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www.eastjournal.net GENNAIO 2013


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troverete invece “Politica e Geopolitica”, un panorama internazionale più ampio, dove al Caucaso faranno seguito l’Iran, la Russia e la Slovenia. La sezione “Società” dà invece Cari lettori, spazio a due minoranze, gli Aleviti e i Rom: vi presento Most, il quadrimestrale di East i primi dimenticati nel cuore della Turchia, i Journal, un lavoro di giornalismo partecipativo secondi oggetto di un’indagine sulla difficoltà di ad opera delle stesse firme che potete leggere accesso all’istruzione. ogni giorno su www.eastjournal.net. Most è una rivista d’approfondimento, ma non Nessuno di noi viene pagato per scrivere abbiamo dimenticato quanto sia difficile trovare su queste pagine, ciononostante la qualità il tempo di leggere con calma un articolo lungo. del prodotto è alta, sia grazie a un’esigente Per tenervi compagnia anche nelle pause brevi, selezione di argomenti, firme e lavori, sia per la in metropolitana o in coda alle Poste, la seconda validità della nostra rosa di collaboratori, mossi parte del numero è occupata da rubriche più da una passione irrefrenabile per l’Est Europa e snelle ma non meno interessanti. “La città” è un breve reportage su una serie di centri meno per l’informazione. noti dell’Est Europa, “Le letture” si presentano L’idea fondante è stata quella di riprendere il sotto forma di brevi testi ispirati dai paesaggi periodico di East Journal, a cadenza annuale, e dell’Est, mentre nelle pagine di cultura troverete farne un quadrimestrale che dia maggior respiro un’intervista sui matematici ungheresi, i libri ai temi toccati da EJ. La scelta del nome ha scelti per voi e due servizi dal mondo letterario coinvolto tutto lo staff di East Journal ed è stata est europeo. (quasi) unanime, (quasi) semplice, (quasi) immediata. Dopo un paio di discussioni via I ringraziamenti annoiano sempre le già poche Skype, quattro post chilometrici su Facebook, persone che leggono le introduzioni, ma non una catena di mail e un sondaggio, è stato lui posso rinunciare a rivolgerne di calorosi ai a scegliere noi. Most in diverse lingue slave colleghi che hanno fatto dono del loro tempo a significa “ponte” e un collegamento è quello Most, a partire dalla nostra piccola redazione. Da che abbiamo deciso di essere: tra l’Italia e Damiano Benzoni che si è scoperto provetto ciò che si trova alla sua destra nella cartina grafico e impaginatore e la cui bravura è sotto i geografica. Una nuova veste grafica, moderna e vostri occhi in questo momento, a Silvia Padrini variopinta, ne valorizza il contenuto e identifica che con intelligenza e buon gusto ha saputo ogni sezione con un colore diverso. In copertina abbinare le giuste foto a ogni testo, passando uno scatto della nostra fotografa ufficiale, Silvia per Giorgio Fruscione, prezioso assistente e Biasutti, stavolta dedicato all’argomento chiave attento revisore dei testi: una redazione nata da poco eppure ben affiatata. Sparsi per mezza di questa uscita: i Balcani. Europa abbiamo trovato sempre il modo di Ogni numero conterrà infatti un focus su discutere ogni decisione e darci man forte l’uno una parte del vasto Est di cui ci occupiamo, con l’altro. quasi un inserto, che abbiamo chiamato “Il Punto” e che muove i suoi primi passi dalla E che dire di tutti i collaboratori e redattori ex Jugoslavia, con un viaggio a ritroso iniziato di EJ che fanno l’”anima” di Most con i loro guardando in avanti. Si apre, infatti, con un servizi giornalistici di alto livello? Spero di poter paper di Giorgio Fruscione sul futuro dei Balcani contare su di loro anche in futuro. Perché si (ricerca premiata al Concorso “Europa e Giovani sente spesso dire che il giornalismo è morto e 2012”) che vi accompagnerà verso un servizio loro mi fanno invece capire che respira ancora a sei mani sulla nuova costituzione bosniaca e ha tanto da dire. curato dai nostri balcanisti. Ci sposteremo poi in patria, ma sempre per parlare di Balcani, con Vi lascio a Most, vi piacerà. Buona lettura! un dossier inedito sulla mafia albanese in Italia, Claudia Leporatti per poi concludere con una retrospettiva sugli Capo Redattore di Most antichi slavi. Dopo questa mia presentazione

E ADESSO...MOST


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IL PUNTO - BALCANI

POLITICA E GEOPOLITICA 6

Le mani sul Caucaso

Dove vanno i Balcani

42 Giorgio Fruscione

Emanuele Cassano

14 Valentina Di Cesare

Iran: intervista a Sharzad Sholeh

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Rapporti transfrontalieri italosloveni: a che punto siamo?

Giorgio Fruscione - Davide Denti - Alfredo Sasso

63 Matteo Zola

Slavi e barbari 74 Matteo Zola

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RUBRICHE - CULTURA

Pietro Acquistapace

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La città: Biškek

80 Christian Eccher

Daghestan: prove di tolleranza a Derbent

Le letture

Giovanni Bensi

Giovanni Catelli

Claudia Leporatti

Aleviti: storia di una minoranza nel

30 cuore della Turchia

A scuola vengo anch’io! No, tu no. L’accesso all’istruzione per i bimbi Rom in Est Europa

Simona Mattone

83

e scienza: I matematici 85 Cultura ungheresi

SOCIETÀ

Silvia Padrini

50

Mafia albanese: una storia italiana

Silvia Biasutti

Energia. La solitudine dello Zar e l’Europa che non c’è

Bosnia: la nuova costituzione

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Alla biblioteca dell’Est Claudia Leporatti

90

Volevo essere D’Annunzio, volevo essere Limonov Massimiliano Di Pasquale

Yerevan capitale mondiale 94 del libro Emanuele Cassano

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Rivista quadrimestrale allegata al sito East Journal Chiuso in redazione il giorno 7 gennaio 2013 East Journal Testata registrata n. 4351/11 del 27 giugno 2011 presso il Tribunale di Torino Direttore responsabile Matteo Zola www.eastjournal.net info@eastjournal.net


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La redazione Claudia Leporatti capo redattore Damiano Benzoni impaginazione e layout Giorgio Fruscione revisione testi Silvia Padrini ricerca iconografica Hanno contribuito a questo numero Pietro Acquistapace Giovanni Bensi Silvia Biasutti Emanuele Cassano Giovanni Catelli Davide Denti Valentina Di Cesare Massimiliano Di Pasquale Christian Eccher Simona Mattone Alfredo Sasso Matteo Zola

I proprietari dei diritti delle singole foto pubblicate sono indicati in prossimità delle immagini stesse. Immagine di copertina: Silvia Biasutti Le immagini di sfondo al sommario e alle copertine di sezione sono di Damiano Benzoni, a eccezione della copertina della sezione Politica e Geopolitica, appartenente a Kober.

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POLITICA E GEOPOLITICA

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MOST Ph.: Bohan Shen

LE MANI SUL CAUCASO

Il neoimperialismo russo al confine tra Europa ed Asia Emanuele Cassano Neoimperialista: non è esagerato definire così la politica estera odierna della Russia, sempre di più volta a far rientrare nella sua orbita l’intera costellazione di repubbliche - europee e asiatiche - distaccatesi dal blocco sovietico in seguito alla sua disfatta. Mosca è decisa a recuperare la propria influenza geostrategica e politica sul territorio dell’ex URSS, ma non solo. Nutre infatti un forte interesse anche per il controllo del proprio near abroad, la periferia del paese, dove il Cremlino vorrebbe mantenere il ruolo di potenza dominante. Cercando strategicamente di allentare le barriere orientali dell’Europa dell’Est, chiuse a occidente dalla presenza dell’Unione Euro-

pea, la Russia vuole convincere, o meglio costringere i paesi limitrofi a un rapporto di collaborazione, cercando di dissuaderli, se necessario con minacce o con la forza (si veda l’invasione della Georgia), dai tentativi di uscita dall’area gravitazionale russa. Mosca punta anche, ed è quello di cui ci occupiamo in questo articolo, a stringere un forte legame con il Caucaso, allontanando quanto più possibile americani ed europei dalla scena per non perdere il ruolo di potenza dominante in una regione che sente sua in modo particolare. Ponte naturale tra l’Asia e il vecchio continente, il Caucaso è crocevia dei principali gasdotti e oleodotti che dal Mar Caspio e dalle steppe


dell’Asia Centrale riforniscono di gas e petrolio tutta l’Europa. Un obiettivo ghiotto: controllarlo vuol dire gestire buona parte dell’economia europea e porre un freno ai piani espansionistici di Washington in Asia Centrale. Un paese in guerra. D’altra parte il Caucaso sta vivendo un momento di profonda crisi, martoriato da conflitti e ribellioni che hanno diviso la popolazione e causato ingenti vittime nel corso degli ultimi venti anni. Il distacco delle tre repubbliche transcaucasiche dall’Unione Sovietica è avvenuto senza tanti spargimenti di sangue, ma ciononostante l’intera regione è stata teatro di terribili scontri etnici di cui a tutt’oggi rimangono preoccupanti focolai. I movimenti separatisti del Caucaso settentrionale, capaci di scatenare vere e proprie guerre civili, hanno dato del filo da torcere al gigante russo, che d’altronde ha saputo approfittare delle lotte di successione svoltesi nelle repubbliche transcaucasiche subito dopo la loro indipendenza. Questi tumulti hanno creato delle finestre di tempo abbastanza lunghe in cui la Russia ha avuto modo di insinuarsi negli affari politici locali, ristabilire il proprio dominio sul Caucaso meridionale e, allo stesso tempo, rallentare l’allineamento di questi stati con l’UE e la NATO. La storia: un dominio lungo quasi due secoli. La conquista russa del Caucaso parte da lontano. Già nel 1556 lo Zarato russo si appropriò del Khanato di Astrakhan’, paese tartaro situato sulla foce del Volga. Più avanti, tra il XVII e il XVIII secolo, la Russia, diventata nel frattempo un Impero, condusse con esito vittorioso una serie di guerre contro gli Ottomani acquisendo ulteriori territori, dalla Crimea, sottratta definitivamente ai turchi nel 1792, e arrivando fino alla regione della foce del Don, dove fondò la città di Rostov, e più a sud, fino a Krasnodar. L’Impero Ottomano stava ormai collassando, e la Russia, nuova potenza mondiale, si vide la strada spianata verso la conquista del Caucaso.

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regione. L’Impero russo voleva estendere il proprio dominio verso sud, dove erano presenti numerosi gruppi etnici come i ceceni, gli avari, i carachi e gli adighè, che opposero una feroce resistenza. La guerra fu voluta dallo zar Alessandro I, che affidò la missione al comandante dell’esercito Aleksej Petrovič Jermolov. La prima fase del conflitto vide come detto una tenace opposizione da parte delle popolazioni locali, che riuscirono a contrastare abbastanza efficacemente l’avanzata russa, che ottenne solo un magro successo. La resistenza delle tribù locali risulta a dir poco sorprendente, se si pensa che l’esercito russo veniva dalla recente vittoria contro la Grande Armée di Napoleone. La prima invasione terminò nel 1825, con la morte di Alessandro I e l’avvento della rivoluzione decabrista. Un anno dopo scoppiò una guerra con la Persia per il controllo della Transcaucasia: i persiani conquistarono la città di Ganja, ma il contrattacco russo spinse il nemico oltre il fiume Arasse, facendo avanzare le truppe zariste fino a prendere Yerevan. Lo scoppio di un nuovo scontro con l’Impero Ottomano non bastò per fermare l’incessante avanzata russa, che costrinse turchi e persiani alla resa. Il Trattato di Adrianopoli stipulato con l’Impero Ottomano, garantì alla Russia il controllo della Georgia e della costa orientale del Mar Nero, oltre alla foce del Danubio, mentre con quello di Turkmenchay, siglato con la Persia, mise le mani sui khanati di Yerevan e Nakhichevan.

In seguito a questa serie di vittorie la Russia riprese l’offensiva contro le popolazioni del nord del Caucaso che ancora opponevano resistenza, per cementare così il proprio dominio sulla regione. Gli imam del Daghestan, intanto, avevano approfittato della momentanea distrazione della Russia – impegnata nel doppio conflitto con persiani e turchi – per fondare l’Imamato del Caucaso, paese che raggruppava la Cecenia, la Circassia e il Daghestan, e che nasceva con l’obiettivo di portare avanti la guerra di liberazione contro gli invasoL’invasione ebbe inizio nel 1817, quando ri russi. L’esercito zarista incontrò ancora le truppe zariste occuparono il nord della una volta una strenua resistenza da par-

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te dei ribelli, che riuscirono a tenere testa crollo del sistema comunista e che è giustiall’offensiva fino allo scoppio della guerra ficato dalla forte influenza geopolitica andi Crimea, quando entrambe le parti riu- cora oggi esercitata in questi territori. scirono a raggiungere una tregua. La parte settentrionale del Caucaso è anL’ultima parte del conflitto si accese nel cora di appartenenza russa e, a dispetto 1855 e vide l’esercito russo impegnato in dei numerosi movimenti separatisti – sonumerosi attacchi grazie ai quali, sotto il prattutto di matrice islamica – e di guerre comando del generale Baryatinsky, ri- sanguinose come quelle in Cecenia, la Rususcì a piegare la resistenza dei ribelli. La sia ha dimostrato di non voler cedere alle conclusione definitiva della guerra venne richieste dei ribelli (un’eventuale apertura dichiarata nel 1864: a quel punto l’intera delle trattative con i separatisti sarebbe regione del Caucaso era dominata dalla interpretata da questi ultimi come un seRussia, che avrebbe mantenuto il control- gno di debolezza), attuando dure represlo diretto su questi territori fino al 1991, sioni e firmando paci armate che vengono quando, in seguito alla dissoluzione dell’U- tuttora mantenute a costo di far salire il nione Sovietica, ebbe luogo la dichiarazio- numero delle vittime. Abbattere ogni resine d’indipendenza delle tre repubbliche di stenza per far capire chi detta le regole e Georgia, Armenia e Azerbaijan. rafforzare il proprio controllo sul territorio sono gli obiettivi che Mosca si è prefissata Il ruolo di Mosca in Caucaso. Nonostan- di raggiungere per cercare di non perdere te le ultime perdite territoriali, la Federa- il controllo di una regione da sempre ostile zione Russa, erede naturale dell’URSS, al governo centrale russo. non ha dovuto rinunciare all’egemonia sulla regione neanche dopo il 1991, portando A sud le tre repubbliche transcaucasiche, avanti un controllo capace di resistere al benché indipendenti, sono economicamenPh.: Anna Wozniak


te e politicamente vincolate alle decisioni prese da Mosca, dalle quali non possono prescindere. La Russia infatti non ha mai smesso di rappresentare un punto di riferimento per questi paesi in quanto la loro economia, la loro crescita e la loro stessa sopravvivenza sono fattori legati nel bene e nel male alle scelte prese dal Cremlino. La federazione ha inoltre saputo approfittare della difficile situazione politica venutasi a creare in seguito alla dissoluzione dell’URSS: i conflitti etnici e politici esplosi durante l’indipendenza delle tre repubbliche caucasiche – come detto in precedenza – sono serviti a Mosca per rafforzare la propria presenza anche nel Caucaso meridionale. Alcuni esempi sono forniti dalla guerra civile georgiana, scoppiata nel 1991 in seguito all’indipendenza del paese, o dalla guerra tra Armenia e Azerbaijan per il possesso del Nagorno-Karabakh, entrambi conflitti dove Mosca ha fatto da ago della bilancia. Un ultimo e recente esempio è dato dall’invasione della Georgia del 2008, con la quale il Cremlino ha voluto chiarire bene la sua posizione in merito alla via politica intrapresa dal paese. Mosca ci tiene a rafforzare la propria presenza in questa regione anche perché rappresenta un nodo fondamentale per l’economia russa ed europea: progetti europei come il Nabucco e la Seep, gasdotti che dovrebbero provvedere a trasportare gas dall’Azerbaijan all’Europa senza transitare dal territorio russo, se realizzati potrebbero rimettere in discussione il monopolio russo sull’approvvigionamento del gas per l’Europa. Una fragile situazione interna. Come spiegato in precedenza, fin dai tempi della conquista russa del Caucaso le popolazioni autoctone opposero una fiera resistenza all’avanzata del nemico, che impiegò circa cinquant’anni per sottomettere definitivamente le tribù del Caucaso settentrionale. Questa forte intolleranza nei confronti dell’invasore continuò anche in epoca sovietica, e addirittura durante la Seconda Guerra Mondiale ceceni e ingusci, stanchi di essere amministrati dal governo russo, misero in atto un’insurrezione per creare

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un proprio stato indipendente. Stalin accusò in seguito questi gruppi etnici di collaborare con la Germania nazista, e con l’Operazione Lentil ne deportò quasi mezzo milione in Kazakistan. I sopravvissuti poterono fare ritorno alla propria terra solo a qualche anno di distanza dalla morte del dittatore.

Nuovi scontri si verificarono in seguito alla nascita della Federazione Russa. La Cecenia, insieme al Tatarstan, non firmò il Trattato di Federazione, stipulato bilateralmente da Boris Eltsin con 86 degli 88 soggetti federali russi per concedere regimi fiscali diversificati e maggiore autonomia alle regioni. In seguito la Cecenia dichiarò la propria indipendenza dando vita alla Repubblica di Ichkeria e facendo scoppiare la prima guerra cecena. Eltsin non esitò ad attuare una dura repressione contro il paese ribelle, temendo che diventasse esempio per quelli limitrofi innescando una disgregazione a catena di tutta la Federazione. Dopo una sanguinosa guerra, cessata nel 1996, l’effimera pace durò fino a quando, nel 1999, i leader islamisti Shamil Basaev e Ibn Al-Khattab invasero il Daghestan, obbligando la Russia ad un nuovo intervento armato. La seconda guerra cecena durò fino al 2009, mietendo migliaia di vittime e entrando nei libri di storia soprattutto per le numerose stragi attuate dai ribelli ceceni contro obiettivi civili (tra cui la tristemente famosa strage di Beslan) ma consentendo alla Russia di recuperare i territori occupati e porre fine alla Repubblica cecena di Ichkeria. Il terrorismo in Cecenia rappresenta ancora oggi un grosso problema per il governo russo, ma a preoccuparlo non è solo questa repubblica. Numerosi attacchi terroristici si sono registrati ultimamente anche in Circassia, Ossezia del Nord e Inguscezia, per non parlare della situazione del Daghestan, diviso dagli scontri tra musulmani fondamentalisti (wahhabiti o salafiti) e musulmani confraternali (sufiti), con le due parti che ormai sembrano essere in procinto di far scoppiare una guerra civile. Ultimamente si sta sempre di più profilando l’ipotesi di un intervento militare russo

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nella regione, motivato anche dal fatto che il Daghestan è diventato il centro principale della resistenza anti-russa nel Caucaso. Nonostante Mosca tema un sequel del doppio conflitto ceceno non può permettersi di perdere il controllo di questa delicata repubblica: il governo russo ha iniziato perciò da tempo a spostare un ingente numero di truppe dalla Cecenia e dal resto del paese verso il confine daghestano, preparandosi a un’eventuale guerra.

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Le verità dietro alla guerra in Georgia. La Georgia rappresenta per la Russia l’immediato near abroad, e a Mosca la piccola repubblica caucasica è vista ancora come una regione periferica della Federazione, piuttosto che come uno stato pienamente sovrano. Per questo la Russia non ha gradito il progressivo avvicinamento che il paese stava attuando nei confronti dell’Occidente e appena si è presentata l’occasione – l’invasione georgiana dell’Ossezia del Sud – ne ha approfittato per far capire al governo di Mikheil Saakashvili, po-

Ph.: Ivan Shlamov/REUTERS

liticamente vicino all’Europa e appoggiato anche dagli Stati Uniti, che “il matrimonio non s’aveva da fare”. In seguito al crollo sovietico, le regioni dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia dichiararono la propria indipendenza dalla Georgia rispettivamente nel 1991 e nel 1992. Scoppiò quindi una guerra civile tra il governo centrale georgiano (colpito nel frattempo da un violento colpo di stato contro il presidente Zviad Gamsakhurdia) e le due regioni separatiste. La Russia colse l’occasione e offrì il proprio appoggio militare ai ribelli, che nel 1993 riuscirono ad ottenere il controllo dei rispettivi territori, andando a costituire due repubbliche de facto indipendenti. Se però in Abkhazia venne attuata una vera e propria pulizia etnica nei confronti dei georgiani, in Ossezia del Sud questi vennero in parte risparmiati e, molti, anche dopo la guerra, continuarono a risiedere nei propri villaggi di appartenenza. Il giogo russo sull’Ossezia, inoltre, era meno pesante di quanto non lo fosse per la vicina Abkhazia, dove i russi erano più presenti militarmente. Questi furono alcuni dei motivi principali che convinsero nel 2008 il presidente georgiano Saakashvili a intraprendere l’invasione dell’Ossezia del Sud, con la speranza di far tornare la repubblica secessionista sotto il controllo georgiano. Tra il 7 e l’8 agosto le truppe georgiane varcarono il confine e occuparono Tskhinvali, capoluogo osseta. La Russia non aspettava altro. Con la scusa di proteggere l’Ossezia e le minoranze russofone vittime del nazionalismo georgiano, i russi invasero la Georgia partendo dall’Ossezia e dall’Abkhazia, arrivando in pochi giorni fino alle porte di Tbilisi. Solo l’intervento diplomatico degli Stati Uniti e dell’Unione Europea riuscì a porre fine al conflitto, evitando che l’avanzata russa continuasse fino ad invadere l’intero paese. L’invasione della Georgia non fu però motivata da un improvviso istinto materno che spinse la Russia a proteggere la vicina Ossezia invasa dalle truppe georgiane. Si trattò infatti di un piano già da tempo


escogitato e ben definito, il quale necessitava solo di un casus belli che legittimasse l’intervento militare. Questa decisione venne presa principalmente per punire la Georgia, “colpevole” secondo il Cremlino di essere troppo filoamericana e di avere avuto l’obiettivo di entrare a breve nella NATO e nell’UE, cercando così di uscire dall’orbita russa e aprendo la strada all’occidentalizzazione del Caucaso. Il “Grande gioco” per lo sfruttamento delle riserve del Caspio. Durante il XIX secolo, Russia e Inghilterra, inizialmente alleate, arrivarono ad un forte conflitto di interessi per quanto riguardava l’acquisizione di nuovi territori in Asia Centrale. La Russia, alleata della Persia, oltre a voler estendere a sud-est il proprio impero, intravide con l’annessione di queste terre la possibilità di aprire nuovi mercati a oriente. Conquistando i territori dell’Asia Centrale, l’Impero Russo sarebbe poi arrivato a lambire il confine con l’India britannica, principale obiettivo delle mire zariste. L’Inghilterra dal canto suo puntava a creare una zona cuscinetto tra la Russia e l’India conquistando l’Afghanistan e i khanati del Turkestan meridionale proprio temendo per la sicurezza della propria colonia, che con un’ulteriore espansione russa sarebbe stata fortemente insidiata. Questa “corsa all’Asia Centrale” venne chiamata dagli inglesi “Grande gioco” (The Great Game), mentre in Russia era conosciuta come il “Torneo delle ombre” (Турниры теней).

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mentre per il petrolio i valori si attestano intorno al 20%. Per spezzare questo cordone ombelicale senza rischiare di rimanere di colpo senza gas o petrolio, l’Europa ha dovuto escogitare modalità alternative che le permettessero di fruire delle riserve del Mar Caspio evitando di dover bussare alla porta russa. Sono nati così progetti come il Nabucco, la Seep la Tanap e la Tap, tutti ideati per attingere direttamente il gas dall’Azerbaijian facendolo passare per la Turchia, bypassando la Russia. Il gigante non è rimasto a guardare e, per continuare a dettar legge in fatto di energia nel Vecchio Continente, ha progettato un nuovo gasdotto, il Southstream, che dovrebbe rifornire l’Europa meridionale direttamente dalle coste russe sul Mar Nero. L’Azerbaijan rappresenta dunque un nodo fondamentale per convogliare il gas del Caspio in Europa senza passare dalla Russia. Questo al Cremlino lo sanno bene, perciò il paese approfitta della propria rete di alleanze per ostacolare i piani europei e americani. Incuneata tra la Turchia e l’Azerbaigian si trova infatti l’Armenia, alleato russo, i cui pessimi rapporti con i due paesi limitrofi impediscono la realizzazione di qualsiasi collegamento energetico diretto, senza dover passare dalla Georgia. La striscia di Zangezur divide infatti il Nakhcivan dal resto dell’Azerbaijan, rappresentando una cesura che separa la Turchia dal resto degli stati turcofoni dell’Asia Centrale. Più volte sono stati fatti tentativi, soprattutto da parte degli Stati Uniti, per convincere l’Armenia a cedere questo territorio all’Azerbaigian in cambio del corridoio di Lacin, che separa l’Armenia dal NagornoKarabakh (progetto Gobble), ma alla fine i confini sono rimasti immutati. La Russia comprende molto bene la strategicità di quest’area, e per rafforzare la propria presenza su questo territorio ha addirittura installato a Meghri, un piccolo paesino di 5.000 abitanti al confine con l’Iran, un proprio consolato.

L›Inghilterra ha da tempo perso il suo vasto impero coloniale disgregatosi in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, ma un’altra grande potenza ha preso il suo posto nel “grande gioco” per la spartizione dell’Asia Centrale: gli Stati Uniti, che puntano a strappare ai russi il controllo delle riserve di gas e petrolio del Caspio, oltre che a farsi alleati dei paesi attigui per installarvi le proprie basi militari. Ultimamente si è messa di mezzo anche l’Unione Europea, decisa a porre fine alla forte dipendenza in fatto di gas e petrolio che la lega alla Russia: si calcola infatti che nel 2010 la sola Quale futuro per la regione? Per le Gazprom abbia esportato in Europa il 41% repubbliche del Caucaso settentrionale del gas totale consumato nel continente, raggiungere l’indipendenza o cercare di

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ottenere una maggiore autonomia sembra un’impresa impossibile, dato che Mosca pur di non dare segnali di cedimento, come ha dimostrato più volte, preferisce ricorrere all’uso delle armi per rispondere ai separatisti. La situazione nella regione sta degenerando, e non sarebbe strano assistere in un immediato futuro allo scoppio di una nuova guerra civile. La Russia prende in considerazione un simile rischio, per questo si sta preparando ad affrontare un imminente conflitto, ammassando migliaia di soldati nelle zone più a rischio, facendo capire ai ribelli che il paese vuole evitare la formazione di nuove repubbliche di Ickheria, cercando di stroncare sul nascere le rivolte e i separatismi. In seguito all’invasione della Georgia del 2008, la Russia è riuscita a rallentare il processo di avvicinamento tra il paese e l’Occidente. Le elezioni dello scorso ottobre in Georgia hanno sancito la vittoria del miliardario Bidzina Ivanishvili, a capo del partito Georgian dream, che ha avuto la meglio sul leader uscente Saakashvili. Ivanishvili, amico personale di Putin, è stato da molti indicato come “l’uomo del Cremlino”, sottolineando il non troppo velato filo-russismo che il neoeletto ha mostrato durante la propria campagna elettorale e in seguito alla propria investitura. Sconfitto un po’ a sorpresa Saakashvili, appoggiato dall’Europa e dagli Stati Uniti, il timore è che Ivanishvili faccia rivivere alla Georgia i ricordi del periodo sovietico e post-sovietico. Interessante sarà poi vedere come Ivanishvili si muoverà per risolvere le situazioni in Abkhazia e Ossezia del Sud, in relazione anche alla vicinanza con la Russia. L’Armenia, che strizza l’occhio all’Unione Europea, sa bene che essendo anche un importante alleato di Mosca nella regione non può rischiare di sbilanciarsi verso una posizione filoeuropea per non perdere il prezioso sostegno russo, senza il quale si ritroverebbe da sola a combattere contro i potenti nemici che la circondano. La Russia vuole infatti estromettere dal Caucaso attori importanti quali l’UE e gli Stati Uniti, così come sta cercando di allontanare

le mire espansionistiche cinesi sui paesi dell’Asia Centrale, in quanto, come affermato in apertura, Mosca vede i territori del proprio near abroad come una sorta di periferia, repubbliche formalmente indipendenti ma di fatto ancora legate al suo controllo, territori da riannettere possibilmente alla madrepatria. Ogni decisione presa a Mosca in fatto di energia o politica estera influenza direttamente le sorti dei paesi transcaucasici, i quali difficilmente possono pensare di affi-


darsi alla NATO o all’UE senza prendere in considerazione il punto di vista del gigante russo. Un’eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea complicherebbe ulteriormente le cose, facendo del Caucaso non solo una barriera fisica al confine tra Europa ed Asia, ma anche una barriera politica tra Russia ed UE. Questo porterebbe a una chiusura del confine turco che potrebbe favorire l’isolamento delle tre repubbliche situate a sud del Caucaso, costringendole ad un obbligato avvicinamento verso la Russia, così come sta succedendo più a ovest

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per paesi come l’Ucraina e la Moldavia.

Il Caucaso è dunque sempre più vittima inerme del dilagante neoimperialismo russo attuato dal “nuovo zar” Putin, deciso ad acquisire un controllo diretto, sia politico che economico, dell’intera regione, facendo piazza pulita di chiunque cerchi di ostacolarlo. I piani di “risorgimento” della Russia imperialista, mirati a far riguadagnare a Mosca quel ruolo di principale potenza mondiale perso in seguito al crollo comunista, ripartono anche da qui. Ph.: John 2

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MOST Ph.: Manzer Munir

IRAN: INTERVISTA A SHARZAD SHOLEH

L’Organizzazione Mondiale dei Mujaheddin del Popolo Iraniano cancellata dalle liste terroristiche statunitensi Valentina Di Cesare Lo scorso ottobre, dopo quindici anni di sit-in, ricorsi e udienze l’Organizzazione Mondiale dei Mujaheddin del Popolo Iraniano (OMPI), presieduta da Maryam Radjavi, ha raggiunto forse il suo risultato più importante: l’eliminazione definitiva dalla lista nera statunitense delle organizzazioni terroristiche. La richiesta, approvata dal segretario di Stato americano Hillary Clinton, rappresenta un importante traguardo per l’OMPI, anche se nel lungo lasso di tempo che ha preceduto la sua approvazione migliaia di cittadini iraniani sono stati giustiziati nel silenzio indifferente delle comunità internazionali: la presenza dell’OMPI nella lista statunitense del terrorismo ha fornito infatti in questi anni al regime iraniano, l’alibi più adatto a sopprimere e giustiziare tutti i

cittadini “sospetti” di simpatizzare o parteggiare per la Resistenza Iraniana. Nei rari casi in cui le centinaia di esecuzioni sommarie ad opera del regime dei mullah venivano denunciate, al governo di Teheran non restava che fare riferimenti alla presenza dell’OMPI nella lista nera statunitense. Inoltre anche il “governo democratico” iracheno, protagonista di frequenti e spietati attacchi agli abitanti campo rifugiati iraniani di Ashraf, ha giustificato le azioni offensive e i maltrattamenti adoperati sulla Resistenza Iraniana. Del resto le radici di questa lunga storia risalgono agli anni della presidenza di Clinton che, nel tentativo di far distendere i rapporti con Teheran, accolse la proposta da parte del governo dei


mullah di inserire l’OMPI nella lista nera delle organizzazioni terroristiche americane. Teheran attraversava in quegli anni uno dei momenti più difficili della sua storia: il malcontento popolare (che in Iran non si è mai arrestato dal 1979, anno dell’insediamento al potere dell’Ayatollah Khomeini, motivo questo per cui non è esatto parlare di primavera iraniana), giunto ai massimi storici, minacciava la stabilità del regime a cui non restava altro che esercitare un’importante pressione sui governi occidentali, mettendo in cattiva luce le attività dell’OMPI. Allora anche la Gran Bretagna e l’Unione Europea seguirono l’esempio americano, mettendo l’Organizzazione Mondiale della Resistenza Iraniana era in grande difficoltà. Occorsero innumerevoli battaglie giudiziarie, manifestazioni, proteste e incontri coadiuvati dall’intervento di alcune personalità politiche di rilievo provenienti da tutto il mondo prima che la Gran Bretagna prima e l’Unione Europea poi decidessero di depennare l’OMPI dalle loro black list. Con la decisione del Dipartimento di Stato americano, attualmente gli Stati Uniti si

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assumono un ruolo chiave sulle molte situazioni che coinvolgono l’Organizzazione Mondiale dei Mujaheddin del Popolo Iraniano, che ha sedi in molti stati d’Europa e del mondo e che gode del solido appoggio di centinaia di militanti e simpatizzanti. Dopo il risultato ottenuto a Washington, la capillare attività dell’OMPI catalizzerà adesso tutte le sue energie sulle condizioni di sicurezza dei residenti del campo di Ashraf e degli abitanti di Camp Liberty. Si tratta di circa 3000 iraniani, insediatisi in territorio iracheno nel 1986 durante il conflitto Iran-Iraq, ai quali la convenzione di Ginevra ha riconosciuto lo status di rifugiati; se fino al 2003 la protezione dei rifugiati iraniani in Iraq era sotto l’egida americana, con l’esecuzione di Saddam Hussein e la formazione di un nuovo governo, i residenti di Ashraf sono passati sotto la protezione irachena. Tale protezione non è stata mai messa in pratica, anche perché il governo iracheno, a sua volta vessato e ricattato dal vicino regime dei mullah, non ha mai garantito né garantisce il rispetto dei diritti dei rifugiati iraniani e si è reso

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Ph.: Valentina Di Cesare


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protagonista di molteplici attacchi e incursioni arbitrari all’interno del campo, durante i quali hanno perso la vita decine di innocenti. Delicato dunque il ruolo delle comunità internazionali, anche e soprattutto dopo il verdetto americano che i media principali, come previsto, non hanno contribuito a diffondere nonostante la grande importanza dell’avvenimento.

