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INVESTIRE | ANNO III | N.31 | MENSILE | NOVEMBRE | DATA DI USCITA IN EDICOLA: 16 NOVEMBRE 2021 | POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L. 353/2003 (CONVERTITO IN LEGGE 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI
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L'ALTRA FINANZA FA GOL I fondi di private equity e il mondo delle criptovalute hanno scoperto il football e stanno investendo nei club italiani (e non solo). Comprandoli o sponsorizzandoli. Pensano che nel business dell'intrattenimento pochi spettacoli abbiano un futuro altrettanto luminoso
SOS CLIMA, SERVE IL NUCLEARE SICURO Ok a rinnovabili e cattura della CO2, ma alla Cop26 è l'atomo il convitato di pietra • REGOLE / Meglio i banchieri che i politici • AXA / «Acceleriamo sulla transizione»
• SCHRODERS / Riconoscere i leader • BLUEBAY/ «Salviamo la biodiversità»
I BOND A UN BIVIO
EFPA A QUOTA 8.000
Inflazione alta e lunga rischio per il reddito fisso
Deroma: «Quattro anni di successi e crescita»
NORDEA AM INDICA LA VIA PER LE GESTIONI ESG Intervista con Gianluca Cerone, head of advisory distribution Italy. Tutti i valori e l'impegno di un asset manager globale che sulla sostenibilità fa sul serio
< GLI ARTICOLI SULLA GARA SONO DA PAGINA 60 A PAGINA 64 >
«Così, gestendo capitali rispettiamo i valori Esg» «Nordea Asset Management è tra i pionieri dell'investimento responsabile - spiega Gianluca Cerone, head of advisory distribution Italy - e con 274 miliardi di euro di asset gestiti pratichiamo sul serio i principi della finanza sostenibile. Ormai è chiaro a tutti: il mondo deve passare dalle parole ai fatti. E noi siamo impegnati in prima linea» ALLE PAGINE 30 E 31>
EDITORIALE
Non è tutto bla bla bla
G
reta Thunberg non è un premio Nobel ma, sia come talento naturale che ormai come “front-girl” di un’affinata macchina mediatica, ha indubbiamente il dono di “bucare lo schermo” con le sue frasi-slogan. L’ultima, a demolire le trattative della Cop 26, è stata rilanciare quel “bla, bla, bla”, come sintesi della vacuità dei discorsi dei Grandi sulla lotta al cambiamento climatico. Italianamente, potremmo chiosare che “le chiacchiere stanno a zero”, cioè effettivamente non bastano a risolvere il problema e fanno soltanto il gioco di chi vuole dissimularlo, promettendo più di quanto sarà mai possibile mantenere. Perché questo è il problema: mettere in pratica le azioni che sarebbero necessarie per cogliere, almeno, l’obiettivo di contenere entro un grado e mezzo l’innalzamento della temperatura è praticamente impossibile nei termini di tempo che sarebbe necessario rispettare. Lo è per ragioni economiche, cioè non bastano i soldi finora stanziati; tecnologiche e industriali, perché se anche si aumentassero le spese non appare per niente scontato che l’industria mondiale sarebbe in grado di attuare la ciclopica metamorfosi necessaria; e soprattutto per ragioni politiche e sociali. All’appello della disponibilità a cambiare strada non rispondono due colossi industriali come la Cina—che dice di voler arrivare al “net zero” nel 2060, ma per ora sta aumentando la sua produzione di carbonev- e l’India, che addirittura sposta al 2070 il termine del suo net zero. Un terzo della popolazione terrestre non ci sta. E i due terzi che dicono di starci non hanno alcun diritto di condannare l’altro terzo a frenare il suo sviluppo – in India si calcolano ancora 4000 morti al giorno per denutrizione! – al fine di riparare ai guasti fatti dai Paesi ricchi. Un solo viaggio spaziale turistico di quelli di Elon Musk, Jeff Bezos o Richard Branson emette CO2 quanto un miliardo di poveri in un anno. E allora? Questa presa d’atto, e la connessa, concreta possibilità che il riscaldamento globale prosegua e crei gravissimi danni al pianeta e chi ci vive, alleggerisce di un solo grammo l’impegno che dobbiamo profondere tutti – tutti quelli che possono – per ridurre e frenare al massimo possibile il fenomeno? Assolutamente no. E in
di Sergio Luciano
questo senso si fa certo troppo parlare a vanvera, ma non è “solo” bla bla bla. Qualcosa si sta muovendo e qualcosa si farà. Bisogna crederci, bisogna spingere, vigilare, polemizzare. Non mollare. Spostiamoci su un altro tema e in un altro quadrante, l’Italia. Per constatare che anche a casa nostra c’è un notevole problema di “bla bla bla”. Che tocca il governo del Paese. Il prestigio del presidente del Consiglio Mario Draghi illumina positivamente le mosse dell’Italia come non accadeva dal governo Prodi che ci portò - pur tra molti errori - nell’euro. Ma questo non basta a compensare alcune carenze strutturali gravissime della politica nazionale, che poi siamo innanzitutto noi elettori, quindi i politici che mandiamo al potere e che non si comportano bene, e poi quelli tra i cittadini che continuano a confondere la libertà con l’arbitrio, la contestazione con la violenza, i diritti con la furbizia. Il Pnrr è stato scritto bene, o almeno bene per l’Europa. Ora va riempito di sostanza, ed è tutto fermo. La campagna vaccinale è stata un successo, ma ora servono le terze dosi e le vaccinazioni dei ragazzi, e il fronte no-vax, incredibilmente, anzichè trascolorare di fronte all’evidenza che i vaccini riducono drasticamente i contagi e bloccano le forme violente della malattia, si irrobustisce e diventa via via più aggressivo. E poi le riforme: sono state fatte, ma sulla carta, come leggi-delega, tutte da particolareggiare e la politica è ferma, anzi recede, per cui il mondo inizia a dubitare che l’effetto-Draghi basti a rivoluzionare il Paese e a farlo diventare “normale”. Insomma inizia a serpeggiare il sospetto che Draghi sia vittima del bla bla bla della politica italiana. Un’analisi dell’osservatorio di Oxford Economics rileva che gli investimenti diretti esteri verso l’Italia sono aumentati dall’avvento a Palazzo Chigi dell’ex presidente della Bce “solo in maniera marginale” e i detentori esteri sul debito italiano è rimasta stabile. Preoccupa l’aumento dello spread, lievissimo eppure sensibile. Ecco: se l’obiettivo dell’umanità dev’essere contenere il riscaldamentoi globale entro 1,5 gradi, l’obiettivo di tutti gli italiani dovrebbe essere quello di non far crescere lo spread. Con tutta evidenza, i politici se ne stanno dimenticando, storditi dal loro stesso bla bla bla. Draghi glielo rinfacci, e li rimetta in riga, se può.
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Stampa
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Sergio Luciano
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novembre 2021
3
SOMMARIO
Novembre 2021
03 EDITORIALE 09 WATCHDOG 11 SISMOGRAFO
DI SERGIO LUCIANO
Clima, non è tutto bla, bla, bla
DI MARCO ONADO
Serve una Greta dei mercati finanziari
DI GIULIO SAPELLI
Perchè il mondo rischia una seconda crisi di Cuba
COVERSTORY
12 IL GERMANISTA 14 FINANZA REALE 17 IL SOTTOSTANTE 19 III REPUBBLICA
DI FRANCO TATÒ
Alla nuova coalizione tedesca si chiede più efficienza
DI A.GERVASONI
Il private banking verso gli illiquidi
DI MATTEO RAMENGHI
Il mercato cinese tornerà protagonista
DI E.CISNETTO
Quirinale, la prova del nove dei partiti
20
I NUOVI PADRONI DEL CALCIO Un settore che può muovere nuovi ricavi per 18 miliardi di euro, in pratica l’1% del Pil italiano. Ma che è in forte crisi di liquidità. Ecco come il mondo del pallone vuole uscire dai guai mettendosi nelle mani di inediti protagonisti: i fondi di private equity nella veste di proprietari e le piattaforme di criptovalute come sponsor
focus COP 26
24 29 32
SCENARI
Atomi e foreste unica strada per salvare sia il business che la Terra
LA LENTE DI SCHRODERS
Ecco come riconoscere i leader del clima con i piani di decarbonizzazione più ambiziosi
L’ANALISI DI BLUEBAY
Il ruolo degli investimenti per preservare in modo efficace la biodiversità
28 30 34
LA SCELTA DI AXA
Il colosso accelera sulla transizione. Investimenti per 26 miliardi entro il 2023
NORDEA FA I FATTI
Le azioni concrete del gigante nordico per contribuire all’obiettivo delle emissioni zero
FINANZA, IL VOLTO BUONO
Se i politici sul clima deludono, i banchieri invece fanno davvero sul serio novembre 2021
5
SOMMARIO
INVESTIRE SPECIALIST 40
OBBLIGAZIONI AL BIVIO/ La spada di Damocle della inflazione alta e lunga sui bond ITALIANI & BOND/ È proprio finito il grande
64
amore del nostro Paese verso le obbligazioni?
66
42
CRIPTOVALUTE/ Tutti i pro e i contro. Come sceglierle cercando di evitare trappoloni
68
45
RANIA (BANOR CAPITAL)/ «Stagflazione? No grazie. Più probabile la disinflazione»
70
46
MATERIE PRIME/ Il mondo fa i conti (difficili) con l’addio ai combustibili fossili
74
48
LA SCURE DI BIDEN/ Il Tax Plan cambia la rotta dell’indice S&P500
75
50
GAFAM/ L’Unione europea dichiara la guerra ai gatekeeper digitali
76
52
TROPPI OMISSIS/ Stranezze (e rischi) nelle delibere della Vigilanza per tutelare la privacy
77
54 55 57 58 60 62
TOBIN TAX/1 Si profila l’addio alla tassa-
ROMANO (SELLA SGR)/ Ecco perchè
sostenibilità e rendimento insieme funzionano
FINANZA COMPORTAMENTALE/ Capital Group spiega come investire con ogni “clima” LARGO AI CONSULENTI/ Educazione finanziaria a scuola, finalmente si comincia
SEDIE & POTRONE/ Panetta alfiere del team italiano per l’euro digitale PROFESSIONE CONSULENTE/ Istruzioni per non cadere nella trappola della liquidità
EDUCAZIONE FINANZIARIA/ Jp Morgan Am: i tre motivi per cui investire non è difficile LA VIDEOTECA DI INVESTIRE NOW/
Le puntate con Bove, Collu, Lusardi e Trassinelli
78
PRIVATE EQUITY/ Cacciapuoti (Mc Dermott Will & Emery) spiega perchè è il partner giusto per le imprese
Mario Monti che partorì un topolino
80
POLE POSITION/ La finanza maleducata dei regolatori che non rispettano le norme
PROPOSTA DI ASSOPREVIDENZA/ Incentivi agli under 30 perchè investano nei fondi pensione
82
BANCA IFIS/ Flussi di cassa rapidi e snelli con la piattaforma digitale per le aziende
83
WORKINVOICE/ Ora le imprese lo sanno, la cassa rende davvero competitivi
boomerang. I trader tirano un sospiro di sollievo
TOBIN TAX/2 La montagna dell’ex premier
ANZIANI/1 In crescita gli investimenti nel senior living per rendere le Rsa più umane
ANZIANI/2 Invecchiare bene, il megatrend dei megatrend secondo Sycomore Am
BOTTIGLIE DA COMPRARE/ L’antidoto ai tassi zero è nei migliori vini a livello globale
96 FASHION
Il vintage sfonda: ultra 40enni a caccia di affari
84 87
Economia cinese al rallenty mette in crisi Xi Jinping
QUI NEW YORK DI GLAUCO MAGGI
In Italia niente Etf sui Bitcoin? Consoliamoci con quelli sulla blockchain
IL GIRO DEL MONDO IN 30 GIORNI
La Camera Usa blinda le Tlc dalle interferenze cinesi
novembre 2021
DOORWAY/ Rischi e rendimenti: ecco come investire in Venture Capital
AIDEXA/ Il fintech a misura delle piccole e medie imprese risolve i problemi “da remoto”
98 MALALINGUA
COSMOPOLITICA DI ANDREA MARGELLETTI
6
EFPA ITALIA/ La fondazione ha raggiunto il suo “Everest”: raggiunta quota ottomila certificati
Breve storia della cancel culture fino a noi
90 91 92
MONDO
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WATCHDOG
SERVE UNA GRETA DEI MERCATI FINANZIARI CHE FRENI IL CAMBIAMENTO DEL CLIMA DELLE REGOLE
L’
autorità europea di vigilanza sui mercati, Esma, alla fine di ottobre ha emesso un comunicato sul delicato tema delle raccomandazioni di investimento, oggi amplificate o addirittura create dai social media. Il succo è che le raccomandazioni sono un momento delicato del processo che porta alla decisione di acquistare o vendere titoli; come tali sono soggette alle regole per garantire trasparenza e correttezza nei mercati, in particolare la Market Abuse Directive che come è noto prevede sanzioni serie, anche penali. Finora le raccomandazioni venivano da operatori qualificati soggetti a controlli ex ante e ex post; ora però sui social media si diffondono messaggi che vengono dai soggetti più disparati e che spesso costituiscono vere e proprie raccomandazioni. Le regole contro gli abusi di mercato valgono anche per loro, ammonisce con il ditino alzato l’Esma. Per la serie: noi ve l’avevamo detto quindi non veniteci a cercare in caso di incidenti. Se i funzionari dell’Esma avessero letto l’ampio rapporto che la Sec ha pubblicato proprio nei giorni precedenti sul caso Gamestop, avrebbero sentito il dovere di entrare nel merito di un problema che sta assumendo connotati sempre più preoccupanti. Gamestop come è noto è un caso da manuale di meme stock, titolo che di colpo diventa oggetto di messaggi sui social media che costituiscono a tutti gli effetti raccomandazioni di acquisto o di vendita; a gennaio le oscillazioni di prezzo sono state così vistose e dirompenti da farne un caso internazionale. La Sec compie una minuziosa analisi tecnica di quello che è successo e innanzitutto distrugge i falsi miti che erano stati creati: quello dei piccoli investitori coalizzati che mettono in ginocchio avidi hedge fund ribassisti, quello di un collasso determinato dalla decisione di broker e strutture di clearing di porre un limite alle negoziazioni, sempre in odio dei piccoli investitori. L’analisi tecnica dimostra invece che la variabilità dei prezzi e il volume degli ordini hanno assunto punte drammatiche superiori alla capacità di funzionamento delle strutture tradizionali di mercato (appunto i broker, i market maker, le strutture di clearing e settlement). Il motore è andato fuori giri: la variabilità infragiornaliera è aumentata del 2700 per cento; il volume degli ordini giornalieri è balzato è passato a 100 milioni di inizio gennario (14 volte la media del 2020) per arrivare a quasi 200 milioni alla fine del mese; il trading di opzioni è salito a 50 milioni di contratti al giorno, 50 per cento in più rispetto al 2019. E i social hanno giocato un ruolo di primo
piano: i download di app come Robinhood sono arrivati a tre milioni; i conti di clienti che trattavano solo Gamestop è passato da 10mila all’inizio di gennaio a 900mila nel giro di un mese. Tutti i cittadini di Bologna e Firenze messi assieme, tanto per capirci. La febbre del mercato ha toccato punte drammatiche in gennaio: all’inizio del mese il prezzo aveva già superato 20 dollari (contro 3 del precedente aprile), ma era solo l’inizio della rumba. Il 27 gennaio si è arrivati a 347,51 dollari, con un incremento di 16 volte rispetto all’11 gennaio. Inevitabilmente, subito dopo è iniziato la caduta e attualmente il prezzo si è assestato intorno ai 200 dollari. La conclusione della Sec è semplice e inquietante: Gamestop è la prova provata che l’attuale struttura del mercato e le attuali regole non reggono all’urto di una valanga di ordini alimentata dai social media. E bisognerebbe aggiungere anche il fatto che oggi aprire un conto di negoziazione è più facile che comprare una pizza su Internet e che i costi di negoziazione sono stati drasticamente ridotti. Gamestop non è la vittoria di Davide; non è un’ulteriore prova della protervia di Golia; è il caso estremo dell’abisso che si sta aprendo fra le modalità con cui gli ordini di acquisto o di vendita vengono generati e strutture di mercato e di regole che ritenevamo avessero ormai assunto un assetto ottimale. La Sec promette analisi e proposte in questa direzione. Vedremo. La frase cruciale di tutta questa vicenda sta nelle conclusioni del rapporto. Attenzione, dice la Sec, perché dietro le meme stocks ci sono imprese vere, con i loro lavoratori, i loro clienti, i loro progetti di investimento. La logica di un mercato azionario è che i prezzi espressi in domanda e in offerta devono riflettere opinioni razionali degli investitori e devono portare alla “scoperta” del prezzo giusto, non all’implosione del mercato. Nulla di tutto questo è accaduto nel caso Gamestop e in tanti altri che si susseguono, anche se con manifestazioni meno patologiche. Altro che sventolare le regole contro gli abusi di mercato come fa l’Esma: è in gioco la funzione essenziale dei mercati finanziari e la disponibilità delle imprese a quotarsi. Il paragone con il drammatico mutamento del clima non è esagerato: anche nei mercati finanziari il progresso tecnologico rischia di rompere equilibri antichi e la stessa sostenibilità del sistema. C’è da chiedersi se ci sia bisogno di una Greta Thunberg anche per i mercati finanziari.
novembre 2021
Marco Onado È professore senior di Economia degli intermediari finanziari nella Università Bocconi di Milano. È stato Commissario Consob. Collabora con “Il Sole 24Ore”, “Lavoce.info” e “voxeu.org”.
Vlad Tenev, imprenditore miliardario bulgaro-americano, co-fondatore di Robinhood, la società di servizi finanziari con sede negli Stati Uniti al centro del terremoto scoppiato sul caso GameStop
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IL SISMOGRAFO
LA MICCIA TAIWAN NEL DUELLO USA-CINA IL MONDO RISCHIA UNA NUOVA CRISI DI CUBA
I
l mondo discute giustamente del cambiamento climatico, come di un pericolo imminente da scongiurare a ogni costo. Eppure corre a mio avviso anche un altro rischio, imminente e perfino peggiore, quello di una crisi militare nel quadrante Indo-Cinese, attorno al caso Taiwan. Un pericolo gravissimo che può davvero riportare il mondo all’incubo della crisi di Cuba, il pericolo dell’olocausto nucleare. Temo, purtroppo, di non star esagerando. Il recente accordo fatto dagli Stati Uniti con l’Australia e la Gran Bretagna per intraprendere un roll-back nucleare, non a caso fondato sull’armamento atomico dei sommergibili - unico armamento in grado di contrattaccare a un primo assalto atomico potendosi muovere in modalità relativamente schermata - dimostra che il pericolo è considerato concreto e incombente. Per decidere di prepararsi in questo modo a quel genere di possibile conflitto, in uno spazio così immenso, la Casa Bianca ha dovuto far cadere un principio fondamentale della sua politica estera, da Clinton a Biden: quello dell’unipolarismo, la pretesa cioè di pensare di poter risolvere sostanzialmente da soli qualunque tipo di problema, scegliendosi gli avversari volta in volta. Quell’accordo è, dunque, anche la fuoriuscita da un trentennio di unipolarismo e l’accettazione di un concerto di medie potenze che si dispongono attorno a una grande potenza, una forma di multipolarismo realistico, semmai vulnerato – per un gravissimo errore diplomatico - dall’esclusione della Francia. La gravità di quest’errore va capita fino in fondo. Escludere la Francia significa, tanto per cominciare, l’unico forte contraltare europeo alla cinesizzazione dell’Europa impersonata dalla Germania; inoltre la Francia è l’ultimo Paese europeo ad avere ancora possedimenti nell’Indo-Pacifico, e non a caso le ultime prove militari nucleare sono state fatte in quelle aree, tra Polinesia e Caledonia… Non a caso, la prima e più sorpendente mossa fatta da Biden al G20 è stata quella di chiedere scusa alla Francia in una capitale europea. Ha accettato l’affronto diplomatico di non essere lui i ricevere Macron nell’Ambasciata americana ma doversi recare lui in via Piave, dove ha sede l’Ambasciata francese presso la Santa Sede, per incontrarvi il presidente francese, che ha ottenuto così una grande vittoria simbolica e d’immagine. L’accordo dei sommergibili segna la ripresa di una sorta di guerra fredda verso la Cina, e dunque tutta la politica estera degli Stati Uniti e dell’Unione Europea dovrà mutare, come ha appunto dimostrato questo riallineamento di Biden con Macron. Il quadrante taiwanese è dunque considerato davvero esplosivo. E la possibilità di un’aggressione cinese a Taiwan, che inneschi il conflitto, si fa costantemente
più vicina. Peraltro, in quel quadrante geopolitico, si concentrano alcune tra le più forti potenze nucleari che non hanno mai firmato trattati di non profilerazione: India, Pakistan, Corea del Nord e Cina. E al centro c’è una potenza economica come il Giappone che però non ha la bomba atomica. Dunque l’Occidente, se esiste ancora un Occidente, parte svantaggiato.La vera domanda è quindi se sia pensabile o meno che Xi Jinping agisca subito. Io penso che il leader cinese sia veramente pronto e determinato ad agire finchè si sentirà al sicuro sul confine siberiano con la Russia di Putin. Dunque se gli Stati Uniti non saranno in grado di dividere Russia e Cina, abbandonando a tal fine la loro stupida politica filopolacca in Europa, e dismettendo le sanzioni contro Russia, il pericolo è che l’inedita vicinanza tra Mosca e Pechino prosegua e sostenga l’aggressività cinese. Per Xi Jinping, invadere Taiwan è naturalmente la cosa più facile del mondo, sul piano militare. E dunque farlo o meno dipenderà esclusivamente dalle considerazioni di carattere politico e diplomatico. L’unica potenza che può riuscire, proprio con la sua diplomazia e i suoi servizi segreti, a predisporre il terreno nel modo giusto per separare Russia e Cina è la Francia, che deve lavorare con gli Usa in una logica neogollista, rilanciare l’idea di un’Europa estesa dall’Atlantico agli Urali, facendo capire a Putin che il suo avvenire è in una nuova negoziazione con l’Europa. Bisogna, a questo fine, tener a bada la Polonia e non farsi ricattare da Varsavia, che peraltro è sempre stata al gioco americano di indebolire l’unità politica europea. Sul fronte interno, intanto, Xi Jinping si è indebolito, anche per la deludente campagna anti-Covid, e sta conducendo una terribile lotta di potere all’interno del potere. Un regime indebolito può far qualunque mossa, anche tentando il diversivo militare. Un incidente che possa far scoppiare la guerra può capitare, o lo si fa capitare. Il rischio di un incidente lo si riduce, di nuovo, solo con la diplomazia. Infine una considerazione generale: la qualità della diplomazia e delle relazioni internazionali mi sembra scaduta. Riprova ne sia proprio la vicenda dell’accordo sui sommergibili. È mai possibile che delle potenze sottoscrivano un accordo difensivo strategico di quella natura e lo dichiarino ai quattro venti? Vuol dire fomentare la tensione. È un pessimo segno che ci si sia ridotti a tanto.
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Giulio Sapelli È Ordinario di Storia Economica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano e consigliere anziano della Fondazione Enrico Mattei
Emmanuel Macron, presidente francese, omaggiato dal presidente Usa Biden
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IL GERMANISTA
ALLA NUOVA COALIZIONE TEDESCA IN CANTIERE SI CHIEDE UN SALTO QUANTICO DI EFFICIENZA
L Franco Tatò Manager eclettico e innovativo, è tra i pochissimi italiani ad aver diretto aziende in Germania, paese (e cultura) che ama ed è l’unico ad essere stato amministratore delegato sia di Rizzoli che di Mondadori
Wernher von Braun, forse il massimo scienziato tedesco contemporaneo
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e trattative tra i partiti tedeschi in corso da quasi due mesi sulla nuova coalizione di governo non trapelano sulla stampa. Neanche una sillaba. Si sa soltanto che i leader stanno mettendo a punto un documento di intesa programmatica. Che definirà le procedure per governare insieme, affinchè poi i partecipanti all’esecutivo possano operare al meglio. La volontà politica di costituire la coalizione è scontata, non si sono mai seduti al tavolo per stabilire “se” farla oppure no, ma direttamente per concordare “cosa fare”. Ma perché hanno dato per scontato che l’unica soluzione doveva essere questa? La risposta sta nel clamoroso errore commesso dal leader sconfitto della Cdu, Armin Laschet, il quale si era messo in testa che avrebbe potuto diventare cancelliere sostituendo la Merkel grazie ad un accordo dietro le quinte con Verdi e Socialisti. Senza capire che, con un’intesa di quel genere, sarebbe andato perso il valore rivoluzionario del voto politico tedesco. Non ha capito che nessun partner poteva partecipare a una coalizione con lui perché avrebbe fatto la figura, davanti ai suoi elettori, di un traditore che permetteva alla Cdu di continuare a governare senza la Merkel, e – peggio ancora – nonostante la personale inconsistenza del successore: uno scenario che gli elettori aborrivano, con tutta evidenza. Dunque la coalizione che ne sta risultando era scritta nei risultati elettorali grazie ad alcuni messaggi pregnanti e inequivocabili. Quali? Il primo, oggi forse trascurato ma da non dimenticare, è stato la sostanziale scomparsa della Linke, che è rimasta in parlamento con appena 3 seggi, peraltro assegnati ai tre singoli candidati, per il loro seguito personale, e non alla sigla del partito. Come mai? Perché i programmi, la cultura, addirittura il lessico politico della Linke sono apparsi obsoleto. Se si pensa ai problemi che la Germania dovrà affrontare, è chiaro che con gli strumenti ideologici e programmatici della sinistra estrema non si andrebbe da nessuna parte. Il secondo messaggio forte del voto è stato, specularmente, l’indebolimento dell’estrema destra: non la scomparsa, ma un netto ripiegamento, soprattutto nelle regioni occidentali. Qualche consistenza in più è sopravvissuta nelle regioni orientali, dove una parte dell’elettorato non ha capito quel che invece la Merkel aveva capito e conseguenzialmente messo in pratica quando decise di aprire i confini all’immigrazione: che cioè un Paese con la Shoa sulla coscienza collettiva, non può oppor-
novembre 2021
si all’immigrazione di un popolo che fugge da una guerra. Non può perché sa di essere un popolo, o comunque una nazione, che ha causato una delle più grandi migrazioni di massa della storia. Con quel macigno sul proprio passato, non si può dire oggi: fuori i migranti! La Merkel lo comprese, una parte dell’elettorato di destra non ancora. Un altro problema urgente che il nuovo governo dovrà affrontare è quello della digitalizzazione, ovvero dei suoi gravi ritardi. Che vanno iscritti nel più generale ritardo della tecnologia e della ricerca. C’è una domanda che i tedeschi si pongono e che è stata provocata o almeno acuita dalla pandemia: dov’è finita la grande industria farmaceutica tedesca? E la grande industria chimica tedesca? Come mai non è stata un’industria farmaceutica tedesca a produrre per prima il vaccino anti-Covid, o a produrre quello migliore? Domande brucianti cui le risposte non possono essere solo scientifiche. Noi usciremo dai problemi ambientali che ci affliggono se saremo capaci di inventare soluzioni tencologiche che ci aiutino a migliorare il clima del pianeta o a riudurne il peggioramento, a smettere di inquinare per continuando a produrre, e a non distruggere la natura. Contemplando mestamente i suoi ritardi, in Germania si riacuisce il vecchio complesso di von Braun: un Paese che ha inventato le V2 non riesce più a pensare in termini scientifici, perché ha paura che la scienza porti la guerra. Negli Anni Venti e Trenta il numero di premi Nobel conferiti a scienziati tedeschi è stato impressionante. In tutti i settori della ricerca: chimica, fisica, biologia… Dopo la guerra, quasi più nessuno. È come se la scienza si fosse ritirata dalla frontiera dell’innovazione per concentrarsi sulla soluzione dei problemi applicativi. Mancano invenzioni vere. La risposta al problema delle fonti energetiche fossili da superare, per esempio, potrebbe arrivare dalla ricerca sul nucleare sicuro: ma solo sfiorare il tema dell’energia atomica anche in Germania è diventato tabù. Questo complesso di von Braun è costato moltissimo all’industria tedesca perché le ha come sottratto l’eccellenza scientifica a lungo termine, che non può che essere recuperata sul piano digitale. È la grande svolta che tutti si aspettano. Diro di più: è la parte rivoluzionaria del cambiamento che sta cominciando a farsi attendere un po’ troppo. Olaf Scholz è stato eletto nel nome di una diversa continuità. La sua presenza al fianco della Merkel all’ultimo G20 è stato un segnale chiaro: continuità, ma non con la Cdu. Ed è probabile che dal nuovo cocktail politico in costruzione emerga una politica rivoluzionaria, perché è quella che serve alla Germania: un salto quantico nella capacità di affrontare i problemi.
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FINANZA REALE
IL PRIVATE BANKING AFFINA LE SUE STRATEGIE VERSO RENDIMENTI DI LUNGO TERMINE (ANCHE ILLIQUIDI)
L’
Italia è ripartita: lo dicono non solo le statistiche domestiche ma anche quelle dell’Ocse; lo confermano le previsioni di crescita dell’Fmi che ha alzato le stime per il Pil dell’Italia portandole a un +5,8% nel 2021 e +4,2% nel 2022. Come ha titolato un quotidiano, giorni addietro: siamo più bravi della Germania. Le aziende cercano risorse, segno si grande volontà di investire, ma anche di riorganizzarsi perché il terreno da recuperare è ancora tanto. Anche il circuito del risparmio da buoni segnali. Qualche giorno fa sono stati pubblicati i dati del sentiment realizzato dall’Osservatorio Private Banking promosso da Liuc-Business School e Banca Generali con il supporto di BlackRock e di Bnp Paribas. Le stime sul semestre precedente ipotizzavano un periodo di espansione guidato da un clima di fiducia dettato dall’incremento nella diffusione dei vaccini e dalle politiche monetarie e fiscali introdotte per supportare la ripresa economica. Man mano che si andrà verso una normalizzazione delle politiche centrali, tale effetto sarà più contenuto e questo dovrebbe portare a una stabilizzazione dei mercati. In questo scenario le masse gestite dal private banking, secondo gli esperti, saranno in crescita grazie anche a nuovi prodotti alternativi come gli Eltif e alla crescente cultura finanziaria dei risparmiatori che, vedendo i tassi a zero, si sono spinti a conoscere forme nuove di investimento. Il comparto ha in programma strategie sempre più incisive che possano spingere parte della liquidità presente sui conti correnti verso forme di investimento con livelli di rendimento nel lungo termine auspicabilmente maggiori rispetto ai depositi bancari, nel rispetto del complessivo profilo del grado di rischio dei portafogli. Ruolo importante può essere ricoperto da strumenti finanziari illiquidi e dai piani di investimento progressivo. Scardinare la convinzione attuale, che mantenere la liquidità sui conti corrente sia una forma di investimento protettiva, è ancora uno degli obiettivi essenziali, infatti, una tale strategia nei fatti erode la ricchezza reale del risparmiatore e non ha effetti sul sistema economico in generale. Tale orientamento sarebbe certamente amplificato, a parere di molti addetti del settore, da un contesto socio-economico e politico stabile sia a livello internazionale sia per quanto concerne il panorama interno di stabilità. Questo porterebbe
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Scardinare la convinzione attuale, che mantenere la liquidità sui conti correnti sia una forma di investimento protettiva, è ancora uno degli obiettivi essenziali di sicuro a una maggiore fiducia per mercati e risparmiatori. Fondamentale è l’azione delle banche centrali, soprattutto per gestire l’incertezza rispetto a scenari di ripresa dell’inflazione che derivano dall’andamento dei prezzi delle materie prime. Il blocco ai sistemi produttivi legato al Covid sembra ormai superato e l’economia è ripartita con restrizioni che hanno un impatto economico decrescente, ma alcuni cambiamenti potrebbero avere natura strutturale. Gli esperti sottolineano però che si andrà in parallelo verso una normalizzazione delle politiche centrali, determinando un effetto crescita più contenuto rispetto ai mesi appena trascorsi. Insomma, tutti gli indicatori (finanziari, economici e istituzionali) spingono verso un ritorno a una nuova normalità; i nostri risparmi, se ben investiti, posso dare un grande contributo alla ripartenza del nostro Paese. Il private banking può fare la sua parte soprattutto se saprà proporre prodotti che indirizzano la grande liquidità presenza nel sistema verso l’economia reale.
Anna Gervasoni Professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese alla Liuc di Castellanza. è anche direttore generale dell’Aifi (Associazione italiana del private equity, venture capital e private debt)
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IL SOTTOSTANTE
LA “PROSPERITÀ COMUNE” È UN’INCOGNITA MA IL MERCATO CINESE RITORNERÀ PROTAGONISTA
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onostante sia tra le pochissime economie ad aver chiuso il 2020 in positivo e stia viaggiando ad un tasso di crescita di circa l’8%, quest’anno i principali indici azionari della Cina hanno finora sottoperformato quelli globali di oltre venti punti percentuali. Quest’andamento è stato causato da un inaspettato inasprimento della regolamentazione su alcuni settori chiave: internet, istruzione e immobiliare. I titoli tecnologici hanno sofferto, anche per via del cambiamento di direzione con riguardo alla privacy e ai dati personali, che sembrano essere diventati una priorità per la Cina. L’istruzione privata, un’industria miliardaria, è stata definita un bene pubblico e, pertanto, destinata a divenire non-profit. Inoltre, l’economia cinese ha decelerato, rispetto a un anno fa per via della diminuzione dei consumi causa le nuove restrizioni legate al Covid-19 per il razionamento dell’energia e per la criticità a reperire materie prime. Infine le difficoltà finanziarie del gruppo immobiliare Evergrande hanno creato timori di contagio su altri operatori e settori. Per capire queste nuove politiche economiche, definite della “prosperità comune”, occorre fare un passo indietro: dagli anni ’90 la Cina ha puntato su una crescita economica estremamente rapida, per ottenerla ha creato forti incentivi che hanno portato a contare quasi 700 miliardari e oltre 5 milioni di milionari (in dollari), numeri non distanti da quelli statunitensi. Per un paese che conta un miliardo e quattrocento milioni di persone, mantenere la pace sociale è di particolare rilevanza e per farlo occorre un costante miglioramento delle condizioni di vita. A partire già dal 18° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese del 2012, il governo ha gradualmente spostato l’attenzione sulla “prosperità comune”. L’obiettivo è una maggior condivisione e diffusione del benessere economico, rendendo la società più sostenibile, aumentando i redditi e il welfare. La Cina ha così identificato un nuovo modello di sviluppo più orientato alla domanda interna e meno focalizzato su competitività ed esportazioni. In linea con le politiche di prosperità comune, il governo e la banca centrale hanno cercato per mesi di raffreddare il mercato immobiliare con varie misure, riducendo la liquidità destinata al settore e perfino provando ad introdurre nuove
Matteo Ramenghi Chief Investment Officer di UBS WM Italy LA SEDE DI EVERGRANDE, IL COLOSSO CINESE IN CRISI
imposte sugli immobili. L’effetto collaterale è stato di far rallentare il settore costruzioni: le vendite degli immobili residenziali sono scese del 25% ad ottobre, rispetto ad un anno prima. Le difficoltà finanziarie di Evergrande e quelle di Fantasia, un altro operatore del settore, sono probabilmente gli ulteriori effetti collaterali di questi tentativi di frenare la speculazione. Ma se facciamo un confronto con alcune crisi immobiliari come quella di Stati Uniti, Spagna e Irlanda nel periodo 2008-10, possiamo osservare alcune fondamentali differenze: l’andamento dei prezzi delle case in Cina è rimasto parallelo rispetto al Pil, le banche hanno mantenuto dei criteri di erogazione del credito abbastanza prudenti e le famiglie cinesi sono poco indebitate. L’introduzione di nuove misure potrebbe creare ulteriore volatilità nel mercato azionario e in particolare sui settori maggiormente interessati dalle stesse (per esempio internet, immobiliare e sanità). La Cina rappresenta però oltre un quinto dell’economia mondiale e a medio termine la crescita rimarrà importante. L’obiettivo di crescita del governo è infatti del 4,7% l’anno nei prossimi 15 anni. Molti investitori sono di fatto sottoesposti al mercato cinese perché il suo peso negli indici azionari globali resta contenuto – una frazione rispetto alla sua importanza come PIL. Inoltre, Cina e occidente perseguono modelli economici diversi e, considerando che le congiunture economiche sono spesso disallineate, l’azionario cinese può contribuire a una migliore diversificazione del portafoglio. A breve termine restiamo neutrali sull’azionario cinese ma, da un punto di vista strategico, è un mercato che probabilmente tornerà ad essere protagonista.
