L'Y10 bordeaux

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Angelo Galantino

L’Y10 BORDEAUX Un racconto Noir tinto di rosso

Libellula Edizioni


ISBN: 978-88-968-187-01 Proprietà letteraria riservata 2010 Angelo Galantino I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o diffusa con qualsiasi mezzo senza autorizzazione dell'autore.


Ai miei Nonni

Un’avventura è soltanto una disavventura vista dal lato buono.

Gilbert Chesterton



PROLOGO

I raggi della luna che filtrano nel capannone, passando dalle finestre rotte, si riflettono sul nero metallico della canna del revolver. Ad impugnarlo un uomo sulla quarantina. Snello ed alto. Capelli a spazzola color cenere. Abito scuro, camicia bianca con cravatta blu elettrico e scarpe in pelle marrone. Le sue intenzioni non sembrano essere affatto buone, soprattutto visto che quella canna lucente è puntata verso di me. Qualcosa di liquido mi scivola sulle labbra ed il sapore amarognolo ed inconfondibile del sangue mi lascia supporre che il pugno che ho appena preso probabilmente mi ha rotto il naso. Bastardi! Pochi metri distanti da me, accanto ad una vecchia cisterna consumata dalla ruggine, Sara è sdraiata a terra in uno stato di incoscienza. Probabilmente è stata narcotizzata visto che non da segni di ripresa nemmeno quando il bastardo fa partire dal revolver una pallottola che mi trapassa la gamba sul quadricipite rovinandomi il paio di Winchester neri


che avevo comprato la settimana scorsa pagandoli 130 Euro. Doppiamente bastardi. Il senso di bruciore e di bagnato che sento provenire dalla mia gamba sinistra fa scorrere via rapidamente l’immagine di tutti quei contanti usciti dal portafoglio e mi riporta al presente. Come se nulla fosse accaduto mi guarda dritto negli occhi. “Lei deve essere l’Ispettore Yuri Lupariello detto Lupo suppongo.” “Si… e tu sicuramente non sei un mio ammiratore.” Mostro una smorfia di dolore nonostante avessi cercato un atteggiamento da duro. Ma non sono nelle condizioni per farlo. “Mi spiace per come siano andate le cose ma… Lei si renderà conto che non possiamo lasciare il discorso in… come dire… in sospeso.” Non so perché ma noto qualcosa di vagamente ironico nel suo tono di voce. E non mi piace. Fa due passi indietro, si gira e punta di nuovo l’arma. Questa volta però punta alla testa. “Il colpo di prima era per farle capire che non scherzo.” “Era sufficiente dirlo.” “Noto che non ha perso la sua ironia Ispettore….ah ah ah…” La risata mette in mostra una


dentatura da squalo che brilla sotto i raggi lunari. “Ha raccontato a qualcuno di questa storia?” La voce è atona, inespressiva. “No…ma mi ero ripromesso di raccontare questa favola alla mia nipotina.” La bocca ormai è assuefatta al gusto amaro del sangue che continua a scorrermi dal naso. “Mi spiace…. Ma credo che sua nipote dovrà accontentarsi della favola di Cappuccetto Rosso…e…ahahahah….,” la sua risata è molto più rumorosa e grassa, “…anche in quella favola c’è un Lupo che muore!” Riesco a percepire il movimento del suo dito sul grilletto. Poi una fiammata che illumina tutto a giorno seguita da un rumore secco. Un suono che taglia l’aria. E poi solo buio e silenzio. Sono le 03.25 di un giovedì mattina di gennaio. Un’ora in cui il nuovo giorno non è ancora arrivato e il vecchio non è ancora morto. Il giorno magari no, io si.