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È compito dell’Associazione democratica delle donne iraniane con sede in diversi stati europei e del mondo (Italia, Francia, Olanda, Stati Uniti, Germania, etc.) diffondere e promuovere le attività dell’OMPI e contribuire il più possibile a rendere nota la reale situazione del popolo iraniano, soggiogato da 33 anni da una dittatura teocratica e privo di un’opposizione politica legalmente riconosciuta e realmente democratica sul suo territorio. Abbiamo intervistato, all’indomani dell’importante traguardo raggiunto negli Usa, la Presidentessa dell’Associazione Donne Iraniane residenti in Italia, Sharzad Sholeh. Sharzad, dopo la cancellazione dell’OMPI dalla lista nera americana, quale sarà il passo successivo? La cancellazione dell’OMPI è stata una grande vittoria per il nostro movimento. Dopo una battaglia legale e politica durata quindici anni finalmente quell’etichetta così ingiusta, terroristi, è stata cancellata dall’immagine del più grande movimento di legittima opposizione al regime iraniano. Come è stato riconosciuto da decine di ex funzionari degli Stati Uniti, l’inclusione era stata una concessione politica per ingraziarsi il brutale regime teocratico da parte dell’Occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare. La fallacia di un simile approccio è evidente. Inoltre è stata il maggior ostacolo a un cambiamento democratico in Iran e ha fatto il gioco dei mullah, prolungando il loro dominio. Come ha sottolineato Maryam Rajavi, presidente eletto del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, nel suo discorso al Parlamento europeo il 3 ottobre scorso, la cancellazione del nostro movimento dalla lista dei terroristi è stata la più grande sconfitta dei mullah sulla scena internazionale degli ultimi tre decenni. Politicamente parlando, ha molto danneggiato l’immagine del regime.

rifugiati iraniani nel campo di Ashraf e a Camp Liberty? Per ora la situazione è uguale a prima. I rifugiati politici iraniani (circa 2500) sono in gran parte ad Ashraf perché dall’anno scorso alcuni di loro sono stati spostati a Camp Liberty, un’altra zona teoricamente protetta, dove però le condizioni di vita sono molto precarie. Si spera che, con l’eliminazione dell’OMPI dalla lista nera degli USA, si impedirà al governo iracheno di attaccare di nuovo, per istigazione dell’Iran, i membri del movimento che vivono nel Campo di Ashraf e a Camp Liberty in Iraq. In passato, nel 2009 e poi nel 2011, queste azioni sono costate la vita a 49 civili indifesi, tra cui 8 donne, e hanno causato oltre 1000 feriti. Noi speriamo che ora il regime dei mullah non possa più utilizzare questo pretesto per reprimere il popolo iraniano che chiede democrazia e libertà e che questa nostra vittoria serva a dare nuova forza alla lotta per rovesciare la dittatura religiosa e creare in Iran una repubblica democratica e pluralista che rispetti la separazione della chiesa dallo stato, la parità di genere, i diritti delle minoranze etniche e religiose e rinunci al nucleare.

Si è parlato negli ultimi giorni di una delegazione UE attesa in Iran e delle conseguenti polemiche. Qual è il vostro parere? La Resistenza Iraniana condanna la visita di un certo numero di parlamentari europei in Iran sotto il regime dei mullah, e chiede che il presidente del Parlamento europeo impedisca la loro visita e che non permetta loro di distorcere il prestigio e il credito del Parlamento attraverso il sostegno alla dittatura più spietata del mondo. La visita della delegazione europea darebbe un nuovo incentivo al regime, che si impegnerà a dipingere ancora una volta un’immagine bella e quindi distorta del fascismo religioso di Teheran che, oltre a uccidere il popolo iraniano, è profondamente coinvolto nel massacro di persone in Siria, Iraq, Libano e Palestina, e sta facendo del suo meglio per avere la bomba nucleare. Il messaggio del nostro popolo e della resistenza iraniana è che dall’Occidente non cerchiamo né denaro né armi. Cerchiamo solo la fine completa della politica di accondiscendenza con i governanti criminali iraniani e il riconoscimento della Resistenza del Popolo Iraniano contro il fascismo religioso per Ci sono progressi sulla situazione dei la libertà e la democrazia.


MOST Ph.: Silvia Biasutti

ITALIA - SLOVENIA

Rapporti transfrontalieri italo-sloveni: a che punto siamo? Silvia Biasutti L’ascesa della Slovenia nel club Ue: un breve antefatto. Nel 2004 si sbriciolava ufficialmente la frontiera tra Italia e Slovenia, allorquando pompose celebrazioni salutavano l’avvento di una nuova era sancita simbolicamente con l’abbattimento in piazza Transalpina del muro che divideva, dal 1947, Gorizia dalla Jugoslavia. Nel 2007 la Slovenia completava la sua parabola europea aderendo al trattato di Schengen e adottando l’euro quale moneta ufficiale, mandando in pensione il tallero sloveno. In questi primi anni Duemila, ma in generale dal 1991 – anno della sua indipendenza - la Slovenia ha compiuto enormi passi avanti. È l’unico Paese dell’ex Jugoslavia ad essere entrato per ora nell’Unione Europea, e c’è da dire che anche prima dell’indipendenza la Slovenia era

considerata la repubblica più sviluppata della penisola. Il rapido sviluppo del Paese affonda infatti le sue radici ben prima del 1991, quando già le imprese godevano di un alto grado di autonomia, esistevano le istituzioni di base del mercato, il settore manifatturiero era diversificato, quello agricolo prevalentemente privato e sussistevano proficue relazioni con i mercati occidentali. Parte della fortuna della Slovenia è però anche da imputare alla sua felice posizione geografica. Spesso considerato lo stato più ricco dei Paesi dell’Est, ha allo stesso tempo una forte connotazione mitteleuropea e qui sta l’emblema di un popolo etnicamente omogeneo che incorpora dentro di sé l’anima slava e

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MOST Ph.: Silvia Biasutti

talune tradizioni balcaniche, senza dimenticare benzina. Come negli anni Novanta, quando al l’austerità asburgica, lascito degli anni dorati valico di Kobarid/Caporetto il sabato si formava dell’Impero Austroungarico. una lunga fila di autovetture in attesa di fare approvvigionamento di carburante. Spesso Uno speciale connubio geografico, etnico e i frontalieri facevano anche incetta di carne culturale che spiega molto della recente storia slovena, altrettanto a buon prezzo e di alta slovena. In tutto questo non si può tralasciare qualità. A quella stagione transfrontaliera ha una frontiera ieri impenetrabile, oggi fonte di fatto seguito un periodo di stasi relativamente nuove prospettive di scambio e comunicazione: prolungato, che coincide pressappoco con gli quella italiana. Il punto di vista di chi scrive anni in cui la Slovenia entrava nell’UE e il costo è quello di una friulana della provincia del carburante in Italia era ancora calmierato. udinese che da sempre vive la questione del Ma proprio quando la pratica di fare benzina “in confine come un qualcosa che permea la vita Jugo” stava diventando solo un lontano ricordo, quotidiana, la mentalità, l’economia. Da qui, al a tratti intriso di nostalgia, ecco ricomparire il confine dell’Impero, come si diceva una volta, i traffico al varco della porta d’Oriente. rapporti transfrontalieri sono tra gli argomenti più gettonati dalla politica e dall’economia. Da qualche anno l’abitudine di scollinare di là del valico sloveno è tornata con forza in tutto il Benzina e carne, la coppia più affiatata del territorio del Friuli orientale, compresa Trieste. confine. Negli ultimi anni, del confine italo- Uno dei valichi più gettonati è quello di Vencò, sloveno si è discusso nei termini più disparati: frazione di Dolegna del Collio in provincia di memoria condivisa e contesa, opportunità di Udine. Basta poco per inoltrarsi negli ultimi sviluppo turistico, protocolli di intesa, scambi rivoli stradali del territorio italiano e quasi senza enogastronomici, vecchie dispute. Ma andiamo accorgersi si è già in Slovenia, dove la strada si con ordine. Se tanti sono gli aspetti che fa più stretta e le curve sono tante perché ci si permeano i rapporti transfrontalieri tra Italia e trova nel Collio sloveno, terra dolce e ondulata Slovenia, sono anche mutevoli le modalità con dove avviene la magia del vino. Sono ricomparsi cui queste interazioni avvengono nel tempo. i capannelli di piccoli agricoltori che vendono Un esempio su tutti è il grande ritorno delle frutta e ortaggi di stagione: se ne stanno lì, gite transfrontaliere per fare rifornimento di con l’auto parcheggiata e un piccolo banchetto


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mono-prodotto ad aspettare gli Italijanski che amministrazioni locali italiane, austriache e sfrecciano da e per la stazione della Petrol. slovene, hanno reso possibile la creazione di una delle più suggestive piste ciclabili d’Europa, Di nuovo in auge anche il business della carne il cui tracciato ricalca la vecchia linea ferroviaria slovena, tanto apprezzata dagli italiani. Sul dell’Impero Asburgico. Oltre all’impareggiabile valico di Vencò, in un primo momento era un esperienza sensoriale che offre un percorso di piccolo negozio della celebre catena Mercator questo tipo, c’è una valenza simbolica notevole ad avere quasi il monopolio sugli avventori nel percorrere nel giro di poche ore un tracciato di ritorno dal rifornimento di benzina, ma che parte da Tarvisio, in Italia, e si snoda senza da poche settimane fa capolino a fianco alla soluzione di continuità fino a Jesenice, antico gettonatissima pompa di benzina una grande snodo ferroviario dell’Impero. Mesnica, una macelleria bilingue ad uso e consumo degli italiani, ben propagandata da C’è sempre un motivo per varcare il un’avvenente signorina del luogo, premurosa confine. Il turismo non è l’unico trait d’union nel distribuire i volantini promozionali della del via vai transfrontaliero. Non pochi sono nuova attività agli automobilisti in coda alla infatti coloro che hanno deciso di aprire una stazione della Petrol. società con sede legale a pochi chilometri dal confine italiano, dove le condizioni fiscali sono Una situazione, questa, che ha esasperato gli meno soffocanti di quelle italiche. Questi casi italiani che gestiscono le stazioni di rifornimento però sono scarsamente riportati sui media a ridosso del confine. Diverse compagnie tradizionali, anche perché si tratta di situazioni multinazionali hanno iniziato a praticare prezzi sbocciate tra le smagliature di un sistema ribassati in talune giornate, dove il carburante economico – italiano – poco attento alle piccole diventa conveniente quasi come in Slovenia, imprese, che per sopravvivere in tempi di crisi si anche in virtù del fatto che in Friuli-Venezia ingegnano come meglio credono. Resta tuttavia Giulia gli automobilisti di Udine, Gorizia e da sbrigliare l’ambiguità che si coagula attorno Trieste usufruiscono da diversi anni della a questi mimetismi aziendali, dove la ricchezza tessera carburante che garantisce uno sconto prodotta dovrebbe apportare anche beneficio in costante sul rifornimento, analogamente a termini di imposte laddove il business prende quanto avviene sul confine italo-svizzero. forma. Il leisure è il nuovo sodalizio tra Italia e Slovenia. Il flusso di frontalieri dall’Italia alla Slovenia non finisce qui, perché diversamente dagli anni Novanta, oggi si trasborda sempre più spesso per scopi turistici. Se si pensa che un quarto del territorio nazionale sloveno è parco naturale, non è difficile capire perché molti appassionati di sport all’aria aperta si riversino nelle splendide vallate che questo territorio vanta. Bled, Lubiana, Bohinj, Postumia e Kranjska Gora sono solo alcune delle località più blasonate, dove italiani, sloveni, austriaci e croati si mescolano nelle hall di moderni hotel, facendo riaffiorare alla memoria un certo cosmopolitismo d’antan tipico degli anni dell’Impero Austroungarico.

Altri sono i casi di transfrontalieri che si recano in Slovenia per giocare ai Casinò, per usufruire degli impianti termali, per una cura dentale o, fatto ancor più recente, per immatricolare le auto “in Jugo”, nello specifico a Nova Gorica, dove i costi amministrativi legati all’assicurazione e alle spese relative al veicolo sono decisamente concorrenziali. Ma è bene ricordare che anche gli sloveni non si esimono dal venire in gita in Italia. È sempre più frequente osservare targhe slovene (che potrebbero essere però anche di proprietari italiani), che fanno capolino nei parcheggi dei grandi magazzini della provincia di Udine, o sulla celebre “Pontebbana”, via che collega Udine a Tarvisio e da poco ribattezzata “via dello shopping”, a cui si aggiunge il – triste – primato di essere la più grande arteria di Emblema di questa osmosi ritrovata tra popoli, negozi d’Europa. è la neonata ciclovia “Alpe Adria”, un progetto europeo di riconversione di un bene pubblico Vecchie e nuove barriere: un bilinguismo abbandonato e restituito ai fruitori con valenza ancora tutto da fare. Stando alla visibile turistica. Gli sforzi congiunti delle diverse vivacità degli scambi che animano il confine

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italo-sloveno in questi recenti anni, non è un azzardo affermare che ci si trova di fronte a un orizzonte più felice rispetto agli anni Novanta, dove la pratica transfrontaliera era sbilanciata a favore della rotta Italia-Slovenia. Certo la Slovenia sta affrontando un periodo di recessione non sottovalutabile, un debito pubblico in ascesa e una notevole sforbiciata di stipendi e pensioni, che vanno ad erodere direttamente il potere d’acquisto. Un aspetto sembra però emergere abbastanza chiaramente e cioè che le autodifese e i pregiudizi tra i due popoli si sono leggermente attenuati. Abbiamo imparato a conoscerci meglio e a rivalutare vecchie fissazioni prodotte dalla retorica politica degli anni della cortina di ferro. Molti standard sloveni si sono innalzati notevolmente e ci fidiamo di più dei servizi offerti. Gli sloveni amano fare acquisti in Italia e viaggiare per turismo. Gli affari transfrontalieri non mancano e molti aspetti legati alle possibilità di business potrebbero migliorare nei prossimi anni.

non da poco per due popoli che producono interscambi intensi e quotidiani dove, serve dirlo, gli sloveni si dimostrano ancora in vantaggio perché largamente più bilingui degli italiani. Dal nostro lato persiste ancora il bilinguismo friulanoitaliano e qualche piccolo focolaio di bilinguismo tedesco-italiano, ma fatica a decollare una visione più “slavofona” della quotidianità. È vero che l’inglese è ormai la lingua franca più diffusa, soprattutto tra i giovani, ma è inutile dire che l’idioma d’oltremanica non basta, specie in un’ottica di un più incisivo sviluppo dei rapporti transfrontalieri tra le due nazioni. Un esempio sono gli sforzi prodotti dai vari progetti europei Interreg, uno su tutti la formazione di figure professionali in campo di sanità, information technology e turismo che parlino fluentemente entrambe le lingue. A conferma che una visione europea e globale non può assolutamente prescindere dalla valorizzazione delle peculiarità linguistiche, etniche e culturali specifiche e che solo attraverso la comprensione di questa fondamentale chiave di volta è possibile La lingua: una necessità imprescindibile. confrontarsi tra popoli confinanti e produrre Rimane la barriera della lingua, un ostacolo virtuose interconnessioni. Ph.: Silvia Biasutti


MOST Ph.: Gazprom

ENERGIA

La solitudine dello Zar e l’Europa che non c’è Pietro Acquistapace C’è crisi, c’è grossa crisi. Inevitabili li ripercussioni sulle relazioni internazionali, soprattutto in un settore commerciale fondamentale come quello energetico. I prezzi salgono alle stelle e l’acquisto di forniture diventa sempre più complicato, anche per acquirenti del calibro dell’Unione Europea. La politica energetica del vecchio continente è ormai dominata da un vocabolo che viene ripetuto come un mantra, forse anche come rituale scaramantico, e che sembra voler dettare una linea di condotta a tutti i paesi membri: diversificazione.

Gazprom interviene periodicamente l’UE che lo scorso settembre ha aperto una procedura d’inchiesta contro la compagnia russa, la quale rischia una multa pari al 10% del suo fatturato annuo: una cifra ingente, pari a circa 150 milioni di dollari.

L’indagine analizzerà il comportamento di Gazprom in alcuni paesi dell’Europa CentroOrientale (Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Polonia, Romania e Bulgaria) dove il gas russo si è mantenuto su tariffe alte nonostante Mosca abbia invece concesso sconti a Francia, Diversificazione delle fonti energetiche, costi- Germania e Italia. Sembra quindi che dietro la tuite ad oggi soprattutto dal gas venduto dal vicenda vi sia una questione politica che rischia colosso russo Gazprom, monopolio che spinge di incrinare gli equilibri interni europei. l’Unione Europea verso le risorse azere, legando così la propria sorte ai sempre instabili equilibri Tempi duri per Gazprom: le difficoltà del della regione caucasica. Contro l’egemonia di gigante. Il procedimento mette Gazprom, e

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quindi Mosca, di fronte a problematiche molto complesse, perdipiù in un contesto non felicissimo per la compagnia russa che si trova di fronte alla necessità di modernizzare le proprie strutture, obsolete e quindi sempre meno competitive. Per mettersi al passo coi tempi servono capitali e Mosca sta tentando di trovare un equilibrio tra le aperture agli investitori stranieri (in particolare per quanto concerne i giacimenti artici) e la volontà di non perdere il controllo che di fatto esercita sulla compagnia petrolifera. Proprio la questione delle

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“liberalizzazioni” sarà fondamentale nel futuro della politica russa. A partire dagli anni ’90 il governo si è mosso nella maniera esattamente opposta arrivando a monopolizzare il mercato energetico interno attraverso Gazprom; questo per combattere il potere detenuto da quelli che erano i “nuovi ricchi”, figli dell’ondata liberista seguita alla fine dell’Urss. Ancora oggi questi “clan affaristici” hanno un peso non irrilevante e l’incrinarsi del controllo su Gazprom rischia di aprire falle pericolose nella politica di Vladimir Putin. Ph.: Gazprom


Putin tra due fuochi. Tuttavia il pericolo di perdere gli introiti derivanti dal mercato europeo potrebbe decretare la fine di Gazprom, e il fatto che il colosso russo stia pensando di scindersi per distinguere il ramo produttivo da quello distributivo, sembra essere un chiaro segnale che le minacce dell’Unione non sono cadute nel vuoto. Tanto più che per Mosca si profila anche un “pericolo cinese”, con Pechino che non vedrebbe negativamente un’Europa più forte e indipendente con una Russia in difficoltà. La Repubblica Federale e la Cina, infatti, sono

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da tempo in stallo nella trattativa per il prezzo del gas che dalla Russia viene venduto al paese asiatico: Mosca vorrebbe legare il prezzo del gas a quello del petrolio mentre il governo cinese chiede sconti sul prezzo in base alla quantità di combustibile acquistato. Vladimir Putin deve quindi gestire una situazione delicata, in cui se il mantenimento della struttura attuale di Gazprom ne mette a rischio la sopravvivenza, d’altra parte l’apertura alle richieste europee (e cinesi) potrebbe implicare una resa alla politica della quale è grande fautore il Presidente Medvedev, nonché ai grandi finanzieri russi. Il tutto complicato dall’importante operazione finanziaria con la quale la Rosneft ha messo prepotentemente i piedi in British Petroleum. A ottobre la compagnia statale russa ha difatti rilevato il 100% della joint-venture russo-britannica Tnk-Bp, diventando la più grande società petrolifera quotata in borsa e portando il Cremlino a dominare anche il mercato dell’oro nero, non bastasse quello del gas. Un’Unione Europea a doppia velocità? Sull’altro versante della contesa non è semplice neanche la posizione dell’Europa, che per il 25% dell’import di gas dipende dalla Russia ed è costretta a fare i conti con la difficoltà di impostare una politica comune ancora ben lontana dall’essere raggiunta. Da un lato, la necessità di nuove fonti di approvvigionamento porta l’Ue a dipendere dalle decisioni azere per quanto concerne il futuro partner del consorzio Shah Deniz II, a confidare inoltre nella risoluzione tra Azerbaijan e Turkmenistan in merito allo sfruttamento dei giacimenti del Mar Caspio (con i due paesi partner dell’Unione Europea nel gasdotto transcaspico) e, infine, a ridimensionare il progetto Nabucco; dall’altra parte ci sono gli interessi particolaristici dei 27 a ritardare le mosse dell’Unione. E se la mancanza di una politica comune sembra essere il tratto distintivo delle scelte energetiche europee, il fatto che le prese di posizioni più forti contro Gazprom vengano dall’Europa Centro-Orientale è significativo di come il gas russo rischi di frammentare il panorama politico del vecchio continente. Il gioco delle coppie sui gasdotti. Paesi come Francia, Germania e Italia hanno un certo

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potere di contrattazione con Gazprom, mentre repubbliche ex sovietiche quali Polonia o Ucraina dipendono del tutto dalle importazioni dalla Russia: una differenza che potrebbe creare, per non dire accrescere, la realtà di un’Europa a doppia velocità. A far tribolare l’Unione Europea è anche la presenza di compagnie petrolifere con forti interessi finanziari a collaborare con Mosca, con le conseguenti problematiche politiche. Mentre l’Unione investe su progetti come Nabucco, l’italiana ENI è tra i principali partner di Gazprom in South Stream, che di Nabucco è diretto concorrente; mentre Mosca minaccia l’Europa Centro-Orientale attraverso la chiusura dei rubinetti energetici, forti interessi tedeschi

sostengono North Stream, il gasdotto russo nato proprio per evitare il transito nell’Europa Centro-Orientale. La politica di Mosca di favorire accordi bilaterali per le sue forniture energetiche di certo non aiuta la cooperazione tra stati europei: per una Bulgaria che ottiene sconti in cambio dell’ingresso in South Stream, c’è una Lituania che si appella all’arbitrato della Camera di Commercio di Stoccolma denunciando il sovrapprezzo messo in atto da Gazprom. La Polonia, sostenuta dai paesi baltici, addirittura ha firmato importanti contratti energetici con il Qatar per importare gas e diventare una


sorta di distributore per i paesi vicini, mentre l’Ungheria, andando contro tutte le direttive europee miranti alla liberalizzazione del mercato, nazionalizza E.ON, che controlla il 65% del gas ungherese; per finire l’Ucraina, forse sfiduciata dalla protezione di Bruxelles contro Mosca, decide di rivolgersi direttamente al produttore prendendo informazioni per un eventuale ingresso nel consorzio che gestisce il progetto TANAP. Rischiare il tutto per tutto. Si potrebbe quindi prefigurare una spaccatura in seno all’Ue tra paesi più propensi ad una collaborazione con Mosca ed altri che, anche per le loro vicende Ph.: Dean Terry

MOST

storiche, hanno rapporti più problematici con il Cremlino. La questione è delicatissima ai fini di una futura politica europea, e le possibili sanzioni contro Gazprom potrebbero mettere in discussione le strategie energetiche dei singoli paesi membri dell’Ue proprio nel momento in cui la “battaglia per le pipelines” si fa sempre più serrata e vitale. Unione Europea e Russia rischiano di essere due grandi sconfitte dagli eventi, costrette a trovare accordi per reciproco interesse, con un occhio vigile sulla Cina. In ogni caso, la questione dell’”appartenenza” dell’Europa Centro-Orientale rischia di diventare oggi più che mai un fattore destabilizzante, e foriero di complicazioni geopolitiche.

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MOST Ph.: Bolshakov

DAGHESTAN

Prove di tolleranza a Derbent Giovanni Bensi Derbent è il centro storico e culturale del Daghestan. Quando gli arabi musulmani conquistarono la città la chiamarono Bāb alAbwāb, la “Porta delle Porte” perchè apriva le vie verso il Grande Caucaso. Oggi il Daghestan è al centro di conflitti etnici, religiosi e politici che lo mantengono sempre in una situazione di pre-guerra civile con pericolo di invasione da parte della Russia, di cui pure è una repubblica autonoma.

il governo daghestano, appoggiato dal “clero” musulmano “confraternale” (sufico) e moderato, annuncia continuamente piani che danno luogo a interminabili dibattiti e discussioni, ma raramente portano a risultati concreti. Recentemente l’uccisione, ad opera di una donna-kamikaze legata agli ambienti salafiti, dello sheykh Said Afandi Cirkawi, l’ustād (“maestro”) più autorevole della confraternita sufica Naqshbandiyya, ha segnato un ulteriore punto a favore della violenza e della guerra Uno dei problemi che preoccupano le autorità civile. è quello dell’estremismo islamico, i cosiddetti salafiti e wahhabiti che, secondo la versione Il documento: la Dichiarazione di Mosca. ufficiale, sono estranei all’islam locale e Questi problemi sono stati trattati appunto a sarebbero penetrati nella regione al seguito Derbent, nel corso di una tavola rotonda dedicata di al-Qa’eda e di infiltrati taliban afghani e alla “resistenza contro l’estremismo religioso pachistani sulla scia delle guerre cecene. Per e il terrorismo”, in particolare all’educazione tentare di contrastare l’opera degli estremisti, della gioventù nello spirito della tolleranza


religiosa. La discussione ha scelto come base la “Dichiarazione di Mosca sulle questioni del jihad, dell’applicazione della norme della shari’a e sul califfato”, adottata da una conferenza di teologi musulmani, russi e stranieri, riuniti a Mosca e a Groznyj il 25-27 maggio 2012 con il patrocinio del Cremlino. Il documento ha un orientamento decisamente antifondamentalista, anche se una certa diffidenza è certamente suscitata dal fatto che fra gli sponsor vi è anche il leader ceceno Ramzan Kadyrov.

MOST

A sua volta il prof. Komeb Djalilov, membro del Centro di ricerche strategiche presso il presidente del Tagikistan (Emomali Rakhmon) così esemplifica la wasatiyya: essa “significa che il musulmano è obbligato a verificare, letteralmente ogni giorno come il suo comportamento corrisponda alla realtà, a evitare gli estremi e il dogmatismo che possono condurre il musulmano e tutto il mondo islamico alla stagnazione e ad un’ancor maggiore decadenza di civiltà. Il dogmatismo, - ragiona ancora Djalilov, - di fatto, non è proprio all’islam, ma col tempo questa ideologia è penetrata nell’islam ed in un certo periodo è diventata dominante, generando l’estremismo. Esso, sostiene ancora il professore tagiko, - matura dentro il dogmatismo religioso, come antitesi alla stagnazione e impedisce al musulmano di cercare la “via mediana” indicata nel Corano. Il principio coranico della wasatiyya, - conclude Djalilov, - praticamente era caduto nell’oblìo fino agli attentati dell’11 settembre 2001 e di essa alcuni ricercatori si sono ricordati solo dopo questa tragedia”.

La “via mediana” all’islam. L’idea base della “Dichiarazione” è che il musulmano moderno, che vive in una società pluralista, deve ispirarsi al principio della wasatiyya, un termine, presente nel Corano, che significa “centralità”, “via mediana”, ma anche “compromesso”, e indica l’atteggiamento del musulmano che sa adattare la propria vita alle cangianti situazioni storiche e ambientali. Esiste un trattato dell’esegeta islamico medievale Ibn-Taymiyya (XI-XII sec.) intitolato “Šarh al-aqida al- wasatiyya”, (“Spiegazione della dottrina della via mediana”) che può essere istruttivo a questo proposito (anche se, per altri versi, Ibn Taymiyya ha un La posizione sulla jihad. Tornando alla posto fra i padri del fondamentalismo). “Dichiarazione” di Mosca, essa, riferendosi Ph.: Bolshakov

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MOST Ph.: Bolshakov

anche a idee presenti nell’islam mondiale, accredita la wasatiyya (accettazione del mondo moderno) come l’opposto del jihad (“guerra santa”), ovvero dell’ostilità violenta contro la modernità in nome di pretesi “fondamentali” dell’islam. Gran parte del documento è dedicata infatti all’illegittimità dell’uso del jihad come strumento di lotta politica e di “arma” contro i non musulmani. Nel documento moscovita leggiamo, per esempio, che è “inammissibile ridurre l’islam al jihad e il jihad all’islam”, oppure che “gli omicidi, gli attentati, le esplosioni compiute dai fanatici nel Caucaso e altre regioni sotto lo slogan del jihad (...) in realtà non sono jihad e non hanno alcuna relazione con esso”. Inoltre “la miscredenza (“kufr”) non è un motivo che giustifica il commettere aggressioni verso le persone, attentati contro la loro vita e le loro proprietà”. Insomma, una condanna delle dottrina e della prassi delle forze integraliste. Alla tavola rotonda di Derbent, in particolare, ha preso parte N. Kazimov (Qazimov) direttore del GUO (“Glavnoe Upravlenie Obrazovanija”), “Direzione Generale dell’Istruzione”) il quale ha insistito sul concetto che “l’educazione della gioventù nello spirito della tolleranza

(wasatiyya), basata sui principi umanitari della moralità, è uno dei cardini fondamentali della politica dello stato”. Nè poteva mancare un intervento del presidente del Daghestan Magomedsalam Magomedov, un uomo di Vladimir Putin, che ha auspicato “un pianificato e sistematico lavoro negli istituti di istruzione della città per creare un’atmosfera stabile e un’ambiente etico-spirituale sano nella società” attraverso la lotta contro i jihadisti e la pratica della wasatiyya. Una giusta risoluzione. Dopo aver discusso la Dichiarazione di Mosca, i convenuti di Derbent hanno approvato una risoluzione che, asseriscono, “aiuterà a superare le discordie e a formulare una chiara posizione nella questione dell’insegnamento della religione negli istituti di istruzione della città”, evidentemente con l’insistenza sulla tolleranza interconfessionale. La risoluzione non propone però misure concrete per favorire la convivenza fra musulmani “confraternali” e “salafiti”, sostenitori della wasatiya o del jihad, cercando di riportare questi ultimi nell’alveo della tolleranza sulle orme della dottrina coranica della wasatiyya. Per questo, forse, i tempi non sono ancora maturi.