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TERZA REPUBBLICA
QUIRINALE, PROVA DEL NOVE DEI PARTITI NESSUNO HA LA CHIAVE, MA IL RISCHIO È IL CINISMO
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esito della partita per il Quirinale dipende dalle risposte che avranno le due domande che aleggiano sulla politica italiana. La prima riguarda Sergio Mattarella: ci sono le condizioni ed è appropriato che faccia un secondo mandato, limitato ad un periodo circoscritto ancorchè non formalmente definibile? La seconda concerne Mario Draghi: è meglio continuare ad averlo a Palazzo Chigi per tutta la legislatura e magari anche dopo, o è più opportuno averlo per sette anni presidente della Repubblica? In attesa delle risposte degli interessati e della politica, provo io a definire ciò che dovrebbe risultare più utile per il Paese. Il mio giudizio è che Mattarella debba restare al Quirinale, e per un motivo oggettivo che dovrebbe indurlo a mettere da parte le ragioni – più che valide e comprensibili, sia chiaro – che fin qui lo hanno spinto a far intendere di non essere intenzionato a ripetere ciò che fece il suo predecessore. La ragione sta nella legge costituzionale approvata nell’ottobre dello scorso anno che prevede la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari. Una norma pessima, figlia del “bipopulismo” italico, ma che tuttavia dispiegherà i suoi effetti pratici in occasione delle prossime elezioni politiche. Perciò, che senso ha che un Parlamento destinato a modificarsi strutturalmente elegga un Capo dello Stato che resterà in carica sette anni? È fin troppo chiaro che sarebbe meglio far slittare il cambio al Quirinale a subito dopo la formazione della “nuova” Camera e del “nuovo” Senato. Dunque, è una ragione istituzionale, non politica o personale, che dovrebbe indurre Mattarella ad assumere un secondo mandato, specificando che si dimetterà subito dopo che tale ragione verrà meno dopo le elezioni del 2023. Non sarebbe un incarico con un termine formale, perché la Costituzione prevede solo il mandato pieno, ma questo non impedirebbe a Mattarella di chiarire preventivamente le sue intenzioni. Se così fosse, la domanda sul destino di Draghi troverebbe risposta a prescindere. E la spinosa questione del Quirinale si posticiperebbe di un anno. In quel caso Draghi avrebbe terminato a tempo debito il suo mandato di presidente del Consiglio, e allora sì che in quel momento si porrebbe per lui, e per il sistema politico nel suo insieme, il problema se rendersi disponibile (lui) ed eleggerlo (i partiti) alla suprema carica della Repubblica, o se invece continuare nella sua
esperienza di governo avendo un’intera legislatura davanti a sé. Cosa farebbe Draghi in quel caso? Tutto dipenderebbe da quali risultati che il suo governo consuntiverebbe a marzo 2023, soprattutto in relazione alla realizzazione degli investimenti del Pnrr, e dalla valutazione se anche dal Quirinale sarebbe possibile continuare a sorvegliarne lo svolgimento, rispondendone in sede europea, o se invece le cose rimaste da fare lo inducessero a restare a Palazzo Chigi (ammesso, e non concesso, che i partiti lo volessero). Ma se Mattarella dovesse scartare l’ipotesi del secondo mandato, Draghi tra due mesi che dovrebbe fare? La mia risposta, in termini di auspicio, è: dipende. Se non intende, né oggi né domani, porre la questione di una revisione degli assetti istituzionali dell’Italia, allora è meglio che opti per la continuazione, il più possibile lunga, dell’esperienza di governo. Se viceversa, egli pensa di raccogliere l’idea di una Costituente, allora la sua ascesa al Quirinale si caricherebbe di un significato ben più profondo del vigilare autorevolmente sul Paese. Questo vorrebbe dire indirizzarci verso un regime di tipo presidenziale? Probabilmente sì, ma non “de facto” come ha detto il ministro Giorgetti. Perchè è dalla fine della Prima Repubblica che l’Italia introduce cambiamenti “de facto” – maggioritario, bipolarismo, presunta premiership – senza modificare le regole del gioco sancite nella Costituzione. E se Draghi ha da essere De Gaulle, deve succedere come in Francia nel 1958: il semi-presidenzialismo fu introdotto prima e non dopo che il Generale fosse nominato all’Eliseo. Ecco, se Mattarella facesse il sacrificio di restare al suo posto fino alla fine della legislatura, e se Draghi andasse al Colle nel 2023, dopo aver realizzato, o almeno avviato, i lavori di revisione costituzionale di cui abbisogniamo, allora sì che saremo nelle condizioni di fermare il declino, invertire la rotta e costruire finalmente un paese moderno e civile. Ma occorrono atti di generosità, non calcoli dettati dal cinismo. (twitter @ecisnetto)
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Enrico Cisnetto È un editorialista, economista, imprenditore, ideatore e conduttore del format web War Room. È conferenziere, consulente politico strategico e tifoso della Sampdoria
Il portone di ingresso del Palazzo del Quirinale a Roma
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SPORT E FINANZA
PRIVATE EQUITY E CRIPTOVALUTE I NUOVI PADRONI DEL CALCIO di Gloria Valdonio
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nche un amante dell’ippica, poco o per niente attento alle vicende del football, intuisce che nel mondo del calcio qualcosa sta profondamente cambiando. Questa rivoluzione ha molte spinte, che vanno dalla perdita di sponsor e introiti da biglietti e tesseramenti a causa del lockdown e delle limitazioni ancora in corso, alla crisi di liquidità (si calcola che ogni anno le prime tre società di Serie A lascino sul terreno 375 milioni di ricavi da stadio rispetto ai primi tre club della Premier League) per arrivare alla loro ”scalabilità”. In Germania vige infatti la regola del “50% + 1” che impedisce agli investitori di prendere il controllo dei club calcistici. In Spagna le grandi società sono di fatto blindate dall’azionariato popolare. In Inghilterra invece i prezzi sono ormai alle stelle. Non è strana quindi la passione dei fondi di investimento per il calcio italiano, che sarà pure in affanno, ma che porta in dote ben 30 milioni di tifosi a tempo pieno. I più attivi sono ora i fondi americani, mentre quelli cinesi si stanno progressivamente ritirando dalla scena. Il pioniere è stato il fondo Elliott qualche anno fa per il rilancio del Milan. L’ultimo in ordine di tempo è invece 777 Partners, fondo con sede a Miami di Steven Pasko e Josh Wanderche, che già possiede il 6% delle quote del Siviglia, i Lions di Londra (basket) e società di promozione del calcio femminile, che ha rilevato la quota di controllo del Genoa dallo storico patron Enrico Preziosi per 150 milioni di euro, debiti inclusi. Con il passaggio del Genoa, saranno quindi otto le squadre italiane con proprietari stranieri (Inter, Fiorentina, Milan, Bologna, Venezia, Spezia, Roma e appunto Genoa). A queste si 20
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Il settore può generare oltre 18 miliardi di ricavi, l’1% del Pil nazionale. La scalabilità dei club, in crisi di liquidità, fa gola ai fondi, soprattutto americani. Ma anche alle piattaforme di criptovalute aggiungono quattro società in serie B (Como, Parma, Pisa e Spal) in mano a fondi americani. E anche il ricco mondo delle sponsorizzazioni vive un profondo cambiamento, con attori nuovi tra i quali spiccano le piattaforme di criptovalute. Come eToro, che ha siglato in Italia accordi con otto squadre della Serie A per la stagione 2021/22, diventando partner ufficiale di Bologna, Cagliari, Genoa, Sampdoria, Sassuolo, Spezia, Udinese, Verona, a cui si aggiunge un accordo più complesso con la Salernitana, realizzando così l’investimento più ampio nella massima serie calcistica di un singolo Paese. Social football Ma la rivoluzione è più profonda e passa anche (e forse soprattutto) dai social media che occupano la vita quotidiana
COVERSTORY di Nft (Non-Fungible Tokens, ndr) di vere e proprie stelle del calcio, note in tutto il mondo», racconta Ndinga. Ad oggi, le carte di Sorare sono associate esclusivamente a giocatori ancora in attività: «Tuttavia», dice lo strategist, «bisogna segnalare che l’iniziativa sarà in collaborazione con la società sportiva Kosmos, fondata dal giocatore del Barcellona Gerard Piqué e dal ceo della piattaforma Rakuten Hiroshi Mikitani, che ha siglato partnership esclusive per la proprietà intellettuale con oltre 50 iconici giocatori ritirati, come Johan Cruyff, Diego Armando Maradona e Michel Platini». dei Millenial e che, così come nel mondo musicale e del cinema, permettono di avere relazioni “apparentemente” esclusive con i propri idoli o campioni. Le app gestite dai club convogliano infatti un numero crescente di servizi e informazioni relative alla squadra su un canale gestito dalle società sportive, creando – come spiega Orlando Merone, country manager della piattaforma Bitpanda – dei veri e propri social club calcistici: «È un’evoluzione del concetto di marketing tradizionale così come avviene in altre industrie», spiega lo strategist. Marketing digitale, insomma, le cui potenzialità sono enormi, ancora tutte da esplorare, e sono soprattutto interdisciplinari: partono dallo sport per poi finire nel grande contenitore dell’intrattenimento. Il pallone nella blockchain Ma i social media sono solo un primo passo verso la digitalizzazione del calcio. Secondo gli analisti del settore, la grande rivoluzione dipende dalla volontà dei club di sfruttare la tecnologia blockchain per avere accesso a nuovi modi di interagire con i tifosi. Si consideri, per esempio, Sorare, un gioco di fantacalcio basato su tecnologia blockchain, che permette a chi gioca di vestire i panni di un manager e di creare squadre virtuali con cinque giocatori tramite carte disponibili sulla blockchain. Le squadre vengono classificate in base alle prestazioni dei loro giocatori sul campo e ai punti assegnati, proprio come il fantacalcio tradizionale. Alcune di queste carte sono pensate anche per essere collezionate (ovviamente in versione digitale), in quanto limitate, rare, super rare o addirittura uniche, e il fatto che il gioco si basi sulla tecnologia blockchain, le rende una sorta di risorsa “scarsa” e di proprietà di un unico utente. La piattaforma blockchain sportiva Sorare - come spiega Eliézer Ndinga, head of research team di 21Shares - sta ora ampliando il proprio portafoglio di prodotti legato al mondo del calcio. «Dopo un primo investimento iniziale di 680 milioni di dollari nei campionati minori, la piattaforma ha annunciato che lancerà carte collezionabili sotto forma
In foto Eliézer Ndinga, head of research team di 21Shares
I Token… Ma non ci sono solo i palloni d’oro e i calciatori più brillanti nel mirino di Sorare. La piattaforma ha infatti già firmato accordi con ben 180 squadre, tra cui anche i top club di Barcellona, Bayern Monaco e Paris Saint-Germain, e la scorsa estate ha iniziato a prendere in esame, oltre ai club, anche le nazionali di calcio. «Sorare ha anche annunciato di volersi espandere in altri sport e di voler sponsorizzare anche il mondo dell’agonismo femminile», dice Ndinga. Che aggiunge: «Tuttavia, questa è la prima volta che Sorare lancia un prodotto al di fuori della categoria del fantacalcio e i tempi per esprimere un giudizio non sono ancora maturi». Come spiega Elia Pachera, analista di Consultique Scf, è importante infatti chiarire che queste società non sono intermediari finanziari tradizionali, e che molto spesso sono realtà molto recenti, collocate generalmente in paradisi fiscali, e che pertanto non garantiscono ancora molta trasparenza a partire dai loro dati finanziari. «Inoltre, poca trasparenza c’è anche sui contratti stabiliti dalle stesse società con le squadre sportive e sulla provenienza dei fondi che queste realtà garantiscono negli stessi contratti di sponsorizzazione», aggiunge Pachera. Un esempio su tutti, secondo lo strategist, è l’accordo stipulato tra Digital Bits Foundation-Zytara Labs e As Roma che, secondo alcune testate specializzate, dovrebbe garantire alla squadra della capitale 36 milioni di euro in tre anni, che saranno suddivisi in un minimo garantito di 500mila euro e la restante quota nella moneta virtuale XDB “stampata” dalla stessa DigitalBits. novembre 2021
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Poca trasparenza negli accordi di sponsorizzazione sottoscritti tra Token e club calcistici. E anche sulla provenienza dei fondi garantiti nei contratti … e i Fan-Token Un ulteriore servizio fornito da alcuni nuovi network blockchain al fianco degli Ntf (Non fungible token) è quello dei Fan-Token, ovvero i gettoni virtuali relativi alla squadra del cuore che permettono ai tifosi che li acquistano di partecipare ad alcune decisioni, per il momento piuttosto marginali, della stessa squadra. «I cosiddetti “fan token” sono volti a raccogliere capitale direttamente dai tifosi in cambio della possibilità di influire attraverso sondaggi su alcune piccole decisioni del club, come per esempio slogan, maglie, design del pullman della squadra», spiegano Luigi Capitanio, partner di Monitor Deloitte, e Antonio Solinas, ad di Deloitte Financial Advisory. «Questo fenomeno», aggiungono i due partner, «è sempre più diffuso e diversi primari club in Italia, come Inter, Milan e Juventus, e in Europa - per esempio, Barcellona, PSG e Atletico Madrid -
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Nelle foto in basso, da sinistra Elia Pachera, analista di Consultique Scf; Luigi Capitanio, partner di Monitor Deloitte; Jan De Schepper, chief sales and marketing officer di Swiss Quote
hanno già emesso i propri token. A oggi tuttavia gli importi raccolti attraverso queste iniziative risultano molto contenuti rispetto ai bilanci dei principali club: l’Inter per esempio a fine settembre ha raccolto solo 2 milioni di euro». Oltre a raccogliere capitale dai fans, questi gettoni virtuali possono essere scambiati in un mercato secondario tramite la moneta del network. «È bene specificare però che tutti questi token e servizi non sono strumenti finanziari, e che quindi non sono regolati da alcuna autorità di vigilanza, come non lo sono i soggetti che li emettono», spiega Pachera. Che aggiunge: «E questo significa che al momento è molto difficile considerare questi network come investitori finanziari a pieno titolo». Private equity Delle perdite accumulate dalle squadre di calcio nel 2020 hanno approfittato certamente diversi attori del mondo della criptovalute e della blockchain. Ma a dare il vero assedio al mondo del calcio professionistico sono soprattutto i fondi di private equity, che sono investitori a tutti gli effetti. Il momento sembra ideale. Ciò che risalta spulciando i bilanci delle società calcistiche infatti è che gli utili relativi all’ultimo esercizio sono praticamente inesistenti in tutto il settore, a causa delle difficoltà legate a Covid e a un business comunque caratterizzato da ampia volatilità. Le performance di Borsa negli ultimi due anni sono conseguenti: i ribassi sono stati importanti senza grosse distinzioni. Le uniche eccezioni sono le squadre portoghesi, ma qui più che altro influisce una liquidità molto ridotta su quei titoli con controvalori scambiati contenuti. Come spiega l’ufficio studi di Morningstar, nella scorsa stagione i ricavi della Serie A sono scesi di circa il 20% rispetto alla stagione 2018-19 a causa dei minori introiti dovuti a una riduzione dei proventi dei diritti tv e al crollo dei ricavi dalla vendita dei biglietti. «La posizione economica di alcuni club è molto delicata in questo momento, perché i ricavi sono scesi con la pandemia mentre i costi, soprattutto dei giocatori, sono alle stelle”, spiega Jan De Schepper, chief sales and marketing officer Swissquote. Che aggiunge: «Il calcio è un grande business
COVERSTORY con tanti stakeholder: da una parte le tv e gli sponsor, dall’altra le leghe, i club e i giocatori. Tutti cercano di aumentare la propria fetta di torta, soprattutto i grandi club con giocatori costosi sotto contratto». Secondo Capitanio e Solinas, l’interesse diffuso per il calcio professionistico da parte dei fondi è legato al fatto che il settore è altamente attrattivo e perfettamente in linea con le strategie di crescita e gli obiettivi di ritorno di investitori esteri o private equity. «Circoscrivendo l’argomento all’Italia», aggiungono i due strategist, «possiamo dire che quello del calcio è un mercato potenzialmente aggredibile da un operatore finanziario, perché nel nostro Paese ben trenta milioni di appassionati fanno del calcio uno dei settori industriali con maggior bacino di clienti e prospect. Numeri ancora più considerevoli se teniamo conto dell’appeal del calcio su una dimensione internazionale». Pil calcistico La principale fonte di attrattività legata alla capacità di generare ricavi però arriva dalle stime di settore, che indicano che già oggi il calcio in Italia può generare oltre 18 miliardi di euro tra ricavi diretti e indiretti. È una cifra pari all’1% del Pil nazionale che può fare gola, nonostante le difficoltà di valutazione che caratterizza il settore. «Per questo motivo i fondi di private equity e le società specializzate in strategie di investimento alternative sono destinate a ricoprire un ruolo sempre più da protagoniste nel settore, come del resto stanno dimostrando le vicissitudini societarie di diversi club anche nel campionato italiano», dicono Capitanio e Solinas. Ma qual è il ritorno per un private equity e quale l’orizzonte temporale dell’investimento? Quanto alle dimensioni della plusvalenza è praticamente impossibile formulare ipotesi a causa dell’estrema complessità di queste aziende, influenzate inevitabilmente dai risultati sportivi. Per quanto riguarda invece l’orizzonte temporale, Morningstar spiega che l’obiettivo degli investitori istituzionali, una volta entrati nel capitale sociale, è trasformare i club in una media company in grado di autofinanziarsi così da poterla rivendere in 3-5 anni realizzando una grossa plusvalenza. «Parliamo di un settore
L’interesse diffuso da parte dei fondi per il calcio professionistico non è casuale: con 30 milioni di fan è infatti uno dei settori industriali con il maggior bacino di clienti e di prospect Nella foto in basso Antonio Solinas, ad di Deloitte Financial Advisory
con un forte potenziale inespresso e i cambiamenti auspicati dagli investitori esteri non si possono realizzare entro un lasso di tempo troppo breve», dicono Solinas e Capitanio. «Pensiamo anzitutto alle revenue stream abilitate da stadi di proprietà, che in Italia purtroppo rappresentano l’eccezione e non la regola”. Nuovi stadi Nel recente report “Gli stadi italiani nel panorama europeo”, Deloitte ha stimato infatti che nei prossimi dieci anni gli interventi di rinnovamento delle infrastrutture genereranno nuove fonti di ricavo per 25 miliardi per l’industria del calcio e settori adiacenti. «Questo conferma che in ottica prospettica questo settore ha un potenziale ancora superiore al valore generato oggi. E che l’intero sistema si è fatto trovare impreparato e adesso paga le storture accumulate negli anni», commentano Capitanio e Solinas. Ma qual è allora lo scenario per il settore? Secondo i due strategist, in questa fase, dove si sta ritrovando un certo grado di normalità, bisogna intervenire urgentemente con le necessarie riforme e approcciare l’industria del calcio sempre più in logica sistemica, così come avviene nei grandi settori industriali italiani. «Ormai è chiaro che l’attuale modello di business non è più sostenibile, ma questo non significa che non ci siano spazi di crescita e potenziale inespresso», dicono i due analisti. Che concludono: «In ogni caso non c’è dubbio che, attraverso innovazione, recupero di efficienza, nuove managerialità e rinnovamento infrastrutturale, il calcio può diventare a tutti gli effetti un’industria altamente attrattiva per azionisti e investitori». novembre 2021
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focus COP 26
LA SFIDA DEL COLOSSO ASSICURATIVO
Atomo e foreste, nuovi strumenti per salvare la Terra (e il business) di Riccardo Venturi
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a bomba atomica l’ha lanciata il presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, pochi giorni prima dell’inizio della Cop26: «Per la transizione green abbiamo bisogno di più rinnovabili, ma anche di una fonte stabile, il nucleare». È stata con tutta evidenza l’anticipazione della scelta di Bruxelles di includere il negletto nucleare tra le fonti energetiche indicate nella tassonomia verde dell'Unione Europea, ovvero la classificazione di ciò che può essere definito sostenibile, attesa per dicembre: si vedrà in quale forma ed entro quali limiti. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha sfruttato l’assist della von der Leyen, e da par suo ha sibillinamente affermato: «Da sole le rinnovabili non bastano a raggiungere gli obiettivi. Dobbiamo iniziare a sviluppare alternative praticabili adesso, perché sarà possibile fruirne in pieno soltanto nel giro di alcuni anni». Che super Mario si riferisse anche all’energia nucleare, e in particolare a quella di nuova generazione, è parso chiaro a tutti. Ma Draghi ha anche aggiunto: 24
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Ormai è assodato: da sole le rinnovabili non bastano ad abbattere la CO2 nei modi e tempi necessari. Occorrono nucleare pulito, riforestazione e stoccaggi «Nel frattempo, dobbiamo investire in tecnologie innovative per la cattura del carbonio». Eccoli, i due fronti aperti dalla Cop26, insieme a un’ammissione corale: conseguire l’obiettivo di limitare l'aumento delle temperature a 1,5 gradi con il solo ribilanciamento delle fonti energetiche, cioè con più rinnovabili e meno fossili, è impossibile. Secondo il rapporto World Energy Outlook 2021 della Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, il ritmo del progresso dell’energia pulita è ancora troppo lento. «Gli impegni odierni coprono meno del 20% del divario nella riduzione delle emissioni che deve essere colmato entro il 2030 per mantenere a portata di mano un percorso di 1,5 gradi», si legge nel rapporto. Parte del problema, poi, risiede nel combinato disposto dell’intermittenza tipica delle energie rinnovabili – ci vuole il sole per produrre la fotovoltaica, il vento per l’eolica – e il livello insufficiente di sviluppo delle batterie in grado di stoccare in modo efficien-
te l’energia prodotta, rendendola disponibile anche quando non c’è sole né vento. Di qui l’esigenza di trovare le “alternative praticabili”, che secondo von der Leyen (e con ogni probabilità secondo lo stesso Draghi) includono il nucleare, e di puntare sulla cattura del carbonio. Ma iniziamo dal vero e quasi mai nominato convitato di pietra della Cop26, l’atomo. Che piaccia o no, secondo l’Ipcc, l’Intergovernmental panel on climate change, in termini di grammi di CO2 equivalente emessi per ogni kWh di energia elettrica prodotta il nucleare è a valori inferiori a 20, in modo simile a idroelettrico e eolico, meglio del fotovoltaico. Anche la stessa Iea in diversi report ne ha auspicato un ruolo di supporto al processo di decarbonizzazione. L’esplicita presa di posizione della von der Leyen ne è una conseguenza: e dire che quando a inizio settembre il povero ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani si era espresso in termini molto più prudenti, chiedendo di non fermare la ricerca sulla quarta generazione di centrali nucleari, quelle senza uranio arricchito e acqua pesante, era stato sommerso da un coro di pernacchie ambientaliste, o pseudo tali. Il ministro ha fatto dunque riferimento alle centrali di quarta generazione, che come ha scritto sul Sussidiario Marco Ricotti, Professore ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Milano, dovrebbero essere pronte fra poco più di un decennio. Si tratta di reattori molto diversi dagli attuali, più sicuri e sostenibili, in grado di bruciare i rifiuti ad alta radioattività in sistemi raffreddati a piombo o a sodio liquidi oppure a sale fuso. Ma per almeno uno o due decenni la maggior quantità di energia verrà ancora delle centrali di cosiddetta seconda generazione, quelle costruite negli anni 80-90, che sono la gran parte dei 440 reattori oggi in funzione nel mondo, dei quali oltre 100 in Europa. Quanto alla terza generazione, utilizzata dagli oltre 50 nuovi reattori attualmente in costruzione nel mondo, i progetti hanno accumulato ritardi in media di 10 anni, oltre ad aumenti dei costi dell’ordine del 200-300%, ma reattori dello stesso tipo sono stati costruiti e sono già operativi in Cina, in Russia e negli Emirati Arabi Uniti: c’è dunque un singolare gap tecnologico dell’Occidente. Ci sono poi gli Small modular reactors, reattori più piccoli, modulari, tipicamente tra i 100 e i 300 MWe per ciascun modulo a differenza dei grandi impianti da oltre 1500 MWe l’uno, più facilmente integrabili in una rete elettrica articolata per la forte presenza delle rinnovabili: dovrebbe-
Mario Draghi con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Layen: concordano sul riaprire al nucleare sicuro
ro essere operativi entro un decennio. Infine, la tecnologia più rivoluzionaria, quella della fusione (e non fissione) nucleare a confinamento magnetico, una fonte di energia sicura, sostenibile e inesauribile che riprodurrà i principi alla base della generazione dell’energia solare. Un grammo di combustibile per la fusione contiene l’energia equivalente a quella di oltre 60 barili di petrolio, senza che questo comporti il rilascio di gas serra e senza produzione di scorie. Sulla fusione sta puntando tra gli altri Eni, la cui controllata Usa Cfs, società spin-out del Mit, ha da poco condotto con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia High temperature superconductors, che assicurerà il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica. Ma la strada è ancora lunga: entro il 2025 sarà realizzato il primo impianto sperimentale a produzione netta di energia denominato Sparc, e nel prossimo decennio quella del primo impianto dimostrativo, Arc, capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica. «Il nucleare è e sarà parte della soluzione se vogliamo raggiungere l'obiettivo di limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi Celsius» ha detto a Cop26 il direttore generale dell'Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) Rafael Mariano Grossi. «L'energia nucleare fornisce più di un quarto dell'energia pulita del mondo» ha incalzato il direttore generale dell'Aiea. «Nell'ultimo mezzo secolo, ha evitato il rilascio di più di 70 giga-tonnellate di gas serra. Senza l'energia nucleare, molte delle più grandi economie del mondo non avrebbero la loro principale fonte di elettricità pulita». «Una road map realistica può essere
Grossi (Aiea): «Nell'ultimo mezzo secolo, l'energia nucleare ha evitato il rilascio di più di 70 giga-tonnellate di gas serra nell'atmosfera» novembre 2021
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focus COP 26 quella di utilizzare da qui al 2030 oltre al gas gli impianti nucleari già esistenti» dice a Investire Angelo Meda, responsabile azionario di Banor Sim, «dal 2030 al 2040 si potrà iniziare l’utilizzo in larga scala delle centrali nucleari di nuova generazione, e iniziare a implementare sistemi di stoccaggio di energia a idrogeno. Nel 2040 ci saranno tecnologie più definite, se prevarrà il nucleare o l’idrogeno lo decideranno la scienza e il mercato». Dalle prospettive che si aprono è possibile trarre anche qualche indicazione utile in termini di investimenti. «Nel mondo del nucleare probabilmente il miglior investimento rimangono le società che estraggono e producono l’uranio» osserva Meda, «la canadese Cameco è la più grossa a livello mondiale. Per il resto c’è l’Edf francese, ma si tratta di un investimento molto politico legato alla regolamentazione di quel Paese; in generale nel mondo della produzione di uranio si utilizza ancora molto lo smantellamento delle bombe nell’ex Urss e negli Usa. Ma l’unica ad avere una dimensione adeguata e a poter essere quindi un investimento tematico è proprio Cameco». Se ne sono accorti anche gli Agnelli, che tramite la cassaforte di famiglia Exor ne hanno acquisito il 2,6% per circa 137 milioni di euro. Cameco è la più grande azienda di uranio quotata in borsa al mondo, operativa in Nordamerica e in Kazakhistan. L’investimento di Exor si è rivelato proficuo, considerato che in un anno il titolo Cameco a Wall Street ha triplicato il suo valore, da 9 a 27 dollari. L’altra grande strada da percorrere è quella, indicata da
Meda (Banor Sim): «Nel mondo del nucleare probabilmente il miglior investimento rimangono le società che estraggono e producono l’uranio» Draghi, della cattura del carbonio. Da un lato c’è l’esigenza di assorbire CO2 attraverso la piantumazione: nel G20 che si è svolto a Roma subito prima del grande evento di Glasgow, l’Ue e 19 tra i Paesi più industrializzati del mondo hanno condiviso «l'obiettivo ambizioso di piantare collettivamente mille miliardi di alberi, concentrandoci sugli ecosistemi più degradati del pianeta». La piantumazione è necessaria ma certo non sufficiente, e nemmeno da sopravvalutare. «Gli alberi sono una risposta importante, molto visibile e molto socializzabile» ha detto Roger Aines, che guida la Carbon initiative del Lawrence Livermore national lab, un programma di ricerca americano, alla MIT Technology Review. «Ma
LA SFIDA DI FOREVER BAMBÙ SU UNA PIANTA DAI SUPERPOTERI PER LA CATTURA DELLA CO2
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utte foreste possono assorbire CO2, ma alcune ne catturano molto di più… fino a 36 volte di più a parità di area e di tempo: stiamo parlando delle foreste di bambù gigante gestite col protocollo agroforestale esclusivo di Forever Bambù, che, con i suoi 193 ettari, ha un potenziale di compensazione equivalente a un bosco misto grande come un terzo di Milano o metà di Torino! L’azienda ha raccolto circa 20 milioni di euro di capitali, di cui 14,7 in crowdfunding, e sta valutando la quotazione in Borsa a fine 2022. “Noi stiamo iniziando a fatturare l’attività di sequestro di CO2 per le aziende
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clienti e prevediamo un boom di richieste, a giudicare dalle manifestazioni d’interesse che ci arrivano”, racconta l’imprenditore, Emanuele Rissone. “Si stanno rivolgendo a noi molti grandi gruppi: nell’ambito del percorso verso la Sostenibilità, la compensazione della propria emissione carbonica è un argomento imprescindibile per qualsiasi attività”. In realtà, quella del bambù gigante rappresenta una risorsa di filiera perfettamente sostenibile. Che può diventare una vera e propria “asset class” sia per agricoltori già attivi o proprietari terrieri in cerca di finalità fruttuose cui orientare
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i propri terreni. Il bambù in fatti tecnicamente è un’erba: impiega sette-otto anni per arrivare a piena maturazione, poi può essere tagliato e ricrescere in 4 mesi, a differenza di un albero che, tagliato, va ripiantato e ricresce dopo oltre un decennio. Il bambù ha 1600 usi industriali noti: Forever Bambù punta sulla produzione di bioplastica, utilizzando fino all’80% di bambù, in blend con polipropilene vergine o riciclato o addirittura con il mais, per creare una “non-plastica” completamente naturale. Ciò consente di stoccare la CO2 in oggetti durevoli, completando il ciclo di carbon offset. “Le
bioplastiche si possono realizzare anche con altre materie prime naturali ma il ciclo di vita del bambù e la sua potenzialità per il carbon offset sono sbalorditive. Per questo l’ho scelto, progettando una mia seconda vita imprenditoriale dopo aver creato, sviluppato a ceduto al colosso Enervit la mia prima impresa, la catena di negozi di integratori alimentari Vitamin Store. Mi ha spinto a rimettermi in gioco è stato il desiderio di fare qualcosa che avesse almeno due caratteristiche: essere un progetto nel mondo green, per aiutare il Pianeta, e che durasse nel tempo come il bambù che vive 100 anni”.
è anche un modo limitato e inaffidabile di affrontare il cambiamento climatico. Abbiamo un pessimo curriculum per quanto riguarda gli sforzi di riforestazione compiuti finora». Proprio gli Stati Uniti hanno prodotto circa 5,8 miliardi di tonnellate di emissioni lo scorso anno. Per assorbirle, bisognerebbe dedicare quasi 155 milioni di ettari, ovvero ben oltre il doppio dell’area del Texas, alla piantumazione di nuovi alberi. Ma tornando a Draghi, il premier a proposito di cattura del carbonio ha parlato esplicitamente di «tecnologie innovative». Il riferimento è alla cattura e stoccaggio del carbonio (Carbon capture and storage, Ccs), che ha lo scopo di togliere dall'atmosfera l'anidride carbonica prodotta da industrie e centrali elettriche e depositarla nel sottosuolo, in modo da ridurre le emissioni di gas serra. «Quella per la cattura del carbonio è una tecnologia che farà grandi passi avanti» mette in evidenza Meda, «credo che darà vantaggio alle società petrolifere tradizionali, che si ritroveranno qualche linea di business che grazie a questa tecnologia potrebbe tornare profittevole». Molto attiva in materia è l’Eni, con il centro ricerche di San Donato Milanese e quello per le energie rinnovabili e l'ambiente di Novara, che per la fase di cattura sta sviluppando sistemi che utilizzano liquidi ionici, più efficienti di quelli convenzionali basati sulle ammine. Per lo stoccaggio i ricercatori dell’Eni stanno ottimizzando tutte le fasi del processo, dal trasporto all’interazione fluido roccia ai sistemi di monitoraggio dei giacimenti, al fine di rendere la tecnologia più efficiente e facilitarne l’applicazione su larga scala. Eni punta a creare uno dei maggiori hub al mondo per lo storage di CO2 nonché il primo nel Mediterraneo al largo di Ravenna. La riconversione a siti di stoccaggio esclusivo e permanente di CO2 dei giacimenti esauriti dell’Adriatico, che non produrranno più gas naturale, e il riutilizzo di una piccola parte delle infrastrutture esistenti, permetteranno per Eni di offrire a costi molto competitivi una soluzione rapida e concreta per la riduzione delle emissioni del settore industriale italiano. In particolare, la Ccs rappresenta l’unica opzione immediatamente disponibile per quei settori
Angelo Meda, responsabile azionario di Banor Sim: «Dal 2030 al 2040 si potrà iniziare l'utilizzo in larga scala delle centrali nucleari di nuova generazione»
Eni lavora alla riconversione a siti di stoccaggio esclusivo e permanente di CO2 dei giacimenti di gas ormai esauriti dell’Adriatico cosiddetti “hard to abate” come cementifici, acciaierie, stabilimenti chimici, per i quali una considerevole parte delle emissioni di anidride carbonica è legata al processo industriale e quindi non può venire evitata per esempio ricorrendo all’elettrificazione o alle rinnovabili in genere. Alla luce dell’importanza del progetto, e anche delle parole di Draghi, appare quindi sorprendente, per non dir di peggio, che l’hub di Ravenna non abbia ricevuto alcun finanziamento dal Pnrr. «Lo abbiamo detto e scritto più volte: da una parte si scrive che occorre sostenere l’economia circolare basata su quella verde, e dall’altro si rinuncia a farlo come dimostra il caso in questione» ha commentato il segretario generale di Uiltec Paolo Pirani. Da Cop26 emergono dunque nuove suggestioni di investimento. Ma ci vuole cautela. «Quello che è importante capire è che non esiste una strada sola, ne esistono potenzialmente tante» rimarca il responsabile azionario di Banor Sim, «scommettere solo da una parte è rischioso, si rischia di essere sulla strada sbagliata: si dovesse trovare una tecnologia efficiente per la cattura del carbonio, per esempio, il nucleare o l’idrogeno potrebbero subire grandi colpi. È un mondo in cui la tecnologia fa la differenza, difficile prevedere in quale direzione. Quindi non bisogna avere tutte le uova in un solo paniere, si rischia di essere come un negozio fisico distrutto da Amazon». novembre 2021
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focus COP 26 LA SFIDA DEL COLOSSO ASSICURATIVO
Axa accelera sulla transizione di Rosaria Barrile
La riduzione della carbon footprint sarà accompagnata anche da investimenti green per ben 26 miliardi di euro entro il 2023
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urante i giorni della Cop 26 di Glasgow, Axa ha colto l’occasione per annunciare un rafforzamento del suo impegno per combattere il cambiamento climatico e proteggere la biodiversità: il gruppo, che ha assunto la leadership europea nel settore assicurativo sui temi della sostenibilità promuovendo e guidando la Net-Zero Insurance Alliance, ha escluso nuovi investimenti diretti in azioni e obbligazioni societarie nei mercati sviluppati in società petrolifere e che producono gas, che operano nei servizi upstream, nei giacimenti o nei sottosettori a valle. Axa non investirà più direttamente né fornirà alcuna copertura assicurativa alle società la cui produzione deriva per più del 30% dal fracking e da petrolio e gas derivante da scisto. La riduzione della propria carbon footprint del 20% entro il 2025 sarà inoltre accompagnata da una serie di investimenti pari a 26 miliardi di euro entro il 2023 in aumento rispetto ai 24 annunciati a fine 2020. A spiegare il perché di questa accelerazione è Thomas Buberl, Ceo Global di Axa: «L’emergenza climatica ci impone di intensificare le nostre azioni e sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. In futuro Axa intende concentrare il proprio sostegno solo a favore delle imprese che avranno strategie più ampie e credibili». La traiettoria “Net Zero” per Axa è infatti una priorità definita all’interno del Piano Industriale “Driving Progress 2023” che tra i cinque pilastri strategici include, oltre alla crescita dei risultati finanziari e alla semplificazione della customer experience, il mantenimento della posizione di leadership “a sostegno alla transizione climatica”. In modo coerente con la strategia definita a livello global, Axa Italia ha svolto un ruolo da apripista a livello europeo per quanto riguarda i progetti dedicati alla salvaguardia dell’ambiente e dei mari, aderendo al “Decennio delle Scienze del Mare per lo 28
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Sviluppo Sostenibile (20212030)” promosso dalle Nazioni Unite. «Già dal 2017 documentiamo in maniera organica gli interventi e i progetti in grado di generare un impatto positivo all’interno del Report di Sostenibilità che viene realizzato coinvolgendo la maggior parte della GIACOMO GIGANTIELLO, CEO AXA ITALIA popolazione manageriale», precisa Giacomo Gigantiello, Ceo di Axa Italia. «Solo sul fronte del climate change l’impegno di Axa Italia nel 2020 si è tradotto in scelte tangibili quali per esempio l’approvvigionamento del 100% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili e l’abbassamento delle emissioni di CO2 totali equivalenti registrate per dipendente pari al 48,7% rispetto all’anno precedente». Il climate change è solo una delle dimensioni attraverso cui si esplica l’impegno verso la sostenibilità della compagnia assicurativa in Italia, che comprende anche la salute e la prevenzione, l’inclusione e l’empowerment femminile. «Abbiamo realizzato un ecosistema sanitario completamente integrato che prevede sia centri diagnostici di proprietà, sia il potenziamento dei servizi digitali estesi a tutti i privati cittadini e non solo ai clienti Axa», aggiunge Gigantiello. «Le azioni a favore dell’empowerment femminile ci vedono impegnati a favorire l’imprenditoria, con Angels for Women in partnership con l’incubatore di startup Impact Hub Milano, l’eguaglianza di genere e il supporto alle le donne vittime di violenza».