LUNEDI’

L’aula “direttissime” del Tribunale di Napoli oltre ad essere il luogo preposto al giudizio delle persone arrestate in flagranza di reato il giorno precedente, è anche un posto particolarmente colorito. Giovani assistenti di avvocati girano per le aule truccate e vestite con abiti succinti; le persone arrestate ed i loro familiari si lamentano, urlano e imprecano; coppie di giovani che assistono alle udienze e che nell’attesa pomiciano appoggiati ai muretti dell’atrio principale; insomma è una via di mezzo tra un festino porno, un mercatino in un rione popolare, il casting di veline e la curva A dello stadio San Paolo. Alle 8,30 di mattina ero già lì e non avevo preso nemmeno il caffè. Credevo di essere in ritardo ed ho fatto una corsa in scooter per poter arrivare in orario ed invece ora mi toccava anche aspettare con una gamba che faceva sempre più male. “Tutta colpa di Kabir, il giovane etiope che ho arrestato ieri.” Pensai.


Erano le 12.40 di una domenica mattina qualsiasi, l’aria era intorpidita dai raggi del sole di una atipica giornata invernale; ancora pochi minuti e poi avremmo finito il nostro turno di volante. Anche la città sembrava essere in uno strano stato di semi incoscienza ed io stavo già pregustando la lasagna ed il polpettone che aveva preparato la moglie del mio amico Tony. Oggi avevo un invito speciale per il pranzo domenicale. A bordo della Volante stavamo percorrendo la strada che costeggia il cimitero di Chiaiano e le uniche persone presenti erano i soliti pochi che andavano a trovare i propri defunti. Nulla di anomalo insomma. Sulla sinistra il muro di recinzione del cimitero ci sovrastava generando un’ombra gelida che ci ricordava di essere nel mese di gennaio. Sulla destra della strada un basso parapetto proteggeva i passanti da un dirupo che dava in una cava. Ed oltre solo campagna. Un paesaggio alquanto insolito per una metropoli come Napoli. All’improvviso la nostra attenzione venne colpita da un giovane alto e di origini africane che con mossa fulminea scippò via la borsa di


una vecchietta che aveva appena varcato la porta di uscita del cimitero. “Oh cazzo! La vecchia! Ferma l’auto!” Il tutto era avvenuto a pochissimi metri da noi. “Io penso alla vecchietta, prendi il bastardo!” mi urlò il collega. “Cazzo,” pensai “lo sapevo, mi tocca fare i 3000m in stile olimpiadi. Spero solo che questo qui sia meno veloce di Haile Gebrselassie o di Kenenisa Bekele.” Lo scippatore appena mi vide iniziò a correre come un fulmine e dopo poco aveva già quasi raddoppiato la distanza che ci separava. Come scusante avevo il fatto che è dannatamente faticoso correre indossando una divisa, soprattutto calzando delle scarpe che sembrano fatte per andare ad un matrimonio e non per fare servizio a bordo di una volante della Polizia di Stato. E poi….poi c’erano sempre le 30 sigarette al giorno che riducono di molto la mia resistenza. Fortuna che la strada era un vicolo cieco e il fuggitivo non lo sapeva. Alla fine la strada terminava con il muro di cinta del cimitero sulla sinistra, lo stesso muro davanti e sulla destra una scarpata alta cir-


ca 4-5 metri che dava su una cava e poi aperta campagna. Raggiunta la fine cercai di recuperare un po’ di fiato mentre lo scippatore era con le spalle al muro. “Non ha scampo.” pensai. Ed invece no. Lasciò cadere a terra la borsa scippata e con un salto di quelli che si vedevano nella pubblicità di olio degli anni ’80, saltò giù nella scarpata. Un volo di più di 4 metri cazzo! Ed ora? Fanculo. Saltai anche io. Un po’ più goffamente mi arrampicai al cornicione e mi lasciai cadere giù sull’erba. Un salto decisamente poco atletico che terminò con un suono di cracker spezzato seguito da uno più simile ad un sacco di patate gettato sul pavimento. Il ginocchio mi fece un male pazzesco ma mi tirai su e continuai a correre. Il campione olimpionico sembrava ormai distante ed irraggiungibile quando improvvisamente successe l’inaspettato. Lo vidi scivolare e rimanere intrappolato a terra in una di quelle reti usate per la raccolta di olive. Sembrava un tonno che si agitava nella rete. Che botta di culo. Gli misi le manette. Ed intanto arrivarono altre volanti. Era ora.