SOCIETÀ

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MOST Ph.: Silvia Padrini

ALEVITI

Storia di una minoranza nel cuore della Turchia Silvia Padrini In Turchia sono sei milioni. O forse quindici. abbassare il più possibile l’impatto demografico di una minoranza presente sul territorio. Dalla Magari venti. parte della fetta di popolazione indagata, poi, Le stime demografiche sugli aleviti non potreb- si manifestano due forze contrapposte. Da un bero essere più vaghe. Quello che è certo è che lato, le associazioni per la tutela della minoranza essi rappresentano la più consistente minoranza alevita puntano su numeri molto consistenti per religiosa presente in Anatolia, nonché uno dei dare sostegno alle istanze di riconoscimento gruppi più perseguitati e sotto-rappresentati e tutela della propria identità; dall’altro è delle storia ottomana e turca. Se dell’etnia sempre stato molto difficile, nell’ambito delle curda si è (a ragione) tanto parlato, una coltre indagini demografiche, distinguere gli aleviti di ignoranza e disattenzione ha invece soffocato dal resto della popolazione e ciò ha portato a nel nulla la questione alevita. stime fortemente al ribasso. Questa tendenza si deve alla secolare pratica della taqiyya o Uno studio del 2008 commissionato dall’esercito dissimulazione, esercitata dalla maggioranza dei parla di una decina di milioni di appartenenti al gruppi sciiti per sfuggire alle tante persecuzioni gruppo etnico-religioso degli aleviti, ma in altre susseguitesi nel corso della storia islamica. stime essi appaiono raddoppiati o dimezzati. Le ragioni di questa incredibile distanza tra Setta sciita o gruppo extra islamico? Le cifre sono principalmente tre. In primis, la peculiarità della comunità alevita. La traditendenza naturale delle stime governative ad zione alevita, dall’origine controversa e dibattuta,


affonda le proprie radici probabilmente nel XIII secolo. Come i drusi, gli yarsa e gli alauiti, gli aleviti derivano da quel gruppo appartenente alla shi’a che decise di seguire Alì -il cugino e genero di Mohammed- creando una corrente all’interno dell’islam che non è mai riuscita a liberarsi dell’etichetta di “deviante”. Per gli aleviti, come per gli altri gruppi sciiti nel mondo, è quotidiana anche la messa in discussione della loro appartenenza alla comunità musulmana. Nel caso della minoranza turca, i rituali e alcuni precetti si discostano alquanto da quelli che un musulmano sunnita considera obbligatori per ogni fedele. Non una moschea (camii in Turco), bensì una Cemevi è il luogo dove la comunità alevita si ritrova per le preghiere. Il dede, guida spirituale, conduce la cerimonia, chiamata cem e caratterizzata da un’importante presenza di musiche e danze che si deve alle forti influenze del misticismo sufi nella corrente. Un altro fattore di distinzione è la lingua della preghiera. Se i musulmani sunniti di tutto il mondo sono accomunati dalla recita delle preghiere nella lingua di Allah, cioè l’arabo coranico, le cerimonie alevite si svolgono in turco o, talvolta, in curdo. I precetti coranici assumono un valore e una priorità diversi nella prospettiva alevita e alcuni principi “illuminati” sono alla base della professione di fede: l’amore e il rispetto per tutti, la tolleranza verso le altre religioni ed etnie, il rispetto per i lavoratori e l’uguaglianza tra uomo e donna, anche nella preghiera. Tra le varie fonti di confusione rispetto a questa comunità dell’Anatolia pressoché sconosciuta, ci sono anche i vari nomi e categorie con i quali essa viene riconosciuta. Ad esempio, gli aleviti sono chiamati anche Bektashi, per il loro forte legame tradizionale con Hajji Bekhtash Veli, un santo del XIII secolo. Lasciate da parte le questioni di definizione, il problema principe rimane il costante tentativo turco di omologazione culturale ai danni delle minoranze. Aleviti e Turchia: tra persecuzioni, dissimulazione e partecipazione politica. Quando si parla poco di qualcosa è perché il soggetto non esercita grandi influenze, oppure perché conta troppo e a qualcuno non conviene. Così ci chiediamo: quanto incide la presenza alevita in Turchia? Oggi, individui di fede ed etnia alevita si trovano pressoché in ogni parte

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della Turchia, ma originariamente la comunità si era sviluppata in Anatolia Centrale. La città di Tunceli (un tempo Dersim) è ancora oggi a maggioranza alevita, e rimane l’unica in tutta la Turchia a presentare questa condizione. A causa della forte migrazione dalle campagne alle città avvenuta a partire dagli anni ‘60, molti aleviti abitano nelle grandi metropoli della Turchia occidentale, come dimostra il gran numero di cemevi presente ad Istanbul: più di sessanta, sette nel solo quartiere di Ümraniye. I capitoli della storia che raccontano la problematica relazione tra aleviti e politica in Anatolia sono dominati dalle ostilità e dalla perpetua condizione dei primi di minoranza indesiderata, quando non perseguitata. Durante l’impero ottomano, secondo la costituzione, l’unica religione di stato era l’islam (inteso come sunnita) e gli aleviti di conseguenza erano considerati eretici; la situazione non migliorò con le Tanzimat né con l’avvento dei Giovani Turchi che, per affermare l’identità turca, praticarono azioni di assimilazione forzata o espulsione nei confronti di coloro che differivano per etnia, religione, o lingua.

Uno spiraglio di luce le comunità alevite lo videro con l’arrivo di Mustafa Kemal. Una delle sei “frecce” a fondamento della nuova Repubblica turca era infatti il secolarismo, e con esso la promessa di un’uguaglianza formale e sostanziale a tutti i livelli della società e della politica. II tenace sentimento anti-religioso, però, colpì anche la religione alevita che fu abolita come istituzione e fu costretta a rimanere in vita soltanto attraverso l’aspetto “culturale”. Le belle speranze riposte in Atatürk furono tradite rapidamente anche da pesanti dichiarazioni dello stesso, che nel ‘35 li definì “un ascesso che va distrutto”. Nonostante questo, gli aleviti mantengono ancora oggi un’incrollabile fiducia nel kemalismo. Dopo soli tre anni dalle minacciose parole del Presidente, avvenne l’episodio più doloroso nella memoria alevita. Nel 1938 a Dersim (oggi Tunceli) le autorità reagirono a un’insurrezione curda con una sproporzionata e violenta repressione, finita col sangue di oltre 13mila vittime. Oltre a queste, 22mila persone furono costrette all’esilio e una generazione di bambini cresciuti negli orfanotrofi fu sottoposta a una sistematica operazione

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di “turchizzazione”. L’obiettivo non era, evidentemente, il mantenimento del semplice ordine pubblico durante un’insurrezione e, come emerso da documenti recuperati in tempi recenti, il progetto era già nell’aria da almeno tre anni. Nonostante le sue dimensioni lo inscrivano tra i peggiori traumi vissuti da questa comunità, l’episodio appena riferito è solo uno di un’inquietante serie di massacri. Dagli anni ‘60 in poi la Turchia visse gli eventi di Çorum, Malatya, Maras, Gazi, fino a giungere alla strage di Sivas del 1993 in cui, in un culmine di odio e follia alcuni uomini diedero fuoco ad un albergo che ospitava musicisti e cantanti nel giorno in cui celebravano Pir Sultan Abdal, un santo e poeta molto venerato nella tradizione alevita. Quel giorno, a Sivas, in un comune albergo, 37 persone morirono bruciate vive. Le famiglie alevite non sono nuove alla triste necessità di spostarsi, fuggire, nascondere la propria appartenenza. Come lo è stato nel corso di centinaia di anni per le tante minoranze presenti nell’universo musulmano, la pratica della dissimulazione ha costituito un fattore chiave per la sopravvivenza. La diffidenza nei

Ph.: Adam Franco

confronti dell’esterno ha portato la comunità alevita a chiudersi. Negli anni ‘70 si assiste però ad un fenomeno nuovo: solleticati dal vento delle teorie marxiste che in Turchia ha soffiato forte, gli aleviti per la prima volta rivendicano apertamente il diritto alla propria identità. La classe media e gli studenti si risvegliano e denunciano a gran voce i tentativi di assimilazione attuati dallo Stato turco. La dissimulazione lasciava il posto alla protesta politica. Come nel caso di altri movimenti sessantottini, però, il periodo di spinta rivoluzionaria finì con qualche importante risultato e molte richieste lasciate cadere nel vuoto. La non rappresentanza, l’apertura al dibattito e il coinvolgimento nelle questioni Turchia-Siria: l’attualità di una minoranza oscurata. Ciò che è più importante per una minoranza è il riconoscimento della stessa come parte della sfera politica del Paese in cui risiede. Il non sentirsi estranei, ma cittadini a tutti gli effetti. Lunghi anni di lotta politica, richieste e rivendicazioni non hanno portato a risultati soddisfacenti da questo punto di vista. Nel 2010 un solo membro del parlamento turco


MOST faceva parte della comunità alevita. Come è noto, per quanto le stime siano approssimative, la percentuale di popolazione alevita in Turchia è ben superiore all’1%.

Erdoğan aveva dato il via a un confronto sul tema delle minoranze a cui gli aleviti sono interessati doppiamente, dal momento che un terzo di essi è anche di etnia curda. Il programma istituzionale prevedeva degli incontri tra il governo e i rappresentanti della comunità. La frammentazione interna e la diffidenza nei confronti dello Stato ha portato anche questo progetto di avvicinamento a un punto morto. Ali Balkız, il presidente della Federazione Alevi-Bektashi, ha espresso il suo scetticismo confidando che piuttosto che di avvicinamento, questi tentativi da parte del governo potrebbero definirsi di “assimilazione dalla parlata suadente”. In questi giorni, la notizia dell’inaugurazione di un monumento per commemorare le tante vittime del massacro di Dersim che non ebbero nemmeno una degna sepoltura lascia pensare ad una grande opportunità, sia per gli aleviti che per il governo.

Un altro problema di fondo affligge la società turca contemporanea e si riscontra nell’effettiva disuguaglianza di trattamento tra le fedi presenti. Una dimostrazione palese la offrono l’esistenza e il funzionamento del Diyanet, ovvero il Direttorato generale per gli affari religiosi. Questa istituzione, foraggiata dallo Stato con circa un miliardo di dollari l’anno provenienti dalle tasche di tutti i contribuenti, rappresenta solo ed esclusivamente la prospettiva e gli interessi sunniti. Lo ha apertamente ricordato il presidente della Repubblica Gül pochi mesi fa nel definirla responsabile dell’importante compito di “insegnare la nostra religione alla nostra gente nel modo più corretto, pulito, conciso e condurli lontani dalla superstizione” [corsivo del redattore]. Una perfetta interpretazione del Riaprire pagine di storia archiviate da tempo accettando e accertando la verità da un lato e concetto di libertà religiosa a la turca. dall’altra parte insistere e dialogare sui diritti di Qualche timido accenno di cambiamento, cittadinanza che spettano in modo eguale a tutti tuttavia, si nota negli ultimi tempi. Nel 2011 i cittadini della Turchia può essere un ottimo il presidente del Diyanet Görmez ha visitato punto di partenza per affrontare una grande una cemevi di Istanbul, simboleggiando questione irrisolta. La Turchia è chiamata a un’apertura verso il riconoscimento delle stesse farlo da più fronti, prima di tutti quello europeo, come luoghi di culto. Ancora prima, nel 2009, e non può continuare a sfoggiare l’espressione

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“diritti umani” attraverso operazioni di chirurgia plastica politica. È necessario arrivare alla sostanza, affrontare il cuore dei problemi. Anche perché, spesso, instabilità interna può significare instabilità esterna.

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Gli aleviti sono sempre stati una minoranza dalle rivendicazioni non armate, pacifiche ed espresse sin troppo sottovoce per uno Stato che non ascolta. La situazione di crisi nel sud della Turchia a causa della guerra in corso in Siria potrebbe vedere un altro attore entrare in gioco: proprio gli aleviti della provincia di Hatay (circa 500mila persone). Gruppi neo-nazionalisti hanno sfruttato il momento di subbuglio per cercare di politicizzare gli aleviti di questa zona, probabilmente nel doppio tentativo di provocare

Ph.: Silvia Padrini

un conflitto etnico ad Hatay e spingere il governo turco ad abbandonare la sua attuale politica anti-Assad. Tra i possibili ulteriori fattori di crisi, la vicinanza culturale tra aleviti turchi e alauiti siriani. Nonostante siano due comunità diverse e indipendenti, esse condividono la stessa origine (Aleviti è la pronuncia turcofona di alauiti e deriva da “Alì”) e il sentimento di risentimento nei confronti della prepotente maggioranza sunnita. Una particolare attenzione alle minoranze, anche quelle dai contorni offuscati e meno sostenute dalla comunità internazionale, è dunque strumentale all’ordine e alla pace, oltre che necessario per potersi definire, a buon ragione, una democrazia.


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Ph.: Andrea Brignoli

A SCUOLA VENGO ANCH’IO! NO, TU NO

L’accesso all’istruzione per i bimbi Rom in Est Europa Simona Mattone

Parlare di Rom non è semplice. Affrontare la questione da un punto di vista neutro non è impossibile, ma questo accade di rado. Si aprono scenari vasti dai collegamenti controversi, ma dai termini comuni: integrazione, rispetto, diritti umani, parassitismo, povertà, eguaglianza, democrazia, inclusione, istruzione. Proviamo a semplificare le cose.

della minoranza etnica più numerosa d’Europa dipenda esclusivamente dalla sua scarsa alfabetizzazione. Ipotizziamo anche che questo dipenda da un atteggiamento restio all’integrazione. Immaginiamo adesso uno Stato che spenda risorse e soldi pubblici in politiche di intervento e di inclusione per convincere queste genti che i bambini hanno il diritto e il dovere di frequentare le scuole, e che questo Poniamo il caso, per esempio, che il problema darà loro gli strumenti per ottenere un lavoro della discriminazione e della marginalizzazione dignitoso. Nella nostra rapida fantasia qualche


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famiglia arriverebbe forse a comprendere il Europea dei Diritti Umani, che aveva ordinato alla valore dell’educazione e rinuncerebbe all’ausilio Croazia di prendere significativi provvedimenti dei bambini a casa, nei campi, per strada. (caso Oršuš and Others v. Croatia, Application no. 15766/03). Nella regione di Medimurje i Come la mettiamo però se proprio il primo tassi di assenteismo e abbandono precoce della giorno di scuola a questi bambini fosse negato scuola raggiungono quasi l’84 per cento per i l’accesso? bambini Rom, e il fenomeno della segregazione in classi speciali è ancora ricorrente. Il fatto. È successo a Gornji Hrašćan, in Croazia, il 17 settembre. A un gruppo di bambini Rom è Se da una parte alle comunità zingare risulta stato impedito di partecipare al primo giorno in difficile mandare i propri figli a scuola - le cause un asilo misto a causa di una protesta di genitori sono varie: ignoranza, povertà, precedenti non-Rom, sotto gli occhi inerti della Polizia esperienze negative di integrazione-, è anche presente sul posto. I bambini arrivavano da vero che l’atteggiamento dei genitori non-Rom una precedente struttura, la scuola di Macinec, è spesso di resistenza verso norme nazionali troppo piccola per poter contenere tutti. La che supportano formalmente le scuole miste e contea di Macinec, il Ministero dell’Educazione e integrate. il Roma Education Fund avevano infatti stabilito in totale accordo il trasferimento nei locali di Le motivazioni della protesta a Gornji Hrašćan Gornji Hrašćan. Dopo l’incidente, i bambini contro l’arrivo dei bambini Rom, e si badi bene sono stati riportati alla scuola di Macinec, dove che parliamo di bambini in età prescolare, dai hanno iniziato le attività in modo regolare a tre ai sei anni, risiedono in questioni di igiene e partire dal giorno seguente la protesta. disciplina, dicono i genitori. Le preoccupazioni, così forti da arrivare a bloccare l’ingresso di una La condizione scolastica di Macinec era stata scuola, concernono il rallentamento che i Rom definita discriminatoria due anni fa dalla Corte imporrebbero sul processo di apprendimento Ph.: Andrea Brignoli


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della classe. Gli stessi genitori ci tengono a con numeri e dati poco chiari: il censimento specificare di non avere niente contro i Rom: dei Rom è un annoso problema, per lo scarso “Noi non siamo razzisti, però...”. impegno dei governi che preferiscono ignorare la questione, ma anche a causa dei Rom stessi A questi scrupoli la legge croata risponde con spesso riluttanti all’identificazione con un gruppo chiarezza: dal 2010 la scuola è obbligata a fornire etnico. La collezione dei dati è inoltre ostacolata assistenza speciale ai bambini che non hanno da alcune legislazioni che impedirebbero la una perfetta padronanza del croato e sono stati raccolta su base etnica. Lo studio No Data, quindi introdotti dei test specifici per valutare le No progress (OSI, 2010), evidenzia come la forme appropriate di assistenza a ogni singolo mancanza di cifre attendibili costituisca uno dei bambino. Per accontentare l’Europa, le autorità principali fattori di fallimento della lotta contro croate dichiarano che classi speciali solo per l’ineguaglianza e la discriminazione. Rom non esisteranno più come conseguenze di tali misure. Queste saranno sostituite da lezioni I numeri. La più grande minoranza europea di lingua, organizzate in modo che chi ne debba conta circa 12 milioni di persone ed è una usufruire possa frequentare le principali attività popolazione giovanissima: il rapporto RECI rileva della scuola e della classe mista cui appartiene. un’età media sui 25 anni contro i 40 dell’Unione Europea nel complesso. La prospettiva di vita è Un documento importante: il rapporto tuttavia al di sotto della media a causa di scarsa ECRI. Questo è quanto emerge dal recente igiene e delle condizioni di vita più rischiose che Rapporto ECRI (European Commission riguardano larga parte dei Rom, a cui le cure against Racism and Intolerance) di settembre sanitarie sono spesso negate. Il 35,7% del 2012, secondo il quale il governo croato ha totale ha un’età al di sotto dei 15 anni (mentre incrementato le proprie misure per un accesso nell’UE gli under 15 raggiungono appena il 15,7% equo all’istruzione e all’educazione, anche a dell’intera popolazione) e solo una piccola parte quella prescolare. Non vengono nascosti però di questa fetta riceve un’educazione scolare dubbi e motivi di allarme tra cui la scarsa rap- primaria completa. UNICEF stima che solo un presentanza dei gruppi minoritari nel settore Rom su quattro non-Rom riesca a completare delle pubbliche amministrazioni e un numero la scuola primaria. L’educazione di grado più sempre troppo vasto di individui Rom senza alto è ancor meno praticata: incrociando le documenti di identità e di cittadinanza. Il Rap- stime, solo un numero compreso tra il 10 e il porto RECI (Roma Early Childhood Inclusion) 36% dei Rom raggiunge la scuola secondaria, sponsorizzato da Open Society Foundation, Ro- mentre nei quattro paesi considerati meno del ma Education Fund e Unicef, mette luce sulle due per cento ha accesso ai livelli più alti. A continue violazioni dei diritti dei bambini Rom, una tendenza europea occidentale che vede ai quali il diritto all’educazione e all’istruzione è tassi di istruzione in crescita per le donne, si quasi del tutto precluso, a ogni livello. oppone un Est in cui l’abbandono degli studi è un fenomeno a maggioranza femminile. Un La ricerca si ripropone come studio dei tassi e dato scoraggiante sul fronte delle opportunità delle politiche di inclusione in quattro pae-si di genere e anche di quelle infantili, se si pensa dell’Europa dell’Est - Repubblica Ceca, Macedo- che è stata dimostrata la correlazione tra il nia, Serbia e Romania - e come monito per un livello di istruzione della madre e il successo o miglioramento della situazione, sottolineando delle difficoltà del bambino a scuola. l’importanza dell’età prescolare nella formazione di un essere umano. Mentre gli studiosi insistono La discriminazione nelle scuole: fattori. sull’importanza dell’educazione prescolastica I principali elementi discriminatori sofferti per la crescita e la formazione del carattere, dai Rom in fatto di istruzione vanno dalla questa è pressoché inarrivabile per I bambini mancanza di servizi alle procedure di iscrizione Rom: in tutta Europa solo il 20 per cento riesce che privilegiano famiglie con doppie entrate ad accedere ad asili e scuole materne. salariali, ma includono anche gli ambienti scolastici ostili, la segregazione in scuole o La difficoltà più grande espressa dagli autori classi ‘speciali’ e, non ultimi, rapporti dialettici del rapporto citato risulta quella di lavorare di frequente basati su stereotipi e ostilità. La

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percezione prevalente riguardo la minoranza Rom è pessima: sull’esempio del caso di Gornji Hrašćan, il 25% degli intervistati in Romania dichiara che i bambini Rom non dovrebbero giocare con gli altri, il 35% mette in guardia dai quartieri misti, e oltre il 60% approva e legittima i trattamenti discriminatori rivolti ai Rom. I dati si riferiscono a ricerche condotte in Romania, ma l’attitudine è diffusa anche su altri territori: sempre più spesso si registrano atti di violenza dovuti alla sola appartenenza etnica.

di assistenza sociale. Si registra inoltre come il settore del lavoro nero e grigio usufruisca in modo prevalente dei lavoratori Rom, I quali hanno ovviamente un impatto economico, soprattutto laddove si concentrano i gruppi più grandi: in Romania circa il 21% degli ingressi nel mondo del lavoro è di appartenenza Rom, mentre in Bulgaria si arriva al 23%. Tra il salario percepito dai Rom quello della maggioranza della popolazione c’è però addirittura un 50% di differenza. La nota della World Bank stima che i benefici economici che deriverebbero dal Quali gli effetti della discriminazione lavoro Rom in Europa centro-orientale e nei dei Rom? Oltre a compromettere i livelli Balcani potrebbero totalizzare un giro d’affari di democrazia e di benessere di un paese, annuo tra i 3.4 e i 9.9 miliardi di euro. l’esclusione dei Rom dall’istruzione e dal mondo del lavoro ha un costo economico rilevante. A Secondo il quadro europeo per le strategie dirlo è la Banca Mondiale, che nel 2010 durante nazionali di integrazione dei Rom fino al 2020 lo il secondo Summit Europeo sui Rom ha esposto stato di emarginazione è causato dalla mancanza in una policy note i benefici economici derivanti dell’educazione di base necessaria per trovare dall’eliminazione della differenza di produttività un lavoro dignitoso. Lo stesso programma tra la comunità zigana e la popolazione di paesi osserva che la qualità dell’istruzione ha un quali la Bulgaria, la Romania, la Repubblica impatto potente sulla crescita economica. Ceca e la Serbia. Dallo studio emerge che la comunità Rom vorrebbe lavorare, ma ha serie Uno sguardo alle leggi. Le legislazioni nazionali difficoltà a trovare un impiego. La percezione di Romania, Slovacchia, Ungheria e Bulgaria pubblica è invece che i Rom siano restii a mostrano diverse debolezze. A mostrarlo è il contribuire alle attività produttive, come dei rapporto NRIS di Open Society Fundations, che parassiti della società, dipendenti dai programmi mette in evidenza come nuove leggi e statuti vengono sì scritti, ma solo di rado applicati e perseguiti dalle autorità pubbliche per ottenere Ph.: Andrea Brignoli risultati efficaci e misurabili. Le legislazioni di tutte le nazioni analizzate possono considerarsi antidiscriminatorie, anche se le minoranze sono spesso incapaci di affermare e difendere i propri diritti in caso di violazioni e abusi.

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La Corte Europea per i Diritti Umani ha più volte condannato la pratica della segregazione dei bambini rom in scuola ‘speciali’, eppure questa è ancora largamente diffusa. I genitori Rom vengono incentivati, attraverso promesse di pasti e libri gratuiti, a iscrivere i propri figli nelle scuole segregate, dove i figli otterranno una qualificazione scarsamente considerata dal mondo del lavoro, e alimentando un vero circolo vizioso. Un’altra debolezza risiede nella clausola contenuta spesso nelle norme e nelle politiche pubbliche per l’integrazione: l’intervento è possibile solo in base a disponibilità di budget e di priorità determinate. Leggi e regolamenti


MOST Ph.: Barbro Björnemalm

confusi, poco concreti, che si scontrano modificare le cattive abitudini, soprattutto in un con complesse procedure burocratiche che periodo di crisi economica e finanziaria come rappresentano un reale ostacolo per persone quella attuale. analfabete: “la ricetta per l’inattività”. La Serbia è un’eccezione alla regola, da un punto Alcuni esempi: il Concilio del Governo Ceco di vista meramente legislativo. Una legge del per gli Affari della Comunità Rom (RVZRM), 2009 riconosce a tutti i bambini pari opportunità garante del Roma Integration Concept, non di apprendimento e istruzione. “L’inclusione è è autorizzato a forzare la realizzazione delle vista come intrinseca alla missione, ai valori, alle misure del Concept o a sanzionare qualora pratiche della pubblica educazione”. I bambini l’implementazione non avvenga. disabili, quelli con difficoltà nell’apprendimento e quelli appartenenti a gruppi socialmente Sono apprezzati invece i toni della strategia sensibili non saranno più segregati in luoghi e nazionale ungherese, che si riferisce al classi speciali, ma verrà fornito loro il supporto principio di inclusione come un processo che necessario nelle scuole principali, attraverso deve coinvolgere in modo eguale la minoranza attente e qualificate valutazioni (che avverranno e la maggioranza: è importante che tutti nella lingua madre del bambino). La scuola comprendano il beneficio e l’interesse per è inoltre obbligata a sviluppare programmi l’intera comunità che deriva dall’inclusione dei individuali con chi ne ha bisogno, compresi Rom, promuovendo una prospettiva positiva per corsi di Serbo per le minoranze. Un’altra legge la diversità e un comune legame di cittadinanza del 2010 delinea i principi dell’educazione ungherese, si dichiara. Nel piano d’azione però prescolare per incrementarne lo sviluppo e le non sono incluse misure abbastanza forti da istituzioni. Addirittura prevede “l’asilo mobile”,

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un programma specifico per le regioni distanti azioni di coordinamento e di supporto ai vari dai grandi centri abitati. stati membri e candidati: il periodo 20052015 è stato nominato Decade dell’Inclusione I progetti in Serbia sono molti, ci sono i dei Rom, e su questa linea si comprendono gli finanziamenti dall’EU-IPA (Instrument for Pre- impegni formali di molti governi dell’Est Europa Accession Assistance), le collaborazioni con in considerazione dei Rom. l’OSCE, e così via. Nonostante ciò la tradizionale riluttanza dei governi locali e della maggioranza “L’allargamento dell’Unione Europea ha portato dei genitori degli altri bambini nell’accettare i attenzione sulle norme per i diritti umani nel Rom a scuola rallenta l’implementazione di tali processo di adesione sia per i governi di nuovi politiche. Infatti, il report nazionale della Serbia stati membri sia per i paesi candidati che hanno stima che ancora tra il 30 e il 50% di bambini cercato di soddisfare i requisiti dell’UE. Eppure, Rom siano collocati in asili considerati non così come negli Stati Uniti nei primi momenti adatti alla loro età. I bambini zingari non hanno del movimento per i diritti civili, i governi sono a loro disposizione risorse eguali, quali buoni lenti a tradurre la retorica fedeltà ai diritti insegnanti, infrastrutture e materiali idonei alla umani in azioni politiche efficienti e funzionanti” loro giovane età. ha dichiarato John Shattuck, ex ambasciatore americano in Repubblica Ceca. Le risposte però Un quadro allarmante che dimostra come i buoni non possono arrivare solo dalla politica: così propositi tendano a rimanere tali, soprattutto come in tutti i movimenti per i diritti umani, se opportunistici e orientati a progetti più le lotte sono fatte dalle persone. Ed è questo ampi ancora – pensiamo all’entrata in UE per che può compromettere il buon esito di tante alcuni dei paesi di cui abbiamo parlato. Infatti politiche per l’integrazione: la mancanza di l’Unione Europea è attivamente coinvolta in interazione. Ph.: Nasim Fekrat


SPECIALE BALCANI

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MOST Ph.: Brian Eager

DOVE VANNO I BALCANI?

Giorgio Fruscione

La democrazia ha molti nemici in attesa tra le quinte, politici e movimenti per il momento costretti a giocare secondo le sue regole ma il cui intento reale è tutt’altro – populista, di manipolazione mediatica, intollerante e autoritario. Conquisteranno molto spazio, se non riformeremo rapidamente le nostre democrazie. E non c’è ambito in cui questa riforma sia più necessaria che in seno alla stessa Unione Europea

Il futuro della regione balcanica, intesa in questa sede come il territorio una volta racchiuso dai confini della Jugoslavia, è una questione che non interessa soltanto gli addetti ai lavori, esperti ed appassionati di geo-politica internazionale, ma anche chi, in qualità di semplice cittadino di un Europa sempre più globalizzante, non abbia mai avuto possibilità di entrare a contatto con le caratteristiche e gli elementi che danno forma al “mondo balcanico”.

Per rispondere alla domanda “dove vanno i Balcani” è indispensabile cominciare con un analisi storica del percorso iniziato dalla regione Paul Ginsborg vent’anni fa: dagli anni del conflitto a quelli


della lenta stabilizzazione, tuttora in corso. Un analisi riguardante le dimensioni politiche e civili, tanto quanto quelle economiche sociali e culturali, che hanno determinato la direzione intrapresa dalla ex Jugoslavia nel suo difficile percorso di transizione. A tal fine, sarà necessario trattare l’ oggetto di studio talvolta come l’insieme delle ex repubbliche jugoslave, considerate singolarmente per le diverse caratteristiche di ciascuna; e altre volte invece come quell’ex stato federale in cui permangono strette relazioni tra le sue nazioni e le cui comuni caratteristiche interne fanno sì che si possa parlare anche di un destino comune. Una difficile transizione. A vent’anni dal collasso jugoslavo infatti, ci troviamo ad analizzare un soggetto socio-politico composto da sei stati sovrani (più il Kosovo, solo de facto indipendente), che in questo lasso di tempo è stato in balia di opposte sinergie: da un lato, il cristallizzarsi di confini e limiti per mezzo di spinte disgregatrici che gli anni bui delle guerre hanno insediato in istituzioni e memorie collettive; dall’altro invece, una crescente forza aggregatrice sembra far risvegliare le coscienze circa l’ineluttabilità del destino comune di queste nazioni. Il risultato di tale scontro non è altro che la mappatura di sei diversi paesi che per molti aspetti ricalcano gli spettri delle ex sorelle jugoslave. Così che, ad esempio, le repubbliche di Slovenia e Croazia risultano più ricche, sviluppate ed inglobate nella centrifuga europea, mentre dall’ altro lato Serbia e Bosnia Erzegovina sembrano soggette ad un’ evoluzione socio-economica a velocità dimezzata, che si interpone alle ambizioni europee. Eccezion fatta per l’esistenza di confini e dogane, sembrerebbe che la situazione non sia molto cambiata da quando la Jugoslavia si divideva in un nord ricco di opportunità e benessere (con l’apice della Slovenia, pienamente occupata), ed un sud arretrato e depresso, dove il Kosovo rappresentava, con un tasso di disoccupazione del 27%, l’estremo opposto dell’economia jugoslava. Se si prendono in esame gli odierni tassi di disoccupazione di Slovenia e Kosovo si constaterà infatti che il primo è rimasto il paese più occupato della regione (meno del 9% di disoccupati) mentre il secondo quello meno occupato (più del 45% di disoccupati).

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tare una sostanziale continuità rispetto al periodo federale – considerando ovviamente casi nominali in cui la situazione risulta di fatto anche peggiore – dal punto di vista sociale la rottura col passato appare più netta. Mentre una volta il collante sociale era garantito da un sistema socialista in cui tutti erano uguali in quanto lavoratori e “jugoslavi”; adesso invece, dalla fine delle guerre, il mito della Fratellanza ed Unità si è frantumato, disperdendo i suoi adepti in balia di diverse retoriche etnonazionaliste. Se infatti è vero, come sostiene il saggista polacco Adam Michnik, che “il nazionalismo è lo stadio supremo del comunismo”, allora si comprende il passaggio della presa di massa di un’ideologia universale e trasversale come quella comunista ad una invece così particolare come quella etnocentrica. Le famiglie, le comunità e quindi i paesi sono passati, con la violenza della guerra, da una uniformità sociale ad una invece etnica. Se prima infatti i fiori all’occhiello della Jugoslavia socialista erano l’eterogeneità nazionale e l’omogeneità sociale, adesso i nuovi StatiNazione perseguono l’opposto: una società più compatta sotto i vessilli nazionali e religiosi, ed un aumento della divaricazione della scala sociale, in cui aumentano le classi povere a vantaggio di ristrettissime elite. Ai popoli jugoslavi, in altre parole, non è rimasta che l’identificazione nazionale e religiosa, unica cornice entro la quale si possa rinvenire una certa coesione sociale, talvolta forzata se non addirittura inventata.

In questa polarizzazione nazionale un fattore determinante è quello delle memorie collettive, in cui le guerre hanno lasciato ferite aperte attraverso deformazioni e rivisitazioni storiche. Il processo è in corso sin dagli anni ’90: quando la storia veniva strumentalizzata per legittimare quelle atrocità che riportavano la memoria degli spettatori europei ai tempi dei campi di sterminio; e prosegue inesorabile tuttora nel suo “deformare e giustificare”, che puntualmente si ripete ogni qualvolta le guerre balcaniche siano oggetto di discussione e analisi, a qualunque livello esse prendano luogo, sia esso il tavolo di un bar o un arena politica. La verità storica sembra essersi rincarnata in tante parti quanto le fazioni uscite dai conflitti e, coadiuvata da classi politiche inefficienti che ripercorrono quei circuiti destoricizzanti, si consolida nei più svaSe molti indicatori economici sembrano consta- riati strati sociali, col fine di segmentare ulte-

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riormente una società una volta unita e minare direzione, avranno l’occasione unica di usufruile possibilità di un futuro comune. re dei vantaggi dati dagli “scambi” culturali sia aderendo a programmi istituzionali, sia parteciIn particolare, le nuove dirigenze partitiche bal- pando a movimenti sorti dal basso nel proprio caniche, orfane della grande ideologia marxi- comune, in sintonia con una reale maturazione sta, sono regredite allo stato dei propri colleghi democratica. di inizio secolo, imperniando le proprie politiche su terra e sangue, cristallizzando quei fronti di A titolo esemplificativo, si prenda il caso partiguerra consacrati a Dayton prima e Rambouillet colare dell’European Voluntary Service (EVS), poi. L’ipocrisia comune a quasi tutti i partiti nel- un programma lanciato quindici anni fa dalla la ex Jugoslavia è proprio quella di adoperare Commissione Europea e che si basa sulla mouna retorica populista e nazionalista, che da un bilità internazionale finalizzata alle attività di lato consenta di mantenere la faccia e racimo- volontariato. Il programma, che include ovvialare consensi anche nelle regioni più economi- mente anche i paesi balcanici, permette di tracamente depresse, ma che allo stesso tempo scorrere un periodo di soggiorno all’estero svolattraverso la metastasi della corruzione favo- gendo del volontariato, consentendo un libero e risca politiche clientelari e nepotiste. Essendo continuo scambio di cultura tra il volontario e la il nazionalismo e la corruzione due costanti co- società ospitante. muni a tutti i paesi balcanici, la sfida più grande per un loro comune futuro sarà proprio lo sra- Sebbene la realtà dell’EVS sia tuttora allo stato dicamento di tale sistema in favore di nuovi ap- embrionale e rappresenti solo un’occasione dai parati che attraverso sforzi congiunti lavorino tempi limitati, essa è un chiaro esempio delper il miglioramento della “società balcanica”. le possibilità che l’integrazione europea può e deve offrire. Esaminandone infatti le caratteriPer combattere i mali peggiori della regione bal- stiche, colpiscono le potenzialità reali – concencanica, sforzi congiunti dovranno essere con- trate nel settore del volontariato – che l’eterno centrati sullo sviluppo di una rete quanto più “nano politico” possiede: in questo caso, la caampia possibile di movimenti di società civile pacità di porsi da intermediario nella creazione locale ed internazionale. Ad essa sarà neces- di una rete di contatto transnazionale di movisario affiancare un’intensificazione dei rapporti menti di società civile, a sua volta inserita nel transnazionali che i paesi dell’area intratten- quadro europeo di relazioni tra Commissione gono con i vicini partner europei, a comincia- Europea-paesi membri e terzi. Finalmente un re dall’Italia. Gli attori principali, sottoposti ad chiaro segno di sviluppo democratico intrapreso un esame di “maturità democratica” saranno le dalle istituzioni europee. Ora infatti è possibile, nuove generazioni balcaniche che, provenien- per quelle generazioni jugoslave represse fino ti da un background socio-politico opposto a a poco tempo fa da regimi di visti e burocrazie quello dei propri padri, avranno il compito mo- doganali, intraprendere percorsi basati sull’idea rale di sanare handicap istituzionali di cui non del lifelong learning attraverso l’attività sociale sono direttamente responsabili. La sfida più e, ovviamente, lo scambio culturale. In questo grande per le nuove generazioni jugoslave sarà modo, il volontario è messo nelle condizioni di quindi il raddrizzamento del percorso di transi- fare propria parte di una cultura fino a quel mozione democratica iniziato vent’anni fa e le cui mento a lui sconosciuta, dandogli così la possidevianze hanno finora portato ad un inarresta- bilità di arricchire il proprio contesto sociale di bile diffusione di corruzione e criminalità orga- partenza, condividendo esperienze e informanizzata. zioni acquisite. Sicuramente il modo migliore per favorire, nei rapporti intranazionali, stabiliNel particolare, i movimenti di società civile cre- tà e solidarietà sociale – orfane disperse dell’eano le condizioni necessarie per il recupero del- poca comunista. la coesione sociale attraverso il rafforzamento dei valori della diversità culturale, sia a livello Grazie a programmi come l’EVS infatti, una locale – tra le nazioni e i paesi balcanici – che piccola realtà locale (per esempio l’Omladinski a livello internazionale. Le nuove generazioni, centar – Jajce) promuove ai propri concittadini agenti e destinatari di progetti lanciati in tale la possibilità di vivere un’esperienza di volonta-


riato presso ONG situate in altri paesi; e a loro volta, i Balcani si presentano ai giovani europei come porto di sbarco in cui apportare il proprio contributo reale alla vita di persone altrimenti abbandonate ed isolate dal punto di vista istituzionale. L’EVS, in altre parole, non è altro che la dimostrazione che un’Europa fondata sulla solidarietà sociale e sulla cooperazione è possibile, confermando la necessità dell’UE di indirizzare il processo di integrazione su queste basi, con l’ambizione morale di crescere politicamente ed abbassarsi dal punto di vista economico. Il compito dell’Unione Europea sarà quindi quello di allargarsi ed aprirsi al resto della regione balcanica ma cercando di mantenere come priorità assoluta la crescita e il benessere della sua società. I Balcani come specchio d’Europa e la possibilità di un organismo regionale. Il ruolo Europeo, nei confronti del processo di integrazione ai paesi dell’ex Jugoslavia, non sarà soltanto un mero compito d’ufficio che controlli il Ph.: M.A.R.C.

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regolare raggiungimento di standard e percentuali economiche, ma sarà aggravato dalla necessità di guardare alla regione come il riflesso della propria storia: i Balcani come lo specchio d’Europa. La storia e la realtà balcanica infatti, ricalcano e riassumono i modelli e la storia dell’Europa intera, in quanto questo ex paese riflette i processi e le sfide del vecchio continente. Da Ljubljana a Skopje non si incontrano soltanto sette confini con altrettante bandiere ma anche e soprattutto le tracce di tutto ciò che ha dato forma al nostro continente. In essa sarà quindi presente il grande coacervo delle tre grandi fedi monoteiste (Cristiana, Islamica ed Ebraica) ed il crocevia di popoli che facendosi la guerra hanno dato vita e morte di Imperi e Nazioni. Nei singoli contesti nazionali si riscontrano tutti gli elementi positivi e negativi costituenti l’Europa: la stabilità e ricchezza in Slovenia; le paure per l’estremismo islamico in Bosnia; i problemi con le minoranze in Kosovo e Macedonia; e la generale diffusione di fenomeni quali la corruzione e la criminalità organizzata.

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MOST Ph.: Luketelliott

In altre parole, in questo contesto geo-politico l’approccio europeo non dovrà essere, come finora è stato, di carattere assimilante, “europeizzando” i Balcani, ma al contrario saranno le realtà e le problematicità balcaniche a divenire europee. La “balcanizzazione” dell’Europa, intesa sia come incivilimento dei rapporti internazionali in seno all’unione ma anche e soprattutto come un ritorno alle sovranità statali, sempre più minate da sistemi globali senza frontiere. Da un lato infatti si avverte la necessità del recupero della centralità del ruolo dello stato, specie nei momenti di crisi come quello in cui viviamo; mentre il mantenimento dei rapporti istituzio-

nali con i partner europei è indispensabile agli equilibri di tutto il continente. E se invece le risposte non giacessero sempre e comunque nel processo di integrazione europea? Esiste infatti una valida alternativa all’egemonia istituzionale dell’Unione Europea? Potrebbero i paesi dell’ex Jugoslavia, in virtù della loro storia e dei loro tratti culturali comuni, dimostrare la possibilità di un organismo internazionale alternativo all’UE? Per rispondere a queste domande e cercare una risposta positiva dovremmo partire col immaginarci un esito diverso della dissoluzione della Jugoslavia, innanzitutto pacifica ma anche coordinata da potenze ed istituzioni europee prive di interessi


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così simili tra loro, a cominciare dalla lingua. È questo un valido motivo per giustificare un eventuale futuro tentativo di creare un unione tra le ex repubbliche jugoslave? Probabilmente non esiste una risposta corretta ma esiste la certezza di dover sfruttare il minimo comune denominatore balcanico per ottenere il massimo dei vantaggi a livello regionale, senza lasciare che le nuove generazioni balcaniche si crogiolino nell’euroscetticismo assistendo, nell’ampia sala d’attesa europea, ad un fallimento statale dopo l’altro. La perdita di credibilità dell’Unione Europea è infatti un fatto innegabile e in continua crescita, soprattutto tra quei paesi che sono solo allo status di “candidato all’adesione”. Un’unione di stati della regione probabilmente invertirebbe questa tendenza negativa, facendo crescere la credibilità per istituzioni che nonostante siano sovranazionali operano a livello locale, secondo il principio di sussidiarietà. Una tale “Unione Balcanica” dovrebbe avere il compito di agevolare la circolazione di persone e merci tra i paesi membri, incentivandone lo sviluppo e la cooperazione. Una particolare necessità sarebbe il sostegno agli investimenti per far ripartire quelle aziende, quelle industrie e quei settori che, con la fine del comunismo e lo scoppio delle guerre, sono giunte al capolinea e solo ultimamente stanno rifiorendo, senza però essere arrivate ad una piena occupazione.

sulla regione. In secondo luogo, dovremmo avvalerci di esempi di organizzazioni ed organismi regionali analoghi, che possano effettivamente reggere un confronto col gigante economico europeo. Di fatto dobbiamo constatare la debole presenza di organismi a livello regionale che, laddove presenti, hanno ristrette competenze e soprattutto non unificano paesi usciti recentemente da conflitti. Tuttavia, quello ex jugoslavo resta un modello dalle caratteristiche quantomeno uniche, perlomeno nella sua “versione ridotta” (Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Montenegro): non esistono infatti in Europa casi analoghi di paesi indipendenti e confinanti con caratteri culturali

Un esempio in questo senso è il progetto “Lamponi di pace”, iniziato a Bratunac nel 2003 dalla cooperativa agricola “Insieme”, in collaborazione con altri forum di società civile e con il contributo del Ministero Affari Esteri – cooperazione italiana allo sviluppo. A Bratunac, piccola città della Bosnia orientale inghiottita nel vortice di violenze nel genocidio di Srebrenica, in epoca jugoslava la coltivazione e produzione di piccola frutta costituivano la ricchezza principale per la città e in tutta la Jugoslavia si bevevano i succhi qui imbottigliati. Con lo scoppio della guerra Bratunac perse questa sua sorta di egemonia. La cooperativa Insieme è nata con l’obiettivo di “sostenere/facilitare il ritorno dei rifugiati e la convivenza multietnica, nella regione BratunacSrebrenica, attraverso la riattivazione dell’economia rurale su base sostenibile e la creazione di un sistema microeconomico basato sulla coltivazione domestica di piccoli frutti nelle piccole fattorie di famiglia, unite in cooperativa.” L’operazione è riuscita e oggi la Cooperativa Insieme

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conta oltre 500 membri: donne e uomini, serbi e musulmani, che lavorano e producono fianco a fianco.

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La priorità di paesi economicamente arretrati come la Bosnia Erzegovina è quella di ridurre una disoccupazione dal tasso elevatissimo, specie tra i giovani, e rilanciare quei settori in cui può essere garantita una competitività, come a Bratunac, favorendo così gli scambi con i partner della regione, nonché la crescita di piccole e medie imprese destinate ad operare in un mercato “regionale”, cosa che di fatto avviene solo per quei grossi colossi commerciali che mantengono il monopolio di determinati settori, in seguito alle privatizzazioni degli ultimi vent’anni. Inoltre, l’agevolazione degli scambi non può essere soddisfatta senza l’efficienza di settori quali i trasporti e la comunicazione, che contraddistingue i paesi in crescita. In particolare, la ripresa di una mobilità, se non internazionale perlomeno “regionale”, garantirebbe la creazione di una rete di cooperazione a tutti i livelli – e commerciale e culturale – sviluppando l’area geo-politica dei Balcani al fine di un processo integrativo che porti alla crescita congiunta di tutti i suoi paesi. In conclusione, le speranze dell’ex Jugoslavia dipenderanno dalla sua capacità di esercitare un’influenza sul contesto circostante, considerata l’evoluzione che l’Europa e i sistemi globali stanno vivendo, così come in passato vi era riuscita acquisendo prestigio e rinomanza internazionale. A differenza del passato, questa volta essa sarà in mano ad una generazione che dovrà scrollarsi di dosso i tanti fantasmi che ancora spaventano e bloccano una società che spesso pare vincolata ad un “passato che non passa”, che scandisce il tempo in un “prima” e “dopo” la guerra, e che è troppo incantata da retoriche di politicanti dell’ultima ora. Ascoltando le parole di Churchill, essa dovrà smettere di “produrre troppa storia” e cominciare a dare una connotazione positiva a quello che ha sempre fatto: giocare un ruolo centrale per tutta l’Europa. Articolo primo classificato al Concorso “Europa e Giovani 2012” indetto dall’Istituto Regionale di Studi Europei del FriuliVenezia Giulia Ph.: Kamren B


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MOST Ph.: Alex E. Proimos

BOSNIA: LA NUOVA COSTITUZIONE

Giorgio Fruscione Davide Denti Alfredo Sasso

La Costituzione che regge la Bosnia ed Erzegovina sin dal termine del conflitto, redatta in inglese alla base militare di Dayton, Ohio, nel 1995, ha avuto successo nel fermare la violenza bellica, ma non è riuscita a garantire al paese una pace sostenibile e lo sviluppo di un cammino verso l’integrazione europea. La Costituzione di Dayton è un ibrido, che fotografa la situazione sul terreno al momento del cessate il fuoco e la ripensa in istituzioni consociative. Quella di Bosnia era una “nuova guerra”, secondo la definizione di Mary Kaldor,1 in cui non era possibile definire chiaramente il limite tra civili e combattenti, né avere una chiara indicazione di vinti e vincitori da 1 Mary Kaldor, New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Polity Press, Oxford, 1999.

cui ripartire. Ugualmente, la costituzione di Dayton ha dato vita a una “nuova pace”, in cui i rapporti tra cittadini restano influenzati a lungo dalla spartizione del potere necessaria a porre termine al conflitto armato. E’ da qui che nasce la “chiave etnica”, la necessità di conformarsi a un’appartenenza etnonazionale – croati, serbi, bosgnacchi – per trovare un posto all’interno del nuovo ordine istituzionale. La nuova “etnopoli” daytoniana, secondo alcuni,2 doveva essere solo una soluzione transitoria: con il tempo, le istituzioni consociative e la divisione del potere tra parti contrapposte avrebbero dovuto lasciare spazio a istituzioni unitarie e a uno stato civico, 2 Si veda Nina Caspersen, “Good Fences Make Good Neighbours? A Comparison of Conflict-Regulation Strategies in Postwar Bosnia”, Journal of Peace Research, Vol. 41, No. 5 (Sep., 2004), pp. 569-588, http://www.jstor.org/stable/4149614.


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basato solo sul concetto di cittadinanza e non tra i presidenti di Bosnia Erzegovina, Croazia e Repubblica Federale Jugoslava: rispettivamente più su quello di etnia/nazionalità. Alija Izetbegović, Franjo Tuđman e Slobodan Così non è stato, o almeno non del tutto. Se oggi Milošević. la Bosnia ed Erzegovina ha alcune istituzioni La struttura del documento. I 12 articoli (più unitarie che nel 1995 sembravano utopia – una due allegati) che la compongono sanciscono banca centrale, un Ministero della Difesa, un i diritti più generali, quali l’indipendenza e solo esercito – l’impianto politico-istituzionale l’intangibilità delle frontiere, nonché la sovranità si è dimostrato refrattario alle spinte di riforma territoriale e il rispetto dei diritti umani; così tanto interne quanto esterne. In questo dossier, come, più nel particolare, le funzioni e le dedicato alla Bosnia di Dayton, facciamo il punto competenze della struttura amministrativa sulla situazione attuale e sulle prospettive statale. Questa si presenta sotto forma di future, necessarie per avviare il paese verso federazione asimmetrica composta di due entità, la Federazione di Bosnia Erzegovina l’integrazione europea. (FBiH, 51% del territorio, a sua volta suddiviso in dieci cantoni) e la Republika Srpska (RS, 49% Giorgio Fruscione introduce la Costituzione di del territorio). A entrambe sono concesse libera Dayton e il labirinto istituzionale che essa crea, giurisdizione ed amministrazione sulla maggior mostrando come la complessità degli accordi parte delle questioni, restando entrambe consociativi ha portato a una costruzione inquadrate nella comune cornice statale che ha istituzionale difficilissima da riformare e che competenza esclusiva su ristretti ambiti, quali la consacra la chiave etnica di gestione dello sovranità monetaria e la difesa. La presidenza stato, in cui manca un’effettiva uguaglianza è tripartita, e secondo il principio primus inter pares è presieduta a rotazione tra i suoi membri: democratica tra cittadini. un serbo, eletto in Srpska, e un croato e un Davide Denti si concentra sul caso Sejdić e Finci bosgnacco eletti in Federazione. Ha perlopiù per mostrare come, nell’etnopoli bosniaca, chi funzioni rappresentative e di coordinamento delle politiche estere statali, nonché di nomina non fa parte dei tre popoli costituenti subisca del Presidente del Consiglio dei Ministri, su una riduzione dei propri diritti di cittadinanza, approvazione della Camera dei Rappresentanti. nel caso particolare l’elezione alla Camera L’assemblea parlamentare si compone di due alta o alla Presidenza tripartita. La sentenza camere: la Camera dei Rappresentanti, con 42 della Corte di Strasburgo resta una pietra membri eletti per due terzi in Federazione e un d’inciampo nel percorso d’integrazione europea terzo in Srpska; e la Camera dei Popoli, con della Bosnia, e le possibili soluzioni di riforma 15 membri: 5 bosgnacchi e 5 croati eletti in Federazione, e 5 serbi eletti in Srpska. rimangono al palo. Infine, Alfredo Sasso ripercorre i tentativi di riforma della Costituzione di Dayton negli anni 2000, dal pacchetto di aprile del 2006 alla bozza di Butmir del 2009 fino al possibile patto Čović – Lagumdžija del 2012. Tentativi tutti rimasti sulla carta, a causa delle complesse procedure di revisione della costituzione di Dayton e della mancanza di volontà politica degli attori locali. (d.d.) La Costituzione di Dayton: più un labirinto che una guida Giorgio Fruscione Nata come allegato numero 4 degli Accordi di Pace di Dayton, la costituzione bosniaco erzegovese è il risultato più rilevante del lungo processo diplomatico di pace, terminato con le consultazioni nella base aeronautica dell’Ohio,

Detto ciò, si potrebbe affermare che un quadro costituzionale così assemblato sia l’ideale o perlomeno l’unico in grado di far funzionare l’apparato statale bosniaco erzegovese: niente affatto, questo sistema de facto riduce l’efficacia dell’intero impianto statale e limita l’esercizio della democrazia e dei diritti sanciti nella costituzione stessa. Quando la Costituzione paralizza lo Stato. Innanzitutto, la prima vera anomalia della Carta fondamentale bosniaca, la quale ben dimostra la sua effettiva distanza dalla popolazione che va a rappresentare e tutelare, sta nel fatto che sia stata redatta esclusivamente in lingua inglese, e non in una delle tre lingue ufficialmente riconosciute dalla legge bosniaca: il serbo, il croato e il bosniaco. Per comprendere il significato di questo documento la popolazione ha dovuto aspettare fino al 1997 la traduzione fatta dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante

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(presieduto all’epoca da Carl Bildt). Lo stato centrale, di fatto, non si è mai ufficialmente adoperato in questo, se non durante la legislatura 2002-2006 quando una traduzione ufficiale era stata effettuata per poi essere abbandonata nei “dimenticatoi istituzionali” di Sarajevo.

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fatto più volte dimostrata, anche se con opposti scopi e ragioni, sia dal partito progressista del SDP, che dalle delegazioni croate dei due partiti HDZ – questa dovrebbe essere una decisione dell’Assemblea Parlamentare, avvallata dai due terzi della Camera dei Rappresentanti, come riportato nell’articolo 10, comma 1 della stessa costituzione. In realtà, però, “tutte le decisioni in entrambe le Camere avverranno con voto a maggioranza fra i presenti e aventi diritto. I delegati e i deputati si impegneranno a garantire che la maggioranza includa almeno un terzo dei voti dei delegati o deputati provenienti dal territorio di ciascuna entità”. Se non si dovesse raggiungere questo speciale “quorum etnico” il Presidente e i vicepresidenti hanno il compito di riunire una speciale commissione per raggiungere l’approvazione entro tre giorni di votazioni. Nel caso che anche questi tentativi falliscano, “le decisioni saranno prese a maggioranza dei presenti e aventi diritto al voto, purché i voti contrari non includano i due terzi o più dei delegati o deputati eletti da ciascuna entità”3.

Quello cui Dayton e il suo quarto allegato hanno infatti dato vita è un sistema soffocato dalla burocrazia, che tra i vari livelli amministrativi conta fino a 160 ministeri. Se da un lato si può obiettare che questo sia l’unico modo per soddisfare il principio di sussidiarietà in un paese appena uscito da un conflitto, dall’altro lato bisogna costatare l’assurdità di un paese di appena 3 milioni e mezzo di abitanti che viene immobilizzato dal suo stesso apparato. Come detto, il governo centrale – ed ancor di più la presidenza tripartita – ha competenza esclusiva su pochissime materie ed è quindi impossibilitato dalla sua stessa Costituzione a fare qualsiasi riforma istituzionale. La sovranità legislativa, infatti, è divisa tra le due entità, cioè tra l’Assemblea Nazionale in Srpska e le due camere in Federazione, che a sua volta la Aldilà degli intenti: la situazione attuale. condivide con le autorità legislative dei dieci Nella realtà bosniaca questo si traduce nella cantoni che la compongono. costante impasse politica con cui lo stato In particolare, se vi fosse la volontà reale di cambiare la stessa Costituzione – intenzione di

3 Articolo 4, comma 3 (d) della Costituzione della Repubblica di Bosnia e Erzegovina.


centrale convive ormai da molto tempo. Il caso di cui sopra, l’intenzione di modificare la costituzione, ben esemplifica in che modo Dayton abbia consacrato la chiave etnica che de facto governa la Bosnia ed Erzegovina. Secondo questa logica etnica, per i partiti serbi, in particolare per l’SNSD di Dodik, la Costituzione di Dayton è l’unica in grado di tutelare i propri interessi nazionali e preservare l’ampia autonomia di cui godono le formazioni; partiti invece come l’SDP (multietnico per definizione ma sostanzialmente rappresentante dei bosgnacchi) chiedono una nuova costituzione più unitarista e meno legata agli interessi nazionali; e infine i due HDZ chiedono che Dayton sia rivista al fine di creare addirittura una terza entità e far si che quella croata nella Federazione non sia una minoranza ma un popolo costituente a tutti gli effetti al pari degli altri due.

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arrogando a sé le rispettive fette di popolazioni della Bosnia e Erzegovina.

Le conclusioni che ne derivano sono innanzitutto che lo schema daytoniano non rimuove alla radice i problemi che hanno portato alla guerra fratricida, cioè l’etnonazionalismo politico e quindi sociale; ma anche e soprattutto che non fornisce un’impostazione democratica a quelle istituzioni create seconde le sue stesse logiche. Gli accordi di pace sembrano aver creato un nuovo tipo di democrazia, quella “daytoniana”, basata sulla rappresentanza etnica piuttosto che popolare. Ma anche in questo Dayton ha fallito. Il suo concetto di uguaglianza travisa quello reale e il caso Sejdić-Finci è solo l’ultima dimostrazione del perché questa costituzione vada cambiata.

Le vite degli “Altri”. Sejdić e Finci contro Dayton Davide Denti I problemi sono rimasti e altri sono in arrivo. Nei processi legislativi e istituzionali, quello sulla necessità di riformare il sistema costituzionale C’erano uno zingaro ed un ebreo che volevano non è più tanto un dibattito sulla governance diventare presidenti della Repubblica a Sarapolitica, quanto piuttosto sulla tutela d’interessi jevo. A raccontarla pare lo incipit di una barnazionali, che sulla Carta sembrerebbero zelletta, invece è una questione seria, un setutelati ma che vengono più volte interpretati gnale in più di quel deficit democratico delle come calpestati. I deputati serbi, croati e istituzioni di Dayton che blocca la strada bosgnacchi non sono più quindi rappresentati dell’integrazione europea della Bosnia. Il succo politici di partito, portatori d’ideali e valori, ma piuttosto dei rappresentanti dei popoli, tutori è: può una persona che non appartiene ai tre “popoli costituenti” della Bosnia ed Erzegovina d’interessi puramente etnonazionali. (serbi, croati, bosgnacchi/musulmani), come A questo va aggiunta un’altra considerazione riconosciuti dalla costituzione di Dayton, ma circa l’effettiva sovranità della Bosnia e alla categoria “altri”, candidarsi alle elezioni per Erzegovina, in particolare a proposito delle la Camera alta o essere eletto capo di stato? interferenze e pressioni che Zagabria e Belgrado Allo stato attuale, non può. giocano sui rispettivi compatrioti bosniaci. Croati e serbi della Bosnia e Erzegovina possono infatti La Camera alta di Sarajevo (“Camera dei facilmente ottenere cittadinanza e passaporto Popoli”, Dom Naroda) è un’istituzione ristretta: della rispettiva “madrepatria”, il che comporta il diritto di voto per questi paesi, ma non solo: per ha solo 15 membri, 5 per ciascun “popolo”, esempio, i croati bosniaco erzegovesi a luglio serbi eletti in Republika Srpska e croati e 2013 si ritroveranno magicamente nell’Unione bosgnacchi eletti in Federacija BiH. Nonostante Europea senza che il proprio paese d’origine ne sia ad elezione indiretta, essa ha importanti poteri legislativi. Un meccanismo consociativo sia parte. (“veto per interesse vitale”) fa sì che non sia Il problema di ciò, come quasi tutto nei Balcani, possibile che essa assuma decisioni contrarie andrebbe ricercato nella storia di questo paese, alla volontà dei rappresentanti di uno dei tre e del come questa sia sempre stata una terra popoli. Non dissimile è la Presidenza collettiva: in cui l’espressione “maggioranza etnica” non ha mai avuto un significato rilevante se tre membri, uno per “popolo”, di cui due (croato non durante una guerra assurda e nell’ancor e bosgnacco) eletti in Federacija e uno (serbo) più assurdo accordo di pace che vi ha messo in Srpska. fine. Ed è proprio a Dayton che Tuđman e Milošević, in quanto firmatari degli accordi, C’è sempre un giudice a Strasburgo. Jakob hanno consacrato i propri piani espansionistici, Finci è diplomatico di carriera, già ambasciatore

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MOST Ph.: Midhat Poturovic (RFE/RL)

Ph.: REUTERS

di Bosnia-Erzegovina in Svizzera, Dervo Sejdić è consigliere (monitor) dell’OSCE per le questioni rom: entrambi avrebbero il curriculum in regola per essere eletti dal Parlamento di Sarajevo alla presidenza tripartita del paese, o quantomeno per candidarsi alle elezioni per la Camera dei Popoli. Ma Finci è ebreo, e Sejdić è rom: non fanno parte dei tre gruppi etnici che nella daytoniana “etnopoli” 4 si spartiscono le cariche di vertice dello stato.

in situazioni significativamente simili, senza una giustificazione oggettiva e ragionevole (ossia senza un obiettivo legittimo e una proporzionalità nei mezzi impiegati), esso attua un comportamento discriminatorio. Nel caso di Sejdić e Finci, si tratta di discriminazione etnica, una forma di discriminazione razziale, come tale impossibile da giustificare in una società democratica. La CEDU riconosce la necessità storica degli accordi di Dayton che hanno fermato la guerra e ristabilito la pace nel paese, ma sottolinea come dopo quasi vent’anni una tale norma specifica ha perso la sua ragione d’essere. La Bosnia è oggi membro dell’ONU e del Consiglio d’Europa e ha ratificato la Convenzione CEDU. Essa deve pertanto emendare la sua Costituzione per renderla compatibile con i nuovi obblighi internazionali assunti, incluso il divieto di discriminazione. Secondo Srđan Dizdarević, presidente della sezione bosniaca del Comitato Helsinki per i diritti dell’uomo, era tempo: “Aspettavamo questa decisione da 15 anni. ... Spero che i politici bosniaci comprenderanno la necessità di cambiare la Costituzione appena possibile, di applicare le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e di permettere a ciascuno di noi, bosniaci - erzegovesi, di godere degli stessi diritti accordati ai serbi, ai croati e ai bosgnacchi”.6

Sejdić e Finci non si danno per vinti e nel 2006 fanno ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) di Strasburgo, un organo del Consiglio d’Europa (di cui la BosniaErzegovina è membro dal 2002) che monitora l’applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel dicembre 2009 la Corte emette la sua sentenza: Sejdić e Finci hanno ragione, la Bosnia-Erzegovina deve modificare la sua costituzione per garantire l’uguaglianza del diritto all’elettorato passivo (il diritto ad essere eletti) di tutti i suoi cittadini. In particolare, secondo la Corte, la situazione attuale viola l’art. 3 del 1° Protocollo alla Convenzione (diritto a libere elezioni) congiuntamente all’art. 14 e al 12° Protocollo (divieto di discriminazione).5 Secondo la Corte di Strasburgo, quando uno stato prevede condizioni diverse per persone 4 Michael Clemence , “Bosnia’s error of othering”, Open Democracy, 19 gennaio 2010, citato da Andrea Rossini, “Etnopoli”, Osservatorio Balcani e Caucaso, 29 gennaio 2010. 5 Samo Bardutzky, “The Strasbourg Court on the Dayton Constitution: Judgment in the case of Sejdić and Finci v. Bosnia and Herzegovina, 22 December 2009”, European Constitutional Law Review, Volume 6 , Issue 2, June 2010, pp. 309-333, DOI: http://dx.doi.org/10.1017/ S1574019610200081.

Cercando un’alternativa a Dayton. La sentenza di Strasburgo arriva tuttavia forse nel peggior momento per la Bosnia: a poche settimane dal fallimento dei colloqui di Butmir (ottobre 2009), dietro mediazione europea 6 citato da Gordana Hadžihasanović, Slobodna Europa, 22 dicembre 2009, citata da Andrea Rossini, “Etnopoli”.


ed americana, per il superamento del sistema di Dayton. Subito dopo inizia la campagna elettorale per le elezioni 2010, tenutesi secondo lo stesso schema riconosciuto discriminatorio dalla CEDU: retorica nazionalista a tutto campo, che non permette certo ai diversi partiti etnici di accordarsi per una riforma del sistema. Intanto la leadership della Republika Srpska minaccia la secessione per garantirsi la persistenza del sistema-Dayton nelle sue forme attuali, ottenute grazie alla pulizia etnica, e impedendo la costruzione di uno stato funzionale che possa un giorno integrarsi nell’Unione Europea. Gli anni passano, e di una riforma della Costituzione bosniaca per eliminare la chiave etnica dalle istituzioni non c’è traccia. Il governo e la Commissione elettorale hanno stabilito nel 2010 due piani d’azione (disattesi) per l’attuazione della sentenza.7 Una Commissione congiunta ad interim del Parlamento bosniaco, costituita nel settembre 2011, avrebbe dovuto proporre le necessarie modifiche costituzionali 7 Committee of Ministers of the Council of Europe, Interim Resolution CM/ResDH(2011)291 - Execution of the judgment of the European Court of Human Rights Sejdić and Finci against Bosnia and Herzegovina.

Ph.: djstanek

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entro fine anno, ma non riesce ad accordarsi su una soluzione globale e termina il suo mandato nel nulla, il 12 marzo 2012.8 L’Unione Europea ha gli occhi bene aperti sul caso, che costituisce una delle principali pietre d’inciampo sul cammino d’integrazione europea della Bosnia, a cominciare dall’entrata in vigore dell’Accordo di Stabilizzazione ed Associazione (firmato nel 2008 e subito congelato) fino alla possibilità per la Bosnia di presentare candidatura d’adesione all’UE. Nella sua visita del marzo 2012 a Bruxelles, il nuovo membro bosgnacco della Presidenza tripartita, Bakir Izetbegovic, se l’è sentito ripetere da Martin Schulz, José Barroso ed Herman Van Rompuy.9 Un accordo non arriva nemmeno lungo l’estate,10 e a settembre la Bosnia riceve 8 Elvira Jukić, “Bosnians Fail to Agree Sejdic-Finci Changes”, Balkan Insight, 12 marzo 2012. 9 Adelina Marini, “The Sejdić-Finci Case Holds European Door for Bosnia Closed”, EUinside.eu, 23 marzo 2012. 10 Council of Europe, Parliamentary Assembly, Honouring of obligations and commitments by Bosnia and Herzegovina - Information note by the co-rapporteurs on their fact-finding visit to Sarajevo, Mostar and Banja Luka (3-7 June 2012), AS/Mon(2012)18 rev, 5 settembre 2012

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il “grande disappunto” del Commissario UE all’allargamento Štefan Füle e del Segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland,11 nonostante qualche spiraglio sembri aprirsi con l’addolcimento delle posizioni della Republika Srpska.12 Potranno mai, uno zingaro e un ebreo, presentarsi alle elezioni a Sarajevo?

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Vie d’uscita: riforme improbabili ma necessarie. La Bosnia non è l’unico stato che si trova a dover mediare tra meccanismi consociativi e l’imperativo dell’uguaglianza tra cittadini nei diritti politici. In Alto Adige, il sistema di partecipazione politica per aggregazione forzosa in gruppi è ugualmente problematico. In altri paesi, i meccanismi di rappresentazione delle identità etno-culturali si sono basati prevalentemente sul principio territoriale (come in Canada) o sulle comunità linguistiche (come in Belgio), che danno comunque spazio ad un possibile pluralismo etnoculturale. Le soluzioni proposte, anche dall’esterno, al caso bosniaco, non sono prive di svantaggi: chi propone l’elezione indiretta della Presidenza rotativa da parte della Camera bassa bosniaca non considera la possibilità di manipolazione politica di tale voto, così come la mancanza di rappresentanti degli “altri” nella stessa Camera bassa ad oggi. Chi propone lo sdoppiamento del collegio elettorale della Federacija tra croati e bosgnacchi tralascia l’inevitabile effetto di polarizzazione che avrebbe una tale mossa. Una questione fondamentale, e sottolineata dalla CEDU, rimane quella dei poteri effettivi della Camera dei Popoli. Una possibile soluzione, per l’elezione dei tre Presidenti, potrebbe essere costituita dal sistema della “media geometrica” (tre candidati eletti su base nazionale ma in tre regioni separate, in cui il voto nel proprio collegio è più rilevante), proposto dalla Fondazione Soros per garantire il bilanciamento tra le politiche identitarie e il principio di non discriminazione, ed allo stesso tempo incoraggiare la cooperazione politica tra 11 Delegation of the European Union to Bosnia and Herzegovina, “Statement by Commissioner Štefan Füle and Secretary General of the Council of Europe Thorbjørn Jagland on the Road Map for Bosnia and Herzegovina’s EU membership application”, 4 settembre 2012. 12 “Srpska ready to immediately implement decision of Strasbourg court”, SRNA, 19 settembre 2012.

le due Entità e il voto trans-etnico, fattori di una possibile moderazione della politica bosniaca.13 Per la Camera dei Popoli, due modelli autoctoni sono disponibili in Bosnia stessa, nelle Camere alte delle due entità; ma i politici bosniaci dovranno decidere se conservare la chiave etnica o le estese competenze legislative dell’organo. Nel primo caso, l’esempio è quello della Srpska: un Consiglio dei Popoli sempre su base etnica, ma con poteri limitati alla protezione degli interessi vitali di tali popoli. Nel secondo caso, l’esempio è la Federacija: una Camera dei Popoli con ampi poteri legislativi ma aperta a tutti i cittadini. Una terza opzione, sempre proposta dalla Commissione di Venezia, prevedrebbe l’abolizione in toto della Camera alta statale e l’affidamento del veto etnico alla Camera bassa. 13 Edin Hodžić and Nenad Stojanović, New/Old constitutional engineering? : challenges and implications of the European Court of Human Rights decision in the case of Sejdić and Finci v. BiH, Sarajevo: Centar za društvena istraživanja Analitika, 2011.


MOST

sono state avanzate da attori della società civile come associazioni, movimenti sociali e think tanks. Per ora, tutto è stato inutile: nonostante i vari tentativi di riforma la costituzione uscita da Dayton è ancora lì, intonsa, uguale al 1995. 2006: il “pacchetto di aprile”. Ripercorrendo la storia delle (fallite) riforme costituzionali nella Bosnia post-Dayton ci sono diversi momentichiave da tenere presente. L’aprile 2006 è forse il più importante: fu quando si andò più vicini all’accordo sulla modifica costituzionale, ma saltò per un paio di voti (letteralmente). Si trattava di una bozza di riforma proposta nel 2005 dall’allora vice Alto Rappresentante Donald Hays, con un forte supporto diplomatico e finanziario degli Stati Uniti, e un appoggio più cauto dell’Unione Europea. Dai negoziati tra Hays, la comunità internazionale e i vari partiti politici bosniaci, scaturì una bozza di riforma che fu presentata al Parlamento nazionale nell’aprile 2006: per questo fu ribattezzata come “il pacchetto di aprile” o “gli emendamenti di aprile” (aprilski amandmani).

Perché i fiumi d’inchiostro spesi sul caso Sejdić e Finci non siano vani, tuttavia, bisognerà anche favorire il pluralismo etno-culturale all’interno dei partiti politici: altrimenti, anche se fosse formalmente possibile, un membro delle minoranze non riuscirà comunque a farsi eleggere. Sisifo a Sarajevo: l’impossibile alternativa a Dayton Alfredo Sasso Con la sentenza Sejdić–Finci del dicembre 2009, la riforma costituzionale è diventata il nodo cruciale della transizione politica in Bosnia-Erzegovina. Il superamento della carta daytoniana è decisivo per l’uscita dalla cronica impasse istituzionale e per proseguire il cammino verso l’integrazione europea. Ma è da diversi anni, e ben prima della sentenza Sejdić– Finci, che i partiti politici hanno preso posizione, formulato proposte, cercato accordi sulle riforme della costituzione bosniaca. Analoghe proposte, talvolta accompagnate da iniziative pubbliche e persino da mobilitazioni popolari,

Il testo conteneva quattro punti principali: 1) una presidenza unipersonale, coadiuvata da due vice-presidenti, ciascuno appartenente alle tre nazioni costituenti, che avrebbe eliminato la presidenza collettiva tri-personale a rotazione; 2) un ampliamento dei poteri delle istituzioni centrali, e una conseguente seppur limitata riduzione dei poteri delle due entità, tramite l’estensione degli ambiti di sovranità esclusivamente statali, la creazione di ambiti a sovranità condivisa stato/entità, e la creazione di nuovi ministeri; 3) l’allargamento della Camera dei Rappresentanti da 42 a 87 membri, di cui almeno 3 destinati ai cosiddetti “ostali” (altri), ovvero i cittadini bosniaci non appartenenti a nessuna delle 3 nazioni costituenti; 4) la modifica della Camera dei Popoli, che sarebbe passata da 15 a 21 membri, eletti dalla Camera dei Rappresentanti (e non più dai parlamenti delle entità). Riassumendo, la proposta mirava a definire meglio (e, in parte, ad allargare) i poteri dello stato centrale e a semplificarne la struttura istituzionale, limitando – ma solo parzialmente – la sovranità delle entità e i diritti di veto dei rispettivi gruppi nazionali. Il pacchetto di aprile godeva di ampio consenso politico: infatti votarono a favore partiti di ogni appartenenza politica ed etno-nazionale. Ciascuno avrebbe ottenuto qualcosa: i partiti serbi (SNSD, SDS, PDP) avrebbero salvaguardato l’autonomia della Srpska; i croati (HDZ) e i musulmani (SDA) avrebbero mantenuto il principio di

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MOST

equità nazionale; i multietnici (SDP) avrebbero rafforzato le istituzioni statali. Decisivo, però, fu il voto contrario di due partiti: HDZ1990 (nazionalisti croati), secondo cui la riforma penalizzava eccessivamente i governi locali, e quindi attaccava i diritti dei croato-bosniaci; e SBiH (nazionalisti musulmani), insoddisfatti perché volevano la totale abolizione della Republika Srpska e il ritorno alla Bosnia unitaria, pre-Dayton. Il Pacchetto di Aprile, così, non fu approvato per soli due voti. Va notato che SBiH e HDZ 1990, nelle elezioni parlamentari tenutesi pochi mesi più tardi, ottennero un notevole guadagno di preferenze. Fu il segnale che quel loro “no” alle riforme fu, almeno in parte, dovuto a calcolo elettorale oltre che a posizioni di principio. Il fallimento del pacchetto di aprile lasciò conseguenze pesantissime sul processo di riforma. Lo sforzo diplomatico della comunità internazionale mise a nudo le diversità di approccio (e di posizioni), tra Stati Uniti e Unione Europea, nonché le divisioni interne ai paesi UE. Soprattutto, il problema era interno alla BiH: sarebbe stato arduo ricreare le condizioni per una mediazione accettabile da tutte le parti in gioco, vista la natura tanto complessa e segmentata del sistema politico (e della società) della Bosnia-Erzegovina. Le già citate elezioni politiche dell’autunno 2006 segnarono

un’ escalation della retorica ultra-nazionalista, con i volti protagonisti di Milorad Dodik (leader di SNSD, socialdemocratico nazionalista serbo) e di Haris Silajdžić (numero uno di SBiH, nazionalista conservatore musulmano). Il primo iniziò a ventilare espressamente la possibilità di secessione della Republika Srpska, il secondo invocò la cancellazione della stessa Srpska e la svolta verso lo stato unitario. Proprio SNSD e SBiH trionfarono alle elezioni, in un clima di contrapposizione permanente che sembrava difficilmente reversibile. 2009: i colloqui di Butmir. Nel 2009 fu rilanciata una nuova iniziativa della comunità internazionale per dare impulso alla riforme costituzionali. Il 9 ottobre, i leader dei principali partiti bosniaci si riunirono alla base militare di Butmir (Sarajevo), alla presenza del ministro svedese Carl Bildt, del vice-segretario di Stato americano Jim Steinberg e del Commissario UE all’allargamento Olli Rehn. La proposta da discutere sul tavolo di Butmir riprendeva, sostanzialmente, gli stessi punti del “pacchetto di aprile” del 2006. Tuttavia, si opposero fin da subito quasi tutti i partiti, compresi molti di quelli che, tre anni prima, avevano votato sì alle stesse proposte di riforma. Secondo SBiH e SDP, la bozza Butmir non avrebbe rafforzato a sufficienza le istituzioni statali, e si sarebbe rivelata troppo ambigua nella definizione delle


sovranità, generando dubbi sui possibili conflitti di interpretazione. Secondo SNSD, al contrario, la bozza Butmir avrebbe generato uno stato centralista e unitarista. Per HDZ, la riforma non offriva sufficienti tutele alla popolazione croata. Solo SDA si dichiarò esplicitamente favorevole alla proposta di riforma. Dopo due infruttuose sessioni di colloqui, la vicenda si concluse con un nulla di fatto a fine novembre 2009, appena poche settimane prima della sentenza SejdicFinci. I timori dettati dal fallimento di tre anni prima si rivelarono corretti: ciascuna delle parti continuava ad alzare la posta. L’SNSD di Dodik, forte (all’epoca) di un dominio egemone e incontrastato in Republika Srpska aveva ormai assunto una posizione intransigente in difesa dello status quo, tesa a difendere strenuamente gli ampi poteri che Dayton destinava alla propria entità, e non era più disposto a cedere un millimetro. L’HDZ lamentava continuamente l’emarginazione della popolazione croata: nel linguaggio cifrato dell’etnopolitica bosniaca, significa che i croati nazionalisti rivendicavano implicitamente la “terza entità”, ovvero la scissione dalla FBiH dei cantoni a maggioranza croata, con poteri e diritti eguali a quelli della RS e della stessa FBiH. Un obiettivo che sarebbe diventato sempre più esplicito nel periodo successivo.

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2012: La bozza Čović-Lagumdžija e gli sviluppi futuri. Nonostante la sentenza Sejdić–Finci obbligasse la BiH a effettuare al più presto le modifiche costituzionali, per quasi tre anni la strada delle riforme è rimasta deserta, per effetto della prolungata impasse istituzionale: i quindici mesi trascorsi senza un governo in carica, dalle elezioni dell’ottobre 2010 alla formazione dell’esecutivo nel gennaio 2012. Nell’estate del 2012, qualcosa ha però ricominciato a muoversi attorno al cosiddetto “patto Čović-Lagumdžija”. Il leader dell’HDZ Dragan Čović e quello dell’SDP, Zlatko Lagumdžija, si accordarono su una riforma della presidenza bosniaca, secondo la quale i rappresentanti croato e bosgnacco sarebbero stati eletti per via indiretta, ovvero dal Parlamento della FBiH, e non più per via diretta. La modifica del sistema elettorale presidenziale è ormai diventata una condizione irrinunciabile per i nazionalisti croati, che si considerano penalizzati dalle conseguenze dell’attuale modello. Nelle elezioni del 2006 e del 2010, infatti, per il posto di rappresentante croato della presidenza si è imposto un candidato di SDP, Željko Komšić. È risaputo che Komšić, di posizioni apertamente anti-nazionaliste, ha ottenuto però in gran parte i voti di bosgnacchi (infatti, con il sistema attuale, l’elettore della FBiH può votare qualunque candidato, anche se non è della propria comunità etnica).

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MOST PARTITO

Appartenenza nazionale

Area politica

Deputati eletti nel 2010 (tot.: 42)

Posizione sul Pacchetto di Aprile (2006)

Posizione su Butmir (2009)

HDZ

Croato

Nazionalista conservatore

3

Favorevole

Contrario

Croato

Nazionalista conservatore

2

Contrario

Contrario

Multietnico

Civico progressista

-

-

-

Liberalpopulista

4

-

-

Bosgnacco

Nazionalista conservatore

2

Contrario

Contrario

Bosgnacco

Nazionalista conservatore

7

Favorevole

Favorevole

Multietnico

Socialdemocratico

8

Favorevole

Contrario

Serbo

Nazionalista conservatore

4

Favorevole

Contrario

Serbo

Socialdemocratico nazionalista

8

Favorevole

Contrario

(ComunitĂ Democratica Croata) HDZ 1990

(ComunitĂ Democratica Croata 1990) NS

(Il Nostro Partito)

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SBB BiH

Multietnico (de (Alleanza per il Fu- facto in prevaturo Migliore della lenza bosgnacco) BiH) SBiH (Partito per la BiH)

SDA (Partito di Azione Democratica) SDP BiH (Partito socialdemocratico)

SDS (Partito Democratico Serbo)

SNSD

(Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti) Quadro riassuntivo delle posizioni e delle proposte dei principali partiti della Bosnia-Erzegovina, 2006-2012. Elaborazione propria a cura di Alfredo Sasso.


Proposte proprie di riforma costituzionale (anno della proposta)

MOST

• Introdurre l’elezione indiretta, per via parlamentare, dei rappresentanti della presidenza collettiva (2012) • Creare quattro “unità territoriali”, al posto delle attuali due entità (2010)

• Introdurre l’elezione indiretta, per via parlamentare, dei rappresentanti della presidenza collettiva (2012) • Modificare le attuali entità, il cui numero dovrebbe essere “in numero non inferiore a tre” (2010)

• Procedere alla riforma costituzionale tramite un’ “Assemblea Costituente” eletta democraticamente, coadiuvata da un “Consiglio di Riforme Costituzionali” formato da figure indipendenti dalla politica, scelte secondo criteri professionali • Creare un unico distretto elettorale corrispondente all’intera Bosnia-Erzegovina; stabilire un assetto territoriale regionale ispirato ai modelli europei

• Mantenere il principio del consenso dei tre gruppi nazionali, ma limitando il diritto di veto ai diritti culturali, nazionali e religiosi fondamentali, e a questioni-chiave come la secessione • Sostituire la Presidenza collettiva tri-personale a rotazione con la figura di Presidente unico, la cui appartenenza nazionale ruoterebbe a ogni mandato quadriennale, e includendo un rappresentante degli “Altri” (esempio: I mandato bosgnacco, II croato, III serbo, IV “Altro”, ecc.) (2009)

• Introdurre l’elezione indiretta, per via parlamentare, dei rappresentanti della presidenza collettiva (2012)

• Aggiungere alla Presidenza collettiva tri-personale un rappresentante degli “Altri” e introdurre la maggioranza di ¾, al posto dell’unanimità, per le decisioni della Presidenza (2010) • Abolizione della Repubblica Srpska (2006) • Estendere gli ambiti di sovranità esclusivamente statali, a scapito delle entità, e creare ambiti a sovranità condivisa stato-entità (Pacchetto di Aprile, 2006)

• Introdurre l’elezione indiretta, per via parlamentare, dei rappresentanti della presidenza collettiva (2012) • Estendere gli ambiti di sovranità esclusivamente statali, a scapito delle entità, e creare ambiti a sovranità condivisa stato-entità (Pacchetto di Aprile, 2006) • Rafforzare la sovranità del parlamento della RS a scapito di quello centrale • Affermare il diritto all’autodeterminazione della RS, da proclamarsi tramite referendum • Ridiscutere lo status del Distretto autonomo di Brcko, affinché possa essere annesso alla RS (2010) • Rafforzare la sovranità del parlamento della RS a scapito di quello centrale • Affermare il diritto all’autodeterminazione della RS, da proclamarsi tramite referendum (2010) Fonti: ustavnareforma.ba, oslobodjenje.ba, avaz.ba, balkaninsight.com.

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MOST

Secondo HDZ e gli altri partiti nazionalisti croati, la comunità croato-bosniaca non sarebbe dunque adeguatamente rappresentata presso la presidenza con il sistema elettorale presidenziale oggi vigente.

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Va precisato che l’accordo Čović-Lagumdžija era ed è rimasto una bozza d’intenti, non una proposta formale con emendamenti nero su bianco, e non ha avuto un seguito immediato. Sono seguiti, però, due sviluppi cruciali sulla scena politica bosniaca negli ultimi mesi: il primo è il riavvicinamento tra i serbi dell’SNSD e i socialdemocratici di SDP; il secondo è il rinsaldamento dell’alleanza tra lo stesso SDP, i nazionalisti croati di HDZ e i bosgnacchi populisti di SBB (il partito del “Berlusconi di Bosnia”, Fahrudin Radončić). Questi segnali sembrano indicare che proprio quel patto Čović-Lagumdžija potrebbe essere la base per un più ampio consenso su una nuova proposta costituzionale. Va detto, però, che il patto Čović-Lagumdžija è stato oggetto di pesanti critiche. Decine di intellettuali e di organizzazioni della società civile del paese, di orientamento civico-progressista e anti-nazionalista, hanno firmato un documento che bollava l’accordo come “medievale”, in quanto fomenterebbe la discriminazione su base etnica e persino regionale: la creazione di tre unità elettorali su base etno-nazionale prevista dal patto implicherebbe pesanti squilibri nella rappresentazione territoriale. I musulmani di SDA si sono opposti al patto Čović-Lagumdžija perché considerano inaccettabile il principio di “federazione asimmetrica”: secondo l’accordo, i presidenti bosgnacco e croato, votati dal Parlamento della FBiH, disporrebbero di minor legittimità popolare rispetto al presidente serbo (eletto in Srpska) che continuerebbe ad essere votato per elezione diretta, com’è previsto da Dayton. D’altronde, trasformare in “indiretta” anche l’elezione del presidente serbo sarebbe considerato come una condizione inaccettabile dai partiti serbi. Lo stesso SDP, peraltro, ha rischiato di implodere al suo interno sull’accordo Čović-Lagumdžija: Željko Komšić ha infatti lasciato il partito, in protesta con il patto – che era stato escogitato, ricordiamo, proprio per impedire che lui stesso potesse tornare a vincere le elezioni. Komšić si accinge a fondare una forza politica propria, di orientamento esplicitamente civico, basato sul principio della supremazia della cittadinanza individuale e non più dell’appartenenza etnonazionale.

Conclusioni La Costituzione di Dayton ha assolto la sua funzione storica: fermare il conflitto armato e permettere alle parti di ristabilire un certo livello di fiducia reciproca, necessaria per gestire in maniera non violenta le proprie differenze politiche. In questo, non si può dire che abbia fallito: nonostante la continuazione della retorica etnonazionale, sembra oggi improbabile che in Bosnia si torni alla violenza. Tuttavia, l’impianto daytoniano è ora obsoleto. La “chiave etnica” di tutti i rapporti civici e politici ha portato alla cristallizzazione di rapporti basati sulla tutela degli interessi delle comunità etno-nazionali piuttosto che dei diritti dei singoli cittadini. Il caso Sejdić e Finci ne è solo l’esempio più lampante. La democrazia daytoniana è una variante di quei modelli di “democrazia illiberale”, in cui l’espressione della volontà popolare non è accompagnata dal riconoscimento dei diritti individuali di cittadinanza. Una tale struttura è in contraddizione con i modelli europei di democrazia liberale, ed impedisce alla Bosnia di proseguire sulla strada dell’integrazione europea. Le possibilità di riforma sono molte, da quelle legate ad aspetti particolari, ad esempio alla risoluzione del caso Sejdić e Finci, alle bozze di riforma complessiva dell’apparato statale, quali il “pacchetto di aprile” del 2006 e la bozza di Butmir del 2009. Il loro insuccesso mostra da una parte la difficoltà di riformare dall’interno un sistema basato su un fragile equilibrio consociativo, e dall’altra la mancanza di volontà politica degli attori locali, più interessati al proprio tornaconto politico nel breve termine che ad una prospettiva europea che ancora appare remota. La strada per muovere da Dayton verso Bruxelles, tuttavia, è tracciata ormai in maniera chiara. Nel lungo termine, la Bosnia dovrà riformarsi da federazione etnica (sulla base delle identità etnoculturali) in federazione territoriale (sulla base della rappresentanza territoriale), abbandonando l’ancora presente concezione bellica del territorio come spazio di dominazione e discriminazione. Solo un tale sforzo di riforma garantirà a Sarajevo un posto tra eguali tra le altre democrazie d’Europa. (d.d.)


MOST Ph.: UK ministry of defence

MAFIA ALBANESE: UNA STORIA ITALIANA Matteo Zola

La mafia albanese è giunta in Italia con la prima immigrazione, in vent’anni ha saputo più volte cambiare pelle diventando una delle associazioni criminali più pericolose della penisola. Dalla Puglia alla Lombardia, si è diffusa in modo capillare cooperando con le mafie nostrane. La sua evoluzione è raccontata dalle operazioni di polizia messe in atto per contrastarla Luino, sonnacchiosa cittadina distesa lungo il Verbano, angolo estremo d’Italia dove nulla di male sembra possa accadere. Eppure la notte del 18 febbraio 2011 la città è stata turbata nel suo sonno da sirene di finanzieri e latrati antidroga. Undici persone arrestate, nove denunciate e 700 grammi di cocaina sequestrati. Questo il bilancio conclusivo dell’operazione delle Fiamme gialle luinesi su delega della Procura della Repubblica di Varese. L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Raffaella Zappatini,

riuscì a sgominare un agguerrito gruppo di spacciatori di cocaina formato in maggioranza da cittadini albanesi, alcuni dei quali legati da vincoli familiari (quattro fratelli e un cugino), aventi un ruolo prioritario nelle attività illecite, fiancheggiato da alcuni italiani e marocchini, svolgenti funzioni gregarie e subordinate. Le indagini hanno consentito di delineare, con precisione, la posizione preminente degli albanesi nell’organizzazione e gestione del traffico di droga e nell’attività di spaccio. La cocaina veniva comprata sulla piazza di Milano e poi rivenduta in questo angolo d’Italia. Un angolo estremo, apparentemente al riparo dai traffici dei grandi circuiti criminali. Il giorno dopo l’operazione il Corriere del Verbano pubblicava uno stupito occhiello: “Mafia”. Il titolo riportava il nome dell’operazione, Illiria Connection. L’Illiria, all’incirca corrispondente all’odierna

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MOST

Dalmazia, è la mitica terra d’origine del popolo albanese. Un popolo che, nel corso della Storia, ha conosciuto diaspore e migrazioni, non da ultima quella che seguì alla caduta dei regimi comunisti in Europa orientale. Da quella data si è assistito alla formazione e alla crescita di una nuova organizzazione criminale che trova nel comune denominatore etnico peculiarità strutturali e comportamentali che gli inquirenti e l’opinione pubblica italiana e mondiale hanno imparato a conoscere negli ultimi vent’anni. Un’epopea criminale riproposta con costanza dai titoli dei giornali riguardanti gli episodi di cronaca che attraversano la penisola da un capo all’altro, da Luino alla Puglia.

di un componente dell’organizzazione Anemolo di Bari, attualmente localizzato nella provincia di Brescia. Dell’organizzazione fanno parte Domenico Azzone e Alessio Santini, trafficante toscano, Riza Bleta e Alkes Nikolli, trafficanti albanesi. Nell’operazione sono stati sequestrati automobili di lusso, alcuni motocicli, un’impresa individuale dedita alla lavorazione di pelli e quote societarie della ‘Selecta srl’ con sede in provincia di Firenze, diverse unità immobiliari, disponibilità bancarie e postali». Al di là dai nomi dei protagonisti, che in questo momento non ci interessano, da questo breve dispaccio si evincono i tratti salienti del crimine shqiptaro: la capillarità, la presenza sul territorio, la capacità di integrarsi con tessuti criminali preesistenti, la possibilità di accumulazione di denaro con il quale infiltrarsi nel business legale, la speculazione e il riciclaggio. Giovanni Melillo, sostituto procuratore nazionale antimafia, in un convegno tenutosi a Roma nel gennaio 2009 annotò: «I mercati illegali delle armi e degli esplosivi, della prostituzione e, soprattutto, degli stupefacenti costituiscono le aree di operatività privilegiate di strutture criminali (albanesi, ndr) ormai da tempo evolutesi attraverso l’adozione di moduli stabilmente organizzati e di metodi operativi tipicamente propri della criminalità organizzata, nel quadro di ampie ed articolate reti di complicità ordinariamente estese su scala transnazionale all’interno delle quali, tuttavia, l’originaria dimensione clanica dei singoli gruppi rappresenta garanzia di coesione e di riconoscimento reciproco».

Episodi troppo spesso presentati dalla stampa in modo isolato, senza che venga proposta una lettura sistematica, almeno su scala nazionale, di un fenomeno che attraversa tutto lo stivale: l’Eco di Bergamo evidenzia come, nel corso del 2010, la criminalità shqiptara si sia distinta nel territorio per «gioco d’azzardo, prostituzione e droga». «Il mercato della droga è in mano agli albanesi» scrive poi Umbria24 nel mese di marzo 2011. «In Abruzzo la camorra ha inglobato gli albanesi facendone alleati con cui cooperare» risponde Il Centro, quotidiano abruzzese. Questi sono solo alcuni esempi di come, sulla stampa nazionale, la criminalità albanese trovi sempre maggiore spazio. Una criminalità che sembrava scomparsa dalle colonne dei quotidiani per lasciar posto a più urgenti banditi di volta in volta romeni, marocchini, nigeriani. La distrazione della carta stampata è terminata quando la Direzione nazionale antimafia, nel marzo scorso, ha reso nota la sua annuale Melillo sottolinea come lo stato attuale sia relazione in cui si sottolineava la pervasiva il prodotto di un’evoluzione. Un’evoluzione presenza del crimine albanese nel nostro paese. rapidissima che ancora, nell’opinione pubblica, sgomenta e confonde anche a causa di una Scorrendo le relazioni annuali della Dna si percezione atomistica della fenomenologia comprende come gli inquirenti non abbiano criminale albanese: i fatti di Luino, di Bergamo, mai abbassato la guardia sul fenomeno che, nel di Pescara e di Bari non sono singoli episodi procedere degli anni e delle indagini, è stato delittuosi che si esauriscono in sé e che possono oggetto di analisi storiche e sociologiche. Un essere repressi con l’ordinaria attività di polizia. fenomeno che si è rapidamente evoluto e che Essi piuttosto rappresentano un’espressione può essere riassunto in questo semplice, a suo criminale organizzata da perseguirsi con le modo comune, dispaccio d’agenzia datato 18 misure penali proprie del crimine associativo. marzo 2011: «Un sequestro di beni per oltre Ebbene, se di evoluzione si tratta, occorre fare un milione di euro eseguito da parte della Dia un passo indietro per comprendere il presente, di Bari, Milano e Firenze, nei confronti di clan di attraversando brevemente tanto le recenti Valona, di Durazzo e di Bari. I clan sono quelli vicende storiche che quelle giudiziarie. di Mehemeti Ermal, Cobo Krenar, e Hasani, e


In principio fu la via dei Balcani. La storica via dei Balcani si snoda da Istanbul a Sofia, passando per Skopje e Belgrado, raggiungendo Zagabria e Lubiana, e da qui aprendosi verso l’Europa centrale. Tramite questa via transitavano (e transitano) tonnellate di narcotici. Il controllo di questi traffici diventò di fondamentale importanza per le organizzazioni criminali come per poteri statali e parastatali quando, alla fine degli anni Settanta, fu smantellata la French Connection che portava l’eroina turca ai porti di Marsiglia e da qui a mezza Europa e negli Stati Uniti. La nuova centralità della via dei Balcani spinse la mafia italiana a riconvertire il proprio sistema logistico, già presente nella regione e fino ad allora utilizzato per il contrabbando di tabacco, al traffico di eroina proveniente dalla Turchia. Ma l’eroina balcanica faceva gola a tutti: quando nel 1991, alla caduta del regime comunista, il primo ministro delle finanze albanese dell’era postsocialista poté visionare i bilanci dello Stato, scoprì che ben 13 milioni di dollari di attivo erano registrati alla voce “contrabbando”. In quegli stessi anni il Ph.: Mallix

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controllo del narcotraffico consentì alla Croazia di finanziare la “guerra patriottica” contro la Serbia. Anche l’esercito di liberazione kosovaro (Uck) trovò nell’eroina il denaro necessario per combattere (e vincere) Belgrado. Proprio le guerre jugoslave che si protrassero per tutti gli anni Novanta mutarono i decennali equilibri della via dei Balcani che, non potendo più puntare verso l’Europa centrale, si frantumò in mille rivoli: le montagne del Kosovo e i porti di Montenegro e Albania divennero le nuove destinazioni privilegiate per il traffico di oppiacei. Qui una nuova criminalità stava emergendo: quella albanese. Una criminalità di servizio il cui business era l’intermediazione. E, come scrive Francesco Strazzari nel suo Notte balcanica, «gli intermediari vincono». Ma da cosa nasce il nuovo crimine organizzato albanese e, soprattutto, perché dargli un così evidente connotato etnico? Che cos’è la mafia albanese. La lunga stagione di conflitti che ha insanguinato per dieci anni i

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Balcani occidentali ha causato un’instabilità che ha senz’altro favorito l’emergere di un fenomeno criminale complesso. Nei sistemi economici chiusi propri del socialismo cosiddetto “reale” non vi era spazio per il crimine organizzato, nessun gruppo poteva crescere tanto da arrivare a sfidare l’autorità dello stato né poteva assumere una dimensione internazionale. I commerci con l’estero, infatti, così come ogni flusso finanziario, avvenivano sotto la stretta sorveglianza degli apparati di sicurezza ed erano controllati da élites politico-affaristiche che erano tutt’uno con il regime. I traffici illegali, quindi, erano mossi dalle suddette élites che attraverso gli apparati di sicurezza dialogavano con l’underworld criminale al punto da creare un osmosi tra i due mondi. Scrive Melillo di come sovente lo stato socialista incoraggiasse «l’espatrio di soggetti particolarmente versati in attività criminali» infiltrandoli «a mo’ di propri agenti» nelle organizzazioni criminali straniere così da poterne sfruttare le capacità sia per i traffici illegali (beni di lusso ma anche armi e stupefacenti), sia per «fini politici. Non da ultimo l’eliminazione di oppositori». Questa osmosi tra crimine e potere si manterrà anche dopo la caduta dei regimi socialisti. Vecchie e nuove élites si trovano nella condizione di dover conservare i propri privilegi e ricchezze, spesso ottenute tramite le non trasparenti privatizzazioni dei primi anni Novanta. La capacità di deterrenza e intimidazione dei vecchi apparati di sicurezza, in buona parte riversatisi nell’underground criminale, diventano necessario strumento di potere. L’economia di guerra, poi, ha moltiplicato la possibilità di business illecito: i traffici illegali si fanno essenziali per l’economia bellica. Il controllo delle rotte di narcotraffico da parte delle oligarchie politiche era necessario per finanziare lo sforzo militare. La guerra, inoltre, causava fenomeni migratori che - essendo in larga misura illegali - venivano gestiti da apparati criminali. In quel contesto il collasso di ogni struttura statale ha portato alla nascita di microstati in cui il potere era (e in molti casi è ancora) in mano ad aggregazioni affaristicopolitico-criminali: Kosovo, Montenegro e Albania in testa.

segreto, si siano riciclati nelle reti criminali poi operanti sia sul versante del traffico di droga e persone verso l’Italia, sia nel supporto all’azione militare dell’Uck kosovaro. A dimostrarlo è stata l’operazione Vaqo-Hasani. L’operazione Vaqo-Hasani. Era infatti il 2001 quando, dopo tre anni di indagini da parte della Dia di Bari, sono state emesse ventisette ordinanze di custodia cautelare nei confronti di persone appartenenti a un potente clan albanese, quello degli Hasani. Tra gli arrestati ci fu anche tale Artur Vaqo, ritenuto uno dei capi dell’organizzazione, da tempo ricercato dalla Dda di Bari. Il clan albanese aveva stretto un accordo con i clan pugliesi ed i camorristi napoletani per esportare in Italia ingenti quantitativi di eroina. Dall’inchiesta, guidata dai pm Giovanni Giorgio e Giovanni Colangelo, è emerso che gli albanesi appartenenti al cartello criminale del clan Hasani, oltre ad introdurre in Italia le sostanze stupefacenti, ne riciclavano proventi in Emilia Romagna dove avevano ristoranti e pub. La sostanza stupefacente, soprattutto eroina, arrivava nel porto di Bari nascosta nei longheroni dei tir sprovvisti di carichi di copertura per evitare qualsiasi controllo doganale. Subito dopo lo sbarco, secondo la Dia, i tir venivano parcheggiati in un autoparco nei pressi di Bari dove venivano presi in consegna dai clan baresi e campani. L’eroina, quindi, veniva smistata per la vendita in Puglia, Campania ed Emilia Romagna. A Bari avrebbero partecipato ai traffici esponenti dei clan Abbaticchio e Biancoli. Ebbene, tra gli arrestati di origine albanese, molti erano di estrazione militare, ex agenti della Sigurimi che hanno trovato più conveniente investire le proprie capacità e conoscenze in ambito criminale. Tra questi lo stesso Arthur Vaqo.

Il fattore etnico. Come si è visto, già ai tempi dell’operazione Vaqo-Hasani la criminalità albanese aveva sviluppato la capacità di costruire imprese criminali con le mafie locali, nella fattispecie italiane. Queste liasons dangereuses non bastano a stemperare il connotato etnico che rende peculiare il fenomeno malavitoso albanese. Nella letteratura giurisprudenziale si è andato affermando il concetto di ethnic Albanians che fa riferimento sia al crimine di Proprio nel paese delle due aquile è noto come matrice albanese, nel senso di proveniente dalla gli agenti della terribile Sigurimi, il locale servizio repubblica d’Albania, sia a quello originario di


Kosovo, Macedonia e Montenegro dove è forte la presenza di minoranze albanesi. Questa diffusione, dovuta a fenomeni storici, rende “naturalmente transnazionale” la criminalità albanese. È di nuovo Giovanni Melillo a spiegarlo: «in ragione della presenza di larghe comunità di lingua e cultura albanesi in molti degli Stati balcanici oltre, naturalmente, all’Albania e in praticamente tutti gli Stati dell’Unione Europea e del Nord America, a seguito di flussi migratori iniziati sin dagli anni ‘70 dalla regione kosovara (allora parte di una Federazione Jugoslava che garantiva ai propri cittadini una sostanziale libertà di movimento e di espatrio) e, naturalmente, intensificati durante il primo conflitto jugoslavo, sino ad assumere proporzioni di massa con la crisi finanziaria albanese del 1997 e con la successiva crisi serbo-kosovara del 2001». Il dato appena sottolineato è utile a spiegare la speciale propensione dei gruppi albanesi a dotarsi di proiezioni strutturali ed operative internazionali facendo leva sugli speciali vincoli fiduciari assicurati dalla comune appartenenza degli individui alla stessa famiglia ed allo stesso ceppo tribale. Operazione Pristina, la struttura familiare. L’operazione Pristina, condotta nel 1981 dalla polizia italiana, congiuntamente all’Europol, svelò l’intricata rete criminale albanese segnando uno spartiacque nel grado di consapevolezza delle forze di polizia nei confronti del crimine organizzato albanese. Essa anzitutto ne palesa la struttura, in secondo luogo consente di comprenderne la capacità di interfacciarsi con altre organizzazioni criminali. Come ricordava in una memoria l’ex capo della polizia Fernando Masone, prematuramente scomparso nel 2003, l’operazione Pristina fu «significativa» nello svelare «i traffici di droga di una rete criminale operante in nove Stati membri dell’Unione Europea ed in altri sei Stati extracomunitari, con l’arresto di quaranta persone e la confisca di 170 Kg di eroina». La struttura interna e la capacità di cooperare con altri soggetti criminali sono due facce della stessa medaglia: da un lato la rigidità interna, dall’altro la duttilità esterna.

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impervie montagne dell’Aspromonte, riescono progressivamente a imporsi come intermediari per le transazioni di stupefacenti finendo per intervenire sui prezzi di mercato diventando poi protagoniste del narcotraffico internazionale. Allo stesso modo i gruppi criminali albanesi, operanti in Albania, Kosovo e Macedonia, diventano intermediari lungo le nuove rotte del narcotraffico balcanico, fornendo servizi di lunga distanza, occupandosi del trasporto, rendendo sempre più flessibile e delocalizzata la loro rete che, oggi, copre l’Europa intera. Analogamente ai clan calabresi, il crimine albanese ha una natura coesiva e a base familiare. Il Kanun: cos’è e cosa prescrive Fabio Iadeluca, Maresciallo Capo dei Carabinieri in servizio presso il Comando Operativo di Vertice Interforze, scrive nel 2008 una relazione sulla fenomenologia del crimine albanese nella quale spiega: «le regole del Kanun (canone di Lek Dukajueni o canone della montagna, ndr), il codice di condotta generalmente osservato nei comportamenti sociali, idealizzano una collettività della quale il nucleo principale è costituito dalla famiglia nella quale il rispetto delle regole dettate dal capofamiglia è norma precettiva ed all’interno della quale vigono legami così forti da prescrivere la vendetta privata come forza di difesa della famiglia stessa. È evidente come in quest’humus culturale il tradimento verso la famiglia sia la massima violazione delle regole sociali ed è facilmente intuibile come i gruppi criminali ad esclusiva matrice ‘famigliare’ siano, in quanto tali, caratterizzati da un’elevata coesione ed impermeabilità alle indagini».

Il Kanun regola la società sia nei rapporti tra famiglie che all’interno della stessa. La società albanese è strutturata in gruppi tribali detti fis che divengono matrice su cui costruire il sodalizio criminale. Ecco che il passo tra fis e clan è breve. Come si è detto, la struttura della criminalità albanese non è verticistica né unitaria. A capo di ciascun clan c’è un capofamiglia che risiede stabilmente in madrepatria dove investe i proventi delle attività illecite. Dalla stessa sede impartiscono direttive ai referenti collocati nelle aree di interesse operativo. Questi sono a loro La criminalità albanese somiglia molto, nella sua volta in contatto con la criminalità autoctona struttura e nel suo sviluppo, alla ‘ndrangheta e allogena presente sul territorio, oltre che calabrese. Le ‘ndrine, faticosamente uscite dalle con la rete criminale dei connazionali residenti

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all’estero. La capacità di cooperazione tra i vari clan è tale da consentire duttili alleanze finalizzate al singolo business e concorrenze che, ad oggi, non hanno generato guerre interne (anche se non mancano i regolamenti di conti e le faide). Da piccole bande autonome, dedite ad attività predatorie, si sale progressivamente di livello fino a veri e propri sodalizi criminali complessi che operano secondo i metodi del crimine organizzato. Qualcosa però sta lentamente mutando anche nel rigido codice albanese, dove le donne sono considerate subalterne all’uomo: «Tra gli aspetti più significativi dell’evoluzione delle modalità organizzative delle strutture criminali di matrice albanese - si legge nel rapporto annuale del ministero dell’Interno sulla criminalità in Italia del 2007 - figura la crescente partecipazione delle donne della perpetrazione dei reati, talvolta con ruoli addirittura preminenti rispetto a una base solitamente di sesso maschile. Al contrario del passato, in cui esse risultavano coinvolte in reati solitamente legati alla prostituzione e alla sorveglianza delle vittime, va evidenziata ora la

loro partecipazione attiva a rapine e nel traffico di stupefacenti». Trafficking o smuggling. La criminalità organizzata albanese all’inizio degli anni Novanta guardò all’Italia anzitutto per quanto riguardava la gestione dei flussi migratori clandestini. Cataldo Motta, procuratore della Repubblica a Lecce, in una relazione del 2009 tenuta nell’ambito di un incontro dal titolo “Nuove mafie, le organizzazioni criminose straniere in Italia”, scrive: «la gestione del traffico migratorio fu avviata inizialmente dalla criminalità albanese per l’emigrazione degli stessi cittadini albanesi e quale semplice attività di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (smuggling) ed era stata poi attuata quale sorta di agenzia di servizi, anche per conto di altre organizzazioni criminali dell’est». Torna un concetto chiave: quando la mafia shqiptara si evolve passa dal semplice contrabbando di migranti al farsi “agenzia di servizi”. La Puglia è stata la prima regione, per evidenze geografiche, ad essere investita dal fenomeno migratorio proveniente dall’altra


sponda del canale d’Otranto. La stessa Puglia è stata anche oggetto del traffico di sigarette che, dalle sponde del Montenegro dove avevano basi i contrabbandieri baresi e napoletani, giungeva ai porti di Brindisi e Bari. Non è un caso se mai il contrabbando di persone ha interferito con quello di sigarette, anzi è il «verosimile risultato di accordi con le altre organizzazioni per evitare un’intensificazione dei controlli di polizia in quel tratto di costa», scrive ancora Cataldo Motta. La rotta del traffico di persone, in prevalenza donne e bambini, carne umana data in pasto al mercato della prostituzione, batteva la rotta che da Valona porta a Santa Maria di Leuca. Presto per quella via sarebbero arrivati clandestini turchi, russi e cinesi. Si passò così dal semplice smuggling al vero e proprio trafficking. La mafia albanese aveva aperto e saputo controllare il più importante punto d’accesso verso l’agognato occidente dei quiz televisivi e dei gettoni d’oro. Di qui presero a passare profughi curdi, ragazze russe e cinesi a ripetizione da smistare in Francia e Spagna. Clandestini senza nome e senza identità passavano oltremare grazie ai veloci motoscafi albanesi e gommoni oceanici da mille cavalli, lunghi fino a dodici metri, che partendo a decine dai porti meridionali dell’Albania trasportavano stipati centinaia di clandestini. In breve tempo la criminalità albanese trasformò il trasporto illegale di connazionali verso l’Italia in un traffico internazionale di clandestini. Per farlo ha tessuto rapporti con le mafie straniere, adattandosi facilmente al mutare dei contesti, mettendosi al servizio degli interessi terzi con efficacia e “professionalità”.

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livello di violenza, coesione all’interno di clan a base famigliare, adattabilità, capacità di cooperazione. «Le condotte di agevolazione dell’immigrazione clandestina - scrive ancora Motta - consistenti nell’aiutare gli immigrati a raggiungere le località di destinazione [...] non hanno suscitato una forte riprovazione nella popolazione salentina». Una prova di tolleranza che si è anche tradotta in supporto delle attività illecite coinvolgendo «anche ambienti tradizionalmente non criminali». L’operazione Caronte, però, non rileva nessuna stabile saldatura con la Sacra Corona Unita. Un dato che potrebbe apparire confortante ma già in quegli anni la criminalità pugliese era frammentata e indebolita, con ridotte capacità criminali. Tale situazione è destinata a cambiare all’inizio degli anni Duemila: al 2002 si fa risalire la fine del traffico di persone e l’inizio del traffico di droga su ampia scala.

Il nuovo secolo albanese. Viaggio in Florida. Il traffico di stupefacenti e di armi furono attività minori e, per così dire, accessorie a quello di esseri umani. Progressivamente però i gruppi albanesi seppero occupare gli spazi lasciati liberi dai clan pugliesi in declino, talvolta alleandosi con essi nella gestione delle rotte di importazione di cocaina ed eroina. Il 2002 è l’anno di svolta: da quella data si registra un netto calo del contrabbando di persone fino al definitivo abbandono della rotta e, sempre da quella data, si registrarono sempre maggiori sequestri, e di carico di volta in volta più ingente, di stupefacenti provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico. In questi primi anni del nuovo secolo i gruppi albanesi (o, come La prima indagine che portò alla luce spesso accadeva, italo-albanesi) si lanciarono questo business criminale fu condotta dalla alla ricerca di nuovi mercati di distribuzione di Procura di Lecce già nel 1992 che la chiamò, droga tessendo relazioni fino al nord Europa. opportunamente, Caronte. Si scoprì che un’associazione per delinquere italo-albanese L’abbandono del business del traffico di persone gestiva l’immigrazione clandestina dall’est fu un effetto della rinnovata iniziativa della Europa e dall’estremo oriente. La stessa polizia albanese che distrusse le imbarcazioni ma organizzazione si premurava di concentrare il suo azzeramento coincise con un paradossale sulle coste albanesi i migranti delle più diverse incremento del traffico di stupefacenti. Il etnie traghettandoli fino alle coste salentine nuovo secolo si apre con un’operazione di dove i complici li ricevevano e accompagnavano polizia, quella cosiddetta Journey, che portò ai diversi punti di partenza da cui raggiungere all’arresto di dodici persone di nazionalità le mete finali. Pur trattandosi dei primi anni italiana, venezuelana, colombiana e albanese, Novanta, gli inquirenti seppero individuare e al sequestro di 12 tonnellate di cocaina in le caratteristiche peculiari che ancora oggi Venezuela. La contrattazione era interesse contraddistinguono il crimine albanese: alto della criminalità albanese, capace di porsi come

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intermediario internazionale per i grandi traffici. La relazione della Dia del primo semestre 2002 evidenzia come le forze inquirenti abbiano preso coscienza della gravità del fenomeno: «L’attività preventiva e repressiva svolta - si legge nella relazione - ha consentito di delineare più approfonditamente le connotazioni tipiche delle organizzazioni delinquenziali albanesi maggiormente assimilabili alla fenomenologia mafiosa, individuabili soprattutto nelle linee operative, nel linguaggio utilizzato, nell’ambito culturale e nei modelli di comportamento». Si comprende allora come la criminalità albanese abbia una struttura orizzontale, l’omertà ne sia regola di vita, e sia «attiva principalmente nel grande traffico di stupefacenti». La relazione Dia del secondo semestre 2002 completa l’analisi: «Si è di fronte a personaggi che, quand’anche stringano alleanze con malavitosi autoctoni, sono animati da un forte spirito nazionalista e, pertanto, sono capaci di contrapporre reazioni di gruppo in risposta ad eventuali iniziative di altri elementi criminali. Ulteriore caratteristica è che non appena sorgono conflitti d’interesse, questi gruppi non indugiano a far ricorso alle armi per compiere atti di forza dall’indubbio stampo

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mafioso. A tale proposito appare preoccupante la particolare diffusione di armi nell’ambito della comunità albanese, sia residenziale che stanziale e a questo si aggiungono la particolare determinazione ed efferatezza». Del 2002 è anche l’operazione Florida, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce congiuntamente alla Dea americana, che portò all’arresto di sedici persone di cittadinanza italiana, albanese e canadese. Si scoprì così il vaso di Pandora: un traffico transnazionale di eroina tra Turchia, Albania, Italia e Stati Uniti. Un esempio della capacità organizzativa e della ramificazione della criminalità albanese. Milano, Albania. La Puglia fu anzitutto terra di approdo per gli emigrati clandestini e prigione per le donne trafficate da mezzo mondo. Quando il business divenne il narcotraffico, la criminalità albanese andò là dove c’erano i soldi. La pianura padana è così diventata il loro quartier generale europeo. Gli albanesi sono stati i primi stranieri ad avere un proprio gruppo di fuoco sul territorio italiano. Agguerriti e spietati, hanno soppiantato i turchi nel trasporto, e i


non come una disorganica criminalità ma come un’organizzazione che, pur orizzontale, mantiene legami etnici e non solo. Nella relazione della Dia del 2005 si legge infatti: «si evidenziano i collegamenti sempre più stabili tra la mafia albanese e le mafie italiane. In particolare i gruppi criminali albanesi si stanno imponendo come i principali referenti per tutte le altre organizzazioni delinquenziali straniere, non solo per quanto riguarda l’immigrazione clandestina ma anche per il traffico di eroina e cocaina, attività quest’ultima che consente loro, tra l’altro, di continuare ad avere collegamenti sempre più stabili con le mafie italiane». Una mafia italiana. L’operazione Florida aveva già messo in luce la capacità degli albanesi nel cooperare con altri gruppi criminali stranieri o italiani. Una capacità tanto più utile ora che gli albanesi operano in tutto lo stivale, uscendo dalle prime regioni d’insediamento, Puglia, Lombardia e Piemonte, per lanciarsi alla conquista della penisola. Le operazioni Polaris (gennaio 2010) e Ulivi (aprile 2010) coordinate dalla Procura di La Spezia, hanno svelato la sinergia della criminalità albanese con gruppi di immigrati maghrebini e soggetti sudamericani nel traffico e nello spaccio di stupefacenti. L’operazione Santo Graal, del gennaio 2010, coordinata dalla Dda di Firenze, ha consentito di ricostruire la gestione di un cospicuo traffico di droga ad opera di un’agguerrita associazione guidata da esponenti albanesi ma con italiani (alcuni dei quali affiliati alla ‘ndrangheta) a ingrossare le fila di una rete criminale che dalla Toscana smerciava droga in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. L’eroina destinata al mercato italiano era acquistata direttamente in Albania, la cocaina proveniva da Spagna e Paesi Bassi tramite fornitori (sudamericani e kosovari) che non pretendevano alcun pagamento anticipato. Le partite venivano comodamente saldate una volta venduta al minuto la merce. Un particolare che evidenzia l’esistenza di un rapporto fiduciario per un’organizzazione ramificata in Italia e all’estero con disponibilità logistiche notevoli: appartamenti, magazzini, laboratori e mezzi di trasporto.

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‘ndrangheta o a Cosa nostra. Quando non agisce in proprio, quindi, la mafia albanese resta agenzia di servizio per le più grandi organizzazioni criminali, assumendosi il rischio del trasporto e ponendosi come intermediario nel narcotraffico. In cambio ottiene la possibilità di gestire business “minori”, come quello della prostituzione, in aree tipicamente controllate dalle mafie storiche nostrane, Calabria e Sicilia in testa. I rapporti con la ‘ndrangheta sono di vecchia data. L’operazione Harem, del 2005, fu la prima a far emergere un patto tra clan calabresi e albanesi portando all’arresto di ben ottanta persone di cui molte legate alla ‘ndrangheta, che avrebbe gestito una tratta di immigrati dall’Albania all’Italia. L’organizzazione, diffusa anche in Germania, radicata nella zona di Sibari, nei pressi di Catanzaro, faceva prostituire donne dell’Est in cambio di armi e droga importati dall’Albania. Il traffico gestito in simultanea era ben ramificato: le sostanze stupefacenti venivano smerciate nelle province di Cosenza, Crotone e Messina, mentre le armi andavano ad incrementare gli arsenali della ‘ndrangheta. Per l’allora procuratore aggiunto della Repubblica di Catanzaro, Mario Spagnuolo, si trattò della più vasta operazione internazionale compiuta fino a quel momento grazie «alla cooperazione giudiziaria con la procura generale albanese».

Negli ultimi anni, dunque, la criminalità albanese è assurta al rango di ‘mafia’ sia nell’analisi degli inquirenti sia per l’evoluzione verso una struttura organizzata. La contestazione del 416 bis nei confronti della delinquenza shqiptara ne delinea la fattispecie criminale: omertà, vincolo associativo, condizione di soggezione, delitti, dimensione transanazionale, controllo e gestione di attività economiche. Il condizionamento elettorale, non ancora segnalato in Italia, è invece frequente in madrepatria.Quella albanese è dunque una criminalità che, uscita dalle montagne dell’Epiro, ha saputo conquistarsi importanti fette di mercato europee facendo dell’Italia una delle sue maggiori aree d’affari al punto da estendersi in tutte le regioni della penisola, da sud a nord, alleandosi con le mafie allogene. L’immagine di una delinquenza primitiva e La Puglia, primo approdo del crimine shqiptaro, violenta, rozza e rurale, contrasta con quella è oggi base per la marijuana e l’eroina che che è ormai un’organizzazione complessa ed dall’Albania giungono in Italia destinate alla efficiente, di primo piano sulla scena globale.

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turchi si sono fatti soppiantare volentieri poiché troppo elevato era il rischio d’esser fatti fuori dalle lupare calabresi. Lo spiega bene uno dei primi pentiti di ‘ndrangheta, Saverio Morabito, boss nell’omonima cosca di Platì: «Un tempo a trattare le partite di droga venivano i turchi, e i turchi si appoggiavano agli italiani. Il risultato era semplice. All’inizio gli italiani si mostravano entusiasti, compravano, vendevano, sempre in maggiore quantità. I turchi guadagnavano ed erano felici finché, quando i turchi portavano un grosso carico e si aspettavano un grosso pagamento, morivano». Lo stesso Morabito ammise senza problemi di avere egli stesso organizzato un simile scherzetto ai danni dei turchi: «Non immaginate quanti ne abbiamo fatti sparire nel nulla». Ma con gli albanesi, spiega il boss pentito, è diverso. «Diffidano. Hanno le armi». Con le loro armi si guadagnano lo spazio dell’intermediazione. Trasportano, incidono sul prezzo, e una delle piazze principali diventa Milano. Nel 2001, secondo i dati del Goa della guardia di finanza meneghina, il reparto antidroga sequestrò 900 chili di eroina in novanta distinte operazioni. Oltre un terzo di quanto sequestrato da tutte le polizie della penisola in quell’anno. Stando alle analisi del Goa datate 2002, il traffico di oppiacei subiva «una lenta ma decisa trasformazione» con nuovi attori «di origine balcanica, in particolare di etnia albanese (albanesi, kosovari, macedoni) impegnati nella capillare distribuzione e approvvigionamento su tutte le piazze europee grazie a numerose cellule criminali».

sicurezza di Voghera dove stava scontando una Una di queste cellule era capeggiata da Ylli pena fino al 2033. ‘Ndoj che, secondo le cronache dell’epoca, non era dedito solo al narcotraffico. La sua banda Sodalizi di tipo mafioso. «Siamo rimasti gestiva prostituzione e rapine in villa, due colpiti dalla loro ferocia». Il procuratore business tradizionali per il crimine albanese. Ai nazionale antimafia, Pierluigi Vigna usò suoi ordini una banda di giovani arrivati a Milano queste parole parole per commentare, nel denominata da Mamuras e Lac, luoghi oggi dimenticati ma maggio 2002, l’operazione che sono stati i più grandi campi di raccolta di Kanun che portò in carcere 104 albanesi con profughi kosovari in Albania. Campi pieni di l’accusa di associazione mafiosa (416 bis) bambini, orfani di guerra malnutriti, dei quali finalizzata all’immigrazione clandestina, allo Medici senza Frontiere non finiva di censire sfruttamento della prostituzione di giovani malattie e decessi. Quando la Procura milanese donne, alcune minorenni, favoreggiamento, ha arrestato Ylli e la sua banda non ha esitato traffico internazionale di sostanze stupefacenti, a contestargli il 416 bis, l’associazione per detenzione illegale di armi e munizioni. L’ delinquere di stampo mafioso. Nel marzo inchiesta era partita alla fine del ‘99 grazie scorso Ylli ‘Ndoy è evaso dal carcere di massima ad alcune prostitute che avevano deciso di


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collaborare con la polizia per sottrarsi allo una presa di coscienza: il crimine albanese sfruttamento. aveva mutato natura. Nella relazione della Dia del primo semestre 2006 si legge: «Le L’azione fu coordinata dalla squadra mobile bande criminali albanesi non rappresentano di Genova e coinvolse diverse città italiane: più strutture delinquenziali ‘di servizio’ che Caserta, Pordenone, Brescia, Bergamo, Treviso, affiancano funzionalmente altri aggregati Bologna, Lecco, Macerata. Il capo della banda criminali, ma sono cresciute acquisendo via era ad Arezzo, i suoi principali collaboratori in via le connotazioni tipiche di sodalizi di tipo Liguria. «Questa operazione è una delle più mafioso, dedicandosi in maniera sistematica ampie che mai siano state fatte sul territorio a più complessi traffici. L’accrescimento delle italiano» spiegò Vigna ai cronisti. Gli accordi potenzialità operative ed il conseguente di cooperazione giudiziaria con il governo coinvolgimento nelle più diverse attività illecite albanese che muovevano allora i primi passi, hanno inoltre conferito alla criminalità albanese contribuendo al successo dell’operazione. un carattere transnazionale». La contestazione del 416 bis da parte delle Si afferma finalmente l’idea che quella albanese Procure di Milano e Genova coincise con sia una vera e propria mafia, da combattere

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SLAVI E BARBARI

Gli antichi slavi, un modo per leggere la Storia d’Europa Matteo Zola Etnicamente disomogenei. Ancora oggi buona parte della storiografia tende a sottovalutare l’importanza delle prime migrazioni dei popoli slavi in Europa avvenute a partire dal VI secolo e destinate a mutare l’aspetto del continente conferendogli, di fatto, l’attuale conformazione etnica. Migrazioni, quelle slave, avvenute in contesto già altomedievale, con i regni romano-barbarici sorti dalla disgregazione dell’impero romano che stavano in buona misura proseguendo, adattandola, la lezione della latinità. Per comprendere però la natura delle migrazioni slave occorre fare un passo indietro. Stiamo parlando di popolazioni etnicamente omogenee? Definite dal punto di vista

culturale e ideologico? Ovviamente no. La moderna storiografia (Wenksus, Wolf, Pohl, fino al nostro Azzara) supportata dai metodi di ricerca antropologici, nega assolutamente l’omogeneità etnica delle popolazioni barbare (fossero germaniche, iraniche o slave) che migrarono in Europa con sempre maggiore intensità a partire dal IV secolo d.C. Si tratta di una lezione importante poiché scardina e disinnesca qualsiasi rivendicazione etniconazionale presente, qualora basata su concetti di purità, tradizione, alterità ed esclusione. Concetti assai presenti nelle retoriche dei partiti etno-nazionalisti che, ad oggi, stanno avendo la meglio in Europa, abili a sfruttare le


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frustrazioni e le angosce del presente offrendo elettiva, andò assumendo caratteri di sacralità soluzioni consolatorie radicate in un passato (che ritroveremo nel concetto di regalità mitico e inesistente. medievale). A loro volta i popoli, grazie alla costituzione antoniniana, divennero cittadini di Invasioni o migrazioni? Ecco perché, prima Roma anche nella forma oltre che di fatto. Alla di parlare delle migrazioni degli slavi, occorre fine del IV secolo l’impero era già “barbaro”. dire di come effettivamente avvennero le L’invasione, raccontata dall’intellighenzia latina grandi migrazioni dal IV al VII secolo d.C. Fino e amplificata dalle cronache cristiane, non ci fu. a tempi relativamente recenti, e ancora nei testi scolastici fino ai primi anni Duemila, passava la Gentes mescolate, l’identità etnica come lezione che i barbari invasero, con violenza e scelta. La formazione delle popolazioni barbarisaccheggio, l’impero romano e lo distrussero. che che, in quattro secoli, penetrarono in EuroBarbari rappresentati negativamente, con clave, pa, sfugge da qualsiasi facile connotazione pelli, senza cultura, che in orde si riversarono geografica e pretesa omogeneità etnica. sulla civiltà latina. Sappiamo bene che dal III al L’archeologia ci racconta di gentes barbariche V secolo i barbari vennero accolti nell’impero, al dagli usi e costumi assai simili, di influenze fine di difenderne i confini, come popoli federati. reciproche, e i criteri oggettivi fin qui utilizzati L’istituto della foederatio, regolato e disciplinato per classificarle scivolano nell’impossibilità attraverso precisi strumenti giuridici, poneva di tracciare linee precise. Il lavoro di Rinhard le popolazioni barbare come alleate cui veniva Wenksus sulle gentes dell’alto medioevo ha elargito un compenso per il servizio prestato: avuto notevole importanza nell’accantonare quello di difendere il limes dell’impero. Con il ogni parametro di definizione oggettivo, ostermine di foederati si potevano intendere sia sia percepibile dall’esterno (come lingua, truppe di differente entità numerica, sottoposte costume, usi particolari) sulla definizione al comando dei propri capi e in genere impiegate etnica delle gentes adottando piuttosto un presso le regioni di origine, sia popolazioni carattere soggettivo, vale a dire che un accolte entro i confini dell’impero per servire individuo appartiene realmente a una comunità in armi e difendere i confini. Queste ultime quando acquisisce piena coscienza di esserne erano soggette al regime dell’hospitalitas che membro e ne adotta quei caratteri esteriori prevedeva l’assegnazione di un terzo delle di lingua, usi e costumi. Tale adesione muove terre del territorio loro concesso. In questo però da un assunto psicologico dell’individuo, modo quelli che erano nemici dell’impero ne da motivazioni interiori che pongono quindi diventavano alleati e difensori. l’appartenenza etnica sul piano della scelta personale. Più in generale sappiamo che le Ciò era tanto più necessario da quando, popolazioni dell’alto medioevo erano composte raggiunta l’espansione massima, l’impero do- da gruppi di varia provenienza, unitisi durante vette impiegare l’esercito a scopo difensivo e le lunghe migrazioni, e che si riconoscevano non già d’espansione, con costi di mantenimento in unica gentes quando ne condividevano, altissimi (la crisi economica che fu tra le cause appunto, caratteristiche culturali nel frattempo dell’implosione dell’impero romano si deve an- modificatesi sia nel gruppo di origine che in che all’eccesso di spese militari). Nel tempo quello di provenienza. A capo di tutto c’era l’esercito andò “barbarizzandosi”, facendo poi il riconoscimento del potere, del reiks, così proprie tecniche militari innovative (co- della leadership politica. È quello che Wenksus me la cavalleria) e permettendo ai capi del- chiama “nucleo di tradizione”: un nucleo di le popolazioni barbare federate brillanti car- individui socialmente eminenti di capi, guerrieri riere politiche: nominati magistri militum e talvolta sacerdoti capaci di proporsi come dell’impero, essi andarono formando una clas- asse di aggregazione e detentori dei caratteri se aristocratica parallela a quella senatoria, so- di un’identità etnica cangiante e adattabile. stenuta dalle armi. Divennero molto potenti: uno di loro, Odoacre, nel 476 d.C. avrebbe depo- Infine, come è ovvio, le popolazioni barbariche sto l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. dell’alto medioevo non chiamavano sé stesse Questi magistri militum erano chiamati, dai con il nome che loro attribuiamo oggi: loro popoli, reges e la loro funzione, dapprima longobardi, vandali, germani, sono (ed erano)

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denominazioni attribuite dall’esterno, in questo caso dall’intellighenzia latina. Gli scrittori latini attribuivano nomi e caratteristiche rigide alle popolazioni che incontravano, in quanto per loro i popoli barbari non mutavano. Tacito, nel suo trattato sui popoli germani, li accomuna su base geografica, senza tenere conto delle profonde diversità di quei popoli, diversità via via assottigliatesi con la formazione di gruppi più ampi ma che ancora nell’alto medioevo erano presenti. I latini sapevano davvero poco dei cosiddetti germani e il trattato di Tacito si basa su fonti secondarie. L’idea della sostanziale unità dei popoli germanici fin dall’antichità è sopravvissuta però nella storiografia moderna generando, nei casi più estremi, razzismi. L’approccio antropologico-storiografico offerto dalla scuola tedesca di Wenkus, Wolf e Pohl restituisce senz’altro meno certezze ma di maggiore correttezza scientifica. Certo, in un epoca come la nostra dove neo-nazionalismi

fondati su pretesi assunti di etnicità rigida si propongono con sempre maggiore forza sul-la scena politica acuendo i contrasti tra le popolazioni, la lezione di Wenksus e colleghi farà storcere il naso a molti. È molto più facile e consolatorio ritenersi parte di gruppi immutabili e immutati nelle epoche: noi siamo noi, e voi non siete uguali. Nella pretesa etnicità moderna insiste il senso di una superiorità morale e culturale, un razzismo latente insomma, infondato e nocivo. Le migrazioni dei popoli slavi. Dal VII al XI secolo l’Europa assiste all’ultima grande emigrazione, quella degli slavi. Barbari pagani diversi dalle gentes che li hanno preceduti per lingua, religione e struttura sociale ma egualmente rivestiti di quell’ideale negativo di nemici della civiltà che già ebbero i loro predecessori. L’etnogenesi degli slavi fu un processo molto lento e tuttora oscuro: arrivati


dalle steppe dell’Asia essi devono avere completato il loro percorso di costruzione etnica nello spazio che va tra l’Oder e il Dnepr, delimitato a sud dai Carpazi. Le influenze germaniche, gotiche, sarmate e traciche hanno fatto propendere gli studiosi per questa collocazione. La migrazione verso ovest pertì nel V secolo provocando continui processi di aggregazione e disgregazione di gruppi che andavano via via diversificandosi tra loro anche linguisticamente, dove in luogo di un protoslavo comune hanno preso piede le parlate locali (a tutt’oggi restano circa ottomila le parole comuni nelle lingue slave, ed è cosa che un viaggiatore può facilmente sperimentare visitando l’Europa dalla Macedonia alla Russia). La spinta verso ovest fu poderosa e si arrestò solo con Carlo Magno su una linea che idealmente collega Amburgo con Trieste. Eppure l’attenzione della storiografia nei confronti delle migrazioni slave è sempre stata scarsa a eccezione del capolavoro di Francis Conte, Gli Slavi, (Einaudi 1990) e non molti conoscono, ad esempio, le sorti dell’impero moravo o la lunga marcia dei bulgari, le vicende del regno polacco e dei principati russi. Qui è impossibile riassumerle, ci limiteremo perciò ad alcuni aspetti forse meno noti.

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Slovacchia, Moravia e Boemia, diede vita a un proto-Stato slavo in grado di fermare gli avari, che premevano a sud, e i germani che spingevano da nord.

Espansionismo slavo. Liberatisi del giogo avaro, ma non dalla cultura dei dominatori, l’espansione delle genti slave raggiunse vertici mai più visti nei secoli a venire: dall’Asia minore all’Africa settentrionale, da Creta fino all’Elba. Ne nacquero, nel giro di due secoli, regni stabili nei Balcani, lungo la Vistola, sul Baltico e oltre il Dnepr. La differenziazione tra i gruppi fu lenta e inesorabile, favorita dalle cesure operate da successive espansioni gotiche o germaniche che isolarono per certi periodi le gentes slave. Dove non si formarono regni autonomi, gli slavi vennero assimilati (in Grecia), deportati (dalla Macedonia), combattuti e vinti (in Tracia), federati all’Impero bizantino (in Asia minore), colonizzati (in Germania orientale). Nella Spagna arabo-berbera della dinastia Omayyade gli slavi furono dapprima utilizzati come mercenari, poi come schiavi, e infine (coloro che seppero affrancarsi dalla servitù) come dignitari dei califfi. A questo milieu culturale si devono i primi testi slavofili, come quello a firma di un imprecisato Habib dal titolo: Contro coloro che Gli slavi e gli avari. Dopo aver sterminato negano l’eccellenza degli slavi. Il testo, scritto i discendenti delle tribù unne, gli avari - una probabilmente da un intellettuale di origine popolazione turcica proveniente dalle steppe slava, era redatto in arabo. - incorporarono e assimilarono i superstiti (Grousset, L’empire de steppes) e, attraverso E in Italia? A Palermo, fino al 1090, quando ebbe progressive espansioni, raggiunsero il basso termine la dominazione araba sull’isola, esisteva corso del Danubio dove già stanziavano una “via slava”, a render conto della presenza popolazioni slave e longobarde. Lo storico di quella comunità in città. Già nel VII secolo si Menandro restituisce una cronaca dettagliata di assistette a migrazioni dalla Dalmazia, sovente quegli anni in cui, sfruttando la potenza avara, i associate ad atti pirateschi, e di proto-bulgari bizantini cercarono di liberarsi delle popolazioni nelle Marche. Risale al 926 un documento che slave consentendo al re avaro Baina di transitare attesta con l’appellativo di župan (“signore”, in “con sessantamila cavalieri armati di corazza” serbo) il reggente della città di Vieste. nel territorio dell’Impero. Le popolazioni degli Anti e degli Sclaveni vennero trucidate e i primi Verso lo Stato. Il rafforzamento militare addirittura scomparvero dalla Storia. Correva e politico dei regni slavi ebbe una chiave l’anno 602 d.C. La dominazione avara fu tale da di volta nella conversione al Cristianesimo. essere ricordata secoli dopo, con compassione L’incoronazione papale era, per i sovrani slavi, e terrore, dal monaco kieviano Nestore, nel l’ingresso del loro Stato e della loro stirpe nel suo Racconto dei tempi passati. Fredegario, “mondo che conta”. La conversione del popolo storico alla corte dei Merovingi, all’inizio del sarebbe venuta dopo, e non senza scossoni, VII secolo narra di come gli slavi fossero usati ma quel che contava era, in quel momento, il dagli avari come “carne da macello”, prime riconoscimento politico. L’attrazione verso Roma linee durante le battaglie. Le tribù slave ancora e verso il mondo latino non lasciò indifferenti libere si saldarono allora in un’unione che, in i nobili slavi che, come prima i reiks germani

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o goti, cercarono il riconoscimento culturale e politico che solo l’adesione al mondo cristiano poteva offrire. Anche in termini di (più o meno) durature alleanze. Il Cristianesimo, però, aveva già conosciuto scissioni e strappi e, intorno al IX e X secolo, stava maturando il grande scisma con Costantinopoli. Semplificando il quadro, e leggendo la religione come elemento geopolitico, possiamo dire che il Papa di Roma affermò la sua supremazia nella pars occidentalis del vecchio impero romano, che naturalmente guardava verso Roma. Nella parte orientale dell’Impero, quella poi divenuta bizantina, si affermò invece la coincidenza tra imperatore e capo della Chiesa. La sfida tra Roma e Costantinopoli si giocò anche nella “esportazione” della propria versione del Cristianesimo. Ma la questione era più grande, e non era religiosa ma politica: con chi conveniva stare? Con l’imperatore bizantino o con il Papa di Roma? Il regno polacco, quello ungherese (dove gli slavi giocavano un ruolo decisivo accanto all’èlite magiara) e quello croato, scelsero di aderire alla pars occidentalis: la vicinanza, anche minacciosa, franco-germanica fu un buon argomento per i sovrani. Stesso ragionamento fecero serbi e bulgari scegliendo di stare con l’imperatore.

Quel che seguì è Storia nota: regni slavi grandi e piccoli, guerre, crociate, eresie, vassallaggi, persecuzioni. E la costruzione di un mito, quello “razziale”, che affermò l’alterità degli slavi rispetto ai popoli d’Europa. Una fandonia sotto tutti i punti di vista, che trovò nel nazismo il suo compimento più tragico. E ancora, durante le guerre jugoslave, le finte contrapposizioni etniche sono servite a coprire le reali cause di misfatti ed eccidi compiuti in nome del denaro e del potere. Eppure questa Storia degli slavi ci insegna anzitutto che i popoli d’Europa non sono mai stati, né mai saranno, comunità chiuse e “pure”, quanto piuttosto il frutto di continui mescolamenti interni e identità scelte di volta in volta. Perché l’identità è qualcosa che l’individuo soltanto può determinare per sé stesso, essa è endogena e non esogena. L’identità è intima e non attribuibile dall’esterno. Una lezione tanto più preziosa oggi che il nostro continente è attraversato da nazionalismi inquieti, identitarismi costruiti in provetta e propagandati da piazzisti politici, gente che pretende di tagliare con l’accetta ciò che il filo della Storia ha sapientemente unito e ricamato nelle mille diversità che tutte si somigliano. Ph.: Andrea Jemolo


RUBRICHE - CULTURA

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MOST Ph.: Valodja

LA CITTÀ - BIŠKEK

Christian Eccher

Il tunnel che collega la piazza della Filarmonia al boulevard Čuj ha lo stesso odore dei sotterranei della metropolitana di Mosca. L’effluvio pungente della pastafrolla e il profumo rotondo del pane appena cotto, in vendita sui banchi e nei piccolissimi negozi serrati in fila lungo le pareti della galleria, si fonde con quello della gomma bagnata che ricopre il bitume del pavimento.

del governo cinese, pendono drappi persiani eleganti e multicolori. I furgoni rossi con i vetri del parabrezza scheggiati si infilano in ogni spazio lasciato vuoto dalle auto, sgommano nervosi e quasi mai si fermano per far passare i pedoni che vogliono attraversare la strada agli incroci. Gli autisti delle maršrutke, così vengono chiamate queste forme di trasporto privato che fanno concorrenza ai mezzi pubblici, hanno fretta, devono arrivare al capolinea il prima possibile. Caricano un numero imprecisato di persone, che viaggiano in piedi e in silenzio, senza protestare per i bruschi abbrivi e le frenate improvvise.

Biškek, la capitale del Kirghizistan, ha gli stessi edifici grigi di tutte le altre città dell’ex impero sovietico. I larghi boulevard traboccano di uomini e di automobili, i filobus viaggiano tranquilli ai lati della strada con le aste ben sollevate a scorrere veloci sui due fili sospesi dell’alimentazione aerea. Sul bordo superiore A Biškek non ci sono edifici alti, ma immense dei finestrini degli autobus piccoli e verdi, dono piazze dove l’erba buca faticosamente l’asfalto.


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Può capitare, a primavera, che un fiore giallo faccia capolino fra i radi steli e apra la sua corolla al sole. Nell’infinito biancore della Piazza Principale, fra le crepe scavate nel catrame dai rigori invernali, nell’aprile del 2010 sono rimaste a terra ottanta persone, uccise durante gli scontri che hanno costretto l’ex dittatore Bakyev a scappare e a cedere il potere alle forze democratiche dell’ormai ex presidente Roza Otunbayeva, a cui nel novembre del 2011 è succeduto Almazbek Atambajev.

interetnico e multiconfessionale. Verso nord, la città evapora in colori chiari e acquosi, l’orizzonte e il cielo si fondono impermeabili a ogni pensiero e diventano metafisici. Verso sud, le montagne si agitano convulse sotto la spinta delle placche tettoniche indiana ed euroasiatica che scivolano e si contorcono l’una sull’altra proprio nelle profondità della terra alle spalle di Biškek. Questi enormi rilievi sono l’unico oggetto concreto di cui gli occhi riescano a impossessarsi.

La città non ha confini definiti, i grandi boulevard conducono in periferia, forse più in là, fino alla frontiera e oltre, per sfociare e perdersi nell’infinita vastità delle pianure kazake e siberiane. Lungo questi viali, i palazzi socialisti lasciano a poco a poco il posto a casette a un piano con il tetto ondulato in eternit e a minuscole moschee senza minareto, ricavate da antichi garage subito dopo il crollo dell’URSS, nel 1991, quando il Kirghizistan ha proclamato l’indipendenza. Le chiesette ortodosse dei russi, che vivono qui da secoli, hanno le facciate blu e il campanile tozzo e basso. Il Kirghizistan è un paese laico,

Il sole invernale si specchia sincero e accecante sui vetri della biblioteca comunale, all’incrocio fra i boulevard Čuj e Sovjetskaja. All’interno fa freddo: alcune studentesse leggono avvolte in scialli colorati: solo i loro occhi neri a mandorla sono visibili, ma profondamente immersi nelle righe di piccoli libri senza figure. Poco lontano, in un lungo palazzo in cemento con motivi arabi alle finestre, oltre la biblioteca e il teatro dell’opera – edifici neoclassici, qui esotici – Ajnagulj prepara il tè per sé e per gli altri impiegati del partito socialista “Ata-Meken”. L’ufficio del Presidente del partito Omurbek

Ph.: Dvidshub

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Tekebayev, il padre della nuova Costituzione e da sempre uomo d’opposizione, è vuoto, ma la scrivania ricoperta di carte ne tradisce comunque la presenza.

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Ferme e decise, le mani di Ajnagulj si muovono sicure. La città diviene stabile e definita solo quando si specchia nelle sue pupille nere. Parla in maniera pacata e melodica e la sua voce smorza i rumori ispidi che Biškek raccoglie e disperde nel suo moto disordinato e infinito. Un movimento che distrugge gli orli e i contorni degli oggetti, ne scioglie la struttura in un plasma primordiale privo di limiti ed estremità. Solo nei caffè e nei ristoranti dalle enormi e gelide sale bianche è possibile trovare un approdo. Il sole tramonta e si spegne nel ghiaccio della

pianura kazaka, la notte cola dalle montagne e invade le strade, entra dalle mille finestre nel Parlamento che rimane immobile, come uno scoglio poroso nelle profondità marine, riempie anche il caffè dove Ainura versa il tè all’uomo che ha atteso, per giorni, per mesi, per anni; ha aspettato fedele che tornasse da Londra, da Chicago, da Mosca, dall’infinito deserto che assedia Biškek. Il sole è scomparso, l’oscurità inghiotte le architetture rozze e squadrate della città, l’aeroporto e i colossali aerei grigi e panciuti dell’aviazione americana che vomitano le bare di soldati biondi e lentigginosi, con indosso ancora le giacche marroni impolverate d’Afghanistan. Inghiotte anche le pupille nere di Ainura che, nel buio acquoso, siede accanto al suo uomo, per versargli in eterno, in eterno da bere. Ph.: Jessica Gardner


LE LETTURE Caffè, Yalta

E tu sapevi tutto eterno, mi ricordo, in quei caffè del porto, a Yalta, dissipavi le penombre, con la mano leggera, l’incessante sigaretta, vigilavi sull’autunno, quell’onda più lesta, nel buio, quel rammarico di sabbie, cancellavi, le distanze dalla vita, reclamavi quei minuti, lì, per sempre, li fissavi nell’acciaio, dello sguardo più lucente, nella voce di sirena e vento, che scioglievi tra i bicchieri, lungo il fumo azzurro ed il silenzio.

MOST Giovanni Catelli

Aspettavo, la tua voce tra i pensieri, le parole pallide sorprese già negli occhi, la più tenue confidenza con le ore, con la tenebra indifesa che accoglieva i nostri gesti, mi giungevano, gli sguardi lenti, le magnifiche incertezze delle mani lungo l’aria, le Mi guardavi, già severa lungo il dubbio, già più distanze impassibili affondate tra i lumi, cercate, amara nella corsa molle, d’ogni cosa verso il buio, con dolore improvviso, bagliore di lampo, rincorsa non crescevano le navi alle finestre spente, non di anni. salivano i rumori d’ogni folla dileguata, solo un fragile tinnire di metalli, fra le dita cieche della Segrete banchine condonano il tempo, dispongono brezza : balenava, nella fioca indifferenza di candele, quiete le cose, accolgono i volti, là non toccavi un lampo d’accendino, divorava già la tenue carta, l’approdo che insegui, so della fuga che insidi ai le materie profumate dell’incendio, ti donava quel momenti, già mi sfuggivi alle spalle, oltre il dubbio, respiro fondo in cui fuggire, quella nostalgia del ti promettevi al futuro nell’ombra, senza concedere tempo da lasciare, piano, alle risacche scure d’altri l’attimo grande, il viso imprendibile, il tocco leggero, senza tradire i moli raggiunti, l’ampia catena d’ore flutti. divise, i treni del viaggio, mai più disperdere il vasto presente, l’umida luce dell’alba, i gesti del sonno, le tazze sfiorate al risveglio, la stretta incessante degli occhi al mio fianco.

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La Signora del buio

del disordine, il bisogno, la mancanza fredda delle cose necessarie : è giunta, l’ora lieta, nessuno più le insidia il tempo, né lo spazio malcerto d’ogni suo vagare, un’intera sala quieta, colma di calore, luce, musica leggera, la difende, ospita serena il suo elegante disperare, la protegge dal vasto fragore quotidiano, in cui muove segreta il suo silenzio, l’accompagna nell’oblio d’ogni rincorsa, d’ogni cupa ricerca senza luogo, la dissolve nei minuti calmi che irridono la tenebra, saziandola di pace, sicurezza, tepore, parvenze di decoro.

Nelle sere d’inverno, al diradarsi delle folle sul Kreshatik, la Signora del buio riappare. Noi non sappiamo l’ora precisa dei suoi commiati ; ce ne andiamo, già, dopo la mezzanotte, quando i gesti Quando le cifre rosse sulla torre del Maidan bruschi degli addetti mostrano che l’ora di chiusura segnano le ventitré, e il carillon sparge le sue note si propaga nel passato, e che il ritardo concesso agli di commiato all’aria gelida, la Signora spalanca ultimi avventori scivola già verso rischiosi abissi le porte del suo arrivo e si fa strada nel calore : ci perdiamo rapidi, oltre le porte laterali, e la luminoso della tavola calda : muove qualche passo, scorgiamo intatta, immobile tra i tavoli, al centro riservata, scruta i tavoli già vuoti, osserva ogni della sala, nel cuore stesso del chiarore, perenne, vassoio abbandonato, dai clienti già lontani, nel rispettata e quasi trasparente ai gesti del servizio, metrò, nel vasto gelo, non decide, si sofferma con forse, chissà, già pronta a dissipare i suoi poteri, un lieve sorriso di stupore, di fronte allo schermo ma certo ancora solida e solenne al sopravvivere del sospeso, alla sua luce fosforica, ed ai volti sereni che tempo intorno a lei. soffiano sillabe uguali al silenzio. Avanza di nuovo, come svagata, poi ghermisce improvvisa un bicchiere solitario, abbandonato, quasi pieno, e lo stringe disinvolta, col sussiego della piena proprietà : cerca un tavolo propizio, un divanetto confortevole, il giusto riposo del cliente soddisfatto, si accomoda ordinata, distinta, diritta, guarda verso il fondo della sala, cerca un ordine compiuto in cui placare, il terrore muto

Ph.: Valeria P.


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Ph.: n_erd

CULTURA - I MATEMATICI UNGHERESI

“Per diventare matematici non serve essere ungheresi. Però aiuta”. Intervista a Gian Luigi Forti sull’eccellenza della matematica ungherese e sulla passione che muove una disciplina in continua evoluzione. Claudia Leporatti L’Ungheria, così come ce l’ha consegnata il Novecento dopo la fine dell’impero degli Asburgo e il Trattato di Trianon, è uno degli stati più piccoli d’Europa, che conta oggi circa 10 milioni di abitanti. Eppure è da qui che hanno preso le mosse tanti dei matematici e degli scienziati che hanno cambiato per sempre il mondo, portando tra l’altro all’invenzione del primo calcolatore, precursore dei computer, della teoria atomica e della più innocua penna biro. Dettagli ben noti che s’inseriscono in un’evoluzione più ampia delle scienze in questo territorio, ma non solo; per ricostruirla ho intervistato il professor Gian Luigi Forti, docente e ricercatore di scienze matematiche alla Statale di Milano. Tra i suoi insegnamenti compare Storia della Matematica e, a Milano, in occasione del convegno sui rapporti Italia-Ungheria nei secoli, ha parlato dei matematici ungheresi mettendo in luce aspetti non

sempre noti di quello che chiamerei il “patrimonio scientifico” magiaro. Prima di focalizzarci su questo argomento guardiamo al panorama mondiale: quali Paesi hanno dato i natali al maggior numero di figure determinanti nello sviluppo della matematica? Un veloce excursus storico basterà a farci notare come nel tempo si siano avvicendate concentrazioni in vari luoghi, per questo è difficile fare una classifica dei Paesi che hanno contribuito maggiormente alla disciplina . Tralasciando l’antichità, dal XIII al XVI secolo spiccano gli italiani, da Leonardo Pisano (detto il Fibonacci), a Niccolò Tartaglia, Girolamo Cardano, Rafael Bombelli. Dopo Galileo Galilei, con il suo allievo Evangelista Torricelli e Bonaventura Cavalieri, dalla Francia si hanno i contributi fondamentali di Blaise Pascal, Pierre Fermat e René Descartes. Tra XVII e XVIII secolo, la scuola inglese di Wallis, Gregory e


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Barrow culmina con Isaac Newton. Dopo la creazione del calcolo differenziale e integrale, opera comune e indipendente di Newton e di Gottfried Wilhelm Leibniz, grazie al più efficace sistema notazionale di quest’ultimo diffusosi in Europa continentale, abbiamo i grandi sviluppi, anche applicativi, portati avanti dai tre Bernoulli e da Leonhard Euler, tutti svizzeri. Dalla scuola tedesca emergerà il grande Carl Friedrich Gauss, dominatore della scena matematica a cavallo fra XVIII e la metà del XIX secolo. L’Ottocento vede la nascita in Germania delle università di ricerca e delle due grandi scuole matematiche tedesca e francese che, dopo un periodo di ripensamento e rifondazione dei fondamenti della disciplina, gettano le basi per la matematica contemporanea. Ci sono naturalmente ottimi matematici di altri Paesi, pensiamo ai geometri italiani, ma tutti si rifanno alle due scuole citate.

grandi matematici in Polonia, essenzialmente a Leopoli, che daranno un contributo essenziale alla creazione dell’Analisi funzionale. I nomi di spicco sono di Stefan Banach, Hugo Steinhaus, Stanisŀaw Ulam, Władysław Orlicz, Stanisŀaw Mazur, Kazimierz Kuratowski. Nello stesso tempo in Ungheria la scuola di Lipót Fejér produrrà scienziati di livello eccezionale, come John Von Neumann, Paul Erdős, George Pólya e Pál Turán. A questo punto diviene sempre più difficile parlare di scuole nazionali, gli scambi sono intensi e la grande facilitazione dei viaggi amalgama ancor di più una comunità scientifica che si è da sempre considerata una koinè.

Leggi razziali, nazionalismi e un dopoguerra che sfocia in un secondo conflitto di dimensioni mondiali: quali gli effetti dei flussi migratori e dell’Olocausto su questa neonata “comunità scientifica”? La situazione politica europea e le leggi razziali A un certo punto la scena si è spostata in spingono molti a emigrare negli Stati Uniti, Europa centro-orientale. Quando? iniziando così quel percorso che ha oggi portato Nel periodo fra le due guerre novecentesche al ruolo quasi egemone americano. Sempre fra incontriamo una leggendaria concentrazione di le due guerre cresce, però anche una grande

Ph.: Claudia Leporatti


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scuola russa di matematica, tuttora di notevole studio servano delle droghe il passo è molto prestigio e che, a causa dell’emigrazione, ha lungo e non credo che sia vero, specialmente dato una spinta importante alla formazione di per un’attività di tipo scientifico. una scuola matematica israeliana. Peter Lax, matematico naturalizzato In Ungheria sono cresciuti alcuni tra gli americano ma nato a Budapest, disse scienziati riconosciuti a livello mondiale “you don’t have to be Hungarian to be a tra i più rivoluzionari e prolifici: quale di mathematician, but it helps”, è d’accordo? essi la affascina di più? Se sì, in che modo pensa che essere Le mie conoscenze si limitano ai matematici e ungheresi aiuti a essere ottimi matematici? John von Neumann è certamente uno scienziato Quella di Lax è una bella battuta ma che ho con uno spettro di competenze inusualmente sentito applicata a diverse situazioni: basta ampio: i suoi risultati nella matematica, sostituire Hungarian e mathematician con nella fisica e nelle loro applicazioni sono stati qualcos’altro. Pare che lo schema discenda fondamentali nel plasmare il nostro mondo da una battuta di George Bernard Shaw: ”Per attuale, sia in positivo che in negativo, pensiamo giocare a golf non è necessario essere stupidi, ai computer ma anche agli ordigni nucleari. ma aiuta”. Più seriamente, è certo che in Ungheria si è avuto un numero di scienziati di alto Quale invece è la figura più eccentrica? livello sproporzionato rispetto alle dimensioni Certamente quella di Paul Erdős, ma se la geografiche e demografiche del paese. Senza sua eccentricità può divertire e fare presa su dubbio la struttura dell’insegnamento e persone non esperte di matematica, non va alcune pionieristiche iniziative come la Eötvös dimenticato che in questo “involucro” bizzarro Mathematics Competition hanno avuto un lavorava senza sosta un cervello matematico di impatto positivo molto importante. superiore grandezza. Può raccontarci qualche curiosità o un Come mai uno studioso di rilievo come aneddoto che hanno visto un matematico Erdős è poco conosciuto fuori dall’Ungheria ungherese come protagonista? se non in ambiente accademico? Un caro amico, purtroppo mancato più di 20 Questo non mi stupisce: i matematici in genere anni fa, Istvan Fenyö, professore di matematica sono poco conosciuti e credo che anche in presso il Politecnico di Budapest, mi raccontò Ungheria Erdős sia purtroppo più noto grazie la sua avventura di guerra. Preso dai tedeschi alla sua citata eccentricità che per i suoi risultati. durante una retata, fu avviato in una colonna Voglio citare un caso italiano: Enrico Bombieri, verso il confine austriaco. Durante la sosta adesso a Princeton, è l’unico italiano ad avere notturna presso Sopron decise di giocare il avuto la Medaglia Fields ma è sconosciuto ai tutto per tutto: sicuro di morire poco tempo più, anche a persone di alto livello culturale. dopo, tentò la fuga, al più sarebbe morto subito. Riuscì ad andarsene e passò tre mesi Erdős dedicò la sua vita alla matematica. in clandestinità arrangiandosi per vivere. Dotato di un cervello eccezionale, Ricomparve a Budapest fra lo stupore di amici e sosteneva di non poter lavorare senza colleghi che lo credevano morto. Più tardi, negli assumere anfetamine. In parole povere anni ’80 quando ci siamo conosciuti e abbiamo per dare il massimo nello studio è stato collaborato, sapeva abilmente districarsi fra le disposto a diventare dipendente da una difficoltà burocratiche che ancora incontrava in droga. Che ne pensa? quel periodo una persona proveniente da oltre Ignoro i veri motivi che possono aver portato cortina, e motivava questa sua abilità con le Erdős a far uso di anfetamine; può anche avere esperienze tragiche del passato. iniziato in modo casuale. Negli anni ’70 non era affatto chiaro, come oggi, che l’uso di queste Si hanno notizie di matematici italiani che sostanze avrebbe creato una dipendenza e hanno lavorato a contatto con colleghi quindi, più o meno inconsciamente, Erdős si sarà magiari? reso conto che non poteva più farne a meno. Ci sono e ci sono state collaborazioni a vario Di qui a dire che per ottenere il massimo nello livello. Personalmente, con altri colleghi

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milanesi, ho collaborato con il già citato Fenyö e con János Aczél, attualmente professore emerito dell’Università di Waterloo, Ontario. Scambi frequenti ho avuto ed ho con colleghi di Debrecen, Budapest e Szeged. Fra questi ho il piacere di ricordare Zoltán Daróczy, László Székelyhidi e Miklós Laczkovich, vincitori di premi ungheresi e internazionali.

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Le gare di matematica come la Eötvös Mathematics Competition hanno senz’altro contribuito a formare un’eccezionale concentrazione di matematici e scienziati brillanti in Ungheria. Potrebbe parlarcene? La Eötvös Mathematics Competition è stata un modello per il fiorire in varie parti del mondo di gare matematiche e fisiche. La sua fama è ovviamente legata ai nomi di grandi matematici e fisici ungheresi che hanno trovato in tale iniziativa un primo trampolino di lancio della loro carriera scientifica. Fra i nomi dei vincitori troviamo L. Fejér (1897), T. von Kármán (1898), D. König (1902), A. Haar (1903), T. Radó (1913), M. Riesz (1904), G. Szegö (1912) ed E. Teller (1925). In Italia fino a non molti anni fa non avevamo gare di questo tipo ma ora le Olimpiadi matematiche e la gara Kangourou della matematica (sezione italiana di una gara diffusa in vari paesi) stanno accendendo l’interesse degli studenti delle scuole medie

e secondarie superiori per la matematica e potranno contribuire a far emergere veri talenti. La formazione giovanile di quelli che sono diventati i più importanti matematici del secolo scorso ha visto anche una commistione con il giornalismo attraverso il KöMal, il giornale matematico delle scuole secondarie, le va di raccontarci qualcosa a riguardo? Sa dirci se l’idea è stata ripresa anche in altri paesi, sempre guardando alle scuole superiori o comunque prima dell’università? Devo confessare che non conoscevo il giornale KöMal ma, dopo essermi informato, credo che sia molto bello e utile e che abbia un ruolo molto importante nell’individuazione di studenti dotati per la matematica e la fisica e un’influenza molto positiva nella crescita e diffusione della cultura scientifica nei giovani. In Francia c’è il giornale Tangente. L’Aventure mathématique, la cui edizione italiana, Per la Tangente, è curata dal gruppo che organizza le gare Kangourou. Chi sono i nuovi geni della matematica in questo inizio di terzo millennio? I nomi dei migliori matematici li troviamo nell’elenco delle Medaglie Fields. Questo premio, da molti paragonato al Nobel (che per la matematica non esiste) in realtà ha


una condizione anagrafica molto restrittiva: è riservato a chi ha non più di quaranta anni. I vincitori del 2010 sono Elon Lindenstrauss, Stanislav Smirnov e Cédric Villani. Dopo tante scoperte cosa può darci la matematica oggi? Che cosa spinge a diventare matematici i nati delle nuove generazioni? La produzione di nuova matematica è incessante e negli ultimi decenni il ritmo di crescita è stato impetuoso, anche se non tutti i risultati hanno la stessa importanza. I giornali scientifici specializzati per la matematica sono qualche centinaio e ogni anno pubblicano migliaia di articoli. Oltre ai risultati specifici, un’accresciuta e più diffusa cultura matematica non potrà che migliorare la capacità di comprensione di un mondo sempre più complesso. La spinta a diventare matematico credo non sia diversa da quella di tempi passati: una passione per un tipo di ragionamento logico, ma anche una creatività e una fantasia che avvicinano la creazione matematica a quella artistica. Dal lato pratico possiamo osservare che il mercato del lavoro assorbe molto bene i matematici, i quali proprio per quanto appena detto, sanno adattare le loro competenze ad ambienti molto differenti. Ph.: Walter Corno

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I metodi usati tuttora nella maggior parte delle scuole in Ungheria incoraggiano gli approcci creativi ai problemi, pur non trascurando una conoscenza approfondita degli strumenti già esistenti. Pensa che anche in Italia sia diffusa questa pratica? Uno dei principali problemi della scuola italiana riguarda l’insegnamento delle scienze in generale e della matematica in particolare. Per quanto ne so io, la pratica d’insegnamento mediante un approccio creativo ai problemi non è molto diffusa. Proprio in questi giorni stanno nascendo iniziative condotte dall’Accademia dei Licei in collaborazione con le università per un aggiornamento degli insegnanti che possa portare a migliori risultati nella preparazione degli studenti. Abbiamo parlato di matematica, ma l’Ungheria ha dato i natali anche a fisici e scienziati d’indubbia rilevanza. Alcuni sono molto noti, come Biró e Semmelweis, quali altri può ricordarci? Edward Teller è uno dei fisici che ha collaborato in posizione di rilievo al progetto Manhattan. Leó Szilárd, che con Enrico Fermi brevettò l’idea della reazione nucleare a catena, fu l’autore della lettera che fu poi firmata da Einstein e che diede il via al progetto Manhattan. Anche il ciclotrone e il microscopio elettronico furono da lui concepiti, anche se non concretamente sviluppati. Theodore von Kármán, fisico e ingegnere aeronautico e studioso di aerodinamica, fondò nel 1944 lo Jet Propulsion Laboratory e fu il primo scienziato a ottenere la National Medal of Science dal presidente Kennedy. Contribuì inoltre alla fondazione del noto Von Kármán Institute for Fluid Dynamics di Bruxelles. Quanto giovano programmi di scambio come l’Erasmus alla crescita delle scienze? Sono molto importanti più che per lo sviluppo delle scienze, per quelli della personalità e delle competenze dei giovani studenti. Purtroppo le voci che sentiamo in queste settimane mi fanno essere pessimista sul proseguimento di questi programmi di scambio: il taglio dei fondi per l’Erasmus sembra essere una delle priorità dell’Unione Europea, anche se non credo che la loro eliminazione possa avere un effetto miracoloso sul bilancio dell’Unione.

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ALLA BIBLIOTECA DELL’EST

Kornél Esti di Dezső Kosztolányi A cura di Alexandra Foresto, traduzione di Alexandra Foresto, postfazione di Péter Hesterházy 2012, Mimesis Edizioni

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Per capire che si tratta di un libro da non perdere basta il prologo: vi catturerà la discussione tra Kornél Esti, protagonista di tante novelle di Kosztolányi e un suo caro amico scrittore che gli propone una raccolta delle vicende più indicative della sua vita, da scrivere insieme, incontrandosi di tanto in tanto. A colpirvi non saranno solo la trama e la cornice, pure evocativa di un invidiabile rapporto di amicizia tra scrittori, ma una forma studiata per dare piena libertà al personaggio nel suo scegliere cosa raccontare, quando farlo e a chi rivolgersi. Dezső Kosztolányi è uno dei grandi narratori della letteratura ungherese e tra i più dotati del Novecento letterario, a livello mondiale; per scoprirlo l’ideale è cominciare da Esti, il suo cavallo di battaglia, un personaggio dall’occhio attento sul mondo, generoso ma intelligente, che pur di aiutare finisce spesso per farsi fregare, ma non manca mai, sul finale, di prendersi la sua rivalsa. Tra le pagine di Kornél Esti è gradevole conoscere un tratto identificativo della letteratura magiara, quell’umorismo sarcastico e sottile, a volte triste e spesso scanzonato, capace di modellare l’approccio alla vita, alleggerendolo. Ogni storia di questa raccolta porta un titolo lungo e didascalico, com’era tipico nei tempi antichi ed è un piccolo scorcio sul passato di una Budapest di giovani penne ed eleganti caffetterie, di scrittori vagabondi e giornalisti impazziti, viaggi senza parole ed esperienze all’estero, in Germania, dove un anziano narcolettico può permettersi di essere considerato un uomo di cultura pur dormendo per tutta la durata delle presentazioni letterarie che introduce. Edito da Mimesis, è stato tradotto in italiano da Alexandra Foresto, che, citando una dei suoi revisori (Isabella Zani), ha commentato: “Kosztolányi lavora con la lingua come un chirurgo col bisturi: se si è riusciti a

Claudia Leporatti

restituire questo al lettore italiano, è già un grande risultato”. Di più non voglio svelare solo la lettura può trasmettere la grandezza di Kosztolányi. A est dell’Occidente di Miroslav Penkov Traduzione di Ada Arduini 2012, Neri Pozza Miroslav Penkov, docente di scrittura creativa bulgaro in Texas, racconta il suo Paese attraverso storie di un passato in patria e di un presente che cerca una rinascita negli Stati Uniti. Un volume che trasuda amore per la nazione d’origine e nostalgia per un passato, quello comunista, di cui si rammentano la maggior ricchezza e la cultura più radicata della “Grande Bulgaria”, il cui territorio ha subito pesanti riduzioni. C’è anche altro, nei brani di Penkov, dagli spunti scelti con una grande cura ed elaborati da un’immaginazione ben allenata. Deve averne vista tanta di umanità interessante, lui, che, classe 1982, si è trasferito negli Usa nel 2001 e non ha mai perso il contatto con il suo Est. Tra le pagine di questo romanzo, tuttavia, non vi è niente di scontato o già letto. Dall’amore impossibile del bambino di nome Naso per la cugina che vive oltre il fiume, dall’altro lato di un villaggio a metà tra Bulgaria e Serbia, all’avventura di Rado e Gogo, che rubano una croce d’oro in una chiesa di Sofia. Un episodio che ci porta nel vivo del sistema politico bulgaro con le sue instabilità e i ripetuti fallimenti dei suoi governi post-sovietici. Ci sono anche l’amore tra una giapponese e un bulgaro emigrato in America e, con l’accattivante titolo di “Comprando Lenin” la vicenda di un ragazzo che decide di partire verso il nuovo mondo. Premiato a ottobre dalla BBC con le quindicimila sterline dell’International short story award, ”A Est dell’occidente” è un ponte gettato da Penkov verso la sua terra, che lo aiuta a viverla nonostante la distanza. E su questo ponte possiamo transitare anche noi, per scoprirla da un’angolatura diversa o per puro amore della buona letteratura.


MOST VOLEVO ESSERE D’ANNUNZIO, VOLEVO ESSERE LIMONOV

Massimiliano Di Pasquale

È il più grande scrittore francese contemporaneo afferma sicura di sé e con dubbio gusto la madre – Hélène Carrère d’Encausse – sovietologa d’oltralpe, autrice di importanti saggi su URSS e Russia, una recente, inconfessabile, fascinazione per Putin. Lui, Emmanuel, cinquantacinquenne parigino “nato in una famiglia borghese di un quartiere elegante”, residente “in una zona di Parigi decisamente radical-chic”, “figlio di un alto dirigente e di una storica famosa” (sono sue parole), forte di cotanto pedigree e del clamoroso successo del suo ultimo libro fa spallucce e se la ride.

frutti di una celebrità cercata con ostinazione per tanto tempo. Una celebrità che è arrivata improvvisamente, dopo anni passati a scrivere “libri e sceneggiature”, solo negli ultimi mesi grazie al clamoroso successo di Limonov. La ‘biografia romanzata’ dedicata al controverso scrittore underground e leader dei nazbol (nazional-bolscevichi) Eduard Savenko, in arte Eduard Limonov, è stata infatti un autentico bestseller in Francia. Tant’è che il successo del libro di Carrère, pubblicato nel 2011 dai tipi di P.O.L. Editeur, ha spinto l’algida Adelphi, tra lo stupore di molti, ad assicurarsene i diritti italiani. In realtà la casa editrice milanese non è nuova Amici che l’hanno incontrato quest’estate a operazioni di questo tipo basti pensare alla nella tenuta toscana della baronessa Beatrice pubblicazione di Simenon, un tempo ‘scrittore Monti Rezzori, ospite del prestigioso premio di genere’ ghettizzato nelle edicole. letterario Gregor von Rezzori, l’hanno dipinto come una ‘primadonna’ educata e compiaciuta. Limonov, uscito in Italia nell’ottobre scorso e Probabilmente – e non c’è nulla di male in già giunto alla seconda edizione, lo si potrebbe tutto ciò – il buon Emmanuel si sta godendo i definire una sorta di “romanzo russo” visto

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che, oltre alla considerevole mole (ben 356 pagine), finisce per raccontare – attraverso il prisma poliedrico della “vita romanzesca e spericolata” di Eduard Savenko – gli ultimi sessant’anni della storia russa. A ben vedere (il lettore più smaliziato, non a digiuno di Russia, se ne accorgerà presto) le idiosincrasie, le contraddizioni, gli aspetti più plateali e sciovinisti del personaggio Limonov sono gli stessi di un paese che da sempre guarda all’Occidente e alle sue presunte debolezze con un misto di arroganza, invidia e disprezzo.

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di limitarsi a riportare i fatti – appare evidente come l’affermazione del giornalista inglese non sia affatto una provocazione, ma poggi su basi assolutamente fondate. Lo stesso Carrère non esclude che Limonov nel corso della sua vita abbia voluto provare l’ebbrezza dell’omicidio (si ipotizza nel corso della guerra nell’ex Jugoslavia) anche se, ovviamente, il diretto interessato ha sempre negato tale addebito. Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza trascorsi a Kharkiv, ricostruiti accuratamente da Carrère avvalendosi sia delle testimonianze dirette di Limonov, sia delle pagine di romanzi come Podrostok Savenko (Eddy Baby Ti Amo, Salani 2005), sono ricchi di episodi che rendono ragione non solo di un carattere irrequieto ed egocentrico, ma di una fascinazione verso la violenza che, a ben vedere, è il filo rosso che unisce le diverse incarnazioni di questo D’Annunzio da feuilleton sovietico.

Non tragga in inganno il fatto che Limonov, nella sua veste più recente di agitatore politico e di oppositore di Putin – una delle ultime maschere indossate dopo quella di teppista in Ucraina, poeta underground a Mosca, barbone e marchettaro a New York, scrittore alla moda a Parigi, miliziano filoserbo nei Balcani – abbia fatto fronte comune con i democratici Garry Kasparov e Mikhail Kasyanov nel 2007 nel tentativo di opporsi al tandem governativo Le pagine kharkivesi del libro, in particolare quelle ambientate nel quartiere popolare Medvedev-Putin. di Saltovka, hanno l’odore del sangue di Limonov, come spiega Carrère nella chiosa stupri collettivi e di risse che degenerano in finale, disprezza Putin semplicemente perché accoltellamenti, il sapore aspro del samogon Vladimir Vladimirovich, nato da un’umile – la vodka fatta in casa per sballarsi in trip famiglia di San Pietroburgo, molto simile a quella alcolici, zapoy, che durano giorni interni – e ucraina dei Savenko, è uno che, al contrario quello dolciastro dello sperma. Sono pagine di lui, ce l’ha fatta. Putin, l’ex funzionario del crude, spesso disgustose, sconsigliate ai KGB dislocato con compiti di secondo ordine deboli di stomaco, eppure fondamentali per nella DDR, è oggi lo zar della nuova Russia. Un comprendere il personaggio Limonov e i codici ruolo questo che Limonov aveva immaginato comportamentali di un proletariato sovietico, per sé sin da bambino quando, all’interno della quello degli anni ’50, alcolizzato e analfabeta sua kommunalka kharkivese, fantasticava sul che, nonostante il disgelo khruscioviano, vive suo futuro sperando non fosse grigio come ancora nel mito di Stalin. quello dei suoi genitori. Emblematica la frase pronunciata a Mosca nel 2007 da un giornalista A Saltovka dove, tra strade non asfaltate che si inglese che assiste a una conferenza stampa del intersecano ad angolo retto, abitano gli operai blocco democratico Drugaya Rossiya capitanato di tre grandi fabbriche Turbina, Pistone, Falce dall’improbabile terzetto Limonov, Kasparov, e Martello, gli unici divertimenti possibili sono Kasyanov. L’uomo, rivolgendosi sottovoce, ma l’alcol e il sesso, praticato nel migliore dei casi con aria assolutamente seria a Carrère, anche (ossia quando non si traduce in stupro) in lui presente in sala, afferma: “Gli amici di maniera animalesca. A Saltovka il jazz raffinato Limonov farebbero bene a non fidarsi di lui. Se degli Stiliagi, i giovani filoccidentali che per caso prendesse il potere, per prima cosa li passeggiano lungo la Sumskaya, il boulevard principale di Kharkiv, con acconciature che farebbe fucilare tutti”. ricordano i capelli a banana di Elvis Presley, non Leggendo le oltre trecento pagine di arriverà mai. A Saltovka la musica dei compagni quest’avvincente biografia – in cui l’autore di sbronze di Limonov è il blues ferroviario, quasi per giustificare una malcelata simpatia quasi lisergico, di zapoy che si protraggono per verso Limonov ribadisce più volte di sospendere giorni interi su treni di cui spesso non si conosce il giudizio sul protagonista del suo romanzo e neppure la destinazione. Accade così che nel


corso di questi trip alcolici Eduard e i suoi amici diventino protagonisti di furti, aggressioni ed episodi di violenza. Alcuni finiranno in carcere, altri giustiziati presso la corte marziale, quando malauguratamente ci scappa il morto. Limonov a soli vent’anni, dopo un tentativo di suicidio, sarà rinchiuso in ospedale psichiatrico.

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seconda moglie, la famosa attrice russa Ekaterina Volkova che gli ha dati due figli: Aleksandra e Bogdan. La cosa non sembra preoccuparlo troppo. Sostiene, infatti, di avere parecchie amanti, tutte belle e giovani, “di serie A”, come ama chiamarle lui. Dopo il fallimento del progetto Drugaya Rossiya Limonov è di nuovo in pista con il movimento politico Strategia 31, Fortunatamente dopo due mesi di internamento, dal numero dell’articolo della costituzione che Eduard incapperà in un vecchio psichiatra il garantisce il diritto di manifestare. quale intuisce che il ragazzo non è affatto pazzo, semplicemente incompatibile con la routine di C’è da scommettere che il “diario di questo una vita grigia a base di lavoro in fabbrica e fallito”, per parafrasare il titolo di un suo famoso sbronze di vodka. Sarà questo vecchio terapeuta romanzo uscito anche in Italia, si arricchirà di dalle orecchie pelose a indirizzarlo in una libreria altre esilaranti pagine. Eroe o cialtrone, oggi del centro di Kharkov, punto d’incontro di tutti Limonov, grazie anche a uno scrittore francese gli artisti e poeti della città ucraina. All’interno di radical chic che avrebbe voluto vivere una vita Libreria 41 il ventenne Limonov conoscerà Anna oltraggiosa come la sua, gode di una popolarità Moiseevna Rubinstejn, la donna che diventerà mondiale. Basterà questo ad appagare il suo per un periodo la sua amante e con la quale ego ipertrofico? si trasferirà qualche anno più tardi a Mosca in cerca di gloria prima dell’esilio volontario a New York e a Parigi. Limonov di Emmanuel Carrère Oggi Eduard, stesso sguardo da canaglia di sempre, è arrivato alla soglia dei 70 anni. Recentemente è stato abbandonato dalla

Traduzione di Francesco Bergamasco Adelphi, Milano 2012

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MOST Ph.: Rafael Gomez

YEREVAN CAPITALE MONDIALE DEL LIBRO Quando la più potente arma del paese è la cultura Emanuele Cassano

Promuovere la diffusione del libro e incoraggiare la lettura, queste le motivazioni che hanno spinto l’UNESCO a designare annualmente una città che potesse rappresentare e nello stesso tempo diffondere questi ideali. Dopo la fortunata esperienza della Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, svoltasi nel 1996, l’UNESCO decise cinque anni più tardi di nominare la città di Madrid capitale mondiale del libro. Era il 2001 e l’evento ebbe un grosso successo, tanto che, durante la 31a sessione della conferenza generale dell’UNESCO svoltasi a Parigi nello stesso anno, su proposta di dodici Paesi fu approvata la risoluzione 29: da quell’anno in avanti sarebbe stata eletta con cadenza annuale una città capitale mondiale del libro, sull’esempio di Madrid. Fino al 2004 la città organizzatrice è stata stabilita da una Commissione selezionatrice, mentre dalle edizioni successive l’UNESCO si è aperta alle candidature delle città interessate. Così, a partire da Madrid 2001, l’evento ha toccato uno a uno tutti i continenti, passando anche in Italia, a Torino nel 2006

(stesso anno dei XX Giochi olimpici invernali, ospitati sempre nel capoluogo piemontese), in un’edizione che la città ha condiviso in parte con Roma. Si è arrivati quest’anno alla dodicesima edizione: questa volta l’onore di ospitare l’evento è toccato a Yerevan, capitale armena e uno dei più grandi centri culturali del Caucaso. Si tratta della più grande manifestazione culturale che l’Armenia abbia mai ospitato da quando è indipendente. Già dal giorno della consegna del testimone tra il sindaco di Buenos Aires Mauricio Macri – la città argentina aveva ospitato la precedente edizione dell’evento – e il sindaco di Yerevan Taron Margaryan, si è capito che il paese voleva fare le cose in grande: nella lunga cerimonia svoltasi nella piazza antistante al Matenadaran, la più grande e importante biblioteca di Yerevan, erano presenti tutte le più importanti autorità del paese, dal presidente Serzh Sargsyan al primo ministro Tigran Sargsyan, oltre al Catholicos Karekin II, capo della Chiesa apostolica


armena, oltre a molte delegazioni straniere e istituzioni internazionali. Per Yerevan e per l’Armenia questa è stata, infatti, una grande opportunità per far conoscere al mondo intero la propria cultura e la propria identità, valori dei quali gli armeni vanno molto fieri.

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190 a.c. al 165 d.c., durante il quale gli armeni vissero uno dei momenti più gloriosi della loro storia, questo popolo ha vissuto lunghi periodi di dominazioni straniere, intervallate da piccoli periodi d’indipendenza dove altrettanto piccoli principati si facevano guerra tra di loro, fino alla costituzione di un secondo importante regno armeno, quello di Cilicia, stabilito nell’omonima regione affacciata sul Mediterraneo a sud-est della Turchia. Con la caduta di questo regno nel 1375 per mano dei Mamelucchi d’Egitto, gli armeni non riuscirono più a costituire stato unitario e si ritrovarono per secoli a essere “ospiti” in casa propria, senza uno stato che li rappresentasse. Questo fino all’indipendenza raggiunta nel 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica (senza contare la breve esperienza d’indipendenza vissuta tra il 1918 e il 1920).

Salvare la cultura per preservare l’identità. La scelta dell’Armenia non è stata casuale: il paese, nonostante le piccole dimensioni e la scarsa popolazione concentrata per la maggior parte nella capitale, è molto ricco dal punto di vista culturale: oltre, infatti, a ospitare un gran numero di biblioteche gestite dal ministero della cultura e da altre istituzioni pubbliche, oltre a quelle locali e private, il paese possiede anche dodici musei dedicati a singoli scrittori, e la Camera Nazionale del Libro – fondata nel 1922, quest’anno al suo 90° anniversario – che raccoglie e cataloga pubblicazioni sull’Armenia In tutti questi secoli l’Armenia è stata invasa provenienti da ogni parte del mondo. da Romani e Parti, Bizantini e Sasanidi, Mongoli e Arabi, e infine spartita tra Ottomani, Russi e Questa ricchezza è frutto dell’importanza che Persiani. Gli armeni hanno saputo però conserquesto popolo ha da sempre saputo dare alla vare la loro cultura nel corso dei secoli, idenpropria cultura e alle proprie tradizioni, riuscen- tificandosi nella loro religione (l’Armenia fu il dole a mantenere in vita nonostante tutte le primo paese a dichiarare il Cristianesimo reliavversità subite nel corso dei secoli. Gli armeni gione di stato nel 301 con Gregorio Illuminahanno da sempre avuto una grande difficoltà tore) e creando un proprio alfabeto, ideato nel nel creare un proprio stato unitario, a causa 405 da Mesrop Mashtots per tradurre la Bibbia, dell’aspro territorio sul quale per secoli si sono integrandosi con i popoli invasori ma senza mai trovati ad abitare e per colpa dei potenti vicini perdere le proprie tradizioni. Riuscendo a mancon i quali hanno dovuto avere a che fare. Dopo tenere viva la propria cultura, il popolo armeno il grandioso regno d’Armenia con capitale Tigra- è riuscito così a preservare la propria identità, nocerta, rimasto in vita per più di tre secoli dal che è giunta intatta fino ai giorni nostri. L’Italia ha un ruolo di primo piano. Nel corso della manifestazione il governo armeno ha voluto dare ampio spazio anche all’Italia e alla propria editoria, facendo svolgere al paese un ruolo di primo piano per quanto riguarda la mostra realizzata ad aprile dedicata ai libri armeni stampati all’estero, uno dei punti forti dell’evento. Le basi per questa collaborazione sono state gettate durante l’incontro tra il ministro della cultura armeno Hasmik Poghosyan e l’ambasciatore italiano Bruno Scapini: il governo di Yerevan ha chiesto in prestito alcuni dei numerosi volumi armeni stampati in Italia che approfondiscano i più importanti aspetti culturali e artistici dell’Armenia, volumi che sono andati ad arricchire la mostra evidenziando l’importante punto di riferimento che la tipografia italiana ha rappresentato nel corso dei secoli per

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lo sviluppo e la diffusione della cultura armena to altri punti di vista, sui quali il paese ancora nel mondo. stenta. Gli armeni come detto sono un popolo molto fiero e orgoglioso, che in tutti questi anni In pochi sanno, infatti, che nel 1512 a Venezia hanno saputo conservare la loro lingua, il loro fu stampato il primo libro in lingua armena: i alfabeto e le loro tradizioni. Dopo ogni sconfitveneziani intuirono subito l’utilità dello studio ta si sono saputi sempre rialzare; hanno alle e della divulgazione di questa lingua, la quale loro spalle secoli di dominazioni straniere, con oltre ad aiutare la comprensione della cultura e le quali hanno spesso saputo convivere, ma con della storia del popolo armeno, poteva facilitare le quali talvolta sono anche arrivati a sanguianche lo studio di tutti quei popoli ora scom- nosi scontri: ancora aperta è la ferita causaparsi che un tempo avevano intessuto rapporti ta dal terribile genocidio operato dai “giovani con gli armeni stessi, basti pensare che le te- turchi” ai danni della popolazione armena nel stimonianze principali che ci sono pervenute su 1915. Dopo secoli, nel 1991 l’Armenia è tornata Alessandro Magno sono state tradotte dall’ar- ad essere uno Stato indipendente, ha superato meno. Nel corso del XIX secolo a Venezia erano un terremoto che devastato per intero il paese presenti ben diciannove tipografie che stampa- e ha dovuto affrontare una sanguinosa guerra vano testi in armeno, il quale aveva dato alla contro l’Azerbaigian per difendere l’indipendenluce circa 25.000 volumi destinati a riempire le za del Nagorno-Karabakh: gli azeri si ritrovano biblioteche di tutta Europa. ora con il 20% circa del loro territorio nazionale occupato dalle truppe armene. Quest’anno è ricorso il 500° anniversario di quella data, e sia a Yerevan sia a Venezia, cit- In seguito alla guerra del Nagorno-Karabakh tà gemellata dal 2011 con la capitale armena, l’Armenia ha registrato una crescita economica sono state allestite numerose mostre nei più continua, pari al 10% annuo, inoltre negli ultiimportanti musei delle due città, come la mo- mi cinque anni l’edilizia è cresciuta del 700%. stra Venezia e l’Armenia impronte di una civil- Yerevan è un cantiere aperto, si cerca di voltare tà, allestita durante quest’anno nella città lagu- pagina, in città gli austeri palazzi-caserma tipici nare, organizzata dalla professoressa Gabriella dell’epoca sovietica stanno lasciando il posto a Uluhogian insieme al sacerdote e professore locali, negozi e boutique, che denotano la forte Boghon Levon Zekyan e a Vartan Karapetian. voglia di questa città di avvicinarsi al modelIl giorno dell’assegnazione da parte dell’Unesco lo di vita occidentale. Gli armeni della diaspora del titolo di capitale mondiale del libro 2012 a finanziano il paese, costruiscono strade, ospeYerevan, era presente alla cerimonia anche il dali e scuole, sempre più imprese investono sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, invitato per- sull’Armenia, sempre più catene scelgono Yesonalmente dal presidente Sargsyan. Orsoni è revan per la loro prossima apertura: sembra la intervenuto in rappresentanza delle delegazioni descrizione di un paese in continua evoluzione, internazionali presenti, ed ha preso parte alla che non a caso si è guadagnato il titolo di “Tigre cerimonia di investitura della capitale arme- del Caucaso”, per la sua tenacia e per la sua na. Il sindaco di Venezia ha quindi approfittato voglia di riscatto. dell’occasione per ricordare al pubblico il forte legame culturale che da secoli unisce le due L’Armenia però non è solo il paese della cultura, città, testimonianza di un legame ancora più della crescita economica e dei nuovi progetti, profondo che lega la cultura armena a quella ma è anche un paese che ha ancora grossi proitaliana. blemi di fondo da sistemare, a partire dalla crescita stessa, che forse hanno avvertito a YereUn paese fra alti e bassi. Nonostante l’Ar- van, ma che non ha di certo interessato le aree menia sia un paese molto brillante e attivo dal rurali del paese che sono invece rimaste povere punto di vista culturale, e investa sullo sviluppo e arretrate. La disoccupazione, nonostante sia e sulla divulgazione della propria cultura anche un fenomeno in calo negli ultimi anni, resta anall’estero, per formare e per far scoprire alle cora molto alta, e si attesta intorno al 30%; nuove generazioni di armeni sia “autoctoni” per questo molti giovani sono costretti a emisia della diaspora la propria “armenità”, attual- grare in Russia o nei paesi della diaspora per mente però il paese deve migliorare anche sot- mancanza di lavoro. Le condizioni di vita non


sembrano essere molto migliorate negli ultimi anni nonostante la crescita, e i soldi esteri, provenienti dalla diaspora, se da una parte aiutano il paese, dall’altra ne bloccano l’economia, facendo aumentare l’inflazione del Dram, la moneta locale, e danneggiando l’export, già poco differenziato. Inoltre in Armenia – come del resto in quasi tutte le ex repubbliche sovietiche – è ancora presente il problema della corruzione, che negli ultimi anni sembra essere in aumento: il governo è stato così costretto a varare un piano anticorruzione da 340.000 dollari, il quale è stato però messo in discussione da molti, dato il contesto in cui si trova il paese, dove lo stato di diritto è ancora debole. Riguardo alle libertà politiche e ai diritti umani, l’Armenia è considerata da Freedom House – organizzazione non governativa internazionale che si occupa di democrazia, libertà politiche e diritti umani – come un paese “parzialmente libero”, al pari della Georgia e della Turchia, evidenziando gli sforzi che il paese deve ancora compiere in questo campo. A complicare ulteriormente le cose ci sono poi le difficili relazioni con i pesi confinanti: il 70% dei confini nazionali sono sigillati: le merci, per essere trasportate dall’Anatolia all’Armenia devo essere obbligatoriamente fatte passare dalla Georgia; i rapporti con Turchia e Azerbaigian rimangono tesi, e una guerra sembra essere sempre dietro l’angolo, mentre con la Russia, la quale aiuta l’Armenia puntando però al proprio tornaconto, c’è uno strano rapporto di alleanza. Ripartire dalla cultura per rilanciare l’immagine del paese. L’essere stata scelta come capitale mondiale del libro ha rappresentato per Yerevan e più in generale per l’Armenia una

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grande occasione per esportare anche all’estero la propria cultura, oltre che ad aprire le porte del paese a nuovi potenziali visitatori ed investitori. L’Armenia si sta aprendo sempre di più al turismo culturale, decisa a sfruttare appieno il grande patrimonio di cui dispone, per questo il paese ha recentemente deciso di abolire il visto d’ingresso – prima necessario – per tutti i cittadini provenienti dai paesi dell’area Schengen. Questo provvedimento sarà applicato a partire dal 1° gennaio 2013, ed evidenzia la forte volontà dell’Armenia di volersi avvicinare all’Occidente e all’Unione Europea, Russia permettendo. Già parecchi operatori turistici europei vendono e promuovono pacchetti di viaggio che hanno come destinazione l’Armenia: dopo Yerevan capitale mondiale del libro e dopo l’abolizione del visto per i cittadini Schengen, il governo spera ora di attrarre verso il paese flussi sempre maggiori di turisti provenienti dal Vecchio Continente.

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La stessa Unione Europea si è dimostrata interessata a portare avanti una politica attiva nei confronti dei paesi del Caucaso meridionale, inseriti da tempo nella politica europea di vicinato. L’UE ha più volte sostenuto lo sviluppo della cultura e dell’istruzione in Armenia: l’ultimo caso riguarda un programma di finanziamenti varato per dodici istituti professionali abbandonati dai tempi dell’URSS. Questo programma è monitorato dall’EFT (European Training Fundation), agenzia che si occupa di seguire i progetti legati all’educazione e alla formazione professionale attuati nei paesi extra-europei. In totale l’UE elargirà per la realizzazione del progetto 95 milioni di euro in quattro anni, per circa 2025 milioni l’anno. Ph.: Bob AuBuchon


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Rivista quadrimestrale allegata al sito East Journal Chiuso in redazione il giorno 7 gennaio 2013

East Journal Testata registrata n. 4351/11 del 27 giugno 2011 presso il Tribunale di Torino Direttore responsabile Matteo Zola www.eastjournal.net info@eastjournal.net Copyright © “eastjournal.net” 2012. All rights reserved.

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