La stoltezza della specie

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Bruno Colombo

La stoltezza della specie


BRUNO COLOMBO

LA STOLTEZZA DELLA SPECIE

EDIZIONI YOUCANPRINT.IT


Copyright © 2011 YOUCANPRINT EDIZIONI Via roma 73 - 73039 Tricase (LE) Tel. /Fax 0833.772652 info@youcanprint.it www.youcanprint.it ISBN: 9788866182276 Prima edizione digitale 2011 Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’editore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941


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C

urvo sotto il peso degli anni trascorsi, l’uomo era immerso nei pensieri che ultimamente lo avevano afflitto e in quegli istanti si sentì schiacciato dalle colpe che gravavano sulla sua anima. Doveva riconoscere i suoi tanti errori, il male che aveva fatto ai suoi figli e alle figlie che un giorno aveva così tanto amato, incapace comunque di trovare un solo pensiero che avesse potuto ancora farlo desistere dal proposito di togliersi la vita. Era lì con gli occhi arrossati, pieni di lacrime, quasi incapace di ripercorrere quel lungo tempo, quegli anni che lui e la moglie Silvia avevano condiviso in una serie di errori che alla fine, proprio in quei momenti, gli stava torturando il cuore. Stefano Bianchi si asciugò le lacrime con il dorso della mano, si sfregò un paio di volte la punta del naso a patata e rimase con i suoi occhi azzurri fissi nel nulla sulla superficie della scrivania dello studio. Aveva il morale a terra, depresso come non lo era mai stato in vita sua. Si passò la mano tra i pochi capelli ingrigiti dal tempo ed ebbe un fremito.

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In un lampo rivide i volti dei suoi tre figli: Andrea, Gianni e Paolo. Lo stavano chiamando tendendogli le loro mani, quasi come se avessero avuto bisogno del suo aiuto, qualcosa che non aveva mai fatto nei loro confronti. Eppure adesso loro erano là, sorridenti pronti a perdonarlo se soltanto lui avesse mostrato benevolenza e avesse allungato la mano verso le loro. Le immagini sbiadirono lentamente per lasciare il posto ai volti delle tre figlie: Maria, Eleonora e Sofia. Anche loro lo stavano chiamando, gli tendevano le mani, proprio come avevano fatto i fratelli, sorridendogli felici. Stefano Bianchi si scosse da quel torpore in cui era precipitato, si asciugò gli occhi cercando di riprendersi e, ritrovata la grinta di sempre, con rinnovato entusiasmo alzò la mano verso di loro. “So bene cosa volete, non crediate di commuovermi con le vostre solite moine perché io non mi lascerò incastrare da nessuno di voi, mettetevelo bene in testa” urlò nel nulla. Con ognuno di loro si era sempre comportato in quel modo.

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Era sempre stato insensibile, sordo al loro richiamo, in ogni momento della loro vita. Stefano Bianchi attese un’improbabile risposta ma tese ancora le orecchie come se comunque avesse voluto sperare. Guardò deluso e malinconico la pistola che aveva sotto gli occhi sulla scrivania e udì ancora quella voce. “Fallo, deciditi. Adesso o mai più. Che cosa aspetti? Loro non ti perdoneranno mai, lo sai bene. Non puoi pretendere che, dopo quello che hai fatto, tornino da te supplicandoti affinché tu non ti uccida. Lo sai, lo sai molto bene. Lo hai sempre saputo.” Gli occhi azzurri e profondi dell’anziano uomo si fissarono sulla forma invitante della pistola. La guardò per lunghi interminabili minuti. Gli sembrò un desiderio irrinunciabile, come se fosse la sola cosa che desiderasse in quei momenti. “Fallo, deciditi. Adesso o mai più.” Stefano Bianchi allungò la mano verso l’arma. Ripensò in un attimo ai suoi ottantacinque anni di vita, ma non gli sembrarono tanti. Se avesse potuto farlo e se non avesse avuto tutti quei rimorsi che gli stavano lacerando l’anima,