Sentii la gamba appesantita, come se avessi il pantalone zuppo di acqua o il piede ricoperto di fango. Ed invece mi resi conto che avevo il ginocchio sinistro così gonfio che la gamba aderiva perfettamente al pantalone della divisa. Eccheccazzo! Trauma distorsivo contusivo della gamba sinistra e venti giorni di riposo salvo complicazioni. Il suono della campanella che preannunciava l’ingresso in aula del giudice mi fece abbandonare i ricordi della giornata precedente. Il mio arrestato era il prossimo. Ora stavano giudicando un tipo che nell’aspetto sembrava una via di mezzo tra l’orso Yoghi, Shrek e il mostro di Alien. 38 anni circa, alto 185/190cm di corporatura robusta. Viso squadrato di colore verdastro, capelli sottili come spaghetti di soia, radi e lunghi con riflessi oleosi; mani tozze e callose, abiti trasandati, jeans lerci, vecchi scarponi e una surreale camicia a quadri viola e verdi simile a quelle usate dai taglialegna nei boschi del Trentino. Ma la cosa che più mi aveva colpito fu il suo sorriso, anzi, il suo ghigno. Denti da squalo


marci e lucidi formavano una smorfia quasi inespressiva, vuota, che catalizzava l’attenzione e faceva vedere il resto del viso come una lieve sfumatura, nello stesso modo in cui faceva lo Stregatto con Alice nel Paese delle meraviglie. “Prego. Signor Esposito, ci dia la sua versione dei fatti.” La voce del Giudice, che dava la possibilità all’orco di parlare, ruppe il silenzio da fiaba che si era creato nell’aula. “Signor giudige io ho stato pigliato dalle guardie senza che ho fatto niente. Non ho neanche mai torciuto un pelo ad una mosca!” Parole che era già un’impresa riuscire ad interpretare. La sua dichiarazione già da sola sarebbe bastata a dargli l’ergastolo per l’assassinio della lingua e della grammatica italiana. In effetti il tipo, come diceva lui, non aveva mai torto un capello ad una mosca (ma le mosche hanno i capelli???). Ad una mosca no, ma aveva pestato a sangue la moglie, la suocera ed aveva anche cercato di accoltellare i due carabinieri intervenuti sul posto. Una brava persona insomma. Fatta eccezione per il suo italiano.


Tanto brava che il giudice non ritenne opportuna la custodia in carcere e così l’orso cattivo fu rimesso in libertà. Il caso successivo fu il mio. Kabir Buassin 32 anni, etiope, resosi responsabile di furto con strappo e resistenza a Pubblico Ufficiale. Il Pubblico Ministero per questo caso era una bionda snella e con degli occhi azzurri che brillavano di luce propria. Labbra carnose e uno sguardo che faceva ribollire il sangue e poi lo faceva scorrere al contrario nelle vene. Peccato per la toga che le copriva il corpo e non permetteva di ammirare le sue forme. L’avvocato intanto stava parlando e cercava di persuadere il Giudice della buona fede del suo assistito. La sua tesi era che Kabir avesse commesso il reato in preda ad allucinazioni causate Secondo dall’assunzione di Crack1. l’avvocato, infatti, non si sarebbe spiegato altrimenti l’insano gesto di gettarsi in un dirupo alto circa 5metri poiché “solo una persona mentalmente instabile può fare una simile azione sconsiderata”. 1

Sostanza stupefacente derivata dalla Cocaina.