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L'INTERVENTO
Come riconoscere i leader del clima di Simon Webber*
Fissare target ambiziosi non basta, servono piani dettagliati sulle modalità con cui concretamente raggiungerli
L'
urgenza di fronteggiare il cambiamento climatico è ancora più evidente dopo gli eventi della scorsa estate, come gli incendi e le alluvioni in Turchia, Canada, Cina o Germania. Tali eventi meteorologici estremi diverranno sempre più frequenti. Occorre intervenire tempestivamente per ridurre le emissioni di gas serra e limitare il rialzo delle temperature a 2°C (preferibilmente 1,5°C). Cosa significa per gli investitori? Sempre più investitori vogliono investire in strategie in linea con una rapida decarbonizzazione. Dallo Studio 2021 di Schroders emerge che per il 21% degli investitori istituzionali il rischio climatico ha esercitato una forte influenza sulle decisioni di investimento (in netto aumento dall’8% nel 2020). Investire nella decarbonizzazione non significa selezionare solo le società che contribuiscono direttamente alla transizione energetica. Le aziende a bassa intensità di carbonio, in base alle emissioni scope 1 (causate direttamente) e 2 (legate all’energia utilizzata dall’azienda), iniziano già a beneficiare di un premio di valutazione rispetto ai concorrenti con emissioni più elevate. Le società stanno diventando via via più ambiziose: sempre più spesso i target tengono conto delle emissioni scope 3, quelle indirette lungo la filiera, generate dai fornitori o dall’utilizzo dei prodotti venduti. È chiaro che la leadership climatica si trasformerà presto da puro costo a reale vantaggio competitivo. Chi investe in tali società potrebbe beneficiare di performance migliori e al contempo essere rassicu-
rato dal fatto di aver contribuito alla decarbonizzazione. Inoltre le aziende leader in ambito climatico potrebbero presentare minori rischi di investimento. Individuare un leader climatico Si definisce leader climatico una società con piani di decarbonizzazione ambiziosi, in linea con l’Accordo di Parigi. Come riconoscerlo? In primo luogo, vagliamo l’universo azionario globale alla ricerca di società che mirano a diminuire l’intensità delle emissioni dell’80% entro il 2030. Poi incrociamo i dati forniti dalle società stesse con altre fonti, tra cui l’iniziativa Science-Based Targets e la campagna Onu Race to Zero. Inoltre consideriamo anche le società con target inferiori all’80% ma che vantano chiaramente una leadership nel peer group e non escludiamo le “eccezioni”: aziende che potrebbero non avere target così stringenti ma comunque ambiziose. Leadership climatica in pratica Fissare target ambiziosi non basta, servono piani dettagliati sulle modalità con cui raggiungerli. E gli obiettivi non possono essere statici. Occorre fissarne sempre di nuovi e più ambiziosi. Un esempio di leader climatico è Microsoft: ha obiettivi ambiziosi e si è impegnata a valutarne regolarmente i progressi. Punta a utilizzare energia al 100% rinnovabile entro il 2025, a essere water positive entro il 2030, a ricevere la certificazione “zero waste” entro il 2030 e azzerare la deforestazione netta per tutte le nuove costruzioni. Mira a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2030 e ad azzerare l’impronta di carbonio creata fin dalla sua costituzione nel 1975 entro il 2050. Come? Con l’imposizione di una “carbon tax” interna che copre le emissioni di scope 1 e 2 e da quest’anno anche 3. In più investe un miliardo di dollari in un fondo per l’innovazione climatica per accelerare lo sviluppo di tecnologie per la riduzione, cattura e rimozione delle emissioni. È sulla buona strada verso la neutralità carbonica, ma per numerose altre aziende il processo è in fase molto meno avanzata. È un’opportunità lampante: la collettività e le autorità sono sempre più propense a penalizzare l’immobilismo e a premiare chi partecipa alla lotta ai mutamenti climatici, quindi tali investimenti possono creare valore. * Gestore del fondo Schroder ISF Global Climate Change Equity, Schroders novembre 2021
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focus COP 26 CASE HISTORY: NORDEA AM
Le nostre azioni concrete per le emissioni zero di Riccardo Venturi
Cerone, head of advisory distribution Italy, spiega a Investire le mosse del colosso della regione nordica nell’ambito di Cop26
C'
è chi parla di finanza sostenibile e chi la pratica. Nordea Asset Management, pioniere dell’investimento responsabile con 274 miliardi di euro di Aum, fa parte della seconda categoria. Un paio di esempi concreti lo dimostrano. La sospensione dell’acquisto di titoli di stato brasiliani per il dissenso sulla politica di deforestazione condotta dal presidente Jair Bolsonaro in Amazzonia. E la campagna condotta in Vietnam per ostacolare la costruzione della seconda centrale a carbone a Vung Ang. NAM ha guidato un consorzio di 25 investitori da quasi 5 miliardi di euro in Aum, che ha invitato proprietari, finanziatori e costruttori coinvolti a ritirarsi dal progetto e a porre fine a tutte le forme di coinvolgimento in nuovi progetti sul carbone a livello mondiale, citando i rischi finanziari e reputazionali connessi al clima. Un impegno che è valso a NAM il PRI Award 2021. In questa fase segnata dal grande evento Cop26, Investire ha intervistato Gianluca Cerone, head of advisory distribution Italy di Nordea Asset Management. Dottor Cerone, perché Cop26 è così importante? È chiara a tutti la necessità di passare dalle parole ai fatti. Dopo che sono trascorsi 6 anni da Parigi, questo incontro è particolarmente importante dal nostro punto di vista, soprattutto per 3 motivi. Primo, con Joe Biden gli Stati Uniti tornano nell’accordo dopo l’uscita di Donald Trump, ed è quindi lecito attendersi iniziative sul clima a livello globale e un maggior committment su queste tematiche. Secondo, il contesto pandemico ha aumentato il senso di vulnerabilità delle persone, rendendole più sensibili a tutte le tematiche connesse con il rapporto con il nostro pianeta. Terzo, veniamo da un contesto in cui la Commissione europea 30
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ha implementato l’Sfdr (Sustainable finance disclosure regulation, ndr) che impone obblighi sull’Esg per asset manager e altri operatori finanziari; è interessante vedere se ci saranno nuovi obblighi per altri attori allo scopo di raggiungere il target di non superare l’aumento di 1,5 gradi, stabilito dagli accordi di Parigi. Sono queste le tre tematiche per le quali investitori e addetti ai lavori hanno gli occhi puntati su Cop26. Quali sono le aspettative di Nordea? Cop26 prende le mosse dalla conferenza svolta a Madrid nel 2019. Allora Cop25 si concluse praticamente con un nulla di fatto, le negoziazioni si prolungarono a lungo ma non si riuscì a trovare un accordo, specie sui temi dei mercati di carbonio. Ma guardiamo ai fatti: veniamo dai 7 anni più caldi mai regi-
strati, con un innalzamento record del livello dei mari. Nordea da un lato ha una forte aspettativa su azioni concrete da intraprendere in tre direzioni: tagli delle emissioni, decarbonizzazione, deforestazione; dall’altro si aspetta un maggiore committment da parte dei governi nel raggiungere nel 2050 il target di zero emissioni, ma soprattutto una road map chiara di medio lungo termine su come completare questa carbonizzazione nei diversi settori, che a oggi non c’è. Inoltre speriamo in un maggiore impegno anche nell’implementazione di azioni obbligatorie a tutela del clima, allineate con le raccomandazioni della task force sulle Climate-related financial disclosures. Quali le azioni concrete di Nordea a favore dell’obiettivo zero emissioni? Nel 2020 per cementare il nostro committment con l’accordo di Parigi siamo stati tra i fondatori della Net Zero Asset managers initiative, insieme ad alcuni altri leader globali che si impegnano a sostenere l’obiettivo zero emissioni per il 2050. Oltre a ciò, le nostre azioni sanno essere estremamente concrete. Per fare un esempio, Nordea ha deciso di sospendere l’acquisto di bond brasiliani perché totalmente in contrasto con la gestione della tematica amazzonica. Ancora, si è recentemente conclusa l’azione con cui Nordea ha guidato un pool di 25 investitori da quasi 5 miliardi di asset nell’appello a istituzioni finanziarie e società coinvolte a ritirarsi dal progetto della costruzione di una seconda centrale a carbone a Vung Ang, in Vietnam. Un appello che è stato ascoltato, e che è stato premiato come una delle migliori attività di engagement a livello globale. Portiamo inoltre avanti la Climate record strategy, con lo sviluppo di soluzioni dedicate al climate change e alle politiche di disinvestimento legate al clima, nonché l’integrazione della gestione del rischio climatico in tutti i nostri processi di investimento. Ancora, la Fossil fuel policy, ovvero la nostra politica sui combustibili fossili allineata agli accordi di Parigi, consiste nel mantenere l’esposizione su aziende che aiutano ad accelerare la transizione verso l’energia pulita e parallelamente nel ridurla su quelle che vanno contro questa transizione energetica, uscendo quindi dal nostro radar degli investimenti.
A sinistra Gianluca Cerone, head of advisory distribution Italy di Nordea Asset Management. In basso una "word cloud" sul tema della sostenibilità
tegie che supportano gli obiettivi di Cop26? La prima si chiama Global climate and social impact. È stata creata pensando proprio alla Cop26, focalizzandosi da un lato sul mondo della green economy, dall’altro su tutte quelle soluzioni concrete legate ad alcuni temi sociali. Si cercano aziende che investano su 4 temi di investimento: salute e benessere, inclusione e pari opportunità, decarbonizzazione, sostenibilità a 360 gradi. La seconda, Global gender diversity, è una strategia focalizzata su aziende che dimostrano un alto livello di gender diversity e di uguaglianza nel management. Ricordo che l’uguaglianza di genere è uno degli obiettivi dell’Onu. Queste aziende hanno sovraperformato il mercato e dato così il via al lancio della strategia. Infine la nostra gamma core Star, che permette in maniera concreta di raggiungere il cosiddetto doppio obiettivo: finanziario e di ambiente e sostenibilità. La gamma Star punta proprio a un’azione di decarbonizzazione del portafoglio con un forte committment su aziende che seriamente percorrono la strada del net zero emission, sia lato bond che equity. Queste strategie, incorporando climate record strategy e fossil fuel policy, mirano a una sostenibilità di medio - lungo periodo, in linea con la net zero emission. A Nordea ritenete che l’aspetto ambientale e quello sociale vadano di pari passo? Abbiamo notato due aspetti. Da un lato a causa della pandemia si è scoperto che ecosistemi più forti si traducono in società molto più resilienti e viceversa. Dall’altro con una serie di survey condotte a livello europeo abbiamo visto che investitori, risparmiatori e asset manager sono convinti che il clima rimarrà un tema di investimento nel medio-lungo periodo, ma anche che la variabile sociale, e quindi l’attenzione all’uguaglianza e all’inclusione, è un possibile futuro megatrend. Questo soprattutto perché sono le fasce di popolazione più giovane, la cosiddetta generazione Z, che saranno gli investitori di domani, a prestare una fortissima attenzione a queste variabili. L’idea del Global climate social impact nasce dall’evidenza di avere davanti agli occhi questo legame, ma anche da queste connessioni di tipo finanziario, che creano legami tra le variabili ambientale e sociale, un po’ messi da parte fin qui. Esg è un acronimo che racchiude elementi più interconnessi di quanto non si pensi.
Ci descrive qualcuna delle vostre stranovembre 2021
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focus COP 26 LE Q&A DI BLUEBAY
Il ruolo degli investimenti per preservare la biodiversità di My-Linh Ngo*
La ricchezza di vita sulla terra è davvero a rischio. Ecco come l’asset management può contribuire alla migliore gestione di questo immenso patrimonio naturale
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a biodiversità è il nuovo rischio Esg a cui prestare attenzione? Non si tratta di un tema nuovo ma il ruolo cruciale che gli ecosistemi giocano nel garantire la prosperità economica sta diventando sempre più rilevante. La realtà è che la biodiversità sta peggiorando molto più rapidamente oggi di quanto non abbia mai fatto nella storia. Come investire nella biodiversità? Ci sono due approcci che possono essere usati in combinazione. Il primo riguarda la necessità di gestire i rischi di investimento legati alle preoccupazioni sulla biodiversità, con un’analisi di come aziende e governi sono esposti e stanno mitigando tali questioni. Nel caso in cui si ritenga che le pratiche adottate non siano adeguate, gli investitori dovrebbero avviare un engagement per incoraggiarne una gestione migliore. Il secondo approccio è considerare anche le potenziali opportunità generate da una gestione più responsabile del degradamento degli ecosistemi. Le aziende attente a questo tema potrebbero essere più resilienti a shock esterni e beneficiare di una forte reputazione. Vi si può investire in modo tematico, per esempio con i ‘vanilla bond’ di aziende che offrono soluzioni contro la perdita della biodiversità o i bond green o indicizzati alla sostenibilità, dove i capitali vengono diretti verso progetti di conservazione della biodiversità. Per esempio il nostro fondo BlueBay Impact-Aligned Bond investe in modo tematico nel debito, scegliendo le aziende che offrono soluzioni a sfide ambientali e sociali. Abilitare un’economia circolare è uno dei sette temi di investimento della strategia, e qui risiede la questione biodiversità. Con questo tema miriamo a investire in soluzioni che migliorano la qualità dell’ambiente riducendo rifiuti e inquinamento, mantenendo i materiali e i prodotti in uso e promuovendo la stewardship dei sistemi naturali. Un’area in cui vorremmo investire di più in futuro ad esempio è la gestione sostenibile di terra e oceani. 32
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Nella foto My-Linh Ngo, head of Esg investing & portfolio manager di BlueBay Asset Management
Si può dire che cambiamento climatico e biodiversità siano due facce della stessa medaglia? Il cambiamento climatico ha ricevuto molta più attenzione, ma si può dire che i due temi siano interconnessi, quindi una buona gestione di uno implica prendersi cura anche dell’altro. Fortunatamente, negli ultimi 18 mesi il focus sulla necessità di non degradare l’ambiente naturale, essenziale per la prosperità economica e il benessere sociale, è aumentato. L’attenzione e l’azione sulla biodiversità sta aumentando, spinta sia dalla crisi climatica che dal Covid. La Cop26 riconosce l’importanza della natura e uno dei temi chiave è garantire che gli scambi commerciali si basino su supply chain sostenibili nel settore alimentare, con l’obiettivo prioritario di fermare la deforestazione. Un altro evento importante è stato la Cop15 sulla biodiversità. Nel corso della seconda parte dell’evento, previsto per aprile-maggio 2022, si mirerà a finalizzare un nuovo accordo per gestire la biodiversità, con obiettivi al 2030 e al 2050, così come politiche nazionali. Si stima che per porre fine al declino della biodiversità saranno necessari una media di 711 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Cosa può fare il settore degli investimenti? L’industria può giocare un ruolo chiave, incoraggiando le aziende a considerare nuovi modelli di business e dimostrando che ciò può portare a un vantaggio competitivo. Il ruolo degli investitori obbligazionari nei prossimi anni sarà particolarmente importante, grazie a un approccio non solo esclusivo ma anche attivo sul tema ambientale. *head of Esg investing & portfolio manager di BlueBay Asset Management
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focus COP 26 COP26 E FINANZA
Se i politici sul clima deludono i banchieri fanno sul serio di Ugo Bertone
I governi vengono meno agli impegni, Greta e gli altri attivisti reclamano, ma il Nobel Tirole rimane pessimista
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eno carbone, più alberi. Un freno al metano, più rinnovabili. E una promessa: niente più CO2 nell’aria. Quando? Beh, la data è da definire. Forse il 2030, la meta più ardita. O il 2050, suggerito dalla Cina. Magari il 2070, come azzarda l’indiano Modi, consapevole che, come diceva Keynes, nel lungo termine saremo tutti morti. I leader del mondo, fatta una scorpacciata tra tv, girotondi e selfie con Greta Thurnberg, hanno lasciato dopo una settimana Glasgow affollata di giornalisti e di manifestanti per la Cop-26 dedicata all’ambiente, passando la parola ai tecnici, gli sherpa che hanno impiegato altri sei giorni per tentare di tradurre in impegni precisi gli accordi di principio e i buoni sentimenti più o meno sinceri dei leader, strombazzati su giornali e tv. Impresa mica facile perché, come ebbe a notare il premio Nobel Jean Tirole nel 2008, dopo l’edizione di Copenhagen di quell'anno, «gli ambiziosi annunci di abbattimento da parte di governi e organizzazioni sovranazionali che si fanno in questi casi servono prevalentemente a placare la pubblica opinione ed evitare pressioni internazionali ma ottengono poco in termini di promozione degli obiettivi prestabiliti, gli interessi nazionali sono più indicativi delle facili promesse». È andata così anche stavolta? Chi s’intende di problematiche Esg non nasconde le sue perplessità. Ecco come la pensa David Czupryna, head of Esg Development di Candriam. «L’accordo sul mercato», dice, «è significativo ma senza la firma della Cina e della Russia è difficile pensare che possa portare ad una riduzione globale consistente». Per quanto riguarda il carbone, poi, ci sono stati passi avanti. «Purtroppo però», dice l’analista , «non sono stati specificati i dettagli sul modo in cui farlo e inoltre mancano all’appello alcuni dei maggiori consumatori di carbone a livello globale - Cina, India e Australia. La Cina consuma il 50% del carbone mondiale e, anche se ha già annunciato un piano per ridurre le emissioni di gas serra, non sono presenti impegni vincolanti riguardo la chiusura delle centrali a carbone, così popolari nei Paesi in via di sviluppo perché si tratta di una fonte di energia 34
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Il premio Nobel Jean Tirole è stato critico sugli annunci propagandistici dei governi circa la riduzione delle emissioni
economica e domestica. Possiamo chieder loro di rinunciarci solo se li forniamo dei mezzi finanziari e della tecnologia per sviluppare le rinnovabili». Fondi che, dall’accordo di Parigi in poi, sono stati più volte promessi ma che per ora non si sono visti. E così il carbone, incurante degli accordi per eliminarlo una volta per sempre, quest’anno va a gonfie vele, al secondo posto tra le fonti energetiche più usate, dopo aver scavalcato il nucleare. E non è l’unico paradosso che si è consumato in un anno drammatico per il clima che rischia di non essere un’eccezione: l’impennata del gas naturale, combinata con inondazioni, siccità ed altre calamità hanno fatto rimettere nel cassetto tanti buoni propositi dei governi, comprese le tasse per finanziare la transizione verde.
Per dirla con Alberto Clò, economista ed ex ministro dell’Industria, «la gravissima crisi energetica che sta flagellando il mondo intero e di cui non vi è piena consapevolezza ha spinto la generalità dei paesi ad adottare decisioni opposte a quelle coerenti con gli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale». E’ accaduto in Cina ma anche in Gran Bretagna dove non si è esitato per sopperire alla bassa ventosità e scarsità di metano a rimettere in moto vecchie centrali a carbone. Idem in Germania che ha accresciuto i suoi impieghi di carbone del 30%-40%. O negli Stati Uniti dove il Presidente Joe Biden è stato costretto dal Congresso a dimezzare le immani risorse previste nel provvedimento “Building Back Better” sacrificando la maggior parte del “Clean Electricity Performance Program”. E che dire della buona volontà dei leader? Si deve credere al Joe Biden che pianta gli alberi o a quello che tenta di far pompare agli sceicchi più petrolio per contenere i prezzi della benzina in patria, consapevole che nessun presidente è stato rieletto a fronte di prezzi superiori ai 4 dollari per gallone? E le critiche possono proseguire. Ma il cinismo rischia di far perdere di vista la novità che (al di là dei risultati che si sono prodotti a Glasgow) hanno ormai cambiato nel profondo la sensibilità dell’opinione pubblica, mondo del risparmio compreso. Al punto da far sospettare che quel che non riusciranno a fare i politici, costretti a tener conto degli umori a breve degli elettori (non dimentichiamo che la protesta francese dei gilets jaunes è nata in reazione ad una tassa antinquinamento) potranno farlo i banchieri. Perché l’investimento verde, oltre ad essere necessario, può essere conveniente. Inquinare, invece, non lo è più. I buoni propositi, insomma, s’incrociano ormai con i fatti. Ad oggi si contano più di 600 Etf sostenibili a livello globale rispetto ai 30 scarsi di dieci anni fa. Ma il quadro andrà rapidamente aggiornato dopo che Mark Carney, ex governatore della Banca d’Inghilterra, ha annunciato la missione della Gfanz, cioè la Glasgow Financial Alliance for Net Zero, un patto tra i grandi della finanza, banche assicurazioni, fondi di investimento e fondi pensione, private ed altri Big del mercato, con un obiettivo: azzerare il CO2 entro il 2050. «Stavolta non abbiamo scuse», ha detto Carney «perché i soldi ci sono». Ovvero 130 mila miliardi di dollari messi sul tavolo da 450 gruppi basati in 45 Paesi disposti a destinare il 40% delle risorse monetarie mondiali alla lotta al riscaldamento per i prossimi tre decenni. È come mettere in campo per una generazione l’equivalente di dieci piani Marshall. La chiave di volta della strategia l’ha spiegata lo stesso Carney: «Abbiamo adesso l’attrezzatura necessaria per spostare il cambiamento climatico dai margini all’avanguardia della finanza, così che ogni decisione finanziaria ne dovrà tener conto». Insomma nessuno dei protagonisti del mercato potrà fare a meno di confrontarsi con il business del futuro, pena il rischio di finire out, colpito dall’ostracismo degli investitori grandi e piccoli
David Czupryna, head of Esg Development di Candriam. In basso Alberto Clò, economista ed ex ministro dell'Industria
oltre che dal gotha del mercato perché a fianco di Carney, l’unico in grado di reggere il confronto con il carisma di Mario Draghi, ai vertici del Gfanz figurano tra gli altri Michael Bloomberg e Larry Fink, il numero uno di Black Rock. Funzionerà la formula? Gli scettici non mancano, un po’ perché non è sempre facile misurare la correttezza ambientale di un investimento. Ma qualche passo, tipo la formazione dell’International Sustainability Standards Board (o ISSB), che avrà il compito di sviluppare principi comuni di sostenibilità rivolti ai mercati finanziari, è già stato fatto. Altri seguiranno a breve anche se, avvertono Lawrence Fink di BlackRock e Jamie Dimon di JP Morgan, bisogna diffidare delle mode: azzerare la ricerca di nuovi giacimenti di petrolio, come chiede l’Agenzia Internazionale per l’Energia, rischia di consegnare il monopolio di petrolio e gas, ancora necessari, ad Arabia Saudita e Russia o a compromettere la ripresa post pandemia. Ma l’attenzione per l’ambiente è ormai troppo importante per essere liquidata come una moda passeggera. Sono cambiate le preferenze degli investitori, particolarmente dei più giovani generazioni. È cresciuta l’offerta di prodotti che ti permettono di scegliere, ad esempio, tra un motore che inquina o un’auto elettrica piuttosto che rivolgersi a tecnologie che utilizzano meno energia e meno risorse naturali. A questi la crescita della finanza sostenibile (o Esg): oggi in Europa e negli Stati Uniti i bond che finanziano esclusivamente progetti ambientali, sociali o di governance sono cresciuti oltre il 25% e hanno raggiunto i 500 miliardi di dollari, mentre simmetricamente i capitali affluiscono con crescenti difficoltà ai progetti energivori che nessun investitore istituzionale sembra volere più finanziare.
Clò: «La gravissima crisi energetica che sta flagellando il mondo induce furbizie» novembre 2021
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OBBLIGAZIONI AL BIVIO
Inflazione alta e lunga, sui bond una spada di Damocle di Chiara Merico
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ella parte finale dell’anno l’inflazione più alta delle attese è il fattore decisivo per le scelte degli investitori in reddito fisso: In questo scenario, Investire ha chiesto a una serie di esperti delle maggiori case di gestione quali sono le prospettive per l’asset class.
Per i titoli di Stato una forte impennata dei prezzi potrebbe rappresentare una seria minaccia. Nonostante le dinamiche inflattive le emissioni dei Paesi dell’Europa meridionale ed emergenti potrebbero offrire sorprese positive. Più opportunità nel debito societario. Vediamo dove
Picco inflattivo, quanto durerà? Per valutare le obbligazioni corporate e governative è fondamentale capire se questo picco sia transitorio o «diventerà una caratteristica pregnante dell’economia globale», come spiega Tad Rivelle, co-chief investment officer fixed income di TCW. Per il gestore fenomeni come «la carenza di forza lavoro, di diverse materie prime, di semiconduttori o automobili, così come i colli di bottiglia nei porti di tutto il mondo, negli ultimi mesi sono peggiorati. Normalmente ci si può affidare alle forze del libero mercato per aggiustare gli squilibri tra domanda e offerta. Il fatto che ciò non sia avvenuto suggerisce l’esistenza di una spiegazione più profonda, che ha le basi nell’ingente espansione della politica fiscale statunitense, in combinazione con i numerosi acquisti di asset da parte delle banche centrali di tutto il mondo avanzato». Secondo l’esperto, «quello di un’inflazione più alta più a lungo è diventato uno scenario più plausibile visto il contesto delle politiche. Di conseguenza, c’è il rischio che i tassi di mercato crescano, che sia per volontà propria o in risposta alle banche centrali che alzano i tassi o evidenziano un bisogno proattivo di aumentarli» e «l’inflazione, qualora dovesse persistere, rappresenterebbe una seria minaccia ai mercati sovrani». In più, osserva Rivelle, «l’inflazione più
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elevata ha generato pressioni sui ricavi di un gran numero di aziende. Considerando che il debito corporate – sia investment grade che high yield – sta scambiando sui livelli più bassi di spread visti nel pre-pandemia, riteniamo sfavorevole il rischio/ rendimento per le allocazioni del debito corporate».
Nelle foto sotto da sinistra Tad Rivelle, co-chief investment officer fixed income di TCW; e Andrew Lake, head of fixed income di Mirabaud Am
Titoli di Stato, troppo sensibili ai tassi Come si deve muovere chi investe in titoli di Stato? «I due rischi principali relativi al reddito fisso sono il rischio di credito e il rischio di tasso d’interesse», risponde Andrew Lake, head of fixed income di Mirabaud Am. «I titoli di Stato non devono confrontarsi con il rischio di credito, almeno non nel mondo sviluppato. È il rischio di tasso d’interesse, non il rischio di default, che gli investitori devono tenere presente quando soppesano la possibilità di investire in titoli di Stato». In tempi recenti «i titoli di Stato del mondo sviluppato hanno offerto rendimenti sempre minori. Questo ha costretto gli investitori a cercare rendimenti altrove: nell’ambito del reddito fisso la scelta è ricaduta perlopiù sull’high yield e su investimenti meno liquidi, che offrono rendimenti maggiori». Per Lake «nonostante i bassi rendimenti, il continuo calo dei tassi di interesse degli ultimi anni ha nel complesso rappresentato un fattore di supporto per i rendimen-
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ti totali dei titoli di Stato. Ora gli investitori devono affrontare il problema di un’inflazione che, dopo il Covid-19, ha cominciato ad aumentare sensibilmente, dopo anni in cui era rimasta su livelli molto bassi». In questo quadro «avrebbe senso cercare altri investimenti con un rendimento maggiore e minor sensibilità ai tassi d’interesse, finché non avremo maggiori elementi riguardo alla traiettoria di inflazione e tassi d’interesse». «Le pressioni inflazionistiche più durature stanno complicando il compito delle banche centrali dei mercati sviluppati e stanno sostenendo una strategia di duration sottopesata sia negli Stati Uniti che nell’Eurozona», sottolinea Nicolas Forest, global head of fixed income di Candriam. «La politica monetaria ha raggiunto un punto di inflessione e i prossimi due mesi saranno ricchi di sviluppi». Btp a 10 anni meglio dei Bund «Dato che le dinamiche di inflazione e crescita variano in funzione delle diverse aree geografiche, prevediamo che nel 2022 le politiche monetarie non saranno sincrone», osserva Cosimo Marasciulo, deputy head of euro fixed income di Amundi. «La Fed potrebbe iniziare a rialzare i tassi, mentre la Bce dovrebbe mantenere una politica monetaria accomodante in quanto l’inflazione rimane su livelli inferiori al target». In questo quadro, «le prospettive per i titoli governativi in Usa ed Eurozona rimangono modeste anche per via di tassi reali ancora su livelli storicamente molto bassi. I titoli periferici nell’area euro saranno supportati
Nelle foto sopra da sinistra Nicolas Forest, global head of fixed income di Candriam; e Cosimo Marasciulo, deputy head of euro fixed income di Amundi. Nella foto in basso Nigel Jenkins, responsabile obbligazionario mandati globali di Payden & Rygel
non solo dalla politica monetaria accomodante ma anche dalla piena implementazione del Next Generation EU. In particolare, ci aspettiamo prospettive di crescita in miglioramento in quei Paesi che più ne beneficiano, come l’Italia». Secondo Nigel Jenkins, responsabile obbligazionario mandati globali di Payden & Rygel, per i rendimenti dei titoli di Stato europei è «probabile un rialzo nei prossimi trimestri. I rendimenti dei Bund tedeschi a 10 anni dovrebbero salire sopra lo zero già nel 2022, per la prima volta dopo la metà del 2019. Le obbligazioni continueranno comunque a rappresentare un valido ammortizzatore contro l’eventualità di una riduzione del valore delle azioni e di altre asset class più rischiose che potrebbe verificarsi a seguito di eventuali nuove restrizioni legate al Covid». In questo contesto, secondo Jenkins, «la maggioranza dei titoli di Stato dell’Europa meridionale, Italia inclusa, manterrà vantaggi di rendimento relativi rispetto ai Bund tedeschi, con una conseguente remunerazione maggiore rispetto ai tassi di liquidità europei. Il rendimento dei Btp italiani a 10 anni, per esempio, dovrebbe attestarsi intorno allo zero nei prossimi 12 mesi, sovra-performando rispetto al decennale tedesco di circa l’1%». Usa, tapering vicino Negli Usa la politica della Fed, aggiunge Flavio Carpenzano, investment director per il reddito fisso di Capital Group, «a nostro avviso rimarrà aggressiva sugli acquisti di asset e più accomodante sui tassi di interesse. A meno che le condizioni economiche non peggiorino in modo significativo, ci aspettiamo un tapering prima della fine dell’anno, anche se un rialzo dei tassi prima della fine del 2022 è piuttosto improbabile». Date le «prospettive sull’inflazione e sui tassi, un’allocazione ai titoli Tips (Treasury inflation-protected securities, ndr) rimane prudente». Sul fronte del credito sovrano «i mercati emergenti hanno oggi dei prezzi bassi su base relativa rispetto al resto dell’universo del reddito fisso. Rispetto al debito societario dei mercati sviluppati, gli spread di credito sul debito sovrano in dollari Usa sono molto ampi e sono ancora significativamente al di sopra dei livelli pre-Covid-19», fa sapere Richard Briggs, investment manager mercati emergenti e debito in valuta forte di Gam. «I crediti che riteniamo offrano un valore particonovembre 2021
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aziende che mostrano fondamentali migliori».«Il mercato del credito è in generale piuttosto caro e quindi in questo ultimo trimestre del 2021 le opportunità di valore relativo e la differenziazione settoriale dovrebbero essere fonti di rendimento”, spiega Forest di Candriam, che continua «a favorire il credito Euro investment grade all’interno dell’universo aggregato in euro, poiché dovrebbe beneficiare di una politica monetaria della Bce che continua a essere accomodante, della carenza di offerta e dei forti fondamentali aziendali. I titoli finanziari rimangono un settore interessante, relativamente immune alla riduzione dell’offerta e alla crisi energetica. Inoltre, l’high yield europeo potrebbe subire una certa pressione dal lato dell’offerta», per cui, aggiunge, «coglieremo le opportunità essenzialmente sui titoli BB». larmente interessante includono Egitto, Ecuador, Ucraina e Pakistan, che dovrebbero essere in grado di migliorare gradualmente nel contesto attuale e sono meno vulnerabili a una crisi nel medio termine. Tra i mercati emergenti in difficoltà, lo Zambia e la Tunisia sembrano interessanti, mentre ci stiamo tenendo lontani da Sri Lanka, Etiopia, Turchia, Mozambico e soprattutto da El Salvador, dove riteniamo che i rischi non siano compensati nonostante gli alti rendimenti». Bond emergenti, ok Russia e Brasile «I bond governativi dei mercati emergenti hanno sofferto per il rafforzamento del dollaro, ma soprattutto per l’aumento dell’inflazione a livello globale che ha spinto le banche centrali dei Paesi Emergenti ad alzare i tassi di interesse», aggiunge Kieran Curtis, gestore obbligazionario mercati emergenti di Abrdn. «Dal nostro punto di vista, essere selettivi ha senso e ci aspettiamo che la sovra-performance arrivi da quei Paesi che hanno iniziato ad aumentare i tassi per primi, cioè Russia e Brasile. In America Latina, in particolare, pensiamo che i mercati prevedano un periodo prolungato di tassi d’interesse elevati che sarà difficile da raggiungere e quindi riteniamo opportuno aggiungere duration ai portafogli». Debito societario, dove sono le opportunità Cosa si prospetta invece per chi investe nel debito societario? «Nel 2022 ci aspettiamo politiche monetarie non sincrone, in quanto il quadro di inflazione e crescita presenta dinamiche differenti nelle varie aree geografiche: la Fed terminerà l’acquisto di titoli per la metà del 2022 e potrebbe iniziare a rialzare i tassi, mentre la Bce dovrebbe mantenere una politica monetaria accomodante in quanto l’inflazione rimane su livelli inferiori al target», sottolinea Marasciulo di Amundi. «In questo contesto ci aspettiamo che i titoli corporate investment grade rimarranno supportati all’interno dell’area euro grazie a una politica espansiva della Bce. Particolarmente interessanti sono i titoli subordinati emessi da aziende investment grade, che quindi godono del supporto della Banca centrale europaa, ma che offrono un rendimento aggiuntivo significativo rispetto ai titoli senior. Nell’ambito high yield la scelta delle singole emittenti sarà importante per poter beneficiare del potenziale miglioramento del rating per quelle 38
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Nelle foto sopra da sinistra Richard Briggs, responsabile mercati emergenti e debito in valuta forte di Gam; e Casey Goldmann, investment manager global corporate high yield di Gam
Occhio all’high yield soprattutto americano Per Carpenzano di Capital Group «i fondamentali dei corporate investment grade rimangono solidi. La leva finanziaria e i livelli di debito hanno continuato a diminuire rispetto ai picchi dell’era pandemica. Le aziende che hanno raccolto capitale nel mercato obbligazionario come precauzione durante la fase iniziale della pandemia stanno lentamente ripagando i loro debiti, aiutate dal miglioramento degli utili». Per l’esperto «anche se l’high yield è meno attraente a livello assoluto, su base relativa rimane più attraente di altri mercati del reddito fisso e meno esposto a un potenziale rallentamento della Cina. Per gli investitori alla ricerca di un reddito più elevato, l’high yield può ancora essere un’opzione interessante rispetto ad altre aree di reddito fisso con spread più bassi e di durata più lunga». «Il cambiamento delle politiche in Cina avrà ripercussioni sul resto del mondo e per i mercati del credito», osservano Sander Bus e Victor Verberk, co-responsabili del team credito di Robeco. «Con gli spread ancora vicini ai minimi storici, ci sembra ragionevole mantenere un posizionamento prudente nei mercati del credito. Al margine, preferiamo i titoli delle istituzioni finanziarie ad altri segmenti dell’obbligazionario». Secondo Casey Goldmann, investment manager global corporate high yield di Gam, «a oggi l’high yield globale ha sovraperformato le altre classi di reddito fisso grazie alla crescita economica dovuta alle riaperture, ai tassi di default in forte calo, al rischio implicito
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di default, alla minore sensibilità ai tassi di interesse. Mentre vediamo poco valore rimasto in tutto l’universo Investment grade (Ig) occidentale ai livelli record di oggi e un’elevata sensibilità ai tassi d’interesse, lo spazio high yield di qualità superiore negli Stati Uniti sembra interessante». Inoltre, spiega l’esperta, «il credito societario europeo sembra molto stressato. Nelle società dei mercati emergenti, gli spread sono attualmente ampi rispetto all’high yield statunitense, con un rapporto che è quasi il più ampio degli ultimi 10 anni. Le opportunità e il rischio variano a seconda delle regioni e dei settori, ma gli spread mediamente più ampi offrono aree di valore». Emergenti sugli scudi Le opportunità nel breve e medio periodo «rimangono interessanti e continuiamo a monitorare il rischio di aumento della volatilità», aggiunge Mathieu Magnin, senior investment manager nel team fixed income di Pictet Asset Management. «Le iniezioni di liquidità senza precedenti effettuate dalle banche centrali hanno un forte impatto sul quadro tecnico dei mercati del credito, in particolare sui titoli investment grade. Gli investitori operano tuttora una netta distinzione fra titoli idonei e non idonei e ora la domanda sembra orientata verso le emissioni di categoria inferiore». In un contesto che vede «i rischi macro intensificarsi: banche centrali aggressive, forza del dollaro Usa, Cina, inflazione ed evoluzione degli effetti base post-2020» la casa di gestione continua «a puntare su un approccio flessibile e dinamico, che dovrebbe consentirci di generare ancora rendimenti, soprattutto alla luce dei mutevoli rischi sui mercati globali del credito, a nostro avviso sempre più onerosi». «Nel 2021 anche l’obbligazionario corporate dei mercati emergenti si è trovato in difficoltà, nonostante abbia sovra-performato rispetto alla controparte sovrana», chiarisce Anthony Kettle, senior portfolio manager Emerging Markets debt di BlueBay Asset Management. «Questo non sorprende più di tanto, poiché in uno scenario di tassi
d’interesse in crescita, i bond corporate dei mercati emergenti spesso reagiscono meglio in termini di total return grazie a una duration più breve. Anche la crescita, seppur in ritardo rispetto ai mercati avanzati, ha visto un continuo miglioramento, il che ha aiutato alcuni dei settori che ne dipendono maggiormente, come oil&gas, metallurgico-minerario e trasporti». Guardando al futuro, per il gestore «molti dei temi che hanno pesato sui mercati emergenti del credito nel 2021 potrebbero essere vicini alla fine. Mentre quest’anno il trade-off tra crescita e inflazione è stato un evidente vento contrario, vale la pena notare che diverse banche centrali dei mercati emergenti sono già molto avanti nei cicli di aumento dei tassi. Allo stesso tempo, uno dei driver inflazionistici, ossia il prezzo dell’energia e in particolare del petrolio, è un fattore chiave per l’export di numerosi Paesi emergenti a più alto rendimento: ciò implica quindi un miglioramento delle partite correnti e un beneficio fiscale per molti di essi. Così, secondo Kettle «pur essendo stati in ritardo nel 2021, crediamo che sia i mercati sovrani del credito che quelli corporate nei Paesi emergenti si dimostreranno più resilienti nei prossimi mesi, in quanto il notevole miglioramento delle valutazioni e l’affievolirsi di alcuni dei maggiori venti contrari per l’asset class riporteranno l’attenzione degli investitori in quest’area».
IL MOVIMENTO DEI CORPORATE BOND CRESCE IN ITALIA
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l mercato italiano dei corporate bond è in crescita: nel 2020 ha raggiunto i 31 miliardi di euro con un tasso di crescita Cagr del 32,9%. La dimensione è tuttavia ancora ridotta: rappresenta solo il 2% del Pil nazionale contro una media del 3,8% in Europa. Sono alcune delle evidenze emerse dalla ricerca Il potenziale di emissioni obbligazionarie per le Mid Cap non quotate, curata da Cerved Rating Agency ed Equita. La spinta alla crescita dei corporate bond è data anche dalle migliori condizioni di finanziamento e dal significativo calo del costo medio del debito emesso negli ultimi 3 anni, che ha toccato l’1,8%. Da parte sua, il governo italiano ha stimolato questo mercato, introducendo benefici fiscali per i prodotti come Pir e Pir alternativi, nati proprio per veicolare il risparmio delle famiglie verso le Pmi. Il mercato ha poi un enorme potenziale di sviluppo: Cerved Rating Agency ha selezionato 661 imprese italiane non quotate con un rating investment grade, un gruppo di mid-cap eccellenti che potrebbero
fare ricorso al mercato dei capitali per sostenere gli investimenti necessari alla crescita organica e finanziarie le operazioni di fusione e acquisizione. A questo si aggiunge la possibilità di ottimizzare ulteriormente la propria struttura finanziaria sostituendo parte del debito bancario a breve termine con debito obbligazionario a medio/lungo termine per circa 15 miliardi di euro, che potrebbe salire a 158 miliardi con emissioni di debito aggiuntivo. «Il potenziale di offerta che emerge dallo studio incrocia condizioni di domanda e di contesto particolarmente propizie per proseguire quella crescita della componente obbligazionaria, che per le nostre imprese rappresenta ancora solo il 2% del Pil, quasi la metà della media europea», ha commentato Fabrizio Negri, ad di Cerved Rating Agency. «Il Pnrr è destinato ad abilitare una straordinaria stagione di investimenti; le imprese italiane potranno finanziarli aggiungendo agli schemi di finanza pubblica e al tradizionale canale bancario anche il ricorso al mercato obbligazionario».
