interno della poesia un certo filone che silenziosamente giunge alla distruzione in modo più attivo e violento di quell’altro che urla. [...] Era evidente e sembrava irrefrenabile una volontà che abbracciava tutte le arti e dunque non poteva provenire da esigenze estetiche.”5 Sembra essere avvenuto un potente rigurgito di silenzio, tolta la maschera della metafisica occidentale, una nuova materia tutt’altro che mistica spinge per essere mostrata. La rappresentazione di questo mutismo concreto e inconoscibile è profondamente paradossale, incredibiTRA VISIBILE E INVISIBILE 109
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le quanto la coscienza. Perché un’essenza immobile come il sentimento dell’arte necessita di rappresentazione? E la domanda più sconvolgente: è pensabile la rappresentazione – cioè il mostrare in un luogo qualcosa che sta in un altro luogo – di una condizione profonda dell’esistenza senza tempo e senza spazio? Le ragioni per cui l’oscuro necessiti gravemente di raffigurazione affiorano vaghe sulla superficie della natura astratta di qualunque materiale rappresentazione. Questa spiegazione si chiude criptica. Parrebbe che l’atto del pensare fosse sempre in due passi: epifania à impronta, dove quest’ultima è tanto la cornice della parola quanto quella della tela. Accade che, messa da parte la platonica matrice razionale che forma di sé e divinamente crea il mondo, il silenzio senza tempo si apre la strada dell’emersione alla coscienza e si fa Black on Grey, 1969, o Red on Maroon, 1959, o lo spazio vuoto della Rothko Chapel, a Houston, Texas. Più radicalmente si potrebbe pensare che non ci sia alcuno scostamento tra l’opera d’arte e l’arte e che la prima non rimandi affatto alla seconda ma che piuttosto che la prima sia la seconda. Ma qui sfioriamo la teologia. “Niente faceva più orrore a Rothko che il sospetto che la sua pittura potesse essere scambiata per un esercizio decorativo, un divertimento basato sull’uso virtuoso del colore. Per questo motivo, non si stancò mai di avvertire che la sua opera rifletteva un contenuto che andava molto al di là dell’ambito puramente formale, un contenuto che allude al mondo della mitologia e al paesaggio naturale in cui questa si svolge: la tragedia”6. Il mondo della mitologia e il paesaggio naturale esistenti possono essere un unicum nell’opera. La realizzazione di questa coincidenza si traduce nel significato intimo dello spazio, emanazione della tela. Può succedere anche che questo volume soffiato possa essere racchiuso in un recinto come avviene nella Rothko Chapel di Houston. Lì, le grandi pitture si fronteggiano su tutti i lati sfidandosi amorevolmente, diffondendosi osmoticamente verso la colonna d’aria limitata dal soffitto; lo spazio religioso della cappella è precisamente generato o forse rivelato dallo spazio concreto delle opere. TRA VISIBILE E INVISIBILE 110
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“La volontà, sempre presente in Rothko, di non limitare la sua pittura alla stretta superficie della tela, ma di produrre una spazialità in cui lo spettatore si veda immerso indica ancora il tentativo di rottura dell’omogeneità e neutralità dello spazio profano”7. Qui lo “spazio profano” è messo in contrapposizione con lo spazio sacro (sacro, non religioso) come se quest’ultimo possa essere l’unico di natura effettivamente tridimensionale, come se l’asse zeta dello spazio cartesiano fosse in effetti misero orpello del piano xy incapace in sé di dare tridimensionalità avvolgente all’esistenza. Lo spazio sacro della Rothko Chapel è quello di una potente e primordiale religiosità della natura e del mito, una religione dell’uomo e della pienezza della percezione, del pensiero. “Come dimostra l’opera di Rothko, la volontà di trascendenza che un’opera d’arte può contenere, proviene dalla manipolazione di quegli elementi che appartengono in pieno all’esperienza umana”8. Mi domando se l’opera o l’architettura siano portatori di questo mistero o se siano reagente capace di rivelarne la presenza. La speculazione perde significato nell’annullamento della distinzione fra cose pensate e mondo. Immaginare gli spiritellli del vero aleggianti nello spazio delle vite è attribuirgli proprietà peculiari solo della nostra visione e cioè del nostro pensiero. Guardando agli oggetti baciati dalle radiazioni luminose, nel contrasto dei colori e dei chiaroscuri ne disegniamo i contorni e gli diamo un’identità ingenua capace di esistere in sé. “Così il reale diviene correlato del pensiero, e, all’interno del medesimo ambito, l’immaginario è la ristretta cerchia degli oggetti di pensiero pensati a metà, dei semi-oggetti o fantasmi che non hanno nessuna consistenza, nessun luogo proprio, scomparendo al sole del pensiero come vapori del mattino, e che sono solo un sottile strato di impensato fra il pensiero e ciò che esso pensa”9. Alla luce di questo, il senso dell’avvolgente spazio sacro fin qui delineato non si proietta più fuori dell’opera, dentro l’architettura, intorno all’osservatore ma acquista significato riflessivo e chiuso in se stesso. Si solleva immobile, macigno pensato, per calarsi a forza dentro l’uomo. TRA VISIBILE E INVISIBILE 111