Questa affermazione mi fece sentire chiamato in causa. E non mi piacque affatto. “Che vuol dire? che sono una persona mentalmente instabile? Un folle? Un Pazzo?” pensai mentre il fegato mi andava in frantumi. Ecco. La parola passò al P.M. ed ero certo che ci avrebbe pensato lei a rispondere a tono. La vidi avvicinarsi al microfono con quelle labbra che avrei visto bene anche altrove. “Concordo perfettamente con l’avvocato riguardo lo stato di incoscienza del Buassin al momento del compimento del reato in quanto la sola voglia di sottrarsi all’arresto non giustifica il folle gesto di gettarsi in un dirupo; azione che solo un individuo mentalmente instabile e con seri problemi comportamentali potrebbe porre in atto.” Le ultime parole le disse voltando lo sguardo verso me. Ecco. Anche il P.M. aveva detto che ero pazzo. E avrei voluto farvelo vedere lo sguardo di quella P.M. che secondo me senza quella toga era pure scopabile. La stronza faceva l’ironica. Ma la situazione non cambiava: Kabir libero ed io dovevo tornarmene a casa con la gamba dolorante.


Fuori intanto il tempo era peggiorato come il mio umore. Il cielo era diventato improvvisamente nero e nuvole minacciose guardavano dall’alto la città. Avevo parcheggiato lo scooter nel piazzale antistante nei posti riservati alle Forze di Polizia tra una Volante ed una vecchia Fiat Ritmo cabrio bianca. Zoppicando mi diressi verso lo scooter. La volante era andata via e al suo posto ora c’era una Alfa Romeo 159 di quelle usate come “auto blu” per la scorta di magistrati ed altre personalità illustri. La Ritmo invece era sempre lì. Una leggera pioggia iniziò a scendere ma capii ben presto che a breve si sarebbe fatta sempre molto più insistente e cercai di affrettarmi nel ripartire. Girai la chiave di accensione ma…lo scooter non partì. Quasi come se non arrivasse corrente. Riprovai ancora ed ancora ma dovetti fermarmi quando vidi del fumo uscire dal blocco di accensione accompagnato da un odore acre di plastica bruciata. Mentre cominciavo a realizzare che dovevo tornare a casa a piedi con la gamba dolorante, la pioggia iniziò a diventare insistente; le


gocce si fecero pesanti e il cielo era ormai nero come se fosse notte. Ovviamente non avevo nemmeno l’ombrello. Mi squillò il telefono, era Sara. “Pronto?” “Yuri, sono Sara. Devo parlarti, è successo un casino. Vieni a prendermi in aeroporto???” “Quando?” “Ora!!!” “Va bene. Dammi 10 minuti.” “Ok. Grazie, ti aspetto.” La sua voce era tremante, scossa. La conoscevo molto bene. Doveva esserle successo qualcosa; anche perché altrimenti non mi avrebbe chiamato visto che erano circa sei mesi che non si faceva viva. Intanto il diluvio universale si abbatté su di me, sulla mia testa pelata e sui miei pensieri mentre zoppicando mi diressi verso casa. Oggi non è giornata. Mentre guidavo la mia Alfa 147 verso l’aeroporto provai ad immaginare cosa avesse potuto turbare a tal punto Sara da farle interrompere un silenzio che durava da così tanto tempo.


Prima di andare da lei avevo avuto il tempo di passare un attimo da casa, asciugarmi ed indossare degli abiti puliti. Sara è la mia fidanzata. Anzi, ex fidanzata. La nostra relazione è durata circa quattro anni di cui uno di convivenza. Poi non è andata. Non so dire cosa sia accaduto, ma dopo un po’ ci siamo accorti che qualcosa si era rotto e che era il caso di allontanarci. In realtà lo aveva deciso lei. Questo è accaduto appunto sei mesi fa e da allora non avevo avuto più sue notizie. Fino a questa mattina. Ho conosciuto Sara poco prima che iniziasse la nostra relazione nel locale del mio amico Lucio, “L’oca assassina”, una sorta di american bar con ottimi drink e qualche piccola sfiziosità da mangiare. Le luci in genere sono soffuse, la gente è tranquilla e il posto non è sputtanato. Ci vado spesso. Mi piace l’ambiente ma soprattutto mi piace parlare con Lucio che è sempre lì ad osservare tutto da dietro il bancone. È un ragazzone snello, capelli spettinati, orecchini e piercing; un tipo solare, sempre sorridente e anche quando tutto sembra andare storto lui riesce a trovare un lato positivo.


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