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Tra gli italiani e le obbligazioni c’è ancora amore? di Nicola Ronchetti *
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li italiani hanno una passione per la liquidità, tanto che nel 2022 se non cambiamo rotta arriveremo ad avere 2.000 miliardi parcheggiati sui conti correnti. Solo il 25% dei nostri compatrioti si fida di investire il proprio denaro incurante dell’effetto inflattivo che ne sta erodendo il valore reale. La seconda passione degli italiani sono le obbligazioni (antico retaggio dei Bot?). Tra gli investitori italiani il rapporto tra investimenti in obbligazioni e in azioni fino a qualche anno fa era 80%-20%. Il crollo dei tassi ha spinto, più che in passato, gli italiani a cercare rendimenti negli investimenti azionari tanto che oggi il rapporto obbligazioni/azioni nel portafoglio medio dell’investitore italiano è 70%-30%. Ben lontano però da quello degli investitori anglosassoni che è mediamente più equilibrato o addirittura, come nel caso degli investitori statunitensi, nettamente sbilanciato a favore degli investimenti azionari. Perché le obbligazioni piacciono tanto agli italiani? Il primo motivo è che chi emette obbligazioni si impegna a corrispondere ai suoi sottoscrittori degli interessi tramite pagamenti fissi e periodici, e agli italiani la certezza della cedola piace tantissimo. Il secondo motivo è che, per chi sa aspettare, e su 40
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La passione per la liquidità dei nostri connazionali è sempre forte, mentre sembra appena affievolirsi nel caso dei bond. Che in realtà piacciono ancora e tanto ai risparmiatori per diverse buone ragioni questo gli italiani non sono i più virtuosi, c’è la maggior certezza del rimborso del capitale. In sintesi la prevedibilità dei flussi di interesse, la certezza del rimborso del capitale investito se portato a scadenza e, di norma, una volatilità minore delle azioni, fanno delle obbligazioni una classe di investimento ideale per preservare il capitale. Ma investire in obbligazioni significa anche far fronte al rischio tasso, ossia quello legato alle oscillazioni del mercato. Il rischio tasso è determinato generalmente da una mutata percezione dell’affidabilità della società o dello Stato che ha emesso il titolo. A seconda che il rating cresca o diminuisca, si ha una discesa o un aumento del tasso. Una variazione del tasso applicato all’obbligazione ha dirette conseguenze sul valore del titolo. E questo accade anche quando l’oscillazione interessa l’intero settore obbligazionario. Un aumento dei tassi nell’obbligazionario permette di reperire sul mercato titoli a condizioni migliori di quelli acquistati in precedenza. E in questo caso può essere conveniente procedere alla vendita prima della scadenza, per acquistare nuove obbligazioni a condizioni migliori. A patto però di accontentarsi di vendere le obbligazioni in portafoglio (che pagano interessi minori) a un prezzo più basso. Operazioni da affidare alle mani esperte di un consulente finanziario di fiducia, se non si vuole rimanere con un pugno di mosche. *Founder e ceo di Finer
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1. Fondi di investimento europei a lungo termine 3. Identità Digitale 4. Mercato regolamentato in cui si negoziano titoli 5. Risk premium 6. European plan 8. Titoli emessi da società italiane non quotate, tipicamente PMI 9. Consegnare i titoli 10. Investimento perfetto secondo Platone 12. Il costo reale di un prestito (sigla) 15. Fornitura di prodotti finanziari attraverso le tecnologie digitali 17. Quando si consegna un titolo 18. Unità digitale 19. Lo chiede il creditore al debitore 22. Un miliardo di miliardi 23. Centro assistenza fiscale 24. Rappresenta un numero trascendente 25. Aumenta con l’aumentare dei rendiementi 30. Bank Identification Number 32. Ritenuta d’acconto 33. Digital Trader
2. Piano individuale risparmio 4. Banca Regionale Europea 7. Laurea magistrale 9. I costi nei fondi di fondi 11. Titolo ( abbreviazione) 12. Indicatore dei costi di gestione dei fondi 13. Intelligent network 14. Titolo assicurativo collegato a eventi naturali (sigla) 15. Fondo Europeo per gli Investimenti 16. Impresa che assume l’impegno di amministrare i beni per conto terzi 20. Titolo che è meglio non avere 21. Intermediario Nazionale 23. Comitato dei trader 24. Un primo tentativo di portale interattivo 26. Associazione nazionale advisor 27. Andata e ritorno 28. Chi viene meno alla fiducia 29. Fiduciaria Digitale 30. Segnale di acquisto 31. Costo Totale del processo 32. Rendimento interno 33. Digital Relation human 34. Rapporto fiduciario
BITCOIN & CO.
Criptovalute, pro e contro Come sceglierle scansando le trappole di Giuseppe D’Orta
L’acquisto sulle piattaforme ha precise controindicazioni. Ma anche la possibilità di sottoscrivere contratti futures e Cfd basati sulla leva finanziaria non è esente da rischi. Meglio scegliere gli Etp che investono direttamente in cryptomonete a condizione che…
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ur con la tipica forte volatilità, il Bitcoin e le altre criptovalute proseguono a stazionare su quotazioni elevate e spesso registrano massimi storici. Investirci non è però agevole. Vediamone i motivi ed esaminiamo gli strumenti adatti.
I rischi di lasciare le crypto sulla piattaforma Il metodo più semplice per comprare è rivolgersi a una delle piattaforme di scambio di criptovalute. La più nota è Coinbase, le cui azioni sono anche sbarcate al Nasdaq il 14 aprile scorso. Pochi giorni dopo, il 30 aprile, la piattaforma Hotbit è stata hackerata, e non per la prima volta. Per settimane i clienti non hanno potuto accedere ai propri attivi depositati. Nell’estate 2020 c’è stato il furto - a un controvalore di 275 milioni di dollari - a Kukoin, società con sede nelle Seychelles e tra le prime dieci al mondo per scambi. Nel 2014 il caso della giapponese Mt Gox, nei cui portafogli gli hacker riuscirono a duplicare i Bitcoin per poi prelevarli: fu eclatante poiché ai tempi la piattaforma gestiva il 70% delle transazioni mondiali della crypto ancor 42
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oggi più famosa. Il controvalore della truffa-furto fu enorme, pari a 460 milioni di dollari. La società è fallita alla fine di quell’anno e il giudizio per il risarcimento è ancora in corso. Altri casi hanno riguardato Bitfinex nel 2016 e l’italiana Bigrail nel 2018. Insomma, c’è poco da discutere: lasciare le proprie criptovalute sulle piattaforme è troppo rischioso. I rischi possono essere legati alla piattaforma in sé, come per esempio il mancato accesso oppure la sospensione senza preavviso da parte delle autorità o anche – particolare noto a pochi - il decesso dell’amministratore, unico a conoscere le chiavi del cold wallet dove sono depositati (è successo a QuadrigaCX). Poi ci sono i rischi legati alla sicurezza. Le piattaforme di scambi in criptovalute sono obiettivo prediletto degli hacker, dato che i movimenti successivi al furto non sono rintracciabili, e sappiamo che in questi casi è solo questione di tempo prima che qualcuno riesca a intrufolarsi nella piattaforma. Non a caso, nel mese di luglio l’Fbi statunitense ha lanciato un allarme sulla recrudescenza degli attacchi di questo tipo. Come investire in criptovalute, allora? Per eliminare il rischio di sparizione, nel vero senso della parola, del proprio portafoglio di criptovaluta, numerosi broker offrono l’accesso ai contratti futures (quelli sul Bitcoin sono quotati da quattro anni al Cme di Chicago) e ai Cfd, strumenti destinati a investitori evoluti soprattutto perché basati sulla leva finanziaria. Questi prodotti sono derivati e per operarvi bisogna saper destreggiarsi. Per chi non può, o non vuole, averci a che fare con il tema dei margini si è da poco aperta l’era degli Etp, gli exchange-traded products. Il primo autorizzato negli Usa è stato l’Etf ProShares Strategy Bitcoin, prodotto basato sui futures. Idem
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per alcuni suoi predecessori già quotati in Canada. Comprando questi prodotti, quindi, non si acquista direttamente il Bitcoin bensì il suo futures quotato al Cme. E ciò provoca problemi ben noti anche agli Etp su altri sottostanti. Le quotazioni delle scadenze più vicine dei futures, infatti, essendo contraddistinte in teoria da minore rischiosità, sono inferiori a quelle delle scadenze successive. Il classico contango, insomma, che colpisce anche il petrolio ed ogni altra materia prima. All’approssimarsi della scadenza del future, il fondo deve venderla e comprare la successiva, e ciò avviene generalmente a un prezzo più elevato. Di conseguenza, scontando una minusvalenza, la quotazione dell’Etf perde terreno rispetto al prezzo a pronti. Utilizzando il rolling delle scadenze su base esclusivamente mensile si riduce la perdita, ma questa comunque di mese in mese sussiste, ed alla lunga si fa notare. L’Etf che compra direttamente la crypto È al momento in cui scriviamo da stabilire, ma potrebbe davvero essere molto vicina la data di esordio del primo strumento a replica fisica (si fa per dire, per un bene immateriale). In rampa di lancio c’è in particolare un Etf di VanEck basato sul prezzo spot. La novità riveste fondamentale importanza anche per lo stesso mercato dei Bitcoin, perché in questo caso l’emittente non utilizzerà derivati ma dovrà materialmente acquistare Bitcoin da depositare presso un soggetto terzo che avrà la medesima funzione di quella che per i fondi comuni mobiliari è la banca depositaria. L’avvento di questa tipologia di prodotti physically-backed potrebbe fornire un enorme impulso rialzista alle principali criptovalute, pertanto. Resta il fatto, come detto in principio, che il physically-backed presenta rischi non da poco. Per ovviare a tali ulteriori rischi ci si può rivolgere agli Etn già esistenti da tempo anche in vari paesi europei, e che consistono nell’investimento in contratti derivati costruiti sul sottostante. Sebbene si evitino le problematiche relative ai futures, si è costretti a sottostare ad altre tipologie di rischi. In particolare, il rischio di controparte dei contratti
Bitfinex è stata una delle società protagoniste di truffe sulle criptovalute. Sotto il brand di Coinbase, tra le principali piattaforme del mondo a operare nel settore
(generalmente swap) stipulati e quello delle loro clausole molto particolari, come è tragicamente emerso nel marzo dell’anno passato con alcuni prodotti sul petrolio che sono letteralmente evaporati tra le mani dei possessori a causa del ribasso del greggio più incredibile della storia che è arrivato addirittura a prezzi negativi, ossia sotto il livello zero e che hanno costretto i venditori a pagare i compratori. Esistono però Etn (Exchange traded notes) completamente collateralizzati, il che significa che il capitale investito è di fatto utilizzato per acquistare Bitcoin. Un prodotto da poco meno di un anno registrato anche in Italia è VanEck Vectors Bitcoin Etn, quotato sullo Xetra tedesco. L’andamento replica la quotazione di uno specifico indice, Mvis CryptoCompare Bitcoin Vwap Close Index, il cui prezzo è direttamente collegato alla quotazione del Bitcoin. Il punto forte dello strumento è la sua collateralizzazione completa, che elimina il rischio controparte e quello contrattuale degli swap. Ricordate: è l’esatto contrario di un bene rifugio Infine la cosa più importante: con le criptovalute si entra in un terreno nuovo e soprattutto minato. Il Bitcoin esiste appena dal 3 gennaio 2009, un periodo insignificante per valutare se davvero potrà cambiare il sistema economico mondiale come i suoi sostenitori affermano. Una prova sul campo si è registrata col tracollo delle quotazioni del 50% tra il 12 e il 13 marzo 2020, nel pieno dello shock pandemico mondiale. Non propriamente una performance da bene rifugio, come qualcuno riesce invece a definirlo. Anche la volatilità in tempi normali è sotto gli occhi di tutti. Se si desidera investire in criptovalute, pertanto, occorre destinare parti davvero esigue, ai limiti del trascurabile, del proprio portafoglio e tenere sempre a mente, come detto, che potrebbero anche sparire da un momento all’altro. E non finisce qui. Mentre i prodotti finanziari hanno degli orari di negoziazione, le criptovalute sono scambiate senza soluzione di continuità anche nei fine settimana e negli altri giorni di borsa chiusa. Ed un eventuale scossone che avvenisse, per esempio, durante un tranquillo sabato pomeriggio potrebbe portare a un brusco risveglio il successivo lunedì mattina. novembre 2021
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GLI USA INFRANGONO UN TABÙ
Etf sui Bitcoin, le regole per non scottarsi di Gloria Valdonio
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La criptomoneta si istituzionalizza come strumento finanziario per un investimento alternativo rispetto alle asset class tradizionali. Ma è anche assai volatile e quindi va maneggiata con molta cura
onostante l’ostracismo delle autorità di vigilanza, il mercato ha dettato ancora una volta le regole e il 19 ottobre sulla Borsa di New York è comparso il primo Exchange-traded fund (Etf) sui Bitcoin. Come previsto, il ProShares Bitcoin Strategy Etf (Bito), è stato un vero successo, visto che ha chiuso la giornata di contrattazioni al +4,85% per un valore superiore a un miliardo di dollari, risultando così il secondo Etf più scambiato di sempre al debutto. Nella stessa giornata il valore del Bitcoin ha superato il record di aprile di 64.859 dollari. Il prodotto non investe direttamente in Bitcoin e segue l’andamento dei contratti futures sulla criptovaluta ed è esposto alle numerose e improvvise variazioni di prezzo della criptovaluta attraverso derivati già esistenti sul mercato. Primo di una lunga serie È certo che dopo il ProShares Bitcoin Strategy arriveranno altri prodotti simili nelle prossime settimane a suggellare la crescente popolarità delle critpovalute anche tra il pubblico retail, facilitandone la funzione di investimento alternativo rispetto a quelli tradizionali. La Sec (l’organo di vigilanza Usa) starebbe infatti per approvare altri Etf basati sempre sui future proprio mentre le criptovalute sono sotto la lente degli organi di regolamentazione statunitensi ed europei. L’offerta quindi aumenta insieme all’interesse degli investitori. Giusto allora chiedersi quali sono vantaggi e svantaggi di questo prodotto. «Il vantaggio dell’Etf», risponde Filippo Diodovich, senior market strategist di IG Italia, «è che si basa sulla cripto-valuta Bitcoin che è un asset molto rischioso e caratterizzato da forte volatilità, ma che ha una bassissima correlazione rispetto agli altri asset finanziari». «Tramite i nuovi Etf», spiega ancora lo strategist, «si è deciso di istituzionalizzare il Bitcoin come strumento finanziario per un investimento alternativo rispetto alle asset class tradizionali. Non credo però alla possibilità che il Bitcoin possa proteggere il portafoglio dalle pressioni inflazionistiche». Pro e contro Bitcoin non è quindi solo un’ossessione dei trader incalliti, ma è una vera e propria asset class caratterizzata da una forte decorrelazione. Questo aspetto, secondo lo strategist, rende l’investimento 44
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interessante e appetibile per tutti gli investitori, istituzionali o retail, che hanno interesse a utilizzare uno strumento nuovo e alternativo per le proprie strategie di diversificazione di portafoglio. Quanto ai rischi, è inutile dire che sono elevati. «Molto elevati», precisa Diodovich. «Il rischio è legato alle caratteristiche del Bitcoin che non ha mai mostrato una stabilità del proprio valore, ma ha invece sempre evidenziato una fortissima volatilità». Ma accettato il rischio, perché investire in un Etf sui futures sul Bitcoin invece di acquistare direttamente i Bitcoin, tramite per esempio Crypto Exchanges come Coinbase o Kraken, che ha costi molto bassi? «Perché in questo caso l’investitore deve accettare un basso livello di protezione del proprio investimento su mercati non regolamentati», risponde Diodovich. Secondo lo strategist, l’investitore con un orizzonte temporale di brevissimo periodo e finalità puramente speculative potrebbe rivolgersi a strumenti derivati a leva come i Cfd per negoziare i Bitcoin con costi molto ridotti.
Le alternative In ogni caso, secondo lo strategist, l’investimento in Etf sui future, dal punto di vista delle performance è meno interessante rispetto ad altri tipi di strumenti. L’Etf sui future sul Bitcoin può essere infatti paragonato ai Commodity Etf, anche loro basati sui future sulle materie prime, le cui performance non sono particolarmente brillanti per colpa del rollover (i future hanno una scadenza e devono essere rinnovati) e per “l’effetto Contango”, che si verifica quando il prezzo del future in scadenza è inferiore a quello nuovo in acquisto. «Conviene quindi investire in Etf sui future sul Bitcoin solamente per quegli investitori che preferiscono avere un prodotto standardizzato per un orizzonte temporale di medio-lungo periodo in un mercato regolamentato come il Nyse al costo di avere performance peggiori rispetto all’acquisto diretto di Bitcoin o rispetto ad altri strumenti con forte espoFILIPPO DIODOVICH, IG ITALIA sizione al Bitcoin», conclude Diodovich.
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PARLA RANIA (BANOR CAPITAL)
«Stagflazione? No grazie. Più probabile la disinflazione»
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di Marco Muffato
he anno è stato il 2021 per l’azionario? E cosa aspettarci in futuro? Ne abbiamo parlato con Gianmarco Rania, responsabile azionario di Banor Capital, nel corso di una puntata di Investire Now. Rania, facciamo un bilancio degli investimenti azionari in questo 2021 che si sta per chiudere? Il 2021 è stato un anno molto buono per l’azionario. Gli indici azionari globali hanno avuto un ritorno mediamente tra GIANMARCO RANIA il 15 e il 20%, ad eccezione della Cina, con l’indice del Paese asiatico che adesso sta tornando in territorio positivo, e del Giappone che ha avuto una fase di stallo durante l’estate. Cosa può aspettarsi il settore dell’equity invece dal 2022? Le preoccupazioni sono forti per l’inflazione indotto dall’aumento dei prezzi dei combustibili fossili, dal petrolio al carbone al gas naturale…qualcuno paventa addirittura la possibilità della stagflazione. Ci aiuta a fare chiarezza? È necessario fare un passo indietro e capire da dove viene questa inflazione. Si è creata in tre stadi: in un primo stadio è stata indotta in maniera quasi artificiale dalle banche centrali in risposta alla crisi pandemica - con le grandi operazioni di quantitative easing e con politiche monetarie unite a quelle fiscali - proponendosi di supportare e di rilanciare le economie locali e la produzione industriale oltre a diminuire il livello di disoccupazione elevato. Poi c’è stato un secondo stadio, con la fase post pandemica: con le riaperture le persone hanno incrementato i propri consumi in beni e servizi grazie all’enorme ammontare di risparmio aggregato che negli Stati Uniti era arrivato a 2,5 trilioni di dollari. Si è registrata così una seconda spinta inflattiva, con un aumento dei tassi d’interesse reali, indotta dal consumatore. Adesso siamo nella terza fase a cui lei faceva riferimento e che fa più paura, cioè l’aumento dell’inflazione provocato da uno shock dell’offerta, alle prese con troppi colli di bottiglia. In questo contesto l’inflazione continuai a salire ma questa volta i tassi di interesse reale scendono. E quindi il rischio connesso è proprio la stagflazione, ovvero la stagnazione con crescita vicina allo zero più l’inflazione. E questo potrebbe essere uno scenario negativo per i prossimi anni.
Cosa ritiene più probabile, uno scenario inflattivo e stagflattivo? Quando ho iniziato questa attività 20 anni fa ricordo che ero seduto affianco a un team di sette analisti del settore oil e mi rassicuravano affermando che qualunque cosa fosse accaduta ai titoli petroliferi, nel mondo c’è abbastanza petrolio e gas per tutte le esigenze. Quindi la mia personale view - e sono d’accordo con le Banche Centrali - è che stiamo andando verso un periodo di elevata inflazione ma transitorio. Auspico che entro la fine del primo semestre del 2022 o al massimo verso la fine dell’anno prossimo questo effetto di sbilanciamento tra domanda e offerta finirà e quindi il mio scenario è di elevata inflazione che scendendo un po’, attraverso un meccanismo di disinflazione, possa agire da propulsore per una ripresa del Pil a livello globale. In un contesto di forte inflazione quali possono essere i titoli vincenti? In uno scenario di elevata inflazione ma transitorio sul mercato azionario ci sono Paesi, aree e settori che vanno preferiti ad altri. Ci sono dei settori che beneficiano dell’aumento dei tassi d’interesse e di conseguenza dell’aumento dell’inflazione come quello dei titoli finanziari e delle banche in particolare, che ne beneficiano in termine di miglioramento del margine d’interesse. Non solo: se l’aumento dei tassi d’interesse avviene in un contesto di crescita economica le banche di solito aumentano i volumi dei prestiti e diminuiscono le sofferenze. Il secondo ambito è quello dei settori legati alle materie prime: a noi piacciono molto i settori legati all’energia, ai petroliferi, all’alluminio, al rame, perché di solito le commodities, i real asset, vengono visti come strumento di protezione dal rischio d’inflazione. E in uno scenario di stagflazione invece? In questo contesto sarebbe difficile trovare “aree protette” per i nostri capitali. Consiglieremmo quei titoli leader nel loro settore, che hanno poco debito, meno esposti al ciclo economico. Un esempio di società in grado di ottenere buoni ritorni anche sotto pressione? Nestlè, società leader del food & beverage, che a fronte di un aumento del 4% dei costi delle materie prime progetta un aumento del fatturato del 6-7%. Così facendo attenua l’impatto della crescita dei costi delle materie prime incrementando il pricing. novembre 2021
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SCENARI
Il mondo fa i conti (difficili) con l’addio ai combustibili fossili di Mauro Del Corno
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iù 110%, più 90%, più 300%. Sono gli aumenti registrati rispettivamente dai prezzi di petrolio, gas e carbone negli ultimi 12 mesi. Tre numeri che danno il senso della travagliata fase che sta attraversando il mercato dell’energia stretto tra una ripresa dell’attività economica sinora più veloce delle previsioni e i tentativi dei Paesi di spostarsi verso fonti meno inquinanti. Il tutto condito da quel poco di speculazione che non manca mai e da “giochi” geopolitici che, storicamente, hanno nelle commodity uno dei campi prediletti. Secondo Matteo Leonardi, esperto di energia e clima e co-fondatore del centro ricerche climatico ed energetiche Ecco, la fase di assestamento post- Covid è l’elemento chiave di questo frangente. Una fase che peraltro segue un periodo in cui i prezzi avevano raggiunto i livelli più bassi di sempre con possessori di barili di petrolio costretti a pagare per disfarsene e non sopportare i costi di stoccaggio. «L’anno scorso, ricorda Leonardi, tutti gli analisti parlavano di prezzi bassi per un tempo indefinito, oggi dicono il contrario. Nessuno ha la sfera di cristallo tanto meno in un settore in cui si intrecciano innumerevoli fattori». L’obiettivo dell’Europa, ricorda l’esperto, «dovrebbe essere quello di rendere la sua economia resiliente rispetto a crisi come quella in corso. Questa è la consapevolezza che ha lasciato in eredità la pandemia». Un percorso di progressiva de carbonizzazione va in questa direzione mentre il gas e i fossili, come si vede, sono elementi che tendono ad amplificare le crisi. Si tratta di fattori fortemente volatili, ossia l’esatto contrario della resilienza. Il grande paradosso del mercato Cerchiamo però di capire meglio questa fase del mercato. A fissare il prezzo dell’energia è solitamente la fonte che ha il costo più alto. Se c’è richiesta per un 46
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Crescono vertiginosamente i prezzi di petrolio, gas e carbone. Alla faccia di chi dava per morte le vecchie materie prime inquinanti in vista di una transizione verso un modello green che ha tempi necessariamente lunghi. Ecco cosa sta succedendo nel mercato più effervescente di sempre
megawatt prodotto con una fonte che ne fissa il prezzo a 100 euro perché chi lo produce magari con l’idroelettrico spendendo 10 dovrebbe venderlo a meno? Il fatto che il prezzo delle fonti fossili (petrolio, gas e carbone) aumenti proprio mentre i governi annunciano di volerne ridurre i consumi può sembrare paradossale. Ma gli equilibri energetici sono affare molto delicato che a volte sfociano in risultati contro intuitivi. Valga l’esempio di quello che sta accadendo in Gran Bretagna, Paese che si affida molto all’eolico grazie alle numerose “pale” che affiorano nel mare del Nord. Ma il vento non arriva a comando e gli ultimi mesi si sono caratterizzati per un’insolita carenza di corrente d’aria. Questi “buchi” di generazione energetica vanno riempiti. Uno delle fonti predilette per farlo è il gas, il meno inquinante dei fossili. Esistono impianti di generazione chiamati “gas peaker” che entrano in funzione solo nella fase di picco della domanda e producono elettricità a costi maggiori rispetto alle centrali tradizionali. Sebbene nell’ultimo decennio il costo di questa energia sia sceso di oltre il 30% rimane quella con i prezzi più elevati (175 dollari per megawatt/ora). Ed è su questi valori che si assestano tutti prezzi del mercato energetico.
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Il nodo del gasdotto Nord Stream 2 C’è un altro elemento che confonde ulteriormente il quadro, soprattutto in Europa. Il gasdotto sottomarino Nord Stream 2 che corre dalle coste russe a quelle tedesche ed è ormai pronto per entrare in funzione. La condotta è fonte di attriti geopolitici poiché consente al gas russo di arrivare in Europa senza transitare dall’Ucraina, Paese su cui gli Stati Uniti hanno una forte presa. L’ulteriore fattore di avvicinamento tra Mosca e Berlino non piace alla Casa Bianca. La Germania, dal canto suo conta di diventare una sorta di hub europeo del gas. Dietro l’aumento dei prezzi ci sarebbero anche manovre del Cremlino tese a velocizzare l’entrata in funzione a pieno regime di North Stream 2. È stato notato ad esempio come il colosso statale russo Gazprom abbia ridotto sensibilmente le riserve nei suoi impianti di stoccaggio collocati nell’Europa occidentale, proprio alla viglia dell’inverno. Un modo per spingere ulteriormente le quotazioni. La verità è che, in una fase di tensione come quella attuale, basta un’alzata di sopracciglio di Vladimir Putin per provocare scossoni sui prezzi. Questo fattore di pressione sui prezzi potrebbe però rientrare a breve. Verso l’adeguamento dell’offerta Ma cosa dobbiamo realisticamente aspettarci nei prossimi mesi? In molti dubitano che i prezzi siano destinati a scendere nel breve termine. Senza dimenticare però che veniamo da un periodo di prezzi incredibilmente bassi. Solitamente i rincari producono un adeguamento dell’offerta. Tuttavia finora, la risposta è stata blanda. E anche qui il motivo si trova nella fase del tutto particolare che il mondo dell’energia sta vivendo. Gli investitori si stanno progressivamente allontanando dal fossile, le compagnie petrolifere investono meno per manutenere e sviluppare gli impianti: 350 miliardi di dollari nel 2021, la metà rispetto alla media annua del triennio 2011-2014. L’Agenzia internazionale per l’energia, entità riconducibile all’Ocse e storicamente non ostile ai fossili, ha avvertito che i finanziamenti a petrolio, gas e carbone devono azzerarsi da subito se davvero si vuole raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica (saldo zero tra Co2 emessa e catturata) entro il 2050.
e carboni inclusi. Oggi praticamente tutto il gas liquido prodotto nel mondo finisce in Cina. Alle prese con un fabbisogno di energia in rapido aumento Pechino si è trovata in difficoltà avendo fermato durante la pandemia alcune delle sue centrali più inquinanti. Una serie di blackout che si sono verificati negli ultimi tempi in alcune delle aree più produttive del Paese ha indotto il governo a lasciare da parte qualsiasi considerazione green. E così è stato ordinato alle miniere di carbone del Paese di aumentare la produzione. Alla fine di ottobre Pechino ha annunciato l’intenzione di calmierare il costo del carbone riducendo il prezzo a cui viene venduto dai minatori. Immediatamente la notizia ha avuto ripercussioni sui mercati globali, Europa inclusa dove il costo del carbone è sceso a 110 dollari a tonnellata, ai minimi da agosto. «Se la Cina può aumentare la sua produzione e anche mettere un tetto ai prezzi, l’effetto si farà sentire anche in Europa» ha spiegato Gustav Olsson, trader di energia della svedese Bixia AB. «La quota di importazioni cinesi dovrebbe ridursi allentando la pressione sui prezzi a livello internazionale». Il momento delle scelte Le grandi economie sono a un bivio. Sposare senza mezzi termini le agende contro i cambiamenti climatici o temporeggiare. Oggi nel mondo abbiamo sei volte la disponibilità di fonti fossili che possiamo consumare se vogliamo centrare gli obiettivi di azzeramento delle emissioni nette nei prossimi trent’anni. Questo la dice lunga su quello che potrebbe essere l’impatto sui prezzi dei fossili se la svolta green venisse perseguita con più convinzione. Con contraccolpi che potrebbero estendersi al mondo della finanza. Banche e assicurazioni hanno investimenti nell’industria dei fossili per oltre 4.500 miliardi di dollari, con un incremento di 750 miliardi solo nello scorso anno. Alla vigilia del vertice sul clima Cop26 di Glasgow, circa 200 tra associazioni e accademici hanno lanciato un allarme: i cambiamenti climatici rischiano di innescare una crisi finanziaria paragonabile a quella del 2008. Banche e assicurazioni sono esposti a un doppio rischio. Se i fossili continueranno a essere usati come oggi i disastri ambientali sono destinati a moltiplicarsi con ricadute in termini di risarcimenti da pagare e contraccolpi per l’economia. Accadrà il contrario se i valori delle partecipazioni nel fossile scenderanno. Da qui la proposta di una copertura uno a uno per gli investimenti nel fossile. Per ogni euro dato a imprese del gas, del petrolio o del carbone, un euro accantonato come riserva per far fronte alle possibili perdite.
Il carbone è tornato di moda A livello globale, l’ago della bilancia è la Cina che da sola emette tanta Co2 quanto Stati Uniti, India, Giappone e Russia messi insieme ed è una sorta di idrovora di materie prime: gas, petrolio novembre 2021
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FISCO A STELLE E STRISCE
La Tax Plan di Biden cambia la rotta dello S&P500 di Gloria Valdonio
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arco Rubio, senatore federale per la Florida del partito repubblicano, il 30 settembre scriveva in un tweet: “The 3,5 trillion Biden’s plan isn’t socialism, it’s marxism” (“I 3,5 trilioni del piano di Biden, non è socialismo, è marxismo”). Il giorno successivo Joe Biden dichiarava al Congresso: “Non importa se ci vorranno sei minuti, sei giorni, oppure sei mesi: l’agenda economica sarà portata a termine e approvata”. L’agenda in questione si riferisce al piano di infrastrutture da mille miliardi di dollari e alla maxi-manovra da 3.500 miliardi, che include investimenti contro il cambiamento climatico e a favore dell’istruzione e della sanità. È evidente l’intensità dello scontro in corso per l’approvazione del piano. Anche perché, mentre persiste il clima di incertezza economica, il capitolo fiscale potrebbe deprimere gli animi degli investitori, proprio mentre l’indice americano S&P500 registra nuovi massimi storici superando quota 4.500 con un rialzo di oltre il 31% negli ultimi dodici mesi, e mentre persiste una visione tutto sommato positiva riguardo il mercato azionario Usa. Tra i potenziali rischi che possono intaccare le straordinarie performance dell’indice, quello che cattura l’attenzione degli analisti sono proprio i tremila e cinquecento miliardi di dollari messi sul piatto dall’amministrazione Biden per lo ‘spending plan’ e la riforma fiscale, il cosiddetto ‘tax plan’, che potrebbe avere un impatto diretto sulla tassazione delle società americane e quindi sullo S&P500. Riforma difficile Come sottolinea Rocchino Contangelo, head of gobal Esg-integrated Research di Swisscanto Invest, lo sforzo per 48
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Secondo gli strategist la nuova fiscalità potrebbe causare una correzione dell’indice americano pari al 5% rispetto ai valori attesi per fine anno. Information technology, industria e healthcare i settori più colpiti dalla nuova tassazione
Rocchino Contangelo, head of global Esgintegrated Research di Swisscanto Invest
far approvare una nuova legge fiscale non è mai un processo facile negli Stati Uniti. «John F. Kennedy aveva provato già dal 1960 a tassare le multinazionali e più recentemente Donald Trump stava tentando, attraverso Gilt e Beat, di imporre una tassa minima sui guadagni stranieri, ma con scarso successo», dice lo strategist. Tuttavia la proposta fiscale dell’amministrazione Biden è una svolta epocale, poiché anche l’Ocse ha concordato un’aliquota fiscale minima globale del 15 per cento. «Quest’ultima iniziativa darà un tono alla dimensione politica e alle approvazioni che sono necessarie per far passare questa legge fiscale anche al Congresso degli Stati Uniti», dice Contangelo. Che però aggiunge: «Mentre pensiamo che ci siano anche alcuni elementi validi nella proposta fiscale di Biden, come per esempio la fine dei sussidi per i combustibili fossili, riteniamo che ci sono anche benefici da una bassa aliquota fiscale, come il vantaggio nella ricerca e sviluppo, che è un motore chiave dell’economia statunitense. Inoltre, sottolineiamo che la tassazione prevista dall’Ocse ha una dimensione globale relativa, soprattutto se alcuni Paesi non fanno parte dell’accordo». Esito incerto Come spiega Alessandro Tentori, cio di Axa Im Italia, al momento è in corso un dibattito politico nel partito democratico che vede i centristi spingere per l’approvazione del programma di infrastrutture da 1.700 miliardi di dollari (già approvato dal Senato) prima di approvare il Build Back Better Act. L’ala progressista invece minaccia di bloccare le infrastrutture a meno che non ci sia prima una votazione favorevole del pacchetto complessivo. Vista la situazione di equilibrio nel Senato, comunque vadano le cose, il partito democratico si
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vedrebbe costretto a utilizzare la procedura di “riconciliazione” del budget per far approvare la legge, innescando così la clausola di neutralità fiscale nel lungo periodo. Questa clausola richiede che la spesa sia finanziata da un aumento delle entrate. E qui entra in gioco la riforma fiscale. Impatti azionari Tuttavia, dal punto di vista di un investitore, le aliquote fiscali più alte sono negative per i guadagni delle società e per considerazioni di rendimento come il ritorno sul capitale investito (Roic) e le relative valutazioni. E qualche strategist ne ha già calcolato l’impatto sul mercato. «La nostra stima è che lo S&P500 possa raggiungere quota 4.700 dollari entro la fine del 2021, quindi con un rialzo di 200 dollari dai livelli di inizio ottobre», spiega Antonio De Negri, founder e ceo di Cirdan Capital. Che aggiunge: «Tuttavia il rischio dell’implementazione di una riforma fiscale che includa “la statutory federal corporate tax rate” al 25%, oltre a eventuali modifiche sulla fiscalità delle big corporate, come Apple e Google, potrebbero causare una correzione del 5% rispetto ai valori attesi per fine anno, portando quindi l’indice a un valore pari a 4.465 dollari». Anche secondo Contangelo l’impatto sui guadagni dell’S&P500 è compreso tra il 5% e il 10% all’anno sull’aggregato. «Tuttavia, questo dipende molto dai dettagli di questa proposta fiscale», dice lo strategist. In ogni caso il tax plan proposto dal governo Biden, come spiega De Negri, incrementerà sì le tasse sulle imprese, ma questa possibilità rappresenta un rischio strategico nel breve periodo, ma non nel lungo termine. «Se invece», aggiunge lo strategist, «uno scenario ottimista dovesse verificarsi e la riforma fiscale non dovesse quindi essere implementata, lo S&P500 potrebbe toccare quota 4.900 dollari entro la fine dell’anno sia come effetto del mancato accrescimento della pressione fiscale, sia grazie a una maggiore tranquillità da parte degli investitori internazionali, che riprenderebbero un po’ di fiducia nell’esecutivo Biden dopo il calo generato dalla fallimentare evacuazione militare dall’Afghanistan».
Alessandro Tentori, cio di Axa Im Italia; in basso, Antonio De Negri, founder e ceo di Cirdan Capital
Settori caldi Ma quanto è rilevante l’imposta minima a livello di borsistico? Circa il 18% di tutte le società comprese nell’Msci World è soggetto a un’aliquota fiscale inferiore al 15% e tutte insieme rappresentano un peso nell’indice del 22,9 per cento (a inizio ottobre). Le basse aliquote d’imposta riguardano in particolare settori quali l’immobiliare e il finanziario, l’IT, la sanità e i
beni di consumo. «Se escludiamo i titoli finanziari, perché in parte dispongono di vantaggi fiscali (Reit, ndr) previsti dalla legge, si può affermare che i proventi influenzati negativamente dall’imposta minima sono nell’ordine di grandezza del 5% circa», spiega Contangelo. Che aggiunge: «Il rendimento complessivo del capitale (Roic, ndr), che include gli utili di esercizio al netto delle imposte, si riduce quindi con un effetto tendenziale negativo sui corsi delle azioni. Al momento, nei nostri fondi a gestione attiva non sono presenti “posizioni con imposizione più bassa”, come Carnival, Seagan o Blackberry, e filtriamo per tempo i possibili problemi, anche per quanto riguarda l’imposta minima». I settori più colpiti dalla nuova tassazione come l’IT, l’industria e l’healthcare, sono quelli che dispongono di molti diritti di proprietà intellettuale e che, in quanto multinazionali, fanno affari in tutto il mondo. In ogni caso, secondo Tentori, in tema di modelli economici per i prossimi dieci anni, dobbiamo accettare un alto grado di incertezza. «I 4mila miliardi di spesa pubblica ipotizzati per il decennio 2022-2031», spiega lo strategist, «dovrebbero aumentare il Pil potenziale di circa 0,3 punti percentuali a tutto vantaggio dei settori dello S&P500 legati alle infrastrutture e alle costruzioni». Purtroppo, aggiunge Tentori, l’effetto netto di spesa e di aumento delle tasse potrebbe rivelarsi negativo con alcuni think tank di Washington che parlano addirittura di una riduzione dell’0,9% di Pil. «Ovviamente, l’effetto negativo sarebbe assorbito dai redditi più alti, innescando così una discussione sull’impatto redistributivo della politica economica americana», conclude Tentori.
Le basse aliquote d’imposta «storiche» riguardano in particolare settori quali l’immobiliare e il finanziario, l’IT, la sanità e i beni di consumo. Dovrebbero scamparla i titoli finanziari, perché in parte dispongono di vantaggi fiscali (i Reit) novembre 2021
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BIG TECH NEL MIRINO
L’Ue dichiara guerra ai gatekeeper digitali di Gloria Valdonio efficaci nell’Eurozona e riequilibrare i rapporti di forza con Big Tech», è il commento positivo di Antonio De Negri, ceo e founder di Cirdan Capital. «Le due norme», aggiunge Carlo De Luca, responsabile asset management di Gamma Capital Markets, «vanno ad aggiungersi alla struttura giuridica esistente in materia di regolamentazione della concorrenza, ma agiscono in maniera ex ante: impongono infatti obblighi a carico delle società indipendentemente dalla valutazione della loro posizione dominante e dall’oggetto o effetto delle loro condotte, prima di causare danni al mercato».
Il Digital Service Act e il Digital Markets Act, in attesa di approvazione, promuovono l’innovazione, la crescita e la competitività in campo digitale. E sono una spina nel fianco di colossi tech come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft
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na tempesta si sta abbattendo su Big Tech e l’epicentro è la Vecchia Europa, che ha deciso di mettere un freno ai gatekeeper, i “padroni dell’accesso” digitale, riequilibrare il rapporto molto sbilanciato tra aziende tech e utenti (a favore dei primi) e tamponare la crisi di fiducia nel settore. La pressione di clienti e investitori sulle imprese per incorporare i diritti digitali nei loro processi è molto forte ed è in costante crescita, ma la legislazione in arrivo è uno strumento più potente, forse l’unico, per giungere a un cambiamento di paradigma. Dopo la Gdpr del 2018 (una delle prime leggi finalizzate ad aumentare il controllo e i diritti degli utenti sui loro dati personali) due proposte legislative europee in attesa di approvazione al Parlamento europeo - il Digital Services Act (Dsa) e il Digital Markets Act (Dma) - causeranno uno sconvolgimento ancora maggiore per le piattaforme di social media e le aziende Big Tech. Le due proposte infatti mirano, rispettivamente, a esplicitare le responsabilità delle grandi piattaforme in tema di controllo e a limitarne i poteri sul mercato. In particolare, il Dma avrà un forte impatto sui Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) in quanto ha lo scopo di limitare le pratiche di mercato sleali e a frenare lo strapotere di Big tech. «Il Digital Markets Act e il Digital Services Act insieme compongono un quadro normativo che consentirà alle autorità di intervenire in modo rapido e preventivo, per proteggere i cittadini dai comportamenti abusivi online, emettere sanzioni 50
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Dma e Dsa Nel dettaglio, il Digital Markets Act garantisce mercati digitali equi e aperti limitando il potere delle big tech che spesso fungono appunto da “gatekeeper” del mercato, ossia ne controllano l’accesso. Le imprese oggetto della normativa sono le società digitali che hanno una forte posizione economica e di intermediazione in più paesi dell’Unione europea, e quindi vi rientrano certamente i cosiddetti Gafam. «Infatti, i gatekeeper spesso creano tra loro e molti utenti commerciali una forte dipendenza che può sfociare in comportamenti sleali nei confronti di tali utenti», spiega De Negri. Quanto al Digital Services Act, grazie a una serie di normative europee già in essere, renderà maggiormente accessibile l’offerta di servizi digitali oltrefrontiera, mantenendo un elevatissimo livello di tutela per gli utenti digitali, indipendentemente dal luogo in cui risiedono in Europa. Come spiegano gli strategist, si può riscontrare una forte sinergia tra il Dma e il Dsa nel promuovere l’innovazione, la crescita e la competitività, facilitando l’espansione delle piattaforme più piccole, delle Pmi e delle start-up. «Reputiamo che il Dma e il Dsa pongono un traguardo senza precedenti nell’ambito del digitale europeo. In particolare, sotto il profilo aziendale, crediamo che il Dma sia di
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gran supporto per le imprese innovative e le start-up tecnologiche, che avranno nuove opportunità per competere e innovare nell’ambiente delle piattaforme online senza dover rispettare condizioni inique che ne limitino lo sviluppo», è il commento di De Negri. Gli osservatori più attenti sottolineano che alla base di questo pensiero economico e giuridico c’è l’interesse di sostenere non solo gli utenti digitali, ma la sovranità tecnologica europea, a discapito di quella statunitense e non solo. Infatti, tra i requisiti per la classificazione come gatekeeper ricadono la capitalizzazione di mercato (innalzata da 65 a 100 miliardi di euro), il fatturato annuo (pari a 6,5 miliardi di euro) e il numero degli utenti. «Ciò significa che sono escluse aziende come l’olandese Booking. com o la tedesca Zalando, ma che vi rientrano in pieno i principali player del mercato come Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft», afferma De Luca. Dma e Dsa sembrerebbero rappresentare quindi una seria minaccia per le big tech americane. «E non a caso tali società hanno posto in essere delle azioni di lobbing per rendere più efficiente la comunicazione con il parlamento europeo», spiega uno strategist. Effetto Borsa Ma quali saranno le ricadute sui titoli interessati dalle nuove regole? «Nonostante il Dma e il Dsa possano sembrare a molti un danno incombente, stimiamo che non rappresentino un rischio significativo per le Gafam, poiché reputiamo che i cinque colossi continueranno ad avere una posizione prevalente nel mercato digitale europeo», afferma De Negro. Che aggiunge: «Certamente le Gafam saranno maggiormente regolamentate e saranno sottoposte a maggiori vincoli in Europa, ma tali società continueranno a beneficiare abbondantemente dell’economia europea». A supporto di tale tesi, il fatto che il mercato azionario non ha penalizzato i titoli di Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft attorno al 15 dicembre 2020, data di annuncio del-
le due leggi. È opinione quindi di molti analisti che la Commissione europea sia nel complesso più incline a una maggiore tutela delle Pmi e delle start-up, che non a limitare significativamente le attività delle Gafam e di Big Tech in generale.
Nelle foto in basso. A sinistra Carlo De Luca, responsabile asset management di Gamma Capital Markets. A destra Piermattia Menon dell’Ufficio Studi di Consultique Scf
Le nuove regole non scalfiranno il potere delle cinque big tech che continueranno ad avere una posizione prevalente nel mercato digitale Ue
La redditività Va detto che Dma in particolare metterà al bando alcuni comportamenti aggressivi ora ampiamente utilizzati ed è quindi difficile credere che il cambiamento sia a saldo zero. Per esempio è pratica comune di Google e Apple favorire i propri servizi (anche a pagamento) rispetto a quelli di terzi, o utilizzare algoritmi pubblicitari iper-targettizzati tramite l’aggregazione di moltissime informazioni sensibili sugli utenti. Tuttavia secondo Piermattia Menon dell’Ufficio studi di Consultique Scf, è difficile stimare se tali limitazioni possono avere impatti significativi sulla redditività dei business. «Le piattaforme infatti hanno assunto un ruolo così dominante che sarà difficile scalfirlo solamente con interventi di questo tipo, tanto che negli Usa hanno seriamente valutato l’opportunità di obbligare i grandi colossi a separare parte dei business», commenta Menon. Di parere diverso De Luca. La sua tesi è che i due provvedimenti incidono sulla “self-preferencing”, o auto preferenza, che potrebbe impattare negativamente sui conti delle aziende: per fare un esempio, secondo l’articolo 6 del Dma, se un consumatore cercasse su Amazon “assistente vocale”, Amazon non dovrà più preferire tra i risultati della ricerca il prodotto Alexa a discapito, per esempio, di Google Home o di un altro concorrente. E ancora: sempre secondo l’articolo 6 sarà preclusa la possibilità per Apple di impedire la disinstallazione del proprio App Store e di utilizzare App Store di terze parti per effettuare gli acquisti di app, comportando così una riduzione delle entrate annuali da App Store, che attualmente è di circa 4 miliardi solo in Europa. Google invece potrebbe dover condividere i dati con i rivali (come Microsoft Bing e Yahoo) e interrompere la promozione preferenziale dei propri servizi come mappe, hotel e voli. «Come primo effetto, gli inserzionisti potrebbero rivolgersi ai competitor di Google, magari ottenendo prezzi più favorevoli in un regime più concorrenziale, causando una redistribuzione del 10-20% degli investimenti», conclude De Luca. novembre 2021
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SANZIONI ANONIME
Indovina chi è “Omissis”? Stranezze (e rischi) nelle delibere della Vigilanza di Giuseppe D’Orta
Sta diventando sempre più frequente l’omissione delle generalità dei sanzionati a causa delle norme sulla privacy. Un bel problema se contemporaneamente occorre proteggere anche il pubblico risparmio
“l
l/la Signor/a Omissis non ha tempestivamente segnalato alla Consob l’acquisto di azioni della società Omissis di cui è Amministratore. ll Signor/a Omissis è stato quindi sanzionato/a per 10.000 euro”. È il tenore della Delibera Consob 21913 dello scorso 17 giugno pubblicata nel Bollettino. Non si tratta di un errore, bensì dell’applicazione del Testo Unico della Finanza, precisamente dell’articolo 195-bis, comma 2, lettera c), dove si prevede che Banca d’Italia o Consob dispongono la pubblicazione in forma anonima del provvedimento sanzionatorio quando quella ordinaria possa causare un danno sproporzionato ai soggetti coinvolti, purché tale danno sia determinabile. Il mercato deve sapere È probabile che la società di cui si parli sia di grande capitalizzazione e comprendiamo come una sanzione di 10.000 euro sia di poco conto, ma non ci pare giusto che il mercato non possa essere messo a conoscenza di quella che rappresenta comunque una mancanza da parte di una persona che riveste un ruolo rilevante. La Consob motiva l’importo affermando che “nel caso di specie non sussistano i presupposti per qualificare la condotta (...omissis...) come scarsamente offensiva degli interessi giuridici protetti dalla normativa de qua. Si reputa, difatti, che la comunicazione tardiva di un acquisto di circa 800.500 azioni dell’emittente, realizzato da un amministratore di quest’ultimo, abbia privato il mercato di un elemento segnaletico di particolare rilevanza, in grado di orientare eventuali scelte di investimento; allo stesso tempo, l’Autorità di vigilanza potrebbe non aver potuto disporre di elementi informativi utili per l’efficace assolvimento dei propri doveri di supervisione”. A favore del 52
novembre 2021
Nella foto il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco
soggetto sanzionato vi è invece il fatto che si “è in presenza non di un’omissione tout court degli obblighi di comunicazione, ma di un tardivo adempimento degli stessi e che inoltre [...omissis...] si è attivat[...] spontaneamente, autodenunciandosi dinanzi all’Autorità”. Ancora, la tardiva comunicazione ha riguardato un’unica operazione e la violazione è riferibile a un’unica giornata. Privacy che prevale sulla protezione del risparmio A questo punto, però, ci si domanda quanto possa essere grande e di conseguenza sproporzionato, e ancora di più determinabile, il danno derivante dalla pubblicazione dei dati. Ed eccoci ad un episodio più consistente accaduto, e potrà accadere di nuovo, in occasione della pubblicazione sul Bollettino Consob del Decreto con cui la Corte di Appello di Firenze ha respinto il ricorso di un allora promotore finanziario avverso la propria radiazione dall’albo avvenuta nel 2016. Si tratta logicamente di una sanzione anteriore al passaggio di consegne in materia dalla Consob all’Organismo dei consulenti finanziari (Ocf). La Corte di Appello ha rigettato il ricorso in quanto “la pluralità delle condotte illecite accertate, la reiterazione delle medesime, nonché le modalità con cui le stesse sono state poste in essere costituiscono circostanze particolarmente aggravanti e tali da compromettere radicalmente l’affidabilità del consulente finanziario di cui trattasi nei confronti della clientela, nonché dei potenziali investitori”. Parole molto chiare, ma ciò nonostante la stessa Corte ha disposto che in caso di divulgazione del provvedimento fossero omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’articolo 52 del Codice della Privacy (Dati identificativi degli interessati), che recita: “L’interessato
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può chiedere per motivi legittimi, con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sia apposta a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento”. (…) “La medesima autorità può disporre d’ufficio che sia apposta l’annotazione di cui al comma 1, a tutela dei diritti o della dignità degli interessati”. Consob con poco mordente La Consob potrebbe di sicuro essere più combattiva in sede di contraddittorio, facendo presente l’importanza della pubblicazione dei dati completi ad informazione e tutela del pubblico risparmio e non solo, come vedremo in seguito. Tra l’altro, è sufficiente cercare nel Bollettino il numero della Delibera impugnata, 19610, per risalire ai dati personali del promotore e ai fatti che hanno portato all’adozione del provvedimento. E vi si legge che sono state “conclusivamente accertate a carico del sig (… segue nome e cognome competo dell’allora promotore sanzionato) le contestate violazioni degli artt. 107, comma 1, e 108, comma 7, del Regolamento Intermediari, per avere egli acquisito, anche temporaneamente, la disponibilità di somme o di valori di pertinenza di un cliente, perfezionato operazioni non autorizzate dal cliente e utilizzato i codici di accesso telematico ai rapporti di pertinenza del cliente fuori dai casi normativamente ammessi”. Alla fine, viene danneggiato il diritto di cronaca ma anche - e oramai si può dire soprattutto - il risultato dei motori di ricerca web, nei quali non apparirà il nome dell’interessato.
Nella foto sopra Paolo Savona, presidente della Consob. Nella foto sotto Luigi Federico Signorini, presidente dell’Ivass
del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 relativo agli abusi di mercato. L’amministratore delegato di una società quotata omette di comunicare una serie di operazioni effettuate sia sul mercato, sia al di fuori di esso, sulle azioni della medesima. La Consob afferma come non sussistano i presupposti per qualificare la condotta come scarsamente offensiva degli interessi giuridici protetti dalla normativa sull’internal dealing e precisa che, se effettuate, le comunicazioni riguardanti due operazioni di vendita di un quantitativo significativo di azioni con un controvalore elevato avrebbero costituito un elemento segnaletico non irrilevante per il mercato. Nonostante ciò, la delibera è stata pubblicata in forma anonima. Anche in questo caso si può arrivare ugualmente a individuare la società verificando le quotazioni di mercato nei giorni interessati dal provvedimento, ma perché bisogna costringere a un lavoro superfluo, che logicamente porta a desistere dalla ricerca? Evitare sanzioni reputazionali? Basta una istanza Soprattutto, quale livello di gravità di violazione è necessario per finire con nome e cognome sul Bollettino Consob? Che fine ha fatto il rischio di sanzione “reputazionale”, ovvero (come descritto dalla Banca d’Italia) il rischio attuale o prospettico di flessione degli utili o del capitale derivante da una percezione negativa dell’immagine dell’azienda da parte di clienti, controparti, azionisti, investitori o autorità di vigilanza? Ebbene sappiate che la sanzione può essere quasi sempre evitata tramite una semplice istanza all’autorità competente (Consob, Banca d’Italia, Ivass o Tribunali a seconda dei casi).
Violare internal dealing con anonimato garantito L’apice della stortura viene raggiunto dalla Delibera 21992 dello scorso 8 settembre, con la quale viene comminata una sanzione amministrativa pecuniaria e allo stesso tempo ingiunto di porre termine alla condotta e di non reiterarla riguardo violazioni dell’art. 19, paragrafi 1 e 2, del Regolamento (UE) n. 596/2014 novembre 2021
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FISCO & MERCATO
Verso l’addio alla Tobin-Tax la tassa-boomerang anti-Borsa di Francesco Sperti
N
on è ancora ufficiale eppure è quasi certo che il governo sta lavorando all’abolizione della tanto vituperata “Tobin Tax”, che finora ha suscitato più perplessità e dubbi che introiti per lo Stato. Ha costituito un freno agli investimenti in Italia – anche perché è applicata solo in alcuni Paesi, tra cui il nostro, e non in tutto– e appunto una fuga di società ed investitori verso Paesi come, solo per citarne una, l’Olanda, che si sono ben guardati dall’introdurla. JAMES TOBIN L’Imposta sulle Transazioni finanziarie prende in prestito il suo nome dal premio Nobel per l’Economia James Tobin, che la propose nel 1972, per colpire le compravendite di titoli immobiliari di natura speculativa al fine di stabilizzare i mercati monetari e procurare introiti alla comunità internazionale. Introdotta in Italia con la Legge 228/2012 (Finanziaria 2013), tale imposta trova applicazione, con aliquota dello 0,2 per cento (l’aliquota è ridotta alla metà per i trasferimenti che avvengono in mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione) sul valore della transazione, ai trasferimenti della proprietà di azioni e di altri strumenti finanziari partecipativi di cui al sesto comma dell’articolo 2436 del Codice Civile, emessi da società residenti nel territorio dello Stato italiano ed al trasferimento dei titoli rappresentativi dei predetti strumenti, a prescindere dal luogo di residenza del soggetto che emette il certificato. L’imposta grava sul soggetto a favore del quale avviene il trasferimento e trova applicazione a prescindere dalla residenza dei contraenti e dal luogo di conclusione della transazione. Ne sono assoggettate le transazioni multiday aventi ad oggetto titoli emessi da società residenti nel territorio dello Stato e che abbiano una capitalizzazione di borsa superiore ai 500 milioni di Euro. La tassa sui derivati, invece, si applica tanto alle operazioni intraday che multiday ed alle operazioni di acquisto e di vendita, a patto che abbiano come sottostante un prodotto “italiano”, ad esempio l’indice Ftse Mib oppure le azioni italiane con capitalizzazione superiore ai 500 milioni. Ad oggi, sono quindi escluse da questa tassa: FRANCESCO SPERTI • operazioni intraday, ossia tutte le 54
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Il premio Nobel per l’Economia James Tobin, propose nel 1972 per la prima volta la tassa poi indicata col suo nome, per colpire le compravendite speculative immobiliari
operazioni aperte e chiuse entro la fine della stessa sessione di contrattazione; • azioni di società italiane con una capitalizzazione di borsa inferiore ai 500 milioni di euro; • società italiane con residenza estera; • azioni estere, anche se quotate in Italia al Mta International; • obbligazioni. All’indomani della sua introduzione, una parte degli operatori del settore finanziario riteneva che l’applicazione della tassa non avrebbe provocato grosse fughe di capitali, data la scarsa incidenza della stessa sui guadagni percentuali di determinate operazioni finanziarie. Il mondo della finanza più responsabile riteneva invece che la nuova tassazione fosse in realtà lontana da una vera e propria “Tobin tax”. Se si guarda alla situazione in Italia è chiaro che non ci fosse bisogno di questa ulteriore tassa, innestata su una impostazione fiscale abbastanza complessa ed onerosa: redditi di capitale, redditi diversi, Ivafe, Tobin Tax… Ne è derivato che trader e investitori sono molte volte disincentivati all’investimento, almeno in Italia. Infatti, seppur sconti un’aliquota più bassa rispetto ad altri Paesi, l’inferiore capitalizzazione richiesta ai fini della sua applicazione fa sì che siano più numerosi i titoli azionari soggetti a imposta. La conseguenza è che la Borsa di Milano sia divenuta in breve poco appetibile per gli investitori (i quali piuttosto chiudono le operazioni in giornata) e che molte grandi realtà societarie hanno preferito “volare” su piazze straniere dove la Tobin Tax non è stata istituita.Fatto sta che la Tobin Tax ha reso poco o nulla, ha fatto scappare gli investitori, ha danneggiato brokers e banche e ha provocato infine la fuga di alcune “perle” italiane. Insomma: la sua abrogazione farebbe un favore a tutti.
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TOBIN TAX
La montagna di Monti che partorì il topolino di Marco Scotti
S
i dice che la montagna partorisce un topolino per raccontare di un evento annunciato come mastodontico che si tramuta in un risultato decisamente al di sotto delle aspettative. Ma forse sarebbe il caso di coniare un nuovo termine, ancora più immaginifico, quando non solo gli effetti dell’evento annunciato sono poca cosa, ma diventano addirittura nefasti per la montagna stessa. Fuor di metafora, è il caso della Tobin Tax, il provvedimento introdotto nel 2013 dal Governo presieduto da Mario Monti con la promessa di portare un miliardo di euro di extra-gettito fiscale. Si tratta di un dispositivo che applica una tassazione pari allo 0,1% del saldo netto delle transazioni giornaliere su aziende con una capitalizzazione di mercato superiore ai 500 milioni di euro. Per stabilire quali siano le aziende con questi requisiti bisogna attendere una circolare del Mef che viene pubblicata ogni anno il 30 novembre e che sancisce su quali società bisognerà pagare. Con inevitabili storture in un senso e nell’altro, perché si rischia di applicare la tassa a società che l’anno dopo potrebbero scendere sotto la soglia dei 500 milioni di capitalizzazione, rendendo ancora meno interessante investire su di esse e creando un circolo vizioso. I presupposti sono sempre stati labili. Non solo, infatti, non si è mai raggiunto il miliardo auspicato, ma si è anzi ottenuto l’effetto opposto. Il deputato Giulio Centemero, membro della Commissione Finanze della Camera, ha provato a fare i conti in tasca alla Tobin Tax: «Se l’obiettivo iniziale del governo Monti con questa misura era quello di portare gettito per un miliardo di euro», ha argomentato, «possiamo affermare con la massima tranquillità e sicurezza che ad oggi l’obiettivo non è stato raggiunto. I dati del 2017, 2018, 2019 e 2020 ci mostrano infatti un trend di introito erariale addirittura in decrescita: da 432 milioni a 196 milioni. Per non parlare dei volumi azionari scambiati alla Borsa di Milano che dal milione e ottanta scendono costantemente a 346mila nel 2020». Come ogni anno, la speranza è che la Legge di Bilancio possa abolire questa gabella che ha prodotto effetti nefasti. Secondo Ambromobiliare, la Tobin Tax costa mediamente 300 milioni all’anno. I conti sono presto fatti: dall’introduzione della norma i volumi sono calati del 45%, a fronte di un incremento della capitalizzazione di Piazza Affari di circa il 46%. Nel 2019, ad esempio, sono arrivati 353 milioni per le casse dello Stato, ma ne sono mancati 690 tra Ires e Irap. C’è stata un’inversione di tendenza nel 2021 rispetto al 2020, e questo è giusto sottolinearlo. Ma il motivo è molto semplice: lo scorso anno, a marzo, il Ftse Mib era intorno a quota 14mila punti, mentre scriviamo è superiore ai 27mila, con una capitalizzazione media che è quindi quasi raddoppiata. Tra l’altro, va rimarcato come la Tobin Tax abbia trovato un’applicazione decisamente “singolare” nel nostro Paese. In Francia, per
Il provvedimento varato nel 2013 con l’obiettivo di portare un miliardo di euro di extra gettito è stato un flop. Eppure ha avuto effetti nefasti per il listino milanese
GIULIO CENTEMERO
MARIO MONTI
esempio, è addirittura dello 0,3%, ma solo per le aziende con una capitalizzazione superiore al miliardo. Francoforte, il mercato più grande in Europa, si è guardata bene dall’introdurre una norma di questo tipo. E quando a Bruxelles si è provato a introdurre il tema di uniformare questa imposizione, il tutto si è arenato usando come “paravento” la Brexit che avrebbe creato nuove opportunità di mercato. Ora, in un momento in cui – finalmente – si torna a parlare di riduzione del cuneo fiscale e della tassazione da lavoro dipendente, è comprensibile che si debbano anche trovare risorse che compensino le mancate entrate. Ma certamente non possono essere i pochi milioni all’anno della Tobin Tax, con le implicazioni di cui sopra, a far cambiare la situazione. Da questo punto di vista è decisamente più incoraggiante la scelta di tassare le grandi multinazionali hi-tech con un’imposizione minima del 15%, evitando così che si creino storture come accaduto con i colossi del web. Facebook, ad esempio, ha fatturato 235 milioni nel nostro Paese e ha pagato 1,77 milioni di tasse, ovvero lo 0,75%. Con la nuova aliquota minima avrebbe pagato venti volte tanto. Nel 2019 Google, Amazon, Facebook, Apple, Airbnb, Uber e Booking.com – tutti insieme, si badi bene – hanno versato nelle casse dello Stato circa 42 milioni di euro. Evidente dunque che trovare la quadra sotto questo aspetto permetterebbe in un colpo solo di evitare norme “tafazziane” e provare a rilanciare l’immagine di un’Italia che sia capace di attrarre capitali e investitori, non di allontanarli come se fossero degli appestati. novembre 2021
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Regus – Business lounge e coworking
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LA PROPOSTA DI ASSOPREVIDENZA
Incentivi ai lavoratori under 30 perchè investano in un fondo pensioni? di Chiara Merico
L’associazione di Sergio Corbello ha chiesto al Governo di puntare sui lavoratori a inizio carriera per spingerli alla pensione integrativa
U
n superbonus dedicato ai giovani, che incentivi gli under 30 a crearsi un fondo di previdenza complementare: la proposta è arrivata dal presidente di Assoprevidenza Sergio Corbello, all’indomani dell’approvazione della delega sulla riforma fiscale da parte del Consiglio dei ministri. Dal numero uno dell’associazione che riunisce le casse di previdenza integrativa sono arrivate una serie di proposte per favorire il ricorso degli italiani alle forme di pensione complementare, strumenti ancora poco diffusi nel nostro Paese, in particolare tra i lavoratori più giovani. A settembre 2021, secondo gli ultimi dati della Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione, le posizioni in essere presso le forme pensionistiche complementari erano infatti poco più di 9 milioni e mezzo, anche se in crescita del 2,5% (229mila unità) rispetto alla fine del 2020. Considerato il fatto che alcune persone aderiscono contemporaneamente a più forme di previdenza integrativa, il totale degli iscritti è di 8 milioni e 650mila persone. Questo nonostante le ultime evoluzioni del sistema pensionistico indichino che i lavoratori, soprattutto quelli più giovani, rischiano di ritrovarsi a percepire un assegno previdenziale che coprirà a malapena la metà dell’ultimo stipendio. Per questi motivi Assoprevidenza, nella sua qualità di centro tecnico per
Nella foto Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza
la previdenza e assistenza complementari, ha presentato alcune proposte alle Commissioni Finanze di Camera e Senato. Tra queste c’è appunto l’introduzione di un credito d’imposta, una sorta di superbonus per agevolare i giovani e invogliarli a crearsi una pensione integrativa. «È importante che i giovani si iscrivano in fretta alla previdenza complementare: un legislatore attento dovrebbe studiare come incentivare questa partecipazione con un credito d’imposta», ha sottolineato Corbello. Nel dettaglio, Assoprevidenza ha chiesto al governo di “fare un investimento” sui lavoratori a inizio carriera, e che per diverse ragioni, dalla precarietà del lavoro alle basse retribuzioni, tendono a non iscriversi alle forme pensionistiche complementari o a rinviare la decisione. A ogni mille euro versati, ha spiegato il presidente Corbello, secondo la proposta dovrebbe corrispondere un credito di imposta di pari entità: il fondo pensione compenserebbe il credito con le imposte che paga, trasformandolo in denaro contante e versandolo sul conto individuale del giovane, il quale si ritroverebbe così ad avere per ogni euro versato un importo doppio. L’associazione ha poi suggerito che la tassazione dei fondi pensione venga adeguata al sistema utilizzato dai principali Paesi europei ed extraeuropei, e ha inoltre proposto una serie di suggerimenti per favorire lo sviluppo della previdenza integrativa in Italia. Sul fronte fiscale Assoprevidenza ha suggerito l’innalzamento della soglia di deducibilità dei contributi, ancora ferma all’equivalente dei vecchi 10 milioni di lire, oltre a proporre l’esenzione della tassazione dei rendimenti maturati, o almeno la sola tassazione dei rendimenti realizzati, come avviene per i fondi comuni d’investimento. Infine, l’associazione ha chiesto che venga mantenuto l’attuale livello di tassazione delle prestazioni finali (15%, che può scendere sino al 9%). Sempre in merito alle tasse sulle prestazioni, l’associazione ha proposto un abbattimento dell’imponibile Irpef in misura pari al 2% per ciascun anno in cui il contribuente aderisce al piano pensionistico: chi resta nel fondo per 40 anni, in base alla proposta, pagherebbe soltanto sul 20% del totale. In questa maniera, sottolinea Assoprevidenza, si terrebbe conto del fatto che si tratta di investimenti di lunghissimo periodo, sottoposti a particolari vincoli. novembre 2021
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TERZA ETÀ
Investire negli anziani: il mercato immobiliare di Rsa e senior living di Emanuela Notari – Active Longevity Institute
A
I recenti dati Savills mostrano un +38% di investimenti nel settore senior living e Rsa a livello europeo. E da noi quali sono le prospettive?
livello europeo gli investimenti nell’asset class Senior Living & Care Home (Rsa – Residenza per anziani) hanno superato del 38% la media quinquennale, toccando i 4 miliardi di euro, poco più della metà degli investimenti totali del 2020, anno difficile per i mercati ma non per questa asset class. La ragione probabilmente sta nel fatto che il continuo incremento della longevità media, con il suo corredo inevitabile di fragilità e co-morbilità, non è certo interrotto dalla pandemia che semmai ha prodotto più vedovanze tra gli anziani, quindi più solitudine e bisogno di assistenza per il futuro. Ma chi investe in questo settore? Rest (Real estate investment trust) pubblici e privati, fondi
Nella foto Mariuccia Rossini, presidente di Korian Italia e di Over
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novembre 2021
azionari e fondi pensione, gestori di investimenti, istituzioni finanziarie e sviluppatori. È quanto emerge dall’ultimo rapporto Savills relativo al primo semestre di quest’anno. In termini geografici, Germania e Regno Unito fanno la parte del leone, Francia è un mercato già maturo, seguono ora Svezia, Italia e Spagna. I rendimenti, previsti in discesa proprio a causa dell’aumento della richiesta, oscillano tra 3,3% e 5,75% per il senior housing, tra 3,85% e 6% per le Rsa (rendimenti netti prime). Il nostro Paese dovrebbe essere più che interessato dall’esplosione di questa asset class dato che gli attuali 4 milioni di over 80 italiani saranno quasi raddoppiati nel 2060. Eppure, sebbene la previsione di sempre più anziani, sempre più longevi, il nostro paese ha in tutto 300.000 posti letto nelle RSA che escono criticate e giustamente molto osservate dalla pandemia. E i senior living di qualità si contano sulle dita di una mano. Lo stesso Pnrr prevede un investimento di 300 milioni di euro per la riconversione di Rsa e case di riposo in strutture ad appartamenti, pur con gli stessi livelli di assistenza medico-sanitaria, al fine di migliorare l’autonomia delle persone con disabilità; 2 miliardi sono destinati alle cosiddette Case di Comunità per anziani malati cronici, 1 miliardo agli Ospedali di Comunità per l’offerta di cure intermedie e infine 4 miliardi al potenziamento dell’assistenza domiciliare con l’obiettivo di prendere in carico il 10% degli over 65 entro il 2026.
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Rossini: «Servono Rsa più umane, con meno persone e più camere singole, e più strutture intermedie tra la casa privata e la stessa Rsa» «Il modello va rivisto, non c’è dubbio: Rsa più umane, con meno persone e più camere singole, e più strutture intermedie tra la casa privata e la Rsa», osserva Mariuccia Rossini, presidente di Korian Italia e di Over. «Non molti sanno che secondo i dati circa il 20% degli anziani ospiti di una Rsa potrebbero benissimo vivere in un senior living, o assisted living come lo si voglia chiamare». Una residenza studiata per offrire a residenti anziani maggiore comfort e sicurezza, la privacy di un appartamento ma le occasioni di socializzazione di una comunità, assistenza su richiesta, presenza continua di personale qualificato cui rivolgersi per qualunque necessità e una serie di servizi, dalla lavanderia alla pulizia di casa, dalla manutenzione alla gestione delle utenze, spesso anche ristorazione e cafeteria. Un anziano che ha qualche problema di funzionalità motoria finisce spesso in Rsa perché non sa come affrontare da solo una vita che, in una casa pensata per alleviargli le fatiche e ridurre gli ostacoli della quotidianità, potrebbe benissimo ospitarlo con uno stile più vicino a quello di qualche decina di anni prima. «Portato invece in una Rsa, quell’anziano che sarebbe ancora parzialmente autonomo si trova a dover convivere con persone anche totalmente non autosufficienti, o malate di Alzheimer o di demenza. È ovvio che, per quanti sforzi si possa fare per separare le due categorie di ospiti, inevitabilmente si trovano a condividere la stessa struttura e questo non può che tradursi in un monito continuo, per chi è ancora parzialmente autosufficiente, circa il futuro che lo aspetta. Un grande stress emotivo che si potrebbe evitare con strutture ad hoc, come succede in Francia per esempio, da cui viene il nostro gruppo». Viene da chiedersi perché proprio in Italia, paese più vecchio d’Europa, manchi la via intermedia che permetterebbe di non dover scegliere tra restare a casa propria, magari da solo, e “ricoverarsi” in una Rsa. «È un problema che ha diverse facce. L’Italia non ha mai incentivato, come ha fatto invece la Francia, l’investimento nel senior living. Tanto L’invecchiamento della popolazione europea: crescono gli over 80 460,000
Popolazione Eu
Quota di popolazione ≥80
16.5%
FONTE: EUROSTAT
2100
2095
2090
2085
2.5%
2080
390,000
2075
4.5% 2070
400,000 2065
6.5%
2060
410,000
2055
8.5%
2050
420,000
2045
10.5%
2040
430,000
2035
12.5%
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che non ha mai nemmeno inquadrato questo tipo di residenza. Non l’ha inquadrata e non l’ha normata, per cui adesso che la lacuna del mercato è più che evidente, molti si buttano su questa strada scegliendo lo standard che meglio gli aggrada. Ricordiamoci che l’Italia è un paese dove esistono standard assistenziali per le Rsa completamente diversi da una regione all’altra, diverse normative e diverse tariffe, a volte anche all’interno della stessa città. Sarebbe già un passo avanti se si facesse in modo che al nome Rsa corrisponda uno standard nazionale, una prima semplificazione a costo zero che sicuramente aiuterebbe il mercato». Quindi il futuro è roseo per il mercato della residenzialità anziana, pur con le modifiche necessarie e in una più chiara divisione di ruoli, normative e pubblico di riferimento tra Rsa e senior living? «La comunità di chi gestisce Rsa non ha un’unica opinione in proposito. Molti trovano discutibile investire in strutture non medicali per anziani: in Italia, o stai a casa con la badante o vai in Rsa. Io invece ci credo sempre di più. Certo occorre che quei pochi che ci credono – noi di Over, Domitys e magari anche i nuovi investitori Generali Italia-CdP con il marchio Convivit e Reale Immobili – facciamo pressioni sul governo per normare queste strutture o per accettare almeno gli standard di chi ci si è già impegnato. A me sta bene che siamo noi a definire il modello, se nessuno se ne vuole occupare, purché un modello ci sia». Chissà se un contributo potrebbe arrivare dalla nuova certificazione europea per abitazioni age-friendly, cioè a misura di anziano, Homes4life, che coniuga materiali ecologici e tecnologie digitali per rendere la vita in casa delle persone anziane più agevole e sicura. La prima struttura ad esibirla nel nostro Paese è il Borgo Mazzini a Treviso, un ex convento riqualificato oggi residenza per la terza età, progetto cofinanziato dalla Commissione Europea, attraverso Horizon 2020 per un importo di un milione di euro. Un intervento di smart cohousing per la terza età promosso dall’Istituto per servizi di ricovero e assistenza agli anziani (Israa) e studiato per piccole comunità, con anziani autosufficienti e non, in un nuovo esempio di senior living. novembre 2021
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INTERVISTA CON CULOT (SYCOMORE AM)
«Invecchiare bene», arriva il megatrend dei megatrend di Marco Muffato
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on oltre 2 miliardi di senior nel mondo nel 2050 secondo le Nazioni Unite, l’invecchiamento della popolazione mondiale è tra i megatrend più dirompenti del secolo, i cui effetti si declinano su quasi tutti i settori della società - dal mercato del lavoro ai tassi di produttività, dal risparmio ai comportamenti di consumo – rimodellando la domanda di beni e servizi intorno ai bisogni dei senior. Quali sono le prospettive di questo megatrend e come cogliere le collegate opportunità? Investire ne parla con Giulia Culot, co-fund manager del comGIULIA CULOT parto Generali Investments Sicav (Gis) Sri Ageing Population presso Sycomore Am, parte della piattaforma multi-boutique di Generali Investments. Dottoressa Culot, il comparto Gis Sri Ageing Population ha recentemente registrato il sesto anno di track-record, come è mutato l’approccio al megatrend dell’invecchiamento della popolazione in questi anni? Il comparto Gis Sri Ageing Population investe in questo megatrend dal 2015. Il processo d’investimento è rimasto, in questo periodo, sostanzialmente invariato ed è basato sulla selezione delle aziende che consideriamo migliori da un punto di vista dell’analisi Esg, esposte al tema dell’invecchiamento della popolazione e che offrono un potenziale di rialzo sulla base del nostro modello di valorizzazione. Dal 2021, il comparto è stato classificato Articolo 9 nell’ambito del Regolamento europeo sulla trasparenza della finanza sostenibile (Sfdr), in virtù degli obiettivi sociali perseguiti dallo stesso. Nello specifico, ci concentriamo su aziende europee che offrono prodotti e servizi per rispondere alle esigenze emergenti delle società in via di invecchiamento, attive nei settori della salute, delle pensioni e del risparmio e dei consumi. La pandemia di Covid-19 che impatto ha avuto su questa tendenza strutturale? La pandemia ha fatto, in un certo senso, emergere le aree su cui sarà necessario investire sempre di più. Prendiamo l’esempio delle infrastrutture sanitarie, che da voce di “costo” nel dibattito pubblico si sono rapidamente convertite in quello che sono, ovvero attivi strategici di un Paese. La prevalenza di forme gravi nelle persone con condizioni pregresse, quali obesità o diabete, ci ha ricordato l’importanza della prevenzione, necessaria per 60
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rendere sostenibile la spesa medica in una società che invecchia. Disporre di risparmi sufficienti e investire per la pensione è un altro tema che la pandemia ha portato prepotentemente in primo piano. Guardando allo scenario post-Covid, dove trovare opportunità di investimento? Concentrandoci sul tema del “benessere”, privilegiamo due aspetti dell’invecchiare bene: quello fisico, legato alla “salute sostenibile”, e quello economico della “sostenibilità finanziaria”. Secondo le stime, il numero di persone attive fisicamente nel mondo è raddoppiato dal 10% al 20% durante la pandemia, quando ha preso piede l’idea che “la salute è la nuova ricchezza”. Durante il lockdown globale sono nate molte piattaforme per allenarsi online, mentre i produttori di attrezzi da palestra in casa sono stati i principali beneficiari delle ordinanze di divieto a uscire. Peloton, che produce bici stazionarie per fitness connesso, ha dichiarato nel secondo trimestre del 2021 ricavi pari a 1,06 miliardi di dollari US, con un aumento del 128% su base annua. Anche il colosso del fitness Technogym ha visto una crescita robusta dell’attività rivolta direttamente ai consumatori, nonostante le chiusure dovute al Covid-19 che hanno impattato le forniture alle palestre. Secondo le nostre aspettative, le vendite B2C continueranno ad aumentare mentre le attività B2B si normalizzeranno gradualmente, vista la ripresa degli ordinativi che la compagnia sta già registrando. Spostando l’attenzione al tema della sostenibilità finanziaria? Alla maggiore attenzione per la salute fisica fa eco una cura più attenta della salute finanziaria. Un aspetto interessante è che a trainare questa tendenza è la generazione Z. Per esempio, nel Regno Unito durante la pandemia ha iniziato a investire per la prima volta il 16% della popolazione giovane (18-24 anni), contro il 10% delle altre fasce di età. Ed è possibile che questa tendenza diventi permanente. Inoltre le generazioni più giovani sembrano consapevoli del fatto che quando andranno in pensione, dovranno fare affidamento in ampia misura sul reddito derivante da risparmi e investimenti. Questo alimenta la domanda di consulenza finanziaria, richiedendo al settore dei servizi finanziari un cambio di passo per rispondere in maniera più tecnologica alla richiesta di consulenza di investimento e pianificazione finanziaria di questi nuovi clienti.
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INVESTIRE NEL GUSTO
L’antidoto ai tassi zero? È nei vini di pregio di Franco Oppedisano
C’
I prezzi dei vini più prestigiosi continuano a salire e i cinque panieri del Liv-ex di Londra mostrano anno per anno rendimenti a due cifre. Ecco come investire con profitto sulle migliori bottiglie del nostro pianeta
è chi va in Toscana per cercare un podere da comprare e chi va in banca o sul web. Investire nel vino comprando vigneti è una moda per le star internazionali come Brad Pitt, Cameron Diaz e Sting o per i vip italiani del calibro di Bruno Vespa, Zucchero Fornaciari, Roberto Cavalli e Andrea Bocelli, ma si può fare denaro con le bottiglie pregiate, anche e comodamente, da casa e sborsando molto meno. Certo non si sente il profumo del mosto, ma rimane quello dei soldi visto che i prezzi dei vini più prestigiosi continuano a salire. Secondo Liv-ex, il mercato globale dei vini di Londra che fornisce dati storici e in tempo reale aggiornando 35mila prezzi al giorno, i valori dei suoi cinque panieri composti da bottiglie per intenditori sono cresciuti da un minimo del 9,37% a un massimo del 17,41% in un anno e dal 20,56% al 38,58% in cinque anni. Ci sono fondamentalmente tre modi per investire nel vino e cercare di raggranellare un po’ di interessi in una epoca di tassi zero. Comprare e conservare bottiglie che poi verranno messe in asta o vendute, acquistare azioni di vignaioli o scegliere un fondo che ha come sottostante vini pregiati.
Giovanni Agnelli, il capostipite della famiglia e fondatore della Fiat, sembra abbia detto che investendo in vino, alla fine, se non si fosse guadagnato si sarebbe potuto sempre berlo, ma comprare bottiglie pregiate per poi rivenderle non è semplice. Il primo è quello della conservazione. Per mantenere il valore il vino non deve essere esposto alla luce diretta del sole, a fonti di calore, a odori forti e bisogna fare molta attenzione a mantenere una temperatura costante e intatta l’etichetta. Insomma, non è affatto
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facile e se mal conservato il prezzo della bottiglia scende. L’altro problema è che quello del vino è un mercato in cui districarsi è quasi impossibile senza l’aiuto di un esperto. La scelta delle bottiglie e il prezzo di acquisto, considerando che in giro circolano anche bottiglie false, sono già degli affari da professionista. Il canale e il momento di vendere lo sono altrettanto. Certo, ci sono decine di esperti che si offrono di guidare le scelte di investimento enologiche e quasi tutte le case d’asta hanno un settore che si occupa di bottiglie pregiate, ma l’unico grande vantaggio dell’acquisto fisico del vino, oltre alla possibilità di berlo, è che l’eventuale margine di guadagno non è tassato in alcun modo. La geopolitica manda i rendimenti in aceto Una ventina di anni fa ci sono stati diversi tentativi in Italia di collegare il vino alla finanza. Future legati a particolari annate, la “cartolarizzazione fisica” dei debiti delle aziende, o emissioni obbligazionarie con “warrant” per acquistare vino a prezzo bloccato. Castello Banfi lanciò attraverso le enoteche un certificato a cinque anni che rappresentavano un lotto di sei bottiglie di Brunello di Montalcino, in quel momento ancora nelle botti, la Marne et Champagne offri agli investitori 60.000 bottiglie come garanzia dei titoli di debito emessi, mentre Frescobaldi con Mediobanca scelse la strada dell’emissione obbligazionaria al 2% con un warrant alla scadenza che dava diritto all’acquisto di casse di vino a un prezzo predefinito. Questi tentativi però non ebbero molta fortuna perché negli anni interessati la domanda mondiale di vino calò e i prezzi scesero. Ora ci sono le azioni ma in Italia, come nel resto del mondo, il panorama è in chiaroscuro. Nel nostro Paese ci sono solo due produttori di vino quotati alla Borsa di Milano, sull’ex Aim (dal 25 ottobre ha cambiato nome in Euronext Growth Milan, ndr), il listino dedicato alle Pmi: Masi Agricola e Italian Wine Brands, entrambe hanno vissuto un anno negativo durante la pandemia del 2020. Masi Agricola però non ha ancora recuperato valore passando dai 3,2 euro del 2 gennaio 2020 ai 2,99 euro del 25 ottobre 2021, mentre Italian Wine Brands è esplosa quadruplicando, quasi il suo valore, da 12,95 euro ad azione a inizio 2020 a 44,5 euro ad azione del 25 ottobre di quest’anno.
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Una situazione è molto simile a quella che si vede sui mercati internazionali. Constellation Brands Group, che comprende due giganti come Mondavi e Ruffino, ha chiuso in positivo il 2020, guadagnando da inizio anno più del 10%, e nel 2021, dopo aver toccato il suo massimo valore a quota 240, ora naviga attorno 220 dollari per azione. Una nota negativa invece arriva dalla australiana Treasury Wine Estates, il più grande produttore di vino quotato nelle Borse mondiali, con proprietà in mezzo mondo, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dalla California all’Asia, dal sud America all’Europa, compresa l’Italia, con due marchi, Cavaliere d’Oro e Stellina di Notte. La crisi politica tra Australia e Cina, e i dazi del 175% imposti da quest’ultima sulle produzioni enoiche australiane, hanno pesato sulle quotazioni: che sono scese da 16,62 dollari australiani dell’inizio del 2020 fino a un minimo di 8,75 per poi risalire a quota 11,82 il 25 ottobre 2021.
Un club londinese del vino Diecimila sterline è anche l’investimento minimo per entrare in Cult Wines che vanta 200 milioni di sterline under management, 1,25 milioni di bottiglie nel proprio magazzino vicino a Londra e clienti di 83 Paesi del mondo. Il loro indice principale ha fatto segnare un +4,76% nel terzo trimestre del 2021 e un aumento del 14,74% in un anno, ma, dopo aver consultato una lista dei vini con i prezzi, si può scegliere un portafoglio di vini personalizzato in base alla propria propensione al rischio e alla durata prevista dell’investimento. Le bottiglie diventano di proprietà dell’investitore, sono conservate e assicurate, vengono acquistate e vendute senza commissioni, ma c’è una fee di gestione che va dal 2,95% annuo per gli investimenti minimi ai 2,25% per chi mette oltre mezzo milione di sterline. Si possono persino trasferire a Londra le proprie bottiglie dopo averle valutate, ma la particolarità di Cult Wines sono i servizi offerti che aumentano con l’aumentare della cifra investita: si va dall’accesso a degustazioni di vino, eventi, educational e viaggi, all’invito alla giornata annuale di apertura del magazzino, dalle raccomandazioni di acquisto e vendita all’adesione al Cult Connoisseur’s Club, certamente un club esclusivo visto che è riservato a chi ha deciso di trasformare più 500mila sterline in vino.
CHAMPAGNE E BORGOGNA GUIDANO IL RALLY IN CORSO 10.00% 9.00%
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Solo Bordeaux Non ci sono Etf legati solo al vino perché sarebbe molto difficile strutturarli, esistono invece fondi d’investimento, ma quest’ultimi hanno in portafoglio anche in azioni di società di super alcolici e produttori di bottiglie. Il vino c’è ma è solo una piccola parte. Per puntare sulle basse gradazioni ci sono altre due strade. Un fondo chiuso come il Wine Investment Fund e l’ibrido Cult Wines. Puntare su uno di questi significa affidare tutta la responsabilità di selezione a un gestore di fondi manager. Si risparmiare tempo, ma non è economico. Wine Investment Fund, pur avendo la sede a Londra, è costituito alle Bermuda e lavora con istituzioni, intermediari finanziari e investitori privati in tutto il mondo. I dati evidenziano un rendimento nell’ultimo mese del 1,23% e del 5,26% anno su anno. Ma la commissione di sottoscrizione è al 5%, quella di gestione dell’1,5% all’anno e c’è una commissione di performance del 20% dei rendimenti netti sopra l’high watermark. Inoltre i riscatti non sono immediati e sono regolati entro 90 giorni. Gli investimenti per i privati devono essere superiori alle 10 mila sterline, mentre l’asticella per gli istituzionali è posta a un milione di sterline. Con questi soldi Wine Investment Fund acquista
solo vini di Bordeaux perché i loro esperti li considerano gli unici a basso rischio di investimento perché sono prodotti su appezzamenti di terreno non espandibili, hanno un mercato secondario liquido e hanno una storia dei prezzi registrata che va indietro di decenni su cui basare le decisioni di acquisto e vendita. Tutto il vino posseduto è conservato in un magazzino vincolato dal governo britannico, senza dazi e iva da pagare. La filosofia di investimento è semplice: «La domanda», spiegano, «tende ad aumentare man mano che la ricchezza globale aumenta. Una volta che un vino viene imbottigliato, l’offerta di quel particolare vino tende a diminuire nel tempo, poiché il vino viene consumato. Nel frattempo il vino matura e migliora in bottiglia».
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L’ANDAMENTO DEL LIV-EX 1000 E DEGLI ALTRI SOTTO INDICI NEL TERZO TRIMESTRE 2021
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TARGET A BUON FINE
Efpa Italia scala l’Everest Raggiunta quota 8mila certificati di Sergio Luciano
MARCO DEROMA, PRESIDENTE DI EFPA ITALIA
«Abbiamo raggiunto il risultato che indicammo nel 2018 nel Meeting di Riccione. Anche grazie al contributo della certificazione Esg Advisor»
«S
ì, ce l’abbiamo fatta: abbiamo scalato gli ottomila!”: la battuta è d’obbligo per Marco Deroma, presidente di Efa, mentre il terzo anno del suo mandato volge al termine e si avvicinano sia l’ora del consuntivo che le elezioni del nuovo vertice. Gli “ottomila” cui allude De RomaMarco Deroman non c’entrano ovviamente nulla con l’Himalaya, ma per certi versi sono stati un traguardo più ambizioso da tagliare di una scalata sull’Everest. “Nel nostro Meeting di Riccione, alla fine del maggio 2018, lanciai per il quadriennio di presidenza al quale ero appena stato nominato il traguardo degli 8000 consulenti certificati Efpa. Si consideri che alla fine del 2018 eravamo in poco più di 5000, per questo non era scontato farcela. E oggi possiamo dire con soddisfazione che ce l’abbiamo fatta!”. L’operatività ordinaria dell’attuale consiglio d’amministrazione della Fondazione Efpa Italia scade il 31/12/21, “avremo ulteriori 4 mesi di operatività legata alla preparazione del bilancio che va chiuso entro il 30 aprile e lasceremo poi spazio al nuovo consiglio che verrà nominato dal consiglio nazionale nei primi mesi del ’22”. Presidente Deroma, prima di parlare di questi bei nume64
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ri e di quel che significano, ci dia un’altra notizia: lei è disponibile a un nuovo mandato, se le verrà offerto dal Consiglio? Sì, se il Consiglio dovesse decidere in questo senso, sarei disponibile a un rinnovo. L’ho già fatto sapere. Dunque considera positiva la sua esperienza? Cosa le ha dato la presidenza dell’Efpa? Mi ha permesso di ampliare molto la mia conoscenza dei vari interlocutori della nostra professione, dandomi relazioni interessanti e una grande opportunità di crescita culturale su tante tematiche cruciali per la nostra professione. Tante relazioni di valore. È un ruolo che assorbe molto, sì: non è un incarico di pura rappresentanza ma è operativo e questo impone un surmenage per chi, come me, debba contemporaneamente continuare a svolgere la mia attività professionale personale. Ma la gratificazione derivante dal dare il massimo contributo personale all’Efpa e le opportunità connesse al ruolo che ho richiamato sono una valida contropartita! Allora auguri, presidente. E torniamo ai numeri. Sì, quell’obiettivo degli 8000 certificati che indicammo nel maggio del 2018 e che parve un traguardo troppo ambizioso è stato raggiunto nonostate il periodo straordinariamente impegnativo che abbiamo avuto a causa della pandemia. Ad oggi, proiettando la media di superamento dell’esame da parte dei candidati sul numero esami già fissati da qui alla fine dell’anno dovremmo suoerare gli 8000, attestandoci per la precisione a quota 8150. Secondo lei quali sono state le cause di questo boom? Anche perché il grosso dell’incremento si è registrato nel 2020 e del 2021… Sì, c’è stata una netta evoluzione. Il contributo più importante è stato l’avvio della certificazione Esg Advisor. Siamo riusciti a cogliere l’attimo. Dal momento in cui la nuova pratica è stata deliberata dal board europeo dell’Efpa, a gennaio del 2021, siamo subito partiti col primo esame. Veramente un tempo record. Aggiungiamo un altro elemento che sicuramente ha aiutato, ed è stata collaborazione che si è sviluppata tra Anasf e Sda Bocconi sul tema, un motore grazie al quale abbiamo raggiunto quest’obiettivo molto prima. Anasf e Sda Bocconi sono stati velocissimi, ma ci sono state anche numerose altre scuole di formazione che nell’ambito Esg hanno avviato qualificatissime attività di preparazione dei candidati all’esame, e questo lavoro è stato sicuramente il vero presupposto che ha poi permesso a Efpa Italia di raggiungere il suo traguardo. Formazione prevalentemente digitale… Certamente, ma guardi che tutte le nostre realizzazioni si spiegano solo nel contesto della transizione digitale.
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TREND PROFESSIONISTI CERTIFICATI EFPA ITALIA 2018-2021 ANNO
PROFESSIONISTI CERTIFICATI
% CRESCITA
2018
5.256
-
2019
5.603
+ 6,20%
2020
6.786
+ 17,44%
2021*
8.150
+ 16,74%
* 2021 DATO STIMATO. FONTE: EFPA ITALIA
ma è anche vero che si fa troppa fatica a sposare il cambiamento. Le filiali fisiche delle banche sono obsolete, e il ragionamento secondo cui presidierebbero il rapporto di un’azienda col territorio dimentica che il mondo è cambiato e che ci sono tante aziende che presidiano assai bene il loro territorio senza per questo avervi sedi fisiche. Torniamo alla centralità del digitale? Il digitale sta prendendo estramemente piede tra risparmiatori e investitori e quindi ostinarsi a difendere modelli superati è un errore. I professionisti sentono sul collo il fiato dell’innovazione e questo determina il bisogno di essere sempre preparati. L’Efpa fa proprio questo: dice a ciascuno se il suo livello di preparazione è stato raggiunto oppure no. Se un consulente finanziario dovesse restare ancorato alla propria autoreferenzialità farebbe un errore, e anche studiare da soli è un bene ma non basta; l’Efpa rappresenta contemporaneamente una testimonianza e, insieme, una certificazione che il tuo percorso di formazione ha raggiunto gli obiettivi di minima stabiliti in forma condivisa a livello europeo, uguali per tutti i Paesi europei. I vostri prossimi programmi? Lavoreremo sempre di più per uniformare le domande d’esame, in modo da renderle patrimonio comune europeo: anche questa è garanzia di standardizzazione in alto delle competenze. Si può dire che ormai la certificazione Efpa vale una laurea? Essere laureati basta a iscriversi all’esame Efpa, non a superarlo. Peraltro dall’econometria ai derivati la casistica dei mercati e le materie da apprendere sono sempre nuove e sempre più sfidanti. E i consulenti finanziari lo sanno? I consulenti finanziari hanno oggi una consapevolezza nuova, diversa da quella di qualche anno fa, forse accentuata dalla digitalizzazione. Sanno di essere protagonisti del mercato e quindi dell’economia reale e non solo di quella finanziaria. In questo la diversa organizzazione del tempo di lavoro indotta in tutti noi dai duri mesi di pandemia ha paradossalmente aiutato. Sembrano suggerirlo i numeri. Dal 2018 al 2019 abbiamo avuto un incremento delle certificazioni pari al 6,2%, da 5256 a 5603. Poi c’è stata la pandemia e nel 2020 da 5.603 siamo passati a 6.786, +17,4%. Poi dal 2020 al 2021 un ulteriori aumento del 16,74%. È come se la lentezza dell’evoluzione Efpa fosse cessata prima della pandemia…
Cioè? Mi spiego. Parlando di scuole, ebbene le scuole che lavorano per noi hanno avuto il merito di trasformare rapidamente la loro offerta formativa da analogica, e in presenza, a digitale e da remoto. Noi, come Efpa Italia, ci eravamo mossi in questa transizione con altrettanta rapidità. Ma siamo stati ben accompagnati. Ci siamo tutti adattati alle nuove regole del distanziamento che hanno determinato l’obbligo di scegliere le soluzioni digitali. Ma ora che tutto è alle spalle sembra facile. Ai tempi, preparare bene i candidati affinchè potessero superare l’esame, cambiando dall’oggi al domani le formule didattiche be’, è stato molto complicato. E per l’Efpa come azienda è stato difficile superare i lockdown? Nella sua storia, la fondazione si è sempre sostenuta economicamente attraverso i ricavi del Meeting: abbiamo potuto tenere dritta la barra del timone aziendale grazie ad una forte resilienza. Abbiamo fatto grande attenzione ai costi, più che mai. Abbiamo subito coinvolto la proprietà dell’immobile dove abbiamo la sede e abbiamo ottenuto uno sconto; la nostra società di servizi è riuscita a beneficiare degli aiuti erogati dallo Stato alle imprese che avevano accusato un calo del fatturato. E, non ultimo, abbiamo fatto una spending review molto severa che ha permesso una sensibile riduzione dei costi generali. Ricavi niente? Qualche ricavo è arrivato dall’organizzazione degli eventi digitali: ma piccoli importi. Perciò parlavo di resilienza! Altro essenziale elemento di solidità: aver sposato fino in fondo il cambiamento digitale, risparmiando. Torniamo alla professione e all’evoluzione di cui voi, come Efpa, siete alfieri. Come la descriverebbe? La crescita complessiva della professione si vede dal fatto che è sempre più avvertito il bisogno di essere ben preparati. Il tema dei principi Esg, il TREND CERTIFICAZIONE EFPA ESG ADVISOR grandissimo interesse che ha sollevato, è (Per novembre e dicembre i dati sono stimati in base alle sessioni d’esame pianificate) stato la cartina di tornasole di questo tipo di bisogno. Perché c’è stata tantissima affluenza, perché l’esame di Esg Advisor è stato così gettonato? Perché è un tema attuale e serio, ed essere riusciti a dare un’offerta formativa in tempo utile è stato prezioso per noi e per il mercato. I colleghi sanno che le nuove sfide professionali si fanno sempre più pressanti. Ma anche le opportunità si fanno pià interessanti. Guardiamo quel che sta succedendo nel caso Montepaschi: è vero che si stanno ponendo problemi gravi per i lavoratori, FONTE: EFPA ITALIA novembre 2021
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INTERVISTA CON ROMANO (SELLA SGR)
Sostenibilità e rendimento, la coppia funziona davvero di Marco Muffato
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L’esperienza sul campo di una delle società di gestione del risparmio nazionali più importanti dimostra che è possibile abbinare gli obiettivi Esg e i ritorni sull’investimento per il risparmiatore
atti non parole. Il fenomeno Esg sta davvero rivoltando come un calzino l’intera industria dell’asset management, con un effetto potente sui processi d’investimento, sulla selezione dei titoli e degli emittenti e quindi sull’intera gamma d’offerta dei fondi. Di quanto sta avvenendo nel comparto e sui riflessi sull’attività di una delle più importanti società di gestione del risparmio del panorama nazionale, ne parliamo con Mario Romano, Direttore Investimenti di Sella Sgr. Dottor Romano, il fattore Esg come sta cambiando il lavoro degli asset manager? In un mondo che corre in direzione sostenibile, il ruolo dell’asset manager risulta più che mai fondamentale nel finanziare progetti e selezionare aziende innovative, con prospettive di crescita efficienti, superando i passati paradigmi di valutazione legati esclusivamente all’analisi finanziaria. L’integrazione dei principi Esg nelle strategie di investimento è una scelta fondamentale che consente di ottenere risultati tangibili anche al di fuori della sfera economica, con impatti positivi in ambito sociale e ambientale, migliorando e salvaguardando la qualità della vita nel nostro presente e per le generazioni future. Nel vostro caso la sostenibilità che peso ha nella vostra offerta? In Sella Sgr abbiamo scelto di includere i criteri di sostenibilità nel processo di investimento dell’intera gamma prodotti, con lo scopo di individuare e misurare i rischi e le opportunità nella sfera ambientale, sociale e di governance di ciascun emittente, facilitandone l’integrazione nella costruzione dei portafogli. Prevediamo in primis uno screening negativo che consiste in specifiche esclusioni di settori controversi o di emittenti con problematiche legate alla governance. 66
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Come puntare sulle imprese giuste in chiave Esg? Per i prodotti altamente sostenibili l’Esg diventa un vero e proprio strumento di gestione attiva e lo screening positivo avviene nel continuo, considerando l’approccio alla sostenibilità delle società presenti in portafoglio o potenzialmente da includere, contestualmente alle tradizionali valutazioni fondamentali. L’obiettivo è quello di favorire, a parità di altre condizioni, emittenti con una più alta vocazione sostenibile e al tempo stesso individuare quelli che potranno maggiormente beneficiare delle opportunità, ambientali e sociali, offerte da questa fase di transizione. In questo particolare momento storico, risulta fondamentale ripensare i criteri di selezione delle realtà in cui investire, privilegiando sempre più le aziende capaci di cogliere il cambiamento in atto sui temi della sostenibilità. Quali temi d’investimento vede prioritari in questo momento? Non c’è dubbio che la pandemia abbia contribuito ad un’accelerazione di questi trend, favorendo un allineamento degli interessi economici e finanziari con quelli ambientali e sociali. Attualmente l’attenzione è focalizzata sui temi legati alla transizione ecologica e digitale. La nuova frontiera dell’investimento sostenibile implica invece di pensare alla sostenibilità in senso più ampio, non valutando esclusivamente gli aspetti ambientali, ma guardando anche ai risvolti sociali. Nell’ambito delle obbligazioni sostenibili, per esempio, il processo di selezione di Sella Sgr oltre ai green bond considera anche i social e sustainability
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bond, ovvero le obbligazioni emesse a sostegno di politiche inclusive, come il deficit abitativo, la sicurezza alimentare, l’accesso all’educazione, alla salute e alla finanza. Hanno ancora un senso le valutazioni di tipo geografico e settoriale per cogliere le nuove opportunità d’investimento? La costruzione di una gamma d’offerta moderna, oggi, non può prescindere da politiche di investimento sostenibili e dai tematici. Proprio in questa fase, appare necessario individuare idee che superino le logiche più tradizionali di tipo geografico e settoriale per cogliere soluzioni trasversali in grado di investire su interi segmenti della vita di oggi e di domani. La tecnologia, la ricerca scientifica, l’ambiente, la mobilità, la sanità assumono significati diversi. Nuove e crescenti risorse verranno convogliate verso le società che in tutto il mondo operano in settori come le infrastrutture green, le energie alternative, la digitalizzazione e l’accesso alla finanza ma anche la nutrizione, la salute e il benessere Qual è la novità più rilevante negli investimenti socialmente responsabili che vuole segnalarci? Nell’attività dell’asset manager, il confronto e la collaborazione con importanti partner consentono di arricchire le conoscenze del team di gestione ed accrescere gli strumenti a disposizione dei sottoscrittori. In quest’ottica, in Sella Sgr abbiamo integrato all‘interno dei fondi di fondi una selezione di strategie tematiche per cogliere le tendenze di medio e lungo termine. In particolare, un anno fa abbiamo lanciato il comparto azionario tematico TFS iCARE, il cui portafoglio si compone di fondi tematici di società che promuovano l’innovazione per la cura, l’ambiente, la ricerca e l’etica. La soluzione di investimento nasce dalla collaborazione con la Fondazione Umberto Veronesi, per coniugare finanza e ricerca scientifica e promuovere investimenti socialmente responsabili. Quanti sono i fondi articolo 9 e articolo 8 secondo i dettami della Sfdr (la Sustainable finance disclosure regulation, ndr) all’inter-
Mario Romano, Direttore Investimenti di Sella Sgr nella foto a pagina 66
no della vostra gamma fondi? Premettendo che abbiamo integrato i criteri di sostenibilità in maniera verticale su tutti i prodotti, ciò non significa necessariamente avere tutti i prodotti Esg. Abbiamo posto attenzione sull’intera gamma per escludere alcune aziende controverse e settori, come quello degli armamenti e del gioco d’azzardo, dai nostri fondi. Con un approccio più rigoroso per i nostri fondi articolo 9 e 8 che oggi coprono il 25% della gamma. La sostenibilità paga in termini di rendimenti? Non sempre ma sicuramente paga in termini di rischio e in chiave di medio-lungo termine le aziende più virtuose consegneranno risultati migliori ai propri investitori. Certo i fondi high yield che hanno come mission la ricerca di rendimento in linea teorica possono pagare qualcosa in più in termini di ritorni prospettici ma associati a una maggiore volatilità. La nostra esperienza in ambito azionario Esg, relativa a uno dei nostri fondi di maggior successo, il già citato TFS iCARE, dimostra che si possono raggiungere entrambi gli obiettivi: quello della sostenibilità e quello del ritorno per il cliente, grazie alle ottime performance ottenute dal lancio. Uno degli aspetti più interessanti è il ruolo attivo degli asset manager nel determinare il cambiamento in chiave Esg delle aziende, attraverso le attività di engagement? È così? Dobbiamo iniziare a pensare che l’analisi non è più solo finanziaria. Nei prossimi anni le aziende diventeranno più virtuose e si presenteranno a noi peraltro con una crescente appetibilità. Anche nel nostro caso una parte della nostra attività nella sostenibilità si sostanzia in azioni di engagement. Sono occasioni che ci mettono in contatto con l’economia reale e ci consentono di domandare alle aziende qual è il grado di implementazione della sostenibilità dei propri processi produttivi. Questa è un’attività molto utile perché da un lato promuoviamo l’adozione di logiche Esg e dall’altro comprendiamo a che punto sono le aziende nella loro adozione. L’engagement quindi è un momento di contatto attivo con le imprese sia grandi che medio-piccole. novembre 2021
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FINANZA COMPORTAMENTALE
Investire in azioni con ogni clima di Chiara Merico
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emere le perdite è assolutamente umano. Lo psicologo premio Nobel Daniel Kahneman ha trattato la tematica nella sua teoria dell’avversione al rischio, dimostrando che la frustrazione correlata a una perdita di denaro è maggiore rispetto alla soddisfazione per i guadagni ottenuti. Dunque l’istinto naturale dell’investitore è quello di abbandonare il mercato in caso di forti ribassi e di reinvestire quando i titoli evidenziano netti rialzi. Ma entrambi gli atteggiamenti possono avere conseguenze negative, come ci spiega Paola Pallotta, managing director di Capital Group. L’economia comportamentale afferma che le persone agiscono spesso in modo irrazionale nel prendere decisioni di tipo finanziario. Quindi a quali condizioni è possibile compiere scelte logiche e consapevoli? Le reazioni emotive agli eventi di mercato sono perfettamente normali. È lecito sentirsi nervosi a fronte di una flessione dei mercati. Ma sono le azioni intraprese in questi periodi che possono fare la differenza tra il successo e l’insuccesso negli investimenti. Imprescindibile è aver intrapreso un autentico percorso di investimento. La prima raccomandazione è quindi quella di individuare un professionista con cui condividere un progetto ed essere pronti a navigare un mare che a volte può diventare tempestoso. Le oscillazioni, più o meno violente, dei mercati finanziari sono fisiologiche: la conoscenza di come funzionano deve costituire il punto di partenza di qualsiasi progetto di investimento. Il passo successivo è quello della condivisione di un piano e della conseguente defi68
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Reagire emotivamente alle oscillazioni è normale. Ma l’emotività è spesso una cattiva consigliera
In foto Paola Pallotta, managing director di Capital Group
nizione di obiettivi di vita innanzitutto, che diventano poi obiettivi di investimento. Il terzo elemento è conoscere se stessi: comprendere le basi della finanza comportamentale. Sapere che esistono euristiche e bias - come “l’ancoraggio” o il “bias della conferma” o quello della “disponibilità” -, che entrano in azione in modo automatico se non interveniamo, è l’unico modo per individuare i potenziali errori prima di commetterli. Per loro natura i mercati azionari hanno sempre delle oscillazioni. Come affrontarle in modo corretto? I momenti negativi di mercato sono per definizione un momento in cui i prezzi scendono: spesso però il loro valore resta inalterato. Possono essere quindi anche dei momenti di opportunità per acquistare a prezzi di saldo. Quando ci troviamo di fronte ad un segno negativo occorre valutare se e come è cambiato il contesto circostante, sia della nostra vita che dell’oggetto del nostro investimento. Sono ancora
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valide le condizioni sulla base delle quali era stata fatta quella scelta? Il mio suggerimento è quello di adottare la logica del “what if”. L’abbiamo imparato dal mondo dell’aeronautica: così come fanno i piloti, durante un volo aereo, occorre controllare lo stato delle variabili in maniera continua. Nel momento in cui viene stabilito un piano con determinate mete, proprio come quello di volo, dobbiamo costantemente monitorare le condizioni: nella vita possono cambiare diverse situazioni, dalle entrate alle necessità familiari. Nel corso del viaggio del nostro investimento possono cambiare molti parametri, così come in un volo intercontinentale. Al pilota spetta il compito di adeguare la navigazione al mutare delle condizioni. Tornando ai mercati azionari: se il piano che abbiamo concordato in partenza ci era apparso valido e se le condizioni del contesto non sono mutate, a quel punto, anche di fronte a un segno meno, occorre resistere alla tentazione di vendere, ricordando che le oscillazioni di mercato sono fisiologiche, come già detto, ma anche temporanee. Quali sono gli errori comportamentali più frequenti? Tra quelli più frequenti c’è la “paura del rimpianto” che fa sì che le persone non apportino cambiamenti neppure quando sarebbe necessario invece farli. Questa paura spinge a restare ancorati alle scelte anche quando palesemente non sono più corrette: si tende a vendere quello che è andato bene e ad ostinarsi a tenere in portafoglio quello che invece ha un segno meno davanti, senza davvero analizzare se abbia senso farlo. Il “bias dell’ancoraggio” è invece quella tendenza che ci porta a fare delle valutazione sulla base di un parametro al quale ci siamo appunto ancorati, ma che in quel momento non è più valido, come ad esempio il prezzo di acquisto di uno strumento finanziario. Il “bias della conferma” invece ci porta a rafforzare una scelta cercando informazioni o prestando un’attenzione maggiore nei confronti di quelle informazioni che ci confermano di aver fatto la scelta giusta. Un altro errore comportamentale molto diffuso è il “bias della disponibilità”: in virtù di questo errore siamo portati a ritenere come più probabili tutti quegli eventi che ci tornano alla mente più spesso o che ricordiamo meglio. Detto anche in altri termini: la maggiore disponibilità di informazioni su un determinato evento ci spinge erroneamente a ritenerlo più probabile anche quando non è suffragato da elementi reali. Come sgombrare il campo dai bias? I bias funzionano purtroppo tutti insieme: sono elementi della natura umana ed essere consapevoli della loro esistenza ci può sicuramente aiutare a evitarne gli effetti. I bias alterano di fatto la percezione del rischio che si verifichino determinate situazioni. Il mio suggerimento è quello di rallentare in modo da interrompere ogni automatismo, anche decisionale. Le scelte compiute velocemente sono quelle più esposte all’influenza dei bias. L’alternativa è quella di sfruttarli, anche assecondarli per prendere decisioni più consapevoli. Faccio un esempio: il nostro cervello ha una propria contabilità mentale, come ha messo in evidenza Richard Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017 per temi di finanza comportamentale. Pur non essendo razionale, il nostro cervello organizza cassetti mentali nei quali “ripone” porzioni
delle nostre disponibilità finanziarie a seconda della destinazione. Sempre il nostro cervello fatica inoltre a considerare il denaro come realmente fungibile e travasabile senza difficoltà tra da un cassetto e all’altro. Questo altro non significa che siamo intrinsecamente predisposti a ragionare per obiettivi separati e che la programmazione di un piano di investimento coerente con la nostra naturale disposizione potrebbe esserci di grande aiuto. Come affrontare la volatilità? È normale che nei periodi di volatilità di mercato entri in gioco la componente emotiva. Gli investitori capaci di non attribuire un peso eccessivo alle notizie di breve periodo hanno maggiori possibilità di elaborare una strategia di investimento di maggiore successo. Anche nell’affrontare questo tema il supporto del consulente finanziario può aiutare ad attribuire il giusto peso alle notizie distinguendo ad esempio tra temi di breve periodo o ed elementi di impatto più significativo. Se ci si concentra su alti e bassi a breve termine, la volatilità di mercato è senz’altro fonte di particolare preoccupazione. Conviene invece considerare un orizzonte temporale più lungo, dando la precedenza alla crescita a lungo termine dei propri investimenti e al progresso compiuto ai fini del conseguimento degli obiettivi previsti. Quali sono le parole d’ordine quando ci si avvicina al mercato azionario? Le tre parole chiave sono: il “tempo”, nel senso di durata dell’investimento, la “disciplina” che consiste nel costruire un piano di investimento ben definito, e la “diversificazione”. La diversificazione può contribuire a ridurre la volatilità per gli investitori interessati ad evitare lo stress causato dalle fasi ribassiste. Un portafoglio diversificato non garantisce guadagni né assicura che gli investimenti non diminuiranno in valore, ma riduce il rischio. Distribuendo gli investimenti su più classi di attivi, gli investitori possono abbassare gli effetti di forti oscillazioni nei loro portafogli. I rendimenti complessivi non toccheranno gli apici dei singoli investimenti, ma neanche gli abissi più profondi. novembre 2021
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LARGO AI CONSULENTI
Educazione finanziaria a scuola, finalmente si comincia di Marco Muffato
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a quarta puntata di Largo ai Consulenti, il video-magazine realizzato da Investire in collaborazione con l’Anasf (l’associazione di categoria dei consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede) è stata dedicata al tema dell’educazione finanziaria a scuola. Un argomento quanto mai di attualità, trattato proprio nel mese di ottobre, che ha visto l’organizzazione di oltre 700 eventi formativi e informativi su tutto il territorio nazionale organizzati dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria diretto da Annamaria Lusardi. E a proposito dell’educazione finanziaria a scuola, una legge nel 2019 ha reso possibile, nell’ambito della materia di educazione civica, la previsione di alcune ore di lezione dedicate al risparmio (sulle 33 totali previste per l’educazione civica, non tantissime). Delle prospettive del risparmio insegnato a scuola abbiamo parlato con Luigi Conte, presidente di Anasf, con Alma Foti, vicepresidente di Anasf e responsabile dell’area formazione dei cittadini e rapporti con il risparmiatore appunto dell’associazione di categoria dei consulenti finanziari; con Francesco Paese, consulente finanziario, socio Anasf, e soprattutto formatore di Economic@mente. E con gli esponenti del mondo scolastico, le professoresse Carlotta Barro e Francesca Vignali, entrambe del Liceo Augusto Monti di Chieri (in provincia di Torino) e di Lorenzo Gumiero, ex studente del liceo di Chieri e oggi studente universitario di Economia e finanza alla Bocconi. Presidente Conte, cosa ha fatto concretamente Anasf per cercare di elevare questo livello di conoscenze nell’educazione finanziaria e cosa intendete fare in futuro? La nostra associazione a partire dal 2009 ha provato a dare una prima traccia di forte impegno in questo settore attraverso il primo progetto “Economic@mente, metti in conto il tuo futuro”, destinato agli studenti delle scuole superiori. Questo progetto ha visto in questi anni la partecipazione di ben 38 mila studenti. A partire dal 2019 abbiamo avviato un’altra iniziativa “Pianifica la mente e metti in conto i tuoi sogni” destinata invece agli adulti, un progetto purtroppo interrotto a causa del Covid, che ha coinvolto comunque circa 800 partecipanti in nove regioni. Abbiamo cercato come associazione di fornire il nostro contributo a titolo gratuito, mettendo a disposizione le nostre competenze ed esperienze, frutto del nostro presidio costante e quotidiano dei nuclei 70
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La quarta puntata del videomagazine, realizzato da Investire in collaborazione con Anasf, evidenzia la crescita qualiquantitativa delle iniziative educational per i giovani e presto anche per i bambini della primaria familiari italiani. I clienti dei consulenti finanziari sono molto più consapevoli delle loro scelte perché abituati a dialogare su questi temi in maniera ricorrente: questo confronto ha migliorato almeno le loro competenze di base. Per il futuro incrementeremo queste iniziative orientandoci sempre di più i giovani, sia per quanto riguarda le scuole superiori, ma ancor di più per quanto riguarda l’università. Conte, la materia risparmio è entrata già nelle scuole ufficialmente attraverso l’educazione civica, quindi all’interno delle 33 ore di educazione civica annuali. Visto l’importanza del tema, credo che potrebbe anche meritare una trattazione separata e il risparmio all’interno della programmazione scolastica. Tu che ne pensi? Ne penso bene, tutto il bene possibile, ritengo che reintrodurre l’educazione civica nelle materie di studio, con uno spazio dato al risparmio sia un passo importante anche se in realtà manca un progetto di riforma del sistema di studio più orientato al futuro. Ci sono materie che credo siano
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non è assolutamente di tipo nozionistico, anzi partiamo utilizzando la metafora del viaggio, spiegando che non è importante il mezzo ma il percorso, cercando di coinvolgere i ragazzi nell’acquisire un’attitudine mentale alla pianificazione, che è cosa ben diversa dal sapere che cos’è uno strumento finanziario, cos’è un’azione, cos’è un’obbligazione. Dobbiamo aiutarli a ragionare su come si costruisce un progetto di vita, quali sono le variabili da considerare, qual è la meta.
indispensabili oggi nel profilo di un programma scolastico, non capisco perché non si parli di introdurre l’educazione alimentare con tutto quello che leggiamo a causa di errati processi di alimentazione soprattutto dei giovani. Con la vice presidente Foti stiamo lavorando per introdurre il progetto Economic@mente anche nelle scuole primarie in maniera tale che i bambini comincino a prendere confidenza con l’economia, acquisirne quei rudimenti che torneranno utili quando si dovrà poi diventare cittadini consapevoli. Ad Alma Foti chiedo quindi di fare un bilancio di questo magnifico “Economic@mente” uno dei progetti di più ampio respiro nella storia degli interventi educazione finanziaria del nostro Paese… Il bilancio è assolutamente positivo e lo dicono i numeri, ma soprattutto per la grande soddisfazione di andare nelle scuole per fare educazione finanziaria, in un Paese come il nostro che è agli ultimi posti per alfabetizzazione finanziaria. E quindi nel nostro piccolo stiamo cercando di contribuire a scalare qualche posizione. Il progetto è nato nel 2009 coinvolgendo 459 scuole in tutta Italia. Abbiamo toccato una novantina di province e abbiamo circa 1400 corsi all’attivo. E poi tutti ci riconfermano per i corsi successivi e questa è una grande soddisfazione. Anche quest’anno abbiamo partecipiamo attivamente al Mese dell’educazione finanziaria, con 30 corsi di “Economic@mente, metti in conto il tuo futuro” e 4 corsi di “Pianifica la mente metti in conto i tuoi sogni”, realizzato per i risparmiatori. Paese, lei è un formatore di Economic@mente. Per quali ragioni ha intrapreso questo percorso? I motivi sono tre: il primo è che ho sempre avuto a cuore l’educazione finanziaria e intendo dare un contributo affinché possa crescere questa consapevolezza. Il secondo è che il progetto si rivolge ai giovani che rappresentano il nostro futuro. Il terzo motivo è nelle caratteristiche del corso che
Professoressa Barro, avete sperimentato nel vostro liceo questo progetto: siete soddisfatti di Economic@ mente rispetto a quelle che erano le aspettative o ci sono aree di miglioramento? Devo dire che noi non abbiamo mai avuto perplessità perché eravamo già in un’ottica di scuola che fosse aperta verso il futuro, sin dal 2015 quando è stata inserita l’alternanza scuola-lavoro tra gli argomenti curricolari da valutare anche nei licei. Questo c’ha permesso di entrare in contatto con argomenti di estrema attualità, importanti per la formazione dei nostri studenti, quali il risparmio e l’educazione finanziaria. Un corso appunto di educazione finanziaria che permettesse loro di aprirsi anche a una carriera nel mondo della finanza, imparando non più passivamente ma mettendo in atto delle competenze nuove anche durante il loro percorso di liceali. Il corso Anasf ha una caratteristica diversa rispetto ad altri corsi di educazione finanziaria che mettiamo a disposizione ai nostri studenti: è una formazione in presenza, con un tutoraggio di esperti che hanno competenze didattiche e che quindi stabiliscono un rapporto umano con i nostri studenti, li guidano e li portano a produrre un elaborato finale. E qui i ragazzi scoprono di avere delle potenzialità anche in materie di studio non tradizionali. Lorenzo Gumiero, questo corso di educazione finanziaria svolto dall’Anasf le è stato utile, ritiene sia un’iniziativa che serva effettivamente a uno studente liceale? Sì, è stata molto utile dal mio punto di vista perché mi ha permesso di approfondire i mercati finanziari ispirando in seguito la mia scelta di intraprendere gli studi universitari di Economia e finanza alla Bocconi. Da neofita le lezioni del dottor Paese sono state davvero molto interessanti e mi hanno appassionato. Cosa farò in futuro? Difficile dirlo ma la gestione o la consulenza finanziaria potrebbe essere di mio interesse. Vice presidente Foti, come si diventa formatori di Economic@mente? La figura del consulente finanziario porta in sé degli elementi di educazione al risparmio anche nel contatto quotidiano con i clienti ma certo questo non significa essere automaticamente un buon formatore, quindi bisogna imparare un metodo didattico attraverso un corso di formazione ad hoc realizzato in collaborazione con la società Progetica con tanto di esame interno e poi pratica in aula in affiancamento per essere pronti a parlare con i ragazzi. Professoressa Vignali, a suo avviso la materia del risparmio merita una dignità autonoma. L’essere un novembre 2021
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ascolto alle loro domande e riflessioni. Quindi confermo che c’è una comunicazione bidirezionale con un’attenzione sempre molto alta degli studenti perché stimolata dal continuo confronto con il docente, dalla capacità di interrogarsi per cercare delle soluzioni. Il tutto si concretizza con un elaborato finale, che chiediamo di fare in gruppo scegliendo un argomento di interesse comune. Gumiero, quali dei temi trattati dal suo docente Francesco Paese ha trovato di suo interesse? L’argomento che più mi è piaciuto è la piramide degli investimenti, altro che gambling o investimenti alla Wolf of Wall Street! Il docente mi ha fatto capire in che cosa consiste la pianificazione finanziaria e cioè che bisogna pianificare i propri investimenti cercando di gestire il proprio portafoglio nel modo giusto. Paese, dal suo punto di vista qual è stata la materia che ha interessato di più agli studenti? Confermo che il tema risparmio e investimento – e c’è un modulo proprio con questo titolo - è quello che affascina di più, perché all’inizio si associa in maniera molto semplicistica l’investimento associandolo al comprare, vendere o fare trading sul Forex, ma poi i ragazzi iniziano subito a soffermarsi e a riflettere su una domanda che può sembrare semplice e scontata: l’investimento è un fine o un mezzo? Perché dovremmo investire? Gli studenti rimangono meravigliati delle risposte che vanno a scardinare i pregiudizi più comuni, con un particolare focus sulla gestione del rischio e sulle scelte degli investimenti che devono essere correlati ai propri progetti di vita.
tassello dell’educazione civica, non è un po’ troppo limitativo? In realtà non è limitato a un ambito come quello dell’educazione civica, ma rientra anche in una progettualità più ampia che oggi è il Pcto, cioè i Percorsi per le competenze trasversali e orientamento, e quindi ha un alto valore formativo in relazione proprio alla formazione della persona alla vita. Il lavoro svolto dall’Anasf è fondamentale perché permette quel processo di consapevolezza che oggi è ineludibile nell’esistenza di ciascuno, al di là di quelle che saranno le scelte universitarie, diventando consapevoli di che cosa vuol dire un investimento, indebitarsi, pensare a una previdenza. E nel momento in cui c’è stata offerta quest’opportunità, inevitabilmente l’abbiamo accolta con entusiasmo ma perché consapevoli dell’importanza della formazione dell’individuo e del giovane che deve imparare a pianificare il suo futuro. Paese, lei invece che tipo di attenzione hai trovato in classe? Dal primo incontro il nostro sforzo è quello di coinvolgerli in maniera proattiva negli interventi, perché poi si parla di loro, del loro futuro, di temi di attualità che volte a scuola non c’è modo di approfondire e quindi come formatori cerchiamo di stimolare l’attenzione dei ragazzi e soprattutto prestiamo 72
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Conte, lei ha una novità per gli studenti universitari… Stiamo lavorando su un progetto di legge per un credito d’imposta che riguardi l’attività dei tirocini curriculari così da fornire anche questa opportunità agli studenti che volessero apprendere sul campo lo svolgimento della professione. E potranno farlo fruendo anche di un compenso che seppur modesto sarà comunque utile a premiare l’impegno. Foti, quali le prossime iniziative in cantiere da parte dell’Anasf? Siamo riusciti ad adattare Economic@mente per le lezioni in Dad e non era così semplice perché è un progetto nato per essere realizzato in presenza in quanto molto interattivo. Ma i formatori sono stati bravissimi a rivedere il progetto. Che è stato rifatto e quindi adesso è disponibile, assai più snello, anche nella forma online. Certo l’aula è un’altra cosa, però così abbiamo il vantaggio di raggiungere una scuola che può essere anche distante. Abbiamo anche rivisto “Pianifica la mente”, il progetto di educazione finanziaria per adulti a cui teniamo tantissimo, con un focus importante sugli errori da non fare, i segnando i risparmiatori a non cadere nelle classiche trappole. E poi, come accennava il presidente, stiamo studiando un progetto per le scuole elementari e medie, lo stiamo facendo con molta attenzione e delicatezza perché parlare di risparmio con i bambini è ovviamente diverso che parlare i ragazzi. Anche per questa ragione stiamo ascoltando i pareri di alcuni pedagogisti.