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La grandezza delle opere che inducono in questo capogiro, è forse nell’epifania rivelatrice della natura interiore dello spazio. Mi chiedo ancora: perché la natura immobile e introversa dello spazio avrebbe bisogno di venire espressa nell’opera d’arte o nell’architettura? Perché Rothko sottopone una natura sentita perfetta (nell’accezione etimologica di conclusa) alla traslazione necessaria alla visione? Si potrebbe ammettere che nella sua trasformazione in oggetto tangibile, la genesi dell’opera d’arte segua percorsi grossolanamente analoghi a quelli del logos oggettivante e così una risposta sui motivi di Rothko potrebbe essere la necessità di comunicazione della scoperta. “Il dipinto non può vivere nell’isolamento. Ha bisogno dello sguardo di un osservatore sensibile per potersi ridestare e sviluppare. Senza quello sguardo il dipinto muore. Ogni volta che ci si congeda da un’opera e la si consegna al mondo si compie un gesto rischioso e spietato. Quante volte il nostro dipinto sarà irrimediabilmente offeso dallo sguardo volgare o crudele di coloro che vogliono riempire l’intero universo della loro meschinità, della loro impotenza!”10 Quest’idea apre orizzonti amplissimi. La forza propulsiva del moto di razionalizzazione e sistematizzazione dell’esperienza potrebbe nascere da un’istintiva propensione sociale, dalla necessità di spianare un territorio comune
di costruzione. La sensazione pura dell’esisten-
za porterebbe probabilmente alla pienezza di solipsismo senza moto. Un’esigenza forse pratica, forse di istintiva pulsione aggregativa erige l’impalcatura del razionale. L’invenzione dell’alfabeto non ne è che un aspetto e non stupisce che questo processo si sia alimentato nella socialità democratica della Grecia classica e non nella piramidale società orientale, rimasta ideografica. La limpida definizione di uno spazio architettonico (fino al sommo dello spazio del Partenone) si spiega a un livello profondo come condizione necessaria alla percezione comune e comunicabile dell’universo interiore e della sua creazione: il mondo. La funzionalità razionale è, prima che esigenza dell’espletamento di attività pratiche necessarie alla sopravvivenza sulla terra, invenzione di un sistema di profonda TRA VISIBILE E INVISIBILE 112
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Mark Rothko, Black on Grey, 1969.
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Mark Rothko, Trittico per la Rothko Chapel, Houston, Texas, 1971.
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Mark Rothko, Rothko Chapel, Houston, Texas, 1971.
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comunicazione esperienziale, un funzionalismo esistenziale su cui si innesta con identiche proporzioni quello pratico, più facilmente visibile. Il funzionalismo architettonico, basato su questo esteriore livello di significato si svuota di validità essendo l’amplificazione pedissequa di un aspetto secondario dell’inclinazione oggettivante del pensiero occidentale investita di valore assoluto. La pratica razionale assunta a mondo in sé svanisce di fronte all’immobile verità riflessiva dell’arte. Ma forse non è tutto qui. Il movimento intorno all’opera d’arte è di natura fortemente a-causale e pure se la sua stessa esistenza sulla tela testimonia un’abbozzata analogia con il procedere lineare del logos la sua natura rimane priva di causa. Il silenzio visibile dell’opera di Rothko è davvero una traslazione rispetto all’essenza sentita dall’artista? La comunicazione dell’oscuro d’arte necessita di uno spostamento di traduzione? La superficie riflessiva della tela non rimanda a chi guarda o a chi dipinge, essa è chi guarda o chi dipinge. “Le sue astrazioni si convertono in una specie di scena in cui lo spettatore diventa attore del suo io solitario”11. Non esiste sequenza: essenzaàtraduzione perché se così fosse dovrebbe esistere un tempo dell’opera fatto di momenti, almeno due. Se è pur vero, come dice Martì Arìs, che “[All’arte di Rothko] spetta il compito di definire le basi della comprensione rituale della realtà che, nella cultura tradizionale, è attribuita ai comportamenti religiosi”12 e che dunque questa funzioni, produca effetti a partire da cause, di essa si ravvisa prepotente la natura di pensiero motore immoto.
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(NOTE) 1 Mark Rothko, dichiarazione tratta dagli appunti presi da Dore Ashton a una conferenza tenuta da Rothko al Pratt Institute di Brooklyn il 27 ottobre 1958. La dichiarazione fu riportata nell’articolo di Dore Ashton, Art: Lecture by Rothko, Painter Dissociates himself from «Abstract Expressionist» Movement, apparso su «The New York Times», 31 ottobre 1958, p. 26. Citazione tratta da: Mark Rothko, Scritti, a cura di Alessandra Salvini, Abscondita, Milano 2002. 2 MP, op. cit. p. 147. 3 Mark Rothko, Il ritratto dell’artista moderno, trascrizione dattiloscritta da una conversazione radiofonica su Radio WNYC, 13 ottobre 1943. 4 Mark Rothko, The Romantics Were Prompted, testo pubblicato in «Possibilities», n. I, inverno 1947-48, p. 84. Numero unico della rivista artistica e letteraria diretta da Robert Motherwell, Harold Rosemberg, Pierre Chareau e John Cage. 5 Maria Zambrano, L’agonia dell’Europa, ed. Marsilio, Milano 1999. p. 96. 6 Carlos Martì Arìs, Silenzi eloquenti, Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2002. P. 83. 7 Ibidem, p. 85. 8 Ibidem, p. 87. 9 MP, op. cit., p. 55 10 Mark Rothko, in The Tiger’s Eye, n. 2, 1947, p. 44, in Mark Rothko, Scritti, ed. Abscondita, Milano 2002. 11 Irving Sandler, Le triomphe de l’art americain, vol. 1: L’expressionnisme abstrait, New York 1970, Paris 1990. 12 Carlos Martì Arìs, op. cit. p. 87. TRA VISIBILE E INVISIBILE 120
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Progetto di torre e faro segnalatore su isola immaginaria
Ho immaginato che tre pietre di lava raccolte su una spiaggia in Sicilia fossero i modelli in scala 1:5000 di altrettante isole. Le ho rilevate e su una di esse ho progettato un faro di segnalazione per la navigazione e la casa del guardiano.I temi portanti del progetto sono il silenzio e il limite. Il faro è rivolto verso il silenzio oscuro della navigazione in mare aperto. Il faro è costruito sul finire della terra, è l’ultimo avamposto di luce di fronte al buio di notte. La casa del guardiano è costruita separatamente dalla torre del faro nella ricerca di una funzionalismo essenziale. Le due forme sono antitetiche come antitetiche sono le loro essenze: il faro si erge per essere visto, la casa del guardiano si arrocca per vedere. La massa della casa del guardiano è costellata da feritoie oscure che ne interrompono la compattezza nell’aumentarne le superfici buie. La torre di guardia è un guscio di cemento armato pigmentato di rosso. All’interno, i solai in ferro sono appoggiati a tre setti in cemento armato solidali con il guscio esterno.Accompagna il progetto vero e proprio un libro rilegato su entrambi i lati, emblema del silenzio. TRA VISIBILE E INVISIBILE 125
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore — sezione AA'
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore — sezione AA'
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore — sezione BB'
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore — Piano terra
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore —Primo piano
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore —Secondo piano
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Davide Vizzini — Torre e faro segnalatore
Sono di vedetta stasera. Con il piantone abbiamo tirato a sorte ed è toccato a me rimanere sveglio a guardare il buio con i suoi movimenti e i suoi imbrogli. Il fucile non mi pesa e nemmeno il freddo, ho messo due paia di calze spinose sotto gli scarponi e una sciarpa sotto il bavero del cappotto, i guanti con le mezze dita per stare sul grilletto e due maglie di lana sotto la giacca. Per il freddo e la noia basta questo ma rimane di dover stare svegli senza ragione a guardare nel buio senza abbassare lo sguardo, bisogna guardare fisso negli occhi il nero e se cedi il caporale si ricorda presto di te al momento di assegnare altri sguardi intorno notturni. Il percorso di vedetta non è lungo, gira intorno ai terrazzi e puoi sostare ogni sei giri sotto al cornicione nell’illusione che lì l’umido smetta di gelarsi sulla barba. Dormono tutti tranne le altre guardie, all’arsenale e alla polveriera, ma quassù sono il solo a stare in alto in vista del nemico oltremare. Non ho detto che dal nero proviene forte e freddo il rumore delle onde del mare, è l’unico segno che il nero non sia del tutto schiacciato sulle labbra o la fronte o appena oltre la lanterna che pende dal cornicione. Il vento e il rumore vengono contro il fucile e io li spartisco nella ronda. Girare intorno è ipnotico e il senso dell’attesa riempie per intero i pensieri. Ora mi sono fermato, il fucile in una mano a sfiorare la gronda, e guardo qui sopra il mio naso nel nero, se sia una folata di freddo o un alito gelido non saprei ma punto il fucile in avanti e dico deciso l’ “halt olà!”. Pianto i piedi, imbraccio e traguardo il mirino, armo il caricatore e ripeto disperato: “halt olà!”. Ora dovrei sparare un colpo in aria, ricaricare e ripetere l’halt prima di uccidere. Ma il codice militare mi consente di uccidere subito in caso di concreta e immediata minaccia della sicurezza dell’installazione. Il freddo è tutt’uno con il cappotto e ricopre di brina le cuciture che ora scricchiolano alla mia tensione disciolta. Sparo al buio e al nero, al freddo e al mare, che si sfilino, inanellati com’erano alla canna del fucile che ora brucia e sputa fumo acre e polvere da sparo. Io avevo detto “ferma”, “fermati, immobile! Non andare né avanti né indietro, fermati, rientra nel nero o ti uccido. Fermati e ricacciati dietro al nero, rimani immobile nel luogo più cupo nel t senza frazioni. Zitta, ti sparo, morirai perché hai preteso essere; notte scellerata senza tempo, emersa dagli inferi, ardita fino all’insanguinarti inflitta la mia baionetta.
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APPENDICE Sinonimi: antologia del visibile e dell’invisibile
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5. SINONIMI
Sinonimi: antologia del visibile e dell’invisibile
In questa sezione viene presentata una raccolta antologica di testi filosofici, letterari, artistici e architettonici sui temi del presente lavoro. La selezione, senza troppo rigore, è stata fatta nel tentativo di evidenziare l’esistenza di un filo conduttore negli scritti di molti autori, provenienti da ambiti disciplinari diversi, che si sono cimentati nella descrizione dell’invisibile. Si scoprirà che le differenze espressive negli scritti presentati sono frutto dalle difficoltà di definizione di una materia osservabile solo di riflesso; come scriveva Maurice Merlau-Ponty: «Negli specchi dell’essere». TRA VISIBILE E INVISIBILE 165
5. SINONIMI
• Scrivere parole Che bisogno avete di parlare? Mi svegliai completamente. Ciò che resta invece è la nudità della parola scrivere, simile all’esibizione febbrile di quello che fu per una notte, e per sempre ormai, Madame Edwarda. Bisogna che vi spieghi chiaramente le cose, le dissi. Fino all’ultimo momento sarò tentato di aggiungere una parola a ciò che è stato detto. Ma perché una parola dovrebbe essere l’ultima? L’ultima parola non è più una parola e, tuttavia, non è l’inizio di un’altra cosa. Per condurre correttamente le vostre osservazioni, vi chiedo dunque di ricordare questo: l’ultima parola non può essere una parola, né l’assenza di parola, né altro che una parola. Se mi interrompo balbettando, dovrò renderne conto al sonno, mi sveglierò e tutto dovrà ricominciare. Vi istruirò su questo edificio in cui siete entrato per passatempo. È l’ultima torre rimasta. Non deve cadere in rovina come le altre. Soggiornatevi, se volete, ma abbandonate la speranza di vederla crollare su di voi all’ultimo istante. Avvertii il gelo delle sue parole. — Siete il proprietario della torre, mormorai. È naturale che la crediate indistruttibile e non ne prevediate la caduta. Ma io non possiedo niente. — Se riuscite a resistere fino al canto del gallo, disse, alzando la voce, vedrete che sono l’Onnipotente. Sentendo quelle parole, mi misi a ridere, ma quella risata mi tolse le ultime forze. Come potevo essere così debole e riuscire a parlare? Che debolezza! Che stanchezza! Ero già troppo debole per morire, lo sapevo. Ma lui rassicurò con la sua tranquillità e, quando il crollo della torre li precipitò all’esterno, i tre caddero, senza dire una parola. Maurice Blanchot, L’eterna ripetizione • Forsennare Non so se scrivo in un francese intelligibile. «Forsennare il soggettile (forcener le subjectile)» è ancora francese? Forsennato, questa parola che avevo voglia di lasciare furtivamente, soggettilmente, che si scomponesse in for, fort, force, fors e nato, di lasciare che vi si incubassero, se non addirittura che vi nascessero in soggiacenza tutte le parole in or, hors, sort, la credevo limitata al suo utilizzo aggettivo di participio passato. L’infinito mi pareva escluso, precluso (forclos) appunto, e credevo di inventarlo per le necessità di una causa che esigeva alcune forzature della lingua. Ora, non è affatto vero, TRA VISIBILE E INVISIBILE 166
5. SINONIMI
forsennare esiste, anche se il suo uso rimane raro e antico. Ma soltanto in forma intransitiva. In francese non si può forsennare un soggettile senza contemporaneamente forzare la grammatica della parola. La forsenneria o il forsennamento, l’atto o lo stato del forsennato consistono semplicemente, e intransitivamente, nel forsennare o nel forsennarsi, nel perdere la ragione, più precisamente il senno, nell’essere fuori di senno (fors e sen). L’etimologia del Littrè in questo caso sembra affidabile: «Provenzale forcenat; italiano forsennato; dal latino foris, fuori, e dal tedesco Sinn, senno: fuori di senno. L’ortografia forcené per una c è contraria all’etimologia ed errata; non è nemmeno sostenuta dall’uso antico, deriva unicamente da un’infelice confusione con la parola fo rce, e sarebbe meglio scrivere forsené» Soggettile Un soggettile non è un soggetto, ancor meno il soggettivo, e non è nemmeno l’oggetto, ma appunto il che cosa (quoi) e la questione del «che cosa (quoi)» conserva un senso per ciò che si tiene fra questo o quello, qualunque cosa esso sia? La mediazione di un soggettile: in questo affare di disegno a mano, in questa manovra o in questi maneggi, ecco forse ciò che importa. Rinunciamo in primo luogo a trovarci davanti, di fronte a pittogrammi che non saranno mai degli og-getti presenti per noi, ne tanto meno dei soggetti. Non descriveremo dei quadri. Paradigma del soggettile: la tavola stessa! Non ne parleremo nemmeno se parlare di volesse dire parlare prendendo a soggetto degli oggetti o dei soggetti. Ma se, occupando talvolta il loro posto e sostituendoli, un soggettile non si identifica mai con il soggetto o con l’oggetto, si confonde per questo con quello che Artaud ama chiamare, tanto spesso, un motivo? No, esso arresterebbe piuttosto il motivo, ma è vero che, nel contraccolpo stesso di questo arresto, vediamo annunciarsi il luogo di un’estrema tensione. Che cos’è, infatti, un motivo? «Poiché il motivo in sé che cos’è?» chiede Artaud in Van Gogh. Il suicidato della società, sottintendendo così che un motivo non è niente, ma un niente tanto singolare da non lasciarsi mai costituire nella stasi di un ente. Questa parola, il motivo (come lo tradurranno?) ha certo il vantaggio di sostituire la dinamica e l’energia di un movimento (mozione, motilità, emozione) alla stabilità di un -getto (-jet) che verrebbe a installarsi nell’inerzia di un soggetto (subjet) o di un oggetto (objet). Quando rinuncia a descrivere un quadro di Van Gogh, Artaud iscrive al centro il motivo, al centro delle «forze», e di forze scritturali («apostrofi», «strie», «virgole», «barre», «eco».), con quei protagonisti che sono lo «sbarramento», la rimozione, la repressione, la tela, ecc. Bisognerebbe citare, a partire da «Sembra facile scrivere così», tutta la pagina che prepara la domanda:«Poiché il motivo in sé che cos’è?». TRA VISIBILE E INVISIBILE 167
5. SINONIMI
Linguaggio incantesimo Indurlo [il linguaggio] a esprimere ciò che di solito non esprime [evidenzio tutto ciò che riguarda l’espressione, parola da intendere qui in maniera molto prudente, per ragioni che appariranno più avanti], significa servirsene in modo nuovo, eccezionale e inusitato, significa restituirgli le sue possibilità di scuotimento fisico, significa frazionarlo e distribuirlo attivamente nello spazio, significa prendere le intonazioni in modo assolutamente concreto restituendo loro il potere originario di sconvolgere e di manifestare effettivamente qualcosa, significa ribellarsi al linguaggio e alle sue fonti bassamente utilitarie, alimentari, si potrebbe dire, alle sue origini di bestia braccata, significa infine considerare il linguaggio sotto forma di incantesimo. Jacques Derrida, Antonin Artaud, forsennare il soggettile. • Città tesoro Ancora una volta si tratta di ispirazione, anche se, in questo caso, è probabilmente un’espressione troppo torte. Si tratta di aspirazioni, di qualcosa in cui si crede, che non si ha timore di esporre. Ora non sto parlando di un ascensore, di un corridoio o di una porta con una targa che avverte: “Ufficio urbanistica”, con un bancone, una segretaria e una sputacchiera. Quando si pensa alla città, si pensa a un mondo di spazi. La città va pensata come il custode di un tesoro di spazi. Credete che tutto questo possa essere messo nelle mani di un qualsiasi architetto? Architettura non Lo spirito dell’architettura ribadisce che l’architettura non esiste. Ecco ciò che dice lo spirito. L’architettura non conosce stile ne metodo. È pronta a tutto. Per queste ragioni l’uomo deve sviluppare l’umiltà di offrire qualcosa, di fare offerte all’architettura. Anche l’architetto è parte del tesoro dell’architettura, cui appartengono il Partenone e le grandi scuole del Rinascimento. Tutte queste cose appartengono all’architettura e la rendono più ricca; vedete, sono offerte. Ora, io penso che questa sia una base per l’insegnamento che ha a che vedere con la progettazione o la pittura o la cultura, con qualsiasi cosa noi facciamo. È il nostro modo di esprimerci e non e solo tecnologia. È la riscrittura dei programmi, affinchè l’architettura possa essere, come dire, riconosciuta e non si riduca a semplici questioni di metri quadrati. Nella manipolazione dei metri quadrati non vi è nulla che appartenga all’architetto, nonostante egli possa contribuire a una buona esecuzione, stendendo specifiche molto dettagliate. Louis I. Kahn: Talks with Students
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5. SINONIMI
Il mistero della morte di Dio La posizione di un «mistero» non può aver luogo nella regione vuota dello spirito, là dove sussistono solo le parole estranee alla vita. Non può derivare da una confusione tra l’oscurità e il vuoto astratto. L’oscurità di un «mistero» è quella delle immagini che una specie di sogno lucido trae dal dominio della folla: ora riportando alla luce ciò che la cattiva coscienza ha rigettato nell’ombra, ora dando un senso capitale a figure che sono l’oggetto di disattenzione quotidiana. Dal patibolo di Luigi XVI all’obelisco,una composizione si forma sulla PUBBLICA PIAZZA, cioè su quella delle diverse piazze publbiche del «mondo civile» che per fascino storico e aspetto monumentale prevale sulle altre. Perché non è in nessun altro luogo, è LA che un uomo in qualche modo stregato, in qualche modo preso da frenesia, si dà espressamente per il «pazzo di Nietzsche», spiega con la sua lanterna di sogno il mistero della MORTE DI DIO. L’obelisco Clausewitz scrive nel suo trattato Della guerra: «Come quegli obelischi che si elevano nei crocevia da cui si dipartono le strade principali di una contrada, l’energica volontà del capo costituisce il centro da dove tutto s’irradia nell’arte militare», Place de la Concorde è il luogo dove la morte di Dio deve essere annunciata e gridata precisamente perché l’obelisco ne è la negazione più calma. Una polvere umana movimentata e vuota gravita intomo ad esso a perdita d’occhio. Ma niente risponde con tanta esattezza alle aspirazioni in apparenza disordinate di questa folla come gli spazi misurati e tranquilli che ordina la sua semplicità geometrica. Georges Bataille, Il labirinto • Metropolitana Neila metropolitana, ad esempio, Alberto [Giacometti] arrivava a guardare una persona, un viso, con una fissità, un’intensità che sorprendevano lui stesso – agli altri, facevano paura – e questo perché quel viso non gli appariva più semplicemente come l’espressione di un essere particolare, di bellezza o bruttezza sorprendenti, cosa che ha interessato tanti pittori, ma come qualcosa di infinitamente lontano e deserto, fuori dal tempo, fuori persino da ogni spazio. Come dirà più tardi, con quell’estrema attenzione nei confronti dei suoi percorsi passati che l’ha sempre caratterizzato: la distanza tra quei due occhi, lì davanti a lui, gli sembrava «come un Sahara» insormontabile. Una trascendenza affiorava attraverso i tratti comunicando a questi la sua spaventosa intensità, scoraggiando questo disegnatore, che tuttavia avvertiva con pardcolare forza il bisogno di fissare quest’epifania. Yves Bonnefoy, Alberto Giacometti
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Spazio Tutto ciò esprimeva per me una certa parte della visione della realtà; ma continuava a mancarmi quello che sentivo per l’insieme, una struttura, un lato acuto che, peraltro, vi scorgevo, una specie di ossatura nello spazio. Movimento Per me le figure non erano mai una massa compatta, ma una costruzione trasparente. In seguito, dopo esperimenti d’ogni tipo, ho fatto delle gabbie con una costruzione libera all’interno (realizzate in legno da un falegname). Esisteva però un terzo elemento che mi colpiva nella realtà: il movimento. Nonostante i miei sforzi, non riuscivo pro prio a tollerare una scultura che si limitasse a dare l’illusione del movimento, una gamba che avanza, un braccio alzato. Il movimento potevo concepirlo soltanto se reale ed effettivo, volevo anche dare la sensazione di poterlo provocare. Alberto Giacometti, Lettera a Pierre Matisse • Risveglio! Il risveglio privilegiato non deve aver luogo necessariamente dal sonno. Posto che sonno e veglia non sono due parti della vita, che essa, la vita, non ha parti, bensì luoghi e volti. E cosi dal sonno e da certi stati di veglia ci si può risvegliare in questo modo privilegiato che è il risveglio senza immagini. Risvegliarsf senza immagine anzitutto di se stesso senza alcuna immagine della realtà, è il privilegio di quest’istante che può trascorrere inafferrabile ma lasciando, questo sì, la sua impronta; un’impronta inestinguibile, ma che non si sa decifrare, perché non c’è stata conoscenza. E nemmeno una semplice registrazione di quell’esserci svegliati a questo nostro qui, a questo spazio-tempo in cui l’immagine ci assale. Dell’aver respirato soltanto in una solitudine privilegiata sulle sponde della fonte della vita. Un istante di esperienza preziosa della preesistenza dell’amore: dell’amore che ci concerne e che ci guarda, che guarda verso di noi. Sonno Tocca addormentarsi in alto nella luce. Tocca restare svegli in basso nell’oscurità intraterrestre, intra corporale dei diversi corpi che l’uomo terrestre abita: quello della terra, quello dell’universo, il suo proprio. Laggiù nelle “profondità”, negli inferi il cuore veglia, non si concede riposo, si riaccende in se stesso. In alto, nella luce, il cuore si abbandona, si concede. Si raccoglie. Si addormenta alla fine senza più pena. Nella luce che accoglie dove non si patisce violenza alcuna perché lì, a quella luce, si è giunti senza forzare alcuna porta e persino senza aprirla, senza avere attraversato soglie di luce e d’ombra, senza sforzo e senza protezione. TRA VISIBILE E INVISIBILE 170
5. SINONIMI
Parola silenzio C’è una parola, una sola, della quale non si sa con certezza se abbia mai oltrepassato la barriera che separa il silenzio dal suono. Per quanto a lungo e incontenibilmente si sia parlato, infatti, la barriera fra il silenzio e il suono non ha mai cessato di esistere, ergendosi fino a condurre colui che parla sull’orlo del parossismo. L’incontinenza del linguaggio deve avere in quest’insormontabile ostacolo la propria origine. E lo straripamento della parola assume allora carattere di fenomeno cosmico: di cateratta, di eruzione vulcanica. E la parola che è in se stessa unità, congiunzione miracolosa della “fysis”, del senso che abbraccia e riunisce i sensi, soffio vivificante, impalpabile fuoco e luce dell’intelligenza, cade trascinata in basso più miseramente della pietra che almeno smetterà di rotolare quando avrà trovato un seppur minimo riparo al suo peso. La parola nascosta, occultantesi tutta sola nel silenzio, può farsi viva sostenendo senza darlo a vedere un lungo discorso, un poema e anche un testo filosofico, anonimamente orientando il senso, trasformando la concatenazione logica in cadenza: aprendo spazi di silenzi incolmabili, rivelatori. Giacchè il grado di rivelazione presente in un parlare proviene da quella parola intatta che non si annuncia né enuncia se stessa, invisibile a mò di cristallo di forza di nitidezza, di inesistenza. Generatrice di musicalità e si abissi di silenzio, la parola che non è concetto perché è lei che fa concepire, la fonte del concepire, che propriamente si colloca oltre ciò che si chiama pensare. Cuore spazio Nel suo essere carnale il cuore possiede cavità, aperture, si presenta diviso per consentire qualcosa che alla coscienza dell’uomo non appare consono a ciò che è centro. Un centro, almeno secondo l’idea trasmessa dalla filosofia di Aristotele: motore immobile, centro ultimo, supremo imprime il movimento a tutto l’universo e a ciascuna delle sue creature o esseri, senza risparmiarne nessuno; non dischiude invece loro alcuna cavità attraverso cui inserirsi in questo suo muovere, in questo suo modo di essere. Cavità, spazi dentro di sé, il motore immobile non ne possiede; non ha un dentro, propriamente, quello che ormai in epoca di filosofia cristiana si chiama interiorità. Esso “attrae, come l’oggetto della volontà e del desiderio attrae e muove senza essere mosso da essi”. È impassibile, atto puro, “pensiero il cui atto è vita” ; la vita. Ma la vita, attratta e mossa da questo centro che non si muove, non circola in esso, dentro di esso. Esso muove senza muoversi mentre il povero cuore che un giorno, d’un colpo, dovrà fermarsi, si muove dentro la nostra vulnerabile, misera vita. Così, la circolazione che il nostro povero cuore instaura passa, attraverso di esso, e senza di esso ristagnerebbe. Esso tiene in moto col suo movimento. E possiede un dentro, una modesta casa, a immagine e somiglianza della quale, ci viene in mente, sono sorte le case che l’uomo è venuto abitando felicemente. Felicemente perché una casa, a differenza TRA VISIBILE E INVISIBILE 171
5. SINONIMI
della semplice tenda, è già immagine, non c’è dubbio, del firmamento e dello spazio che lo separa dalla terra. Nella tenda o capanna, la prima dimora fabbricata dall’uomo, l’orizzonte è confine, cerchio che limita e protegge, è come un orizzonte personale di chi vi abita. Mostrando con ciò che tutto quello che l’uomo considera suo gli è dimora e carcere, suo dominio e suo reclusorio a un tempo. La casa, la modesta casa a immagine del cuore, che consente la circolazione che chiede di essere percorsa è già solo per questo luogo di libertà, di raccoglimento e non di detenzione. L’interno nel cuore carnale è alveo del fiume del sangue, in cui il sangue s divide e torna a unirsi con se stesso. Trovando così la propria ragion d’essere. La prima ragione di vita di quegli organismi che hanno sangue, profetizzata senza dubbio, come la vita nel suo insieme, a partire dalla sua penuria originaria. Giacché la vita appare quasi in incognito, senza alcuno sfarzo; la povera vita. E così ogni organismo vivo punta a possedere dentro di sé un vuoto, una cavità, vero spazio vitale, esito felice del suo assestarsi nello spazio che sembra voler conquistare solamente estendendosi, colonizzandolo, e che è solo un saggio del successivo possesso da parte di ogni essere vivente di uno spazio proprio, pura qualità: quella cavità, quel vuoto, che suggella, là dove appare, la conquista suprema della vita, l’apparire di un essere vivente. Un essere vivente che risulta tanto più “essere” quanto più ampio e qualificato è il vuoto che contiene. I vuoti dell’umano organismo carnale sono tutto un continente o meglio un arcipelago sostenuto dal cuore, centro che ospita il fluire della vita, non per trattenerlo, ma perché scorra in forma di danza, senza perdere il ritmo, avvicinandosi nella danza alla ragione che è vita. Un essere vivente che dirige dal didentro la sua propria vita a immagine reale della vita di un certo universo nel quale la conflagrazione non sarebbe possibile senza l’estinguersi di una ragione indelebile, di un passare e ripassare che si estingua, senza ragione. Ed essendo così allora, la ragione originariamente vitale resta in sospeso, sospesa nell’illuminatezza. Mente sommersa La mente discorsiva, la grande ordinatrice che tutto occulta. E nessuna direzione che le venga offerta dalla mente consueta può aprire la strada a questa chiamata indicibile del cuore sommerso. Singolarità - Jean Baudrillard. Ad un certo punto, succede come nel caso del poema: puoi darne tutte le interpretazioni che vuoi, è là. L’oggetto si esaurisce in se stesso e in questo è “letterale”; non ti poni più la questione dell’architettura o della poesia: hai un oggetto che “letteralmente” ti assorbe, che si risolve perfettamente in se stesso. Ecco il mio modo di definire la singolarità... Ed è necessario che ad un dato momento questa singolarità faccia sensazione in questo modo, vale a dire che l’oggetto sia altro rispetto a ciò che si lascia interpretare in qualsiasi maniera, sociologicamente, politicamente, spazialmente, anche esteticamente. Un oggetto può essere molto bello e non singolare; fare parte allora del TRA VISIBILE E INVISIBILE 172
5. SINONIMI
l’estetica generale, della civilizzazione globale. Penso che si possano ancora trovare oggetti di questo genere... Ma bisogna tener conto anche dell’intersezione che si opera con la percezione singolare di ciascuno. Non esistono norme, non si possono trovare formule, non si possono applicare griglie ne estetiche ne funzionali. Uno stesso oggetto potrà rispondere a tutte le funzioni che gli verranno assegnate, ma ciò non toglie che esso solo avrà questa specie di qualità in più. - Jean Nouvel. Si può dire che più è singolare e più possibilità ha di essere amato? Più che altro sarebbe una conseguenza... J.B. SI può amare qualsiasi cosa; non mi fido di quest’idea... Non è una questione di relazioni, di affetti, puoi avere per qualunque oggetto un affetto che te lo rende singolare. Ad un dato momento è necessario un riconoscimento di altro genere. Se lo ami, è il tuo cane e non quello di un altro. No, si tratta di qualcos’altro; è difficile dire in quale misura tutto ciò sfugga allo spirito... Forse, c’è qui anche qualcosa di un po’ “demoniaco”, nel senso che gli da la lingua tedesca. J.N. Nella singolarità l’estetica dell’oggetto non è ia nozione primordiale, nella misura in cui l’estetica obbedisce ad una forma di convenzione, di giudizio. Un oggetto può essere brutto, molto brutto, addirittura più brutto del brutto, persino mostruoso, ma può diventare un’entità assolutamente indispensabile in sè. Per questo l’oggetto diventerà bello. Fortunatamente, per definire la singolarità, non è necessario rispettare i codici estetici. È interessante togliersene il marchio e trasgredire. Vuoto J. B. Arrivare a fare il vuoto è senza dubbio preliminare ad ogni atto di creazione autentica. Se non fai il vuoto, non arriverai mai alla singolarità. Produrrai cose notevoli ma l’eredità di cui dovrai tener conto sarà tale da obbligarti ad attraversare tutta una genetica dell’accumulazione. J.N. Ciò però non elimina la strategia per scovare... J.B. L’architettura non può essere un atto spontaneo come la scrittura. J.N. Certamente; eppure quello che caratterizza un’architettura è la sua scrittura, il fatto che possa essere riconosciuta a partire da qualunque dettaglio. Non si tratta unicamente di una forma esteriore. D’altronde, tutti i grandi architetti di questo secolo, Wright, Le Corbusier, Aalto, Kahn, si riconoscono da un dettaglio. Questa singolarità della loro architettura è notevole; ha per forza qualcosa di naturale, di spontaneo, ma al contempo è programmata, lavorata, premeditata. Jean Nouvel e Jean Baudrillard, Architettura e nulla. TRA VISIBILE E INVISIBILE 173
5. SINONIMI
Cervello tempo Mentre sto scrivendo queste righe sono seduto a un caffè della Settima Avenue, e osservo la gente passare. La mia attenzione e la mia concentrazione vanno e vengono. Una ragazza con un abito rosso che passa, un uomo che cammina con un cane strambo, il sole che finalmente affiora dalle nuvole. Questi sono tutti avvenimenti che catturano la mia attenzione per un momento, allorché accadono. Perché tra migliaia di percezioni possibili, sono queste quelle che io afferro? Dietro di esse vi sono riflessioni, ricordi, associazioni. La coscienza è sempre attiva e selettiva. Quindi non è soltanto la Settima Avenue quella che io sto guardando, ma la mia Settima Avenue. Ci illuderemmo qualora immaginassimo di poter rimanere osservatori passivi e imparziali: ogni percezione, ogni scena è forgiata da noi, sia che noi lo vogliamo e lo sappiamo, sia in caso contrario. Noi tutti siamo i registi del film che stiamo girando, ma ne siamo altresì nello stesso modo l’oggetto: ogni inquadratura, ogni momento, è noi, è nostro. E così non si tratta soltanto di momenti percettivi, di semplici momenti fisiologici, anche se questi sono basilari a qualsiasi altra cosa, bensì di momenti di un genere essenzialmente personale, che paiono costituire il nostro stesso essere. In definitiva, arriviamo quindi a concordare con l’immagine di Proust, essa stessa vagamente reminescente della fotografia, secondo cui noi siamo fatti di una ‘miscellanea di momenti’, anche se questi scorrono l’uno nell’altro come uno dei fiumi di Borges. Dr. Oliver Sacks, Percezione neuronale del tempo. • Pensiero operatorio Il pensiero «operatorio» diviene una sorta di artificialismo assoluto, come si vede nell’ideologia cibernetica in cui le creazioni umane vengono fatte derivare da un processo naturale di informazione, ma a sua volta concepito sul modello delle macchine umane. Se un pensiero di questo genere si fa carico dell’uomo e della storia, e se, fingendo do ognorare ciò che ne sappiamo per contatto e per posizione, inizia coostruirli a partire qualche indice astratto, come si è fatto negl Stati Uniti una psicanalisi ed un cultralismo decadenti, allora l’uomo diviene realmente il manipulandum che pensa di essere, e si entra in un regime di cultura in cui non più non esistono né vero né falso riguardanti l’uomo e la storia, in un sonno o incubo da cui non eiste risveglio. È necessario che il pensiero scientifico – pensiero di sorvolo – si ricollochi in un «c’è» preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile e del mondo lavorato così come sono nella nostra vita, per il nostro corpo, non quel corpo possibile che è lecito definire una macchina dell’informazione, ma questo corpo effettuale che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni. Terza dimensione TRA VISIBILE E INVISIBILE 174
5. SINONIMI
La profondità è una terza dimensione derivata dalle altre due. Soffermiamoci su di essa, ne vale la pena. Innanzitutto, ha qualcosa di paradossale: vedo degli oggetti che si nascondono a vicenda, e che quindi non vedo, dato che sono uno dietro l’altro. Vedo la terza dimensione, ed essa non è visibile, perché va verso le cose a partire dal mio corpo, al quale sono incollato… Ma si tratta di un falso mistero, io non la vedo realmente, oppure, se la vedo è un’altra larghezza. Sulla linea che unisce i miei occhi all’orizzonte, il primo piano nasconde per sempre gli altri, e se lateralmente credo di vedere gli altri scaglionati, è perché non si nascondono completamente a vicenda: li vedo dunque l’uno fuori dell’altro, secondo una larghezza altrimenti calcolata. Si è sempre del tutto di qua o al di là della profondità. Le cose sono mai le une dietro le altre. Lo sconfinare e l’occultarsi delle cose rientrano nella loro definizione, ma esprimono solo la mia incomprensibile solidarietà con una di esse, il mio corpo, e, per quanto positivi possano essere, sono pensieri che formo e non attributi delle cose: io so che in questo momento un alro uomo situato altrove – o meglio: Dio, che è ovunque – potrebbe penetrare il loro nascondiglio e vederle dispiegate. Ciò che chiamo profondità non è niente oppure è la mia partecipazione a un Essere senza limiti, e innanzitutto all’Essere dello spazio, al di là di ogni punto di vista. Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito
Tu ridi che per sillabe mi scarno e curvo cieli e colli, azzurra siepe a me dintorno, e stormir d’olmi e voci d’acque trepide; che giovinezza inganno con nuvole e colori che la luna sprofonda. Ti so. In te tutta smarrita alza bellezza i seni, s’incava ai lombi e un soave moto s’allarga per il pube timoroso, e ridiscende in armonia di forme ai piedi belli con dieci conchiglie. Ma se ti prendo, ecco: parola tu pure mi sei e tristezza. Salvatore Quasimodo, Parola
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Milano, 28 ottobre 2005
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