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avrebbe sicuramente premuto il grilletto della pistola. Allungò ancora la mano magra, ingiallita dalle troppe sigarette fumate e sfiorò il calcio della pistola, l’accarezzò come se fosse stata una preziosa reliquia, roteò i suoi occhi verso l’alto, alzò l’arma e la puntò alla tempia. In quell’attimo però qualcosa lo indusse a fermarsi. I volti dei figli e delle figlie erano ancora davanti ai suoi occhi. “Ti perdoniamo, non farlo.” Sentì le loro voci. Erano vicine, come se loro fossero stati ancora con lui, nella sua casa, come alcune volte aveva desiderato. “Ti perdoniamo, non farlo.” Eleonora, la figlia minore, una donna di cinquant’anni, gli andò ancor più vicino, fissò i suoi occhi azzurri in quelli identici del padre, si asciugò una lacrima che le corse giù lungo la guancia rosea. “Tu hai distrutto la nostra vita, ci hai fatto del male. Non ci hai mai aiutato, ma noi siamo qui per aiutare te, per dimostrarti quanto bene, in fondo ti vogliamo. Guarda, c’è anche la mamma.”

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Eleonora gli si avvicinò ancor di più e sorridendogli gli indicò il punto della sala in cui c’era la loro madre. L’uomo guardò in quella direzione senza vedere nulla. “Vostra madre è morta e voi l’avete uccisa. Maledetti” le urlò con tutta la rabbia che aveva dentro. “Ti sbagli papà.” “Cosa dici?” “Tu hai ucciso la mamma, ricordi?” Stefano Bianchi rimase senza fiato, guardò lontano nell’immenso salone della sua imponente villa cercando il volto della moglie. “Sono io” gli disse con voce soffusa una donna dai lunghi capelli biondi lisci come la seta. Lui non riusciva a distogliere lo sguardo da quel volto. “Silvia, sei proprio tu?” le domandò andandole vicino. Lei gli sorrise. “Mi hai fatto molto male, te ne sei reso conto?” “Male? Io ti ho sempre voluto bene” le sussurrò Stefano. Silvia aveva cinque anni meno di lui, ma il suo viso era ancora senza rughe, i capelli biondi e lisci

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come quando era giovane, la pelle vellutata e gli occhi azzurri come l’acqua cristallina dei Caraibi. Fu in quell’istante che scomparve, prima che potesse parlarle. Stefano non capiva, sentiva la confusione che si stava impossessando ancora una volta della sua ormai labile mente. Eleonora però gli era ancora accanto. “Noi tutti abbiamo perdonato anche la mamma e lei ti perdona, così come siamo disposti a fare tutti noi, a patto che tu lo voglia” gli disse ancora. “E di cosa dovrei essere perdonato?” Non ottenne risposta. Si sentì ancora una volta solo. Guardò la pistola che invitante lo stava chiamando. “Ucciditi, ucciditi. Solamente così potrai espiare i tuoi peccati, tutto il male che hai fatto alle persone che ti hanno voluto bene e che tu stoltamente non hai mai voluto accettare.” L’uomo accarezzò ancora a lungo la pistola.

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l treno rallentò in prossimità di una curva molto stretta immersa tra gli alti pini marittimi nelle vicinanze del confine con il Lazio, nel momento in cui Eleonora Bianchi attivò la comunicazione del suo cellulare. “Ciao Sofia dimmi tutto.” La voce aggraziata della sorella la rendeva sempre di buonumore però in quell’istante capì che doveva essere accaduto ancora qualcosa di spiacevole, come al solito. Purtroppo non si sbagliava. “Ci sta rendendo la vita impossibile” iniziò a dire con un tono di voce che era alterato rispetto al solito. “L’ha fatto di nuovo?” domandò timidamente Eleonora. Aveva timore di una risposta affermativa anche se sapeva che avrebbe dovuto aspettarselo. “Purtroppo.” “Ti ha costretta a tenerti lontano da tuo figlio?” “Ha dalla sua parte la legge, ma solo noi sappiamo quanto sia ingiusto.” Eleonora capì che la sorella maggiore stava piangendo, anche se cercava di fare di tutto per nasconderlo. 9


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