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SEDIE & POLTRONE di Marco Muffato Casacche che si scambiano, volti noti che passano da un ruolo all’altro: il valzer delle poltrone è intenso nella finanza, dove vige ancora il merito e dove chi rende bene viene promosso o ricoperto di offerte allettanti. Agli HR il compito di attrarre i talenti, a noi quello di raccontare il risiko, oltre a notizie e indiscrezioni su un mondo ricco di costanti novità.
PANETTA ALFIERE DEL TEAM ITALIANO PER L’EURO DIGITALE
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uovo passo avanti verso l’Euro digitale. La Banca Centrale Europea ha nominato i membri del Market Advisory Group, la task force di esperti che aiuterà l’Eurosistema nella fase di indagine del progetto, con una nutrita presenza di italiani. Oltre al presidente, Fabio Panetta (nella foto), membro del consiglio di amministrazione della Bce, sono presenti Silvia Attanasio, responsabile Innovazione dell’Associazione Bancaria Italiana, Roberto Catanzaro, chief strategy and tran-
sformation officer di Nexi, Alessandro De Cristofaro, direttore strategia innovazione digitale di Crif, Stefano Favale, responsabile global transaction banking di Intesa Sanpaolo. La task force è composta da 30 professionisti senior scelti dal Comitato di selezione. Agiranno a titolo personale, consigliando l’Eurosistema sulla progettazione e distribuzione dell’Euro digitale e sul valore che potrebbe apportare a tutti gli operatori dell’ecosistema dei pagamenti.
BANOR SIM INGAGGIA KUHDARI
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anor Sim annuncia l’ingresso di Amir Kuhdari (nella foto) nel ruolo di responsabile sviluppo clientela istituzionale. Kuhdari, ex head of sales asset management di Kairos Partners Sgr, vanta un’esperienza di oltre 20 anni maturata all’interno di istituzioni finanziarie, nazionali e internazionali, nell’ambito della consulenza alla clientela e della gestione del risparmio. Massimiliano Cagliero, amministratore delegato di Banor Sim, a proposito dell’arrivo di Kuhdari ha dichiarato: «Nel contesto di un più ampio rafforzamento della nostra struttura commerciale, l’ingresso di un professionista di grande qualità come Amir costituisce un tassello chiave nell’ulteriore espansione delle attuali relazioni che intratteniamo con la clientela istituzionale».
ABBRUZZESE ENTRA IN JHI
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anus Henderson Investors annuncia un nuovo ingresso nel team della distribuzione retail per l’Italia. Giulia Abbruzzese (nella foto), che dal 14 ottobre ha assunto il ruolo di sales executive, lavorerà da Milano e riporterà a Nicola Tomaiuolo, senior sales manager. Abbruzzese contribuirà alla crescita del segmento retail in Italia e si concentrerà in particolare sullo sviluppo delle relazioni con le principali reti di cf e private banker, nonché sull’incremento della penetrazione del brand Janus Henderson in Italia. Prima di entrare in JHI, Abbruzzese aveva svolto le funzioni di relationship manager e fund specialist in Anima Sgr. In precedenza aveva lavorato in Hsbc Global Asset Management e Mediobanca.
FINECO, QUARANTA ACCOGLIE PISAPIA A ROMA
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resce la rete Finecobank nella Capitale. L’area manager Luigi Quaranta (nella foto) ha accolto nella sua struttura Claudio Pisapia, consulente finanziario con un’esperienza trentennale nel settore che si unirà alla squadra del group manager Paolo Ranalli a Roma. Dopo 20 anni in Sanpaolo Invest, Pisa-
pia ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità nella rete di Finanza e Futuro (poi Deutsche Bank Financial Advisors) e infine in IW Bank, dove si occupava della gestione di grandi patrimoni. Pisapia contribuirà inoltre alle attività di reclutamento per favorire la crescita del team grazie alla sua rilevante esperienza nel campo.
ROBECO INGAGGIA DUE SALES MANAGER
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obeco rafforza il team italiano con Leonardo Mercuri e Matteo Colosimo (nella foto), entrambi in qualità di sales manager. Mercuri, ha iniziato il suo percorso lavorativo a Londra con Royal Bank of Canada come credit sales. È seguita una breve esperienza con Kryalos Sgr come real estate fund
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manager prima di decidere di approdare in Robeco. Colosimo dopo un’esperienza di due anni in Amundi, nel 2015 va in Pictet Asset Management dove rimane per sei anni. Ha iniziato il suo percorso professionale come client servicing manager per poi ricoprire il ruolo di sales manager.
PROFESSIONE CONSULENTE
ATTENZIONE ALLA TRAPPOLA DELLA LIQUIDITÀ ASSICURAZIONI, PERCHÈ IL CLIENTE È DUBBIOSO
Risponde Francesco Priore all’indirizzo priore.studio@virgilio.it Startupper e decano della consulenza finanziaria, Priore ha fondato l’Anasf e contribuito alla fondazione dell’Albo. Docente Universitario, autore e consulente di comunicazione e marketing finanziario
Egregio professor Priore,
Gentile professore,
sono un medico che ha sempre operato,
ho superato l’esame, emi sono iscritto
guadagnato e potuto risparmiare parecchio.
all’Albo Ocf , ricevendo il mandato da
Tempo fa la banca mi ha proposto di investire
una Sim. Questa professione è molto
una parte dei miei soldi in fondi e gestioni,
interessante: visito clienti, pianifico i loro
ho seguito il loro consiglio ma solo per una
investimenti e tutto è nella norma, tranne
piccola parte, perché a loro faceva piacere ma
un aspetto. Quando mi trovo a proporre
soprattutto perché così mi remunerano di più
un’assicurazione perché necessaria,
il conto corrente, però ora la remunerazione
qualunque essa sia, trovo delle difficoltà
mi sembra proprio bassa. Faccio fare tutto a
a farla sottoscrivere, anche in confronto a
loro, va bene così?
investimenti rischiosi. Perché?
G
Corrado G.
entile dottor Corrado, se avessero rilevato correttamente le sue esigenze e la sua propensione al rischio, potrebbe anche continuare così. Lei, con la sua professione, sa benissimo che la stessa medicina non può essere prescritta con la stessa posologia a tutti e non tutte le persone possono assumere una medesima medicina, anche in presenza della stessa malattia. Non entro nelle tecnicalità di sua competenza. Il patrimonio, piccolo o grande che sia, va curato cioè accumulato, investito e decumulato, in funzione dell’esigenze del titolare: a vista, a breve, a medio e lungo termine. Sarebbe un evento raro quello della necessità di concentrare un patrimonio in uno o due strumenti di liquidità, anche se altamente garantiti. Per esempio se lei deve acquistare una casa, è indispensabile che tenga il denaro liquido in c/c, perché quando trova l’occasione giusta, potendo pagare in contanti e immediatamente, facilmente spunterà un prezzo quasi certamente più conveniente. Se invece una parte del danaro le serve per quando smetterà di lavorare, farà bene a scegliere degli investimenti che lo proteggano. Proteggere il patrimonio significa trovare la maniera di mantenere inalterato il potere d’acquisto di quanto è stato accumulato. La liquidità soffre di un tarlo: l’inflazione, che ogni anno la erode, poi il reddito fisso e i patrimoni non gestiti, così come gli anni riducono la vigoria delle persone. Lei continui con la sua banca, ma chieda loro di farle un check up completo, e che in seguito le sottopongano la migliore pianificazione possibile in funzione delle sue esigenze e della sua propensione al rischio. Si faccia spiegare tutto con semplicità e chiarezza, non è difficile, se c’è qualcosa che non riescono a farle capire, rifletta.
Giovanni C.
C
aro Giovanni, rifletti, cosa pensavi tu delle assicurazioni prima di affrontare questa professione e renderti conto che molte polizze sono dei veri e propri investimenti finanziari, indipendentemente dal sottostante. Un esempio semplice: tu consulente finanziario, tra qualche anno potresti decidere di sposarti ed avere un figlio. Tu e la tua futura moglie lavorereste entrambi, le entrate vi consentirebbero di vivere bene e forse anche di iniziare a risparmiare. Nella deprecata ipotesi che uno dei due venisse a mancare (i gesti apotropaici non forniscono rendite) sarebbe opportuno che fosse stata sottoscritta una polizza vita che garantisce un capitale all’occorrenza. La possibilità di disporre di un capitale, per i casi di necessità, non avendo il tempo per accumularlo, si risolve solo con questo strumento; si scommette su sé stessi. Si garantisce ai terzi la sicurezza. È un puro investimento finanziario. Scoprirai che sono pochissime le persone disposte a fare un piccolo investimento, ma importantissimo, di questo genere. Il problema, a parte l’essere scaramantici, dipende dalla diffidenza verso le compagnie per la caparbietà che dimostrano: saper promuovere il contenzioso in ogni caso. C’è un’unica eventualità in cui non può esserci contenzioso, il caso morte, perché l’assicurato o è vivo o è morto. Poi, volendo, c’è la possibilità di tutelare se stessi da infortunio, invalidità permanente o totale. Le persone, quelle oculate, sono meno restie forse anche perché queste coperture costano meno. La pianificazione finanziaria di un cliente non può prescindere dalla copertura dei rischi. In teoria il rischio finanziario, ma solo in teoria, lo accettano, ma per gli altri. Ti ci sei già scontrato. Non demordere. novembre 2021
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EDUCAZIONE FINANZIARIA
Investire è difficile? No e per 3 motivi di Mario Romano
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olti pensano che investire sia difficile, per questo continuano ad accumulare risparmi in liquidità per finanziare spese che dovranno sostenere in un lontano futuro, malgrado i pericoli che i bassi tassi d’interesse comportano per la sicurezza finanziaria a lungo termine. Nell’ambito del sondaggio “Da risparmiatore a investitore” realizzato da J.P. Morgan Asset Management, sono state intervistate 6.000 persone in 10 Paesi europei per scoprire il motivo di questa tendenza. Il sondaggio, condotto a gennaio 2021, ha rivelato che solo 3 uomini su 10 investono regolarmente. Per le donne questa percentuale scende a una su cinque e quasi un quarto delle intervistate di età compresa tra 45 e 60 anni ha affermato di non considerare minimamente gli investimenti. Uno dei motivi per cui molti non investono è la radicata convinzione che investire richieda un impegno considerevole, in quanto è necessario tenere sempre d’occhio l’andamento degli investimenti effettuati. Molte persone pensano che investire sia difficile o che equivalga a giocare d’azzardo. In realtà, iniziare a investire è molto meno complesso di quanto si pensi. Non è necessario impegnarsi in lunghe ricerche per cominciare a investire Il sondaggio ha rivelato che le principali attrattive dei risparmi in liquidità sono la flessibilità, l’accessibilità e la possibilità di investire regolarmente piccole somme. Al contrario, gli investimenti vengono associati alla complessità, al gioco d’azzardo e a qualcosa che richiede un costante monitoraggio. Questi sono pregiudizi di lunga data, a cui l’industria degli investimenti ha risposto. I fondi comuni, che investono il capitale di molte persone e sono gestiti da investitori professionisti, sono un buon modo per iniziare a investire. Infatti è probabile che molti investano già in questi strumenti i risparmi per la pensione. Questi fondi sono composti da portafogli diversificati di strumenti con livelli di rischio variabili (per esempio azioni e, di norma, obbligazioni in virtù della maggiore stabilità) che sono gestiti in modo attivo sulla base del contesto di mercato. Non è necessario essere esperti per raggiungere l’indipendenza finanziaria Il 64% delle donne e il 57% degli uomini che non investono afferma che il principale ostacolo sia il timore che investire sia troppo difficile. Per investire con successo non serve però un diploma o
Il sondaggio di J.P. Morgan Asset Management
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una laurea in economia. Bisogna invece avere obiettivi chiari e un’idea precisa del tempo a disposizione per realizzare i propri obiettivi finanziari (per esempio andare in pensione o versare la caparra per l’acquisto della casa). E per chi pensa che l’esperienza sia la cosa più importante, vale la pena ricordare che non si è soli: come abbiamo già visto, uno dei principali vantaggi della scelta di un veicolo d’investimento gestito da un professionista rispetto a un conto di risparmio è il fatto che gli investitori professionali sanno come gestire gli investimenti attraverso le diverse fasi dei mercati. Per investire non è necessario essere ricchi Pensare che per investire sia necessario disporre di somme ingenti è un errore molto comune. Il rischio di perdita è uno dei motivi citati più di sovente per non investire, a cui si collega, per associazione, l’idea che valga la pena investire solo se si hanno molti soldi o comunque si è abbastanza ricchi per coprire le perdite se le cose non vanno per il verso giusto. Quasi tre quarti delle donne e circa il 67% degli uomini intervistati ha affermato di non voler investire per paura di perdere i propri risparmi. Infatti, il 60% delle persone che non investono associa l’investimento a una forma di gioco d’azzardo. In realtà non è necessario essere ricchi. Bastano 100 euro al mese per beneficiare dei vantaggi di un piano di risparmio regolare, che consente di investire quello che resta alla fine del mese, anche se si tratta di una cifra modesta. Inoltre, i piani di accumulo (Pac) possono aiutare ad attenuare le oscillazioni di mercato, dato che le fasi di ribasso possono essere sfruttate per acquistare più azioni, mentre nelle fasi di rialzo il valore dell’investimento aumenta.
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a cura di Martina Zanetti
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ANNAMARIA LUSARDI, direttrice del Comitato Edufin
ducazione finanziaria e la difficile situazione italiana data da un’alfabetizzazione molto bassa, al centro dell’intervento della professoressa Annamaria Lusardi, direttrice del Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria in Italia. “Tante statistiche internazionali ci vedono come fanalino di coda quando si parla di conoscenze finanziarie negli adulti e anche dalle ultime rilevazioni si nota che questa conoscenza è
molto bassa. Quello che preoccupa, come riportato dai dati del Programme for International Student Assessment dell’Ocse è che vale
anche per i nostri giovani. È veramente importante e urgente colmare questa lacuna, non possiamo permetterci di avere una popolazione che non abbia nemmeno le conoscenze di base. Non si può procedere a piccoli passi ma dobbiamo fare un balzo in avanti per non rischiare di restare indietro, partendo dalla scuola come negli Stati Uniti dove in ormai 25 stati, l’educazione finanziaria è diventata obbligatoria”.
ENRICO TRASSINELLI, managing director di Dnca Italia
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i troviamo in un quadro complesso, ma tutto sommato positivo» commenta Enrico
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Trassinelli, managing director di Dnca Italia rispondendo alla domanda sulla situazione economica. «Tranne per quei due mesi iniziali di particolare tensione, i mercati finanziari si sono ripresi molto bene ed è stato un buon 2020 e 2021. Ci sono dei contraccolpi a livello di picchi di domanda, lentezza dell’offerta per tanti tipi di produzioni, ma secondo noi assolutamente riassorbibili, crediamo infatti che non ci siano fattori in grado di danneggiare e
causare cali duraturi dei mercati finanziari. Gli equilibri tra domanda e offerta a livello globale si colmeranno e una volta colmati torneremo nel mondo pre covid con tassi relativamente bassi, con un’inflazione sotto controllo, pensiamo che la crescita di quest’anno è al 6% forse il prossimo anno sarà un po’ meno ma parliamo comunque di una crescita positiva».
CLAUDIA COLLU, responsabile azionario globale di Anima Sgr
ocus sui megatrend quello di Claudia Collu, responsabile azionario globale di Anima Sgr, e sul perché oggi siano un tema di investimento centrale per la pianificazione degli investimenti finanziari. «I megatrend sono delle forze dirompenti in grado di apportare dei cambiamenti strutturali nell’economia; modificano totalmente aspetti della società e possono avere un
impatto significativo non soltanto nelle abitudini di spesa dei consumatori, ma anche sulle strategie aziendali e sulle politiche dei governi. Per questo motivo è fondamentale individuare in anticipo questi potenziali cambiamenti. A livello di trend, la pandemia ha accelerato la domanda per tre settori: tecnologia legata alla digitalizzazione, servizi di comunicazione e sanità. All’interno di questi settori è importante individuare le società che offrono le migliori prospettive di crescita degli utili che abbiano dei bilanci soli-
di e generino dei flussi di casa, quindi ci deve essere un’attenzione particolare anche alla situazione patrimoniale».
ROCCO BOVE, head of fixed income di Kairos Partners Sgr
«I
tassi in rialzo ormai sono una realtà da qualche mese, ma sono semplicemente una cartina torna sole di un movimento più complesso. Stiamo uscendo faticosamente, lentamente dalla crisi pandemica, grazie ad una spinta sanitaria dei vaccini e a livello economico con politiche fiscali più espansive accompagnate ancora da politiche monetarie molto morbide e questi tre fattori inevitabilmente e forse auspica-
bilmente portano a una spinta refrattiva che poi torna a scaricarsi sul movimento dei tassi». Afferma Rocco Bove, head of fixed income di Kairos Partners Sgr che
continua «Dare una risposta se questo sia un bene o un male è molto complesso, mi sento di dire che i tassi in salita come riflesso univoco del fatto che l’economia è in ripresta è una buona notizia tout court. Certificano il fatto che stiamo uscendo da un periodo complicato da diversi punti di vista, sanitario, sociale ed economico».
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L’INTERVISTA
«Il private equity è il partner giusto per l’evoluzione delle imprese» di Annalisa Caccavale
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I dati dell’Osservatorio Pem-Private equity monitor mostrano nove mesi da record nel private equity, cosa sta succedendo? Investire lo ha chiesto a Emidio Cacciapuoti, partner di McDermott Will & Emery Studio Legale associato
ualcuno la definirebbe una “congiuntura astrale”. Ci sono infatti una serie di fattori che attualmente stimolano la crescita del private equity che è destinata, a mio avviso, a consolidarsi nei prossimi anni»: ne è convinto Emidio Cacciapuoti, partner di McDermott Will & Emery Studio Legale associato, cui Investire ha chiesti una valutazione su questo vero e proprio fenomeno in atto. «L’incremento delle disponibilità liquide», prosegue Cacciapuoti, «si pensi alla crescita del risparmio privato degli ultimi 18 mesi, i bassi rendimenti dei titoli di stato, l’accelerazione dei processi riorganizzativi e la necessità di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, hanno creato un contesto favorevole – senza precedenti - allo sviluppo del settore degli investimenti cosiddetti “alternativi”. Da ultimo, ma non meno importante, la percezione che l’operatore di private equity non sia più considerato semplicemente come un investitore finanziario con logiche di profitto immediato incompatibile con la tradizione imprenditoriale italiana».
Molte aziende oggetto di investimento sono alle prese con il passaggio generazionale; qual è il ruolo del private equity? I gestori di private equity, sempre più spesso, sono considerati partner strategici in grado di accompagnare le aziende attraverso il necessario processo di riorganizzazione manageriale, soprattutto se si trovano nella fase molto delicata del “passaggio generazionale”. Il passaggio generazionale rappresenta un momento molto delicato nella vita di un’impresa familiare. Se tale fase non viene affrontata, con un certo anticipo, attraverso una pianificazione programmata, rischia di generare forti tensioni fino a minacciare la continuità aziendale. La centralità della figura dell’imprenditore, e la forte commistione di interessi familiari e personali può rappresentate un ostacolo al processo di riorganizzazione aziendale e di successione interna, incrementando in modo sostanziale il rischio di dispersione del patrimonio di valori materiali e immateriali costruiti nel tempo. Il gestore di private equity, quale soggetto terzo indipendente, è in grado di identificare la soluzione migliore consentendo al tempo stesso alla famiglia di monetizzare, anche solo parzialmente, il valore creato dall’azienda e alle cosiddette figure “chiave”, che quali intendono continuare a 78
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Emidio Cacciapuoti, partner di McDermott Will & Emery Studio Legale associato
contribuire alla ulteriore valorizzazione della società, di investire e intraprendere insieme al fondo un nuovo percorso di crescita che, molto spesso, continua anche successivamente alla exit da parte del medesimo fondo. Che differenze ci sono tra mercato italiano e mercato internazionale nel private equity? Non ritengo ci siano differenze sostanziali tra il mercato italiano e quello internazionale, fatto salvo, evidentemente, per gli aspetti dimensionali. In tal senso il mercato italiano ha un enorme potenziale di crescita se confrontato con quello di altre giurisdizioni, per esempio la Francia, i cui fondamentali economici
INVESTIRE SPECIALIST
sono equiparabili a quelli nazionali. Anche l’attività di M&a è in crescita: serve aggregarsi per consolidare la posizione sul mercato? La dimensione delle imprese italiane è uno dei fattori che maggiormente ha contribuito al declino della produttività di alcuni settori i quali, almeno fino alla fine degli anni ottanta, registravano livelli di efficienza produttiva in linea con il resto dell’Europa. Il Covid ha sicuramente ha avuto e avrà un impatto sui processi di revisione dei modelli organizzativi, produttivi e di distribuzione. Si tratta, tuttavia, di cambiamenti che erano già in atto e che hanno semplicemente subito una fase di accelerazione a seguito della pandemia. Gli imprenditori sono consapevoli che dovranno velocemente adeguarsi a tali nuovi modelli e che, per poterlo fare, avranno bisogno di operatori qualificati, con consolidata esperienza di settore e che possano altresì apportare il necessario supporto finanziario. In tale contesto, il private equity, in Italia, può fornire un contributo essenziale al processo di consolidamento della piccola media impresa che deve necessariamente crescere e internazionalizzarsi così come è avvenuto nel corso degli ultimi decenni in Germania. Quali sono i fondamentali per un private equity quando si interessa a un’azienda? L’obiettivo di un fondo di private equity è quello di valorizzare le società in portafoglio. I fondamentali per l’individuazione di un potenziale investimento possono variare per tipologia di settore. In quello industriale, per esempio, si prediligono società che possiedono un knowhow tecnologico e un modello di business difficilmente replicabile e che abbia una prospettiva di crescita e consolidamento del proprio mercato di riferimento attraverso acquisizioni e/o integrazioni orizzontali - per esempio di società competitor - ovvero per mezzo di un’integrazione verticale, ovverosia attraverso acquisizioni che interessano la filiera di approvvigionamento oppure quella della distribuzione. Principi Esg: perchè le aziende devono accelerare il cambiamento rispetto all’ environmental, al social e alla governance?
«I tassi bassi, l’abbondante liquidità, l’incremento del risparmio disponibile, hanno creato un contesto favorevole – senza precedenti - allo sviluppo del settore degli investimenti cosiddetti“alternativi”» Attraverso le proprie attività e relazioni, tutte le organizzazioni contribuiscono in modo positivo o negativo all’obiettivo dello sviluppo sostenibile. Le aziende hanno quindi un ruolo chiave nel raggiungimento di tale obiettivo. Gli investitori riconoscono l’esistenza di una relazione diretta tra l’Esg e la performance dell’investimento, nonché la possibilità, a seguito di una corretta applicazione dei principi Esg, di un vantaggio competitivo. Infatti, l’integrazione dei temi ambientali, sociali e di buon governo nei processi organizzativi e produttivi consente di ridurre i rischi e accelerare i processi di crescita. Per esempio, la riduzione dell’utilizzo dell’acqua e dei livelli di inquinamento nella fase di produzione si traduce in un risparmio immediato attraverso la riduzione dei costi di gestione. Il quadro normativo rappresenta un importante incentivo all’adozione di politiche d’investimento. A marzo del 2018 la Commissione Europea ha pubblicato un Piano d’azione per stimolare la crescita sostenibile e che si pone tre obiettivi principali: incentivare i flussi di capiutale verso investimenti sostenibili, gestire i rischi finanziari derivanti dai cambiamenti climatici, e promuovere la trasparenza e la visione nelle attività economico-finanziarie. In tal senso, il Regolamento europeo Sfdr ha introdotto obblighi di informativa e metodologie di classificazione degli investimenti sostenibili che avranno un impatto significativo sulle modalità di verifica e implementazione dei principi Esg nell’ambito delle aziende. Si pensi, ad esempio, all’approccio premiante adottato dagli istituti bancari, attraverso la riduzione dei tassi d’interesse, nei confronti dei soggetti che applicano criteri Esg per raggiungere obiettivi di sostenibilità. novembre 2021
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POLE POSITION
a cura di Buddy Fox
STAGFLAZIONE, DOLCETTO O SCHERZETTO?
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ll Hallow Even” quella che in origine era la festa di tutti i santi le operazioni commerciali anglosassoni hanno trasformato in Halloween, la festa delle streghe e delle maschere maligne. Dalle ali degli angeli, alle mascherine dei diavoli, una metamorfosi religiosa che sembra ricalcare l’attuale andamento del ciclo economico che grazie al grande contributo di generosità delle Banche centrali di tutto il mondo, ha prima riesumato il corpo dell’economia mondiale dagli abissi in cui era precipitato sia nella crisi del 2008 e sia in quella da Covid, e successivamente l’ha curato a base di vitamine e steroidi trasformandolo in un gigante muscoloso, una specie di Frankestein diventato troppo
forte e quasi ingestibile. L’eccesso di forza economica sta resuscitando l’inflazione che era in coma da 20 anni, o invece l’eccesso sui prezzi sta producendo il ritorno del fantasma della stagflazione? Dolcetto o scherzetto? “Stagflazione”… sembra che il primo a usare questo termine sia stato il politico inglese Iain Macleod che nel 1965 lo utilizzò per descrivere quello che egli pensava essere il peggio delle due parole, non solo l’inflazione da una parte e la stagnazione dall’altra, ma una combinazione delle due. Un mix che la Gran Bretagna sperimenterà pochi anni dopo sprofondando in una crisi industriale e sociale dagli effetti devastanti. La crisi energetica degli anni ’70, scoppiata a causa di incidenti geopolitici, ha smascherato una struttura economica fragile, troppo dipendente dagli aiuti statali e zavorrata dall’eccessiva presenza del sindacato, una situazione che ha creato un avvitamento verso il basso con la spirale prezzi salari, un braccio di ferro che ha indebolito la domanda porgendo il fianco alla recessione. Siamo oggi nella stessa situazione? Difficile pensarlo, la globalizzazione accende la concorrenza, anche tra i lavoratori che sono in surplus di offerta, a tutto questo si aggiunge un progresso tecnologico che ha stimolato la produttività. Per descrivere l’attuale situazione è calzante la metafora di Paul Krugmann che paragona l’attuale stato economico alla ripartenza veloce di un’auto al semaforo verde, può succedere che le ruote girino a vuoto sfrigolando sull’asfalto. Questa è l’economia di oggi che a pieni giri, grazie alla forte domanda, spinge in alto i prezzi. La maschera è quella di Frankestein, e non sarà facile da contenere. La stagflazione probabilmente è uno scherzetto, ma questa economia ha molta fame e non potrà bastare un dolcetto a soddisfarla, ma molte materie prime, sempre più costose.
CATHIE WOOD, LA NUOVA ILLUMINATA FINO AL PROSSIMO CIGNO NERO
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ggi si compra, il guru ha appena aggiornato al rialzo il target dello S&P500, quindi si salirà. Il guru è Abby Cohen, la star di Goldman Sachs che ha guidato l’ascesa di Wall Street nell’irrefrenabile euforia degli anni ’90. Tra gessati e testosterone, un mondo iper maschilista, era una donna a regnare e guidare gli istinti dei gorilla. La chiamavano “Santa Abby”, una donna dall’aspetto comune, arrivava a Wall Street su mezzi pubblici, ma quando parlava creava il pandemonio. A un certo punto, come tutti i cicli, anche il rialzo degli anni ’90 ha trovato il suo capolinea, prima lo scoppio della “bolla dot com” e poi l’attentato del Wtc hanno ingabbiato il toro facendo precipitare il Dow Jones, lo S&P500 e il Nasdaq. Evidentemente Abby Cohen, schiava della sua fama, pensava di avere super poteri, perché a ogni ribasso continuava a ripetere il suo “buy” rivedendo i target sempre più in alto, mentre la borsa andava sempre più giù, fino a trascinare il guru nell’oblio. Vent’anni dopo, Wall Street sempre più machista, si affida a un’altra donna per tracciare nuovi scenari iperbolici e accendere gli animi. Il suo nome è Cathie Wood, meno morigerata di Abby, ma fortemente religiosa, una fede che riversa sulle sue scelte professionali che nel tempo sono risultate vincenti, innalzandola sull’altare di Wall Street. Folgorata sulla via della Silicon Valley, ha affidato tutta la sua dote e i suoi capitali alla tecnologia definendola la soluzione per tutti i mali. Sarà la soluzione per la crescita economica che diventerà più duratura e resistente, per la salute umana, la tecnologia troverà gli antidoti alle pandemie, e ci salverà dall’inflazione. Proprio l’inflazione che per i massicci interventi delle Banche centrali del 2009 turbava i sogni di Cathie Wood, oggi è un finto pericolo, dice 80
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lei. Grande sostenitrice di Elon Musk, ha costruito i guadagni della sua Ark investiment facendo leva sui rialzi di Tesla realizzando performance stratosferiche. Sembra “unta dal Signore”, più laicamente pratica una strategia “long only” illudendosi che la borsa possa salire per sempre, e magari grazie alla tecnologia succederà. Una lista della spesa infinita, “compro ciò che scende e vendo ciò che sale”, scelte fatte con criterio, dentro Snap, fuori Tesla e dentro Twitter, sono le ultime operazioni. Un rally fatto in bicicletta senza mai mettere i piedi a terra. Se è vero come si dice che i cicli al rialzo non muoiono mai di vecchiaia, è anche vero che prima o poi ogni ciclo trova il suo “cigno nero”, e in quel momento puoi avere tutta la tecnologia del mondo, puoi avere fede, ma sarà solo il cash, la liquidità a salvarti. Come diceva il detto inglese: “Turnover is vanity, profit is sanity but cash is reality”.
INVESTIRE SPECIALIST
STRETTA SULLE BIG TECH: POCO “FAST” E MENO “FURIOUS”
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a regolazione europea sulle big tech deve essere giusta, flessibile ma anche “ferma”, parole molto importanti e coraggiose quelle pronunciate dal ministro per l’innovazione tecnologica Vittorio Colao, ma che nell’universo dei giganti della Silicon Valley vengono frantumate e disperse come fragili meteoriti. Ha rincarato la dose la vicepresidente della Commissione per la Concorrenza Margrethe Vestager che combattiva come sempre ha dichiarato: “le nuove regole devono essere veloci e forse anche “furious””. “Fast & Furious” il titolo del celebre film è uno slogan efficace, meno sull’applicazione e sulla severità delle regole, perché le big tech continuano a fare il bello e il cattivo tempo, ignorando ogni qualsiasi ammonimento o minaccia legislativa. vLo dicono i numeri freschi di pubblicazione: Amazon 110 mld di dollari di fatturato e 3,2 di utile, Apple 83 mld di fatturato e 20 di utile, Google 65 mld di fatturato e 19 di utile, Microsoft 45 mld di fatturato e 20 di utile, Facebook 29 di fatturato e 9 di utile. E sono tutti risultati trimestrali, che moltiplicati per 4 fanno il potenziale risultato di un anno una cifra ancor più spaventosa. Se poi confrontiamo queste cifre con la quota di imposte pagate, i furiosi
diventiamo noi che le tasse le paghiamo interamente. C’è chi dice che ormai queste company sono diventate troppo grandi per essere combattute, ma la Vestager ci prova. Per il Covid la politica mondiale si è unita, dicevano che era in gioco il nostro futuro, bisognava sconfiggere il virus per ritornare a vivere. Non vedo lo stesso impegno e asprezza nella lotta per la competitività e la tassazione verso queste società ormai dominanti. Le piattaforme della Silicon Valley sono oggi come delle portaerei difese da bombardiere, mentre la politica per difendersi usa una contraerea fatta di arco e frecce. Eppure dovete pensare che l’inadeguata tassazione, e il mancato gettito fiscale, sono tutte risorse sottratte a investimenti per migliorare la nostra vita e il futuro dei nostri figli. All’ultimo G20 di Roma i grandi hanno trovato un accordo per una “global minimun tax” del 15% che entrerà in vigore entro il 2023. Poco fast e meno furious. Sembra il film “lettere dal deserto”, l’elogio alla lentezza, la storia di un uomo solitario che conosce i meriti dello scorrere del tempo e la capacità di saper aspettare. La storia della solitaria Vestager, che ha finito il tempo, la pazienza, mentre la desertificazione aumenta.
LA FINANZA MALEDUCATA DEI REGOLATORI CHE NON RISPETTANO LE NORME
S
econdo l’ultimo rapporto della Sec sullo stato degli investimenti, l’atteggiamento delle nuove generazioni che fino a oggi abbiamo ritenuto utopistico e mosso da nuovi ideali di lotta al cinismo della grande speculazione finanziaria, in realtà di nobile ha ben poco. Ricorderete il caso Game Stop il cui racconto è passato come il gesto eroico di un impavido Davide che sfida il Golia della speculazione? Si è scoperto che quelle operazioni di inizio anno che avevano infiammato il titolo, non erano state guidate dal desiderio di riscossa dei piccoli contro i giganti di Wall Street ma anzi dal solito arcinoto obiettivo del mero guadagno attraverso scommessa. E cosa dire delle meme stock di Trump a Wall Street? La nuova startup Tmtg sbarcata alla borsa di New York attraverso una Spac, la Digital world acquisition Corp., nei primi tre giorni è passata da 9,9 dollari per azione a 94,2 segnando un aumento dell’845%. Poi è scesa di colpo però per essere una azienda che non ha ancora un dipendente né un dollaro di fatturato, mantiene una capitalizzazione di borsa di oltre 2 miliardi. E Shibainu? La criptovaluta ritenuta dagli esperti priva di valore intrinseco nella corsa delle ultime settimane ha sorpassato perfino Dogecoin superando i 40 miliardi di capitalizzazione e in tutto questo ha fatto realizzare il trade di
una vita a colui che ad agosto ha comprato l’equivalente di 8mila dollari e oggi se ne ritrova 5,7 miliardi. Si tratta davvero della finanza dei “meme”, progetti nati per scherzo, oppure è il classico “Schema Ponzi” dove come sempre pochi si arricchiscono a danno dei molti? Nel mese dell’educazione finanziaria è nata spontanea una riflessione, è giusto sorvolare su queste anomalie oppure ha ragione Paolo Savona (presidente della Consob, nella foto, ndr) quando afferma che ci vogliono le regole perché storicamente la deregulation ha provocato solo disastri? Recentemente il NYT ha rivelato i contenuti di un’email dell’ufficio di etica della Fed del 23/03 in cui veniva sconsigliata ai membri della Fed “l’attività di trading non necessaria” data la risposta (la liquidità infinita) che la Fed stava preparando. Un “consiglio” non ascoltato, Kaplan (Fed di Dallas), Rosengren (Fed di Boston), lo stesso presidente Powell e il vice Clarida hanno agito sui conti personali. Operazioni di normale amministrazione in casi normali e per persone normali, non è così se ti trovi in possesso di informazioni privilegiate, è il caso dei governatori che grazie alla loro azione stanno tenendo in piedi la finanza e l’economia di tutto il mondo. Ma come si può pretendere di avere una finanza regolamentata, se sono gli stessi regolatori a non rispettare le regole? novembre 2021
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EDUCAZIONE FINANZIARIA E IMPRESE
Flussi di cassa rapidi e snelli con la piattaforma digitale di Chiara Merico
Banca Ifis sviluppa il suo «apostolato» presso le imprese, soprattutto Pmi ma non solo, con un nuovo servizio, Ifis4business, che trasferisce i vantaggi dell’online-banking sul fronte dell’anticipo fatture
L’
innovazione tecnologica e la collaborazione tra imprese sono due driver fondamentali per facilitare il supporto finanziario lungo tutta la filiera. Banca Ifis, nata nel 1983 come operatore specializzato nel factoring - mercato dove tutt’oggi presenta il miglior posizionamento competitivo - ha deciso di digitalizzare e automatizzare l’intero processo della Supply Chain Finance. Alla base c’è la necessità delle imprese di ottenere credito immediato per garantire e gestire i flussi di cassa. Un’esigenza ancora più forte laddove si verifichino ritardi nella riscossione dei pagamenti. Per questo il factoring che, in parole semplici, è un contratto stipulato sulla base di una cessione crediti ai fini di ottenere liquidità, è diventato uno strumento indispensabile per le Pmi, le quali rappresentano l’ossatura del sistema economico italiano. La crisi pandemica, l’esigenza di risposte immediate, il bisogno di sfoltire carte e burocrazia, anche in chiave sostenibile, così come la necessità di snellire e rendere più fluidi i processi operativi sono stati i detonatori di una best practice assoluta nel mercato: la creazione di Ifis4business. Ifis4business è una piattaforma digitale nata per facilitare la vita all’imprenditore. Un online banking “a misura di impresa” che abilita tutta la clientela presente nell’intera filiera factoring a un’esperienza interamente digitale, senza mai dimenticare il valore della relazione umana e di fiducia che la Banca continua a presidiare con le sue 26 filiali commerciali e 110 commerciali, specialisti di credito alle imprese, nei diversi territori della Penisola. L’evoluzione strategica di Ifis4business è partita dalla digitalizzazione delle attività legate alla figura del “debitore ceduto”, per molti il protagonista del processo finanziario complessivo: colui che è “passivamente” tenuto al pagamento dei crediti ceduti dai propri fornitori. Banca Ifis ha scelto di valorizzarne il ruolo che ricopre all’interno della supply chain in cui opera, facilitandone la collaborazione operativa a supporto delle relazioni con gli altri attori della filiera, ovvero l’intera rete di fornitura. Ma cosa significa, in pratica? Monitorare online tutte le fatture cedute dai propri fornitori, 82
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confermarle, segnalare una modifica o avanzare una richiesta di proroga dei termini di pagamento alla Banca. Il percorso è quindi proseguito inglobando nel processo digitale il vero cliente della Banca: il “cedente”, colui che cede le fatture dei propri clienti (“debitori ceduti”) per richiederne un anticipo del pagamento, ricevendo così liquidità in tempi più rapidi rispetto a quelli previsti dai propri accordi commerciali, oltre a essere supportato nella gestione del processo di monitoraggio e incasso dei crediti ceduti. Nel caso dei cedenti, alcuni esempi pratici dell’innovazione portata da Ifis4business sono rappresentati dalle nuove modalità di presentazione dei crediti da cedere (coerentemente con l’evoluzione della fatturazione elettronica), dalla gestione degli anticipi e dal colloquio diretto con i propri clienti relativamente ad eventuali contestazioni o compensazioni sulle fatture, il tutto all’interno della stessa piattaforma. A partire da luglio 2021 Banca Ifis sta dunque procedendo all’attivazione di Ifis4business su tutta la clientela factoring, nell’ottica di portare a compimento il percorso di digitalizzazione dell’intera filiera del factoring. L’approccio omnicanale e digitale di Banca Ifis si sta parallelamente focalizzando anche sulla nuova clientela, grazie a una revisione completa dei processi digitali... SCANSIONA IL QR-CODE PER CONTINUARE A LEGGERE
ERNESTO FURSTENBERG FASSIO E FREDERIK GEERTMAN
INVESTIRE SPECIALIST
EDUCAZIONE FINANZIARIA DELLE IMPRESE
Ora le imprese lo sanno, la cassa rende competitivi di Luigi Orescano
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no dice “educazione” e immagina una classe d’asilo, poi dice “educazione finanziaria” e su quella classe scende il buio. “Ma qualcosa sta cambiando, se non per le scuole senz’altro per le imprese. Forse la pandemia è stata di stimolo”, dice Matteo Tarroni, un passato in Merrill Lynch e Credit Suisse, poi nel 2014 co-founder (con Ettore Decio e Fabio Bolognini) ed oggi Ceo di Workinvoice, la prima piattaforma in Italia per la vendita di fatture prima della loro scadenza (insomma un mercato on-line per il factoring, che mette a contatto diretto le imprese e le risorse finanziarie di tanti investitori diversi e non più delle banche, o non solo). “Siamo una start-up di lungo corso, l’abbiamo capito subito che la gara delle start-up on è uno spint ma una maratona”, conferma sorridendo lui. Ma questa ex-start-up sta crescendo e portando risultati positivi: «E siamo convinti che il settore crescerà moltissimo, è proprio una questione di propensione al cambiamento, e in questo senso la pandemia ha rimescolato le carte». Ci spieghi meglio, dottor Tarroni… Sono successe alcune cose che hanno profondamente influenzato gli imprenditori proprio sotto il profilo della loro educazione finanziaria, cioè la loro attenzione e apertura al nuovo. Hanno pesato più tre mesi di lockdown che 3 anni di convegni sulla digitalizzazione. MATTEO TARRONI L’azienda e il consumatore hanno capito che i servizi finanziari si possono tranquillamente acquistare e utilizzare in modalità completamente digitale. Senza più andare in banca. Questo è il tipping point, il punto di non ritorno: nessuno vuole più tornare in banca, perder tempo a firmare risme di documenti, perché sa di poterlo fare da casa propria, o dall’ufficio della propria azienda, in metà del tempo, con più scelta e spesso più convenienza. E in questa evoluzione della sensibilità finanziaria di tante aziende anche piccole c’è stato un “di più” che è venuto incontro al nostro business. Cioè? Mai come in questa fase, e da quando è iniziata la pandemia, le aziende sono state duramente danneggiate dalle criticità che hanno investito la catena delle forniture, un macroevento gigantesco anche se sottorappresentato, che ha investito
L’analisi di Matteo Tarroni, co-founder e ceo di Workinvoice, la prima piattaforma italiana di factoring digitale: «Troppo lente le banche tradizionali» più o meno trasversalmente tutti i settori. Per varie ragioni: da una parte l’aumento dei prezzi delle materie prime per la ripresa, con i conseguenti shortage di disponibilità, poi l’aumento dei costi della logistica legati a quelli dei carburanti, e dunque molte aziende hanno subìto svantaggi se non danni ed hanno capito che non possono più permettersi di gestire la parte finanziaria della relazione con i fornituri in maniera inefficiente. Da qui il maggior ricorso al factoring? E a quello on-line, in particolare? I veri esperti di supply chain fanno quest’esempio: nel mondo tradizionale, l’impresa aveva un magazzino piccolissimo, il retail le mandava l’ordine e quella in due giorni gli faceva arrivare il maglioncino del colore voluto, perché sapeva produrre just-in-time. Sa qual è invece oggi la parola d’ordine sulla catena delle forniture? Non è più justin-time ma… just-in-case, come dire: ti consegno la merce se la trovo! Scherzi a parte, questa metamorfosi delle dinamiche produttive e commerciali, a monte e valle dell’impresa manifatturiera, impone a quest’ultima di avere estrema efficienza anche nella finanza, per approfittare appunto just-incase dell’opportunità di approvvigionamento vantaggioso, ad esempio: oggi dai microchip al legname – due delle materie prime rincarate alle stelle – sul mercato vince chi può pagare prima, per approfittare magari dell’ultimo container che sta partendo da Shenzen. E dunque? Dunque, venendo a noi, la finanza è diventata una leva straordinaria di... SCANSIONA IL QR-CODE PER CONTINUARE A LEGGERE novembre 2021
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EDUCAZIONE FINANZARIA
Rischi &Rendimenti: come investire in Venture Capital di Rosaria Barrile
Perché una platea sempre più ampia di investitori professionali ed esperti si sta avvicinando a questa tipologia di investimento caratterizzata da livelli di rischio elevati e ritorni potenziali a doppia cifra
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a consapevolezza dei benefici che può portare all’economia, favorendone l’innovazione e l’occupazione, ha spinto i policy maker di tutto il mondo ad assumere decisioni a sostegno del Venture Capital. Nel nostro Paese il decreto Rilancio ha introdotto alcune misure per rifinanziare gli strumenti di incentivazione agli investimenti – come i 200 milioni destinati al Fondo di sostegno al venture capital – e nuovi strumenti a supporto delle startup – quali l’istituzione del Fondo per il trasferimento tecnologico e del First playable fund e l’estensione dell’accesso alle risorse del fondo centrale di garanzia per le Pmi anche alle startup. In Italia un potenziale ancora da sfruttare Il mercato italiano del Venture Capital soffre tuttavia di un forte ritardo rispetto agli altri Paesi, evidenziato da volumi di investimento ancora limitati, dalla scarsità di operatori strutturati e da un basso livello di coinvolgimento degli operatori internazionali. Il gap è ancora più ampio rispetto ai Paesi in cui il Venture Capital è la forma dominante di finanziamento in capitale di rischio nel comparto innovativo e tecnologico, come negli Usa dove la percentuale di posti di lavoro in aziende sostenute da VC (solo considerando le aziende ad azionariato diffuso) corrisponde al 24% e sale addirittura al 68% nella Bay Area. Nell’Ue la percentuale scende invece al 1.8%, in UK allo 0.8%, in Germania allo 0.3% e in Francia allo 0.1%. In Italia è perfino inferiore allo 0.01 per cento. Esiste pertanto un potenziale ancora inesplorato che potrebbe favorire l’innovazione e la creazione di posti di lavoro. Recentemente alcuni importanti passi sono stati fatti per sostenere l’ecosistema tech italiano, tra cui il CDP Venture Capital e il Fon84
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do Nazionale per l’Innovazione, Enea Tech per il trasferimento tecnologico (nonostante gli alti e bassi), e il fondo Recovery, a disposizione delle aziende tech italiane. Nel contempo, una platea sempre più ampia di investitori professionali ed esperti, dal retail al family office, si sta avvicinando al Venture Capital sull’onda della crescita dei ritorni e di una normativa fiscale che incentiva fortemente questa tipologia di investimento (Decreto ministero dello Sviluppo economico del 28 dicembre 2020 Modalità di attuazione degli incentivi fiscali in regime de minimis all’investimento in start-up innovative e in Pmi innovative, ndr). Questa concentrazione di condizioni favorevoli potrebbe sostenere l’incremento degli investimenti in start up italiane sulla scia di quello già registrato nel primo semestre 2021 dall’AIFI – Associazione Italiana Private Equity, Venture Capital e Private Debt: sono stati censiti 399 milioni investiti in startup, quasi il doppio di quanto registrato nel 2020 e per il 2021 ci si attende un nuovo record con il superamento del miliardo. Come selezionare le opportunità limitando il rischio Quali sono le prospettive di sviluppo del Venture Capital in Italia e perché la sua popolarità sta crescendo molto tra gli investitori? L’abbiamo chiesto ad Antonella Grassigli (nella foto), recente vincitrice del titolo di Business Angel dell’anno, co-founder e ceo di Doorway. «Se da un lato le prospettive di rendimento, non correlato al ciclo economico, e i benefici fiscali si confermano allettanti», spiega Grassigli, «dall’altro, la rischiosità di questa asset class rende il Venture Capital un tema da maneggiare con cura data anche la sua natura di investimento tipicamente illiquido. Per questo motivo, abbiamo messo la riduzione del rischio al centro della nostra filosofia di selezione degli investimenti da proporre». Oggi esiste un’offerta abbastanza ampia di piattaforme online a disposizione di chi intende investire in start up e Pmi innovative. Doorway ha scelto di focalizzarsi sul target Hnwi e degli investitori qualificati e professionali. Qual è il vostro modello operativo? SCANSIONA IL QR-CODE PER CONTINUARE A LEGGERE
Casa è dove un bambino può sorridere A casa di AGAL c’è sempre tanta allegria. La mia famiglia è sempre rimasta con me, e ho conosciuto nuovi amici... così la malattia mi fa meno paura. Valentina, 7 anni
AGAL accoglie presso le sue case a titolo gratuito i bambini oncoematologici in cura presso il Policlinico San Matteo di Pavia, che possono così affrontare le terapie sentendosi a casa, insieme alla propria famiglia. Perché per i bambini malati l’accoglienza è parte integrante della cura. AGAL è una famiglia, è una casa che sa abbracciare. È l’accoglienza che fa sentire meglio.
Sostieni le nostre attività, vai su associazioneagal.org AGAL - Associazione Genitori e Amici del Bambino Leucemico c/o Clinica Pediatrica Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo - Viale Golgi 2, 27100 PAVIA - Tel. +39 0382.50.25.48 - info@associazioneagal.org
INVESTIRE SPECIALIST
EDUCAZIONE FINANZIARIA E IMPRESE
Il fintech a misura di pmi risolve i problemi «da remoto» di Rosaria Barrile
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ata a marzo del 2020 in piena pandemia, su impulso di due nomi “storici” del settore bancario, Roberto Nicastro e Federico Sforza, la nuova banca fintech AideXa si prepara a favorire non solo il rilancio economico di diversi piccoli imprenditori, particolarmente penalizzati dalla pandemia, ma anche la loro digitalizzazione, considerata funzionale alla ripresa del business. Se da un lato, infatti, le limitazioni imposte dal lockdown hanno accelerato la diffusione di servizi fruibili “da remoto”, dall’altro l’emergenza ne ha fatto percepire i vantaggi. Nel caso di Banca AideXa tale passaggio sfrutta le nuove possibilità offerte a livello tecnologico dall’open banking e dalle linee guida della PSD2, la direttiva europea che ha imposto alle banche di concedere anche a terze parti un accesso sicuro ai conti dei clienti e alle informazioni sui pagamenti. «L’open banking e la normativa Psd2 rappresentano una forte discontinuità perché danno la possibilità alle imprese di condividere i propri dati finanziari a soggetti terzi per erogare servizi più efficienti, creando di fatto una situazione di concorrenza all’interno del sistema creditizio, a beneficio dell’imprenditore stesso», precisa Federico Sforza, cofounder e ceo di AideXa. «Il diritto alla condivisione dei dati con la nostra piattaforma consente di fatto all’impresa di ottenere finanziamenti abbattendo i tempi per l’erogazione senza dover preparare i numerosi documenti tipici di una richiesta di affidamento». Prestiti su misura per le pmi Banca AideXa, che dal mese di giugno ha ottenuto l’autorizzazione per la licenza bancaria, ha mosso i primi passi sul mercato con un servizio di finanziamento istantaneo - X Instant – rivolto specificamente a questo target, sfruttando le opportunità offerte dall’open banking e dall’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale. A rendere particolarmente innovativo questo prestito, che ha una durata di 12 mesi e un importo massimo di 100 mila euro, è la possibilità per l’imprenditore di sapere immediatamente se il finanziamento è stato accordato e di ricevere l’accredito sul conto corrente in 48 ore. La procedura non prevede lo scambio di documenti cartacei: grazie all’open banking l’imprenditore può collegare con pochi click i conti delle banche con cui lavora. Dopo aver effettuato l’accesso al proprio internet banking direttamente dal sito della banca, Banca AideXa chiede l’autorizzazione per accedere alle informazioni del conto corrente in sola lettura. In alternativa, è possibile caricare gli estratti conto in formato pdf: bastano le liste dei movimenti degli ultimi 12 mesi dei conti correnti utilizzati per gestire l’impresa. Lo stesso meccanismo è alla base anche di X Garantito, il finanziamen-
L’offerta di AideXa presenta servizi completamente digital dedicati ai piccoli imprenditori, accessibili in autonomia attraverso piattaforma
FEDERICO SFORZA, CEO DI AIDEXA
to che eroga fino a 300mila euro in 24 mesi con rate costanti a tasso fisso, dedicato alle società di capitali costituite da almeno due anni, con un fatturato superiore ai 100mila euro e che non abbiano superato complessivamente l’importo massimo garantito dal Fondo di Garanzia per le Pmi (pari a 5 milioni di euro). Per richiederlo bastano anche in questo caso pochi step: inserire la Partita Iva, scegliere l’importo fino ad un massimo di 300mila euro, condividere gli estratti conto tramite internet banking, valutare la proposta e confermare l’identità del legale rappresentante e dei titolari effettivi. Infine, occorre sottoscrivere il contratto e la domanda al Fondo di Garanzia con firma digitale. Ci pensa Banca AideXa a quel punto a fare richiesta al Fondo. In soli 20 minuti, senza documenti o moduli cartacei da preparare, l’imprenditore viene così a conoscenza della fattibilità, dell’importo e del tasso del finanziamento. La richiesta di valutazione è gratuita e non comporta alcun vincolo.
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COSMOPOLITICA
L’ECONOMIA CINESE CONTINUA A RALLENTARE E METTE SOTTO STRESS IL NUOVO CORSO DI XI JINPING
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dati del terzo trimestre relativi alla crescita cinese hanno segnato un netto rallentamento dell’economia: da luglio a settembre, infatti, il PIL ha registrato un aumento del 4.9%, contro il 7.9% del trimestre precedente. Malgrado questo rallentamento potesse essere prevedibile, è significativo notare come le aspettative cinesi fossero ben più rosee, con una previsione di crescita pari al 5.25%. Anche il dato della produzione industriale è allarmante: nello stesso trimestre luglio-settembre la produzione è cresciuta solo dello 0.2%, scendendo dall’1.2% del periodo aprile-giugno e diventando così uno dei trimestri più deboli degli ultimi anni. Le ragioni di questo rallentamento sono da ricercare in una serie di elementi interni alla situazione cinese e altresì nella sovrapposizione di alcuni trend che si registrano a livello globale. Per quanto riguarda la dimensione interna, una prima grande incognita che pesa sull’economia di Pechino è la crisi di Evergrande. La Banca centrale cinese ha definito il rischio posto da Evergrande come “controllabile”, e sembra che il Governo non abbia intenzione di salvare il colosso dell’immobiliare. Tuttavia l’edilizia cinese rappresenta un settore cruciale nel mercato lavorativo cinese, con milioni di posti di lavoro e un indotto che assorbe circa un quarto del Pil. Inoltre, la preoccupazione di un eventuale crollo di Evergrande è strettamente collegata al fatto che i maggiori investitori sono cinesi, come lo sono anche i creditori e i clienti. Il fallimento di questo colosso, quindi, potrebbe avere un effetto a cascata sulla stabilità del sistema finanziario cinese, sul credito e sui risparmi interni. Un altro punto interrogativo sulla crescita cinese è rappresentato dall’evoluzione della pandemia: malgrado la campagna di vaccinazione e un miglioramento generalizzato della pandemia, gli effetti del Covid 19 sulla situazione economica, alla luce di potenziali nuovi focolai, potrebbero essere deleteri, soprattutto nella misura in cui il quadro sanitario poco nitido aumenta l’incertezza e deprime così gli investimenti dei privati. A livello globale la Cina, alla stregua di altri Paesi, sconta la crisi energetica e l’aumento generalizzato del prezzo del gas e dell’elettricità. Da un lato, questo aumento è un sintomo della ripresa economica, a cui proprio l’aumento della domanda di gas nei primi due semestri del 2021, in particolar modo in Cina, Giappone e Corea ha contribuito significativamente. D’altro lato la riduzione delle scorte potrebbe creare delle carenze di approvvigionamento con ripercussioni potenzialmente significative sull’economia cinese e sul suo posi-
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zionamento nelle catene globali del valore. Inoltre, la crisi energetica potrebbe compromettere la posizione cinese nella transizione energica, in cui la strategia di Pechino sembra essere altalenante tra obiettivi di breve e di lungo termine. Infatti, se da una parte Pechino mira a essere leader nel mercato delle auto elettriche, delle batterie e nei settori dell’energia solare ed eolica, d’altra parte la necessità di arginare l’effetto della crisi energetica sulla produzione e sul PIL ha portato Xi Jinping ad adottare delle misure che puntano verso una direzione opposta. In questo ambito, ad esempio, si inserisce l’aumento della produzione domestica di carbone, con l’obiettivo specifico di fermare il razionamento dell’energia e rilanciare la produzione, per scongiurare che la performance deludente del trimestre luglio-settembre possa prolungarsi ulteriormente. Questi due elementi, se combinati insieme, forniscono una prospettiva che risulta essere ancora più allarmante se si considera che le autorità cinesi, in linea con il quattordicesimo piano quinquennale presentato recentemente per tracciare le linee guide del Paese fino al 2025, mirano a promuovere una crescita economica imperniata sul rilancio della domanda interna, allontanandosi progressivamente dalla struttura di crescita seguita fino ad adesso incentrata sull’export e sull’attrazione di investimenti esteri. In quest’ottica quindi la stabilità finanziaria interna e la salute del mercato creditizio sono delle priorità per le autorità di Pechino per garantire che la crescita trainata dalla domanda interna sia solida, strutturata e priva di rischi di bolle e crisi finanziarie.
Andrea Margelletti Presidente del Centro Studi Internazionali, docente presso la Facoltà di Scienze delle Investigazioni e della Sicurezza dell’Università di Perugia e Narni. Unico membro onorario delle Forze Speciali Italiane
QUI NEW YORK
IN ITALIA NIENTE ETF SUI BITCOIN? CONSOLIAMOCI CON QUELLI CHE PUNTANO SULLA BLOCKCHAIN
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a Sec americana ha autorizzato il lancio del primo Etf collegato ai Futures di Bitcoin, il Bitcoin Strategy Fund (Bito), promosso da ProShares. Le criptovalute non hanno ancora avuto, in quanto tali, la legittimazione formale della Federal Reserve, ma la quotazione di questo Etf, il 19 ottobre, ha offerto agli investitori un prodotto “vigilato”. Tecnicamente Bito è indicizzato ai futures trattati sul Mercantile Exchange di Chicago, e il pubblico potenziale è di investitori-speculatori che devono sapere di affrontare il forte rischio del binomio Bitcoin-derivati, anche se sotto il marchio di un Exchange Traded Fund. Gli operatori Usa sono convinti che Bito è solo il primo di una serie di Etf basati sui futures pronti ad ottenere il via libera, come Valkyrie, Invesco e VanEck tra gli altri. Vedremo. Chi vuole investire sul mercato dell’innovazione tecnologico-finanziaria rappresentata dalle criptovalute non può ancora farlo direttamente su un Etf in Bitcoin, in Italia, ma deve invece rivolgersi ad altre Borse, in America o in altri paesi europei. Tuttavia, quotati su Piazza Affari, ci sono un paio di Etf collegati indirettamente alle criptovalute attraverso aziende che usano la tecnologia “blockchain”. Tecnicamente, questi Etf sono indicizzati a due diversi panieri di azioni di società i cui profitti sono oggi più o meno strettamente connessi con lo sviluppo dei Bitcoin e dei suoi simili, ma che hanno anche altre prospettive di crescita in business diversi e in larga parte inesplorati. Il futuro delle criptovalute, che pesano globalmente per un trilione di dollari e fanno sempre più concorrenza al sistema monetario-bancario ufficialmente gestito dai governi, è in un limbo politico-regolamentare che non potrà durare in eterno. Invece la tecnologia “blockchain”, pur ancora agli albori e con un futuro da scrivere, “è qui per restare”. I più avveduti dicevano lo stesso di Internet e del web agli scettici che diffidavano delledot.com alla fine del millennio scorso. È vero che la grande maggioranza delle dot.com si rivelarono mangiasoldi e fallimentari, ma hanno avuto ragione nel tempo gli imprenditori capaci di credere e sfruttare con profitto quella rivoluzionaria tecnologia. Dei due Etf che catturano le promesse del nuovo settore high-tech il più importante per capitalizzazione, il più redditizio (finora), ma soprattutto il più direttamente focalizzato sulla tecnologia delle blockchain e le sue applicazioni è l’Invesco Elwood Global Blockchain Ucits Etf, quotato dal marzo del 2019. La sede della società è in Irlanda, la valuta dell’Etf è il dollaro, e le commissioni di gestione sono lo 0,65%
annuo. L’Etf di Invesco replica l’andamento di aziende internazionali dei mercati sviluppati, ma anche di quelli emergenti, che costituiscono l’ecosistema blockchain globale. Le principali aziende in portafoglio sono, in ordine di peso sul patrimonio, le seguenti: Hive Blockchain Technologies, canadese, con il 6,79%; Bitfarms Ltd, canadese, 5,29%; Coinbase Global Inc, americana, 5,21%; Monex Group Inc, giapponese, 4,31%; Sbi Holdings Inc, giapponese, 4,28%; MicroStrategy Inc, americana, 3,93%; Gmo Internet Inc, giapponese, 3,91%; Taiwan Semiconductor Manufact, taiwanese, 3,81%; Aker ASA, norvegese, 3,80%; Kakao Corp, sudcoreana, 3,13%. Il ventaglio di attività sviluppate va dal “mining”, ossia la produzione di criptovalute, ai servizi finanziari, ai sistemi di pagamento e a una gamma, in crescita, di svariate applicazioni tecnologiche. L’indice viene ponderato tramite un “punteggio di categoria blockchain”, che varia da 1 (esposizione potenziale) a 5 (esposizione ‘corè). Da una nostra rilevazione (27 ottobre 2021) sulla Borsa di Milano, l’Etf dava una performance del 90% su un anno e del 46% da inizio gennaio. Il secondo Etf è il First Trust Indxx Innovative Transaction & Process Ucits Etf. Creato nel 2018 da First Trust Global Funds plc, Sicav di diritto irlandese, ha un portafoglio rivisto e aggiornato a marzo e settembre dalla società di gestione americana First Trust Advisors. L’indice è costituito da un massimo di 100 titoli, e misura i rendimenti di società inserite in un universo blockchain dai contorni aperti, non definiti, come si legge dalla stessa descrizione presentata nel prospetto: vi fanno parte “aziende che utilizzano attivamente, oppure stanno sviluppando, oppure che hanno o stanno investendo in prodotti che ci si aspetta beneficeranno della tecnologia ‘blockchain’ e del potenziale di maggiore efficienza che questa darà ai vari processi produttivi”. La estrema flessibilità della definizione si traduce in un elenco di società dal business disparato, che sono, o (forse) saranno, accomunate dall’uso vantaggioso della nuova tecnologia. Così, per esempio, l’ultimo portafoglio registrato vede in testa ai primi posti, con un peso sul patrimonio che va dall’1,5% all’1,20%, una dozzina di corporation già ben note e attive in comparti classici, dall’energia ai computer, dal software alla finanza, dalle telecomunicazioni alla consulenza: Gazprom Adr, Sberbank, Salesforce.com, Ibm, Vmware Inc, Oracle, Mitsubishi Ufg, Intel, Nordea Bank, Tata, Swisscom, At&t. Negli ultimi 12 mesi questo Etf ha guadagnato il 41%, e da inizio 2021 è a +25%. Come l’Etf di Invesco, è denominato in dollari e ha commissioni di gestione dello 0,65%.
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IL GIRO DEL MONDO IN 30 GIORNI
USA, LA CAMERA “BLINDA” LE TLC DALLE INTERFERENZE ESTERE
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a Camera dei rappresentanti degli impedisce alle forniture cinesi comproStati Uniti ha approvato nella se- messe di minacciare le reti americane», conda metà di ottobre diversi pro- ha affermato il deputato repubblicano getti di legge volti a proteggere i sistemi Steve Scalise, tra i principali promotori di telecomunicazione dalle interferenze della legge. La Camera ha anche approvastraniere soprattutto provenienti dalla to il Communications Security Advisory Cina. In particolare, il Secure Equipment Act, che richiederebbe alla Fcc di istituiAct - approvato dalla Camera con 420 re un consiglio permanente incaricato di voti favorevoli e quattro contrari - richie- aiutare a formulare raccomandazioni per derebbe alla Commissione federale per aumentare la sicurezza e l’affidabilità delle comunicazioni (Fcc) le reti di telecomunicaNEL MIRINO SONO LE AZIONI zioni. Il disegno di legge di adottare misure per DI DISTURBO PROVENIENTI bloccare l’autorizzaziobipartisan – promosne di prodotti offerti IN PARTICOLARE DAI GIGANTI so dai deputati Elissa dalle aziende della faSlotkin (democratica), CINESI HUAWEI E ZTE mosa “lista coperta” che Kurt Schrader (demoinclude i giganti cinesi Huawei e Zte, che cratico) e Tim Walberg (repubblicano) - è sia il Congresso che l’amministrazione stato approvato dalla Camera con 397 fadell’ex presidente Donald Trump hanno vorevoli e 29 contrari. In attesa del vaglio indicato come potenziali minacce per del Senato anche il terzo disegno di legge la sicurezza nazionale e lo spionaggio. approvato dalla Camera con 413 voti fa«Proibendo alla Fcc di rilasciare licenze vorevoli e 14 contrari. Si tratta dell’Inforper apparecchiature a società identifica- mation and Communication Technology te come una minaccia per la nostra sicu- Strategy Act, patrocinato Billy Long (rerezza nazionale, questo disegno di legge pubblicano), Abigail Spanberger (demo-
cratica) e Jerry McNerney (democratico), che ha l’obiettivo di richiedere al dipartimento del Commercio di sviluppare una strategia per valutare la competitività economica delle aziende all’interno della catena di fornitura delle tecnologie della comunicazione.
LA CINA RAFFORZA LA TUTELA DELLA PROPRIETÀ INTELLETTUALE IN CAMPO TECNOLOGICO Il presidente della Corte suprema cinese Zhou Qiang ha dichiarato il 24 ottobre che la Cina rafforzerà la protezione dei diritti di proprietà intellettuale (Dpi) nel campo di Big Data, dell’intelligenza artificiale, della tecnologia genetica e di altri settori emergenti. La dichiarazione del vertice del sistema giudiziario cinese è stata resa in occasione della pubblicazione di un rapporto dedicato alle violazioni nel corso della sessione del Comitato permanente dell’Assemblea
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nazionale del popolo. Secondo i dati presentati dalla Corte, i tribunali nazionali dal 2013 al 2021 avrebbero gestito complessivamente ben 2,18 milioni di casi connessi alle violazioni della proprietà intellettuale. Come ha spiegato Zhou Qiang, la decisione di incrementare la tutela giuridica dei diritti di proprietà intellettuale nel settore digitale giunge a seguito dell’importante incremento delle violazioni registrato negli ultimi tre anni.
IL GIRO DEL MONDO IN 30 GIORNI
DALLA GERMANIA: C’È DRAGHI MA L’ITALIA NON CRESCERÀ
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Italia è “il Paese delle illusioni”, perché convinta di un futuro promettente con l’allentamento del Patto di stabilità e crescita dell’Unione europea e la comunitarizzazione del debito. Tale ottimismo è rafforzato dalla “ottima reputazione” del presidente del Consiglio, Mario Draghi, in Europa. Tuttavia, nonostante le premesse e gli auspici, l’Italia “non crescerà”. È il giudizio tombale del quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung (Daz), secondo cui, alla scadenza del governo Draghi nel 2023, “nulla impedisce ai partiti di utilizzare i fondi pubblici per finanziare regali elettorali a breve termine per la loro clientela”. Finora, aggiun-
LA NIGERIA LANCIA LA VALUTA VIRTUALE E-NAIRA La Nigeria ha lanciato il 25 ottobre l’e-naira, la valuta virtuale che dovrebbe promuovere l’inclusione bancaria e facilitare i trasferimenti di denaro all’estero. Il Paese più popoloso dell’Africa, nonché principale economia del continente, è il secondo dopo il Ghana, che da settembre sta testando un suo sistema di valuta virtuale, a lanciarsi nel mondo della valute digitali. Nelle intenzioni del governo di Abuja, l’e-naira dovrebbe consentire pagamenti semplici, gratuiti e sicuri sotto il controllo della Banca centrale, senza sostituire la valuta ufficiale, allo scopo di facilitare i pagamenti di chi non ha accesso ai sistemi bancari tradizionali. Con l’e-naira, la Banca centrale spera anche di facilitare le rimesse all’estero, in un momento in cui molti nigeriani si stanno allontanando dai canali ufficiali per trasferire denaro a casa. L’obiettivo però è anche quello di contrastare l’influenza delle criptovalute – come il bitcoin – che sfuggono al controllo delle istituzioni statali o dei regolatori globali. La Nigeria è infatti il terzo maggior utilizzatore, dopo Stati Uni e Russia, di valute virtuali al mondo, che per molti nigeriani rappresentano un rifugio sicuro di fronte al costante deprezzamento della naira negli ultimi anni.
ge Daz, “agli italiani è stata data l’illusione che si possa ottenere una maggiore crescita economica con un deficit di bilancio più elevato”. Vi è poi l’errore di ritenere Draghi capace di risolvere, “tutti gli squilibri e i problemi del Paese in pochi mesi, senza una reale disponibilità alla riforma in Italia o tra i suoi politici”. Le riforme avviate dal presidente del Consiglio non sono, infatti, che “primi passi verso un’inversione di tendenza” perché in Italia “nel complesso non vi è il desiderio di cambiare”. Il Paese – scrive ancora il quotidiano tedesco - ha “un enorme potenziale di sviluppo economico” e “un’immagine di lusso che molti altri Stati nel mondo invidiano”. Tuttavia, “è inutile credere che si possa sopravvivere sul mercato con il passato e solo con il nome Italia”. Inoltre, gli imprenditori che puntano sulla competitività non vengono ascoltati, nonostante una cultura d’impresa “molto più dinamica in Italia che in Germania”. Vi sono poi i sindacati, che “non hanno ancora detto addio al loro passato di lotta di classe, preferiscono lottare per la conservazione delle fabbriche obsolete degli anni ‘70 e ‘80 più che per una maggiore attrattiva per i nuovi investitori”. In tutto questo, Italia “non avrebbe soltanto la possibilità di una maggiore crescita”, ma potrebbe anche “portare più dinamismo a tutta l’Europa”. Tuttavia, ancora oggi, molti credono che sia della Germania “la colpa della debole crescita dell’Italia” e che sia l’Ue a dover essere modificata, affinché nel Paese sia “necessario un piccolo cambiamento”. novembre 2021
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PECHINO INFRANGE UN TABÙ: AL VARO LA TASSA SUGLI IMMOBILI
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opo un dibattito cominciato ancora nel 2003, il Consiglio di Stato cinese ha autorizzato, il 23 ottobre, il lancio della sperimentazione in alcune regioni, ancora da definire, di una tassa sulla proprietà degli immobili. La svolta è significativa. Il settore immobiliare, in grave crisi, copre un terzo del Pil cinese e ha calamitato per moltissimi anni i risparmi delle famiglie: l’iniziativa è stata presentata quindi come la soluzione per frenare la bolla immobiliare. La tassa, va detto, era già stata sperimentata nelle città di Shanghai e Chongqing, ma solo su immobili di fascia alta o sulle seconde case. Ora la tas-
sa si estenderà a tutti i proprietari di case, nonché ai ai titolari di diritti di utilizzo del suolo di proprietà statale. La nuova autorizzazione stabilisce infatti che “tutti i tipi
di immobili nelle regioni pilota, residenziali o non residenziali, saranno soggetti alla nuova tassa”, e che saranno esclusi dall’imposta solo i terreni rurali specificamente designati per la costruzione di abitazioni e le abitazioni costruite su di essi. L’ipotesi più accreditata è che le nuove regole possano essere sperimentate a Shenzhen o ad Hainan. Intanto il Ministero delle Finanze sta già redigendo alcune regole essenziali, come le aliquote fiscali e la disponibilità di esenzioni o sconti. Una volta approvati e rilasciati dal Consiglio di Stato, i progetti partiranno per un periodo iniziale di cinque anni.
SCOZIA, INDIPENDENTISTI ANTI-EXPORT
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a spinta indipendentista del primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon, è ostacolata dal fatto che l’economia della nazione dipende sempre di più da quella del Regno Unito. Come riferisce il quotidiano The Telegraph, secondo gli unionisti il piano del Partito nazionale scozzese (Snp) guidato da Sturgeon per l’indipendenza dalla Corona britannica e l’adesione all’Unione europea come Stato indipendente, causerebbe “enormi danni economici” alla Scozia e centinaia di migliaia di posti di lavoro andrebbero perduti. L’esponente del Partito conservatore scozzese, Liz Smith, ha commentato che l’indipendenza causerebbe alla Scozia “un enorme danno economico”. Gli oppositori dell’indipendenza della Scozia evidenziano infatti che nel 2019 le esportazioni verso Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord sono aumentate fino a 52 miliardi di sterline (61 miliardi di euro), un volume pari al 60% dell’export totale. Nel frattempo ovviamente è cresciuto, ma un ritmo decisamente più lento, anche il commercio della Scozia con l’Unione europea, che si è portato a quota 16,4 miliardi di sterline, volume pari al 19% dell’interscambio complessivo. Intanto Glasgow, che ospita la conferenza mondiale sul clima Cop26 dall’1 al 10 novembre, ha appena inaugurato il più potente parco eolico offshore al mondo, che ha la caratteristica unica di non essere ancorato al fondale marino.
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IL CILE LANCIA UN BANDO PER IL LITIO
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l governo del Cile ha emesso un bando internazionale per l’aggiudicazione di contratti per l’esplorazione e la produzione di 400 mila tonnellate di litio metallico, suddivise in cinque quote da 80 mila tonnellate ciascuna. La nota del ministero delle Miniere cileno del 18 ottobre precisa anche che, “ci sarà un periodo di sette anni per effettuare l’esplorazione geologica, gli studi e lo sviluppo del progetto, prorogabile per altri due, e ancora altri 20 anni per la produzione”. Lo Stato cileno, prosegue il comunicato, riscuoterà una royalty per l’assegnazione delle quote oltre a un pagamento variabile durante la fase di produzione. L’iniziativa, chiarisce il governo di Santiago, viene presa con l’obiettivo di, “fare fronte all’aumento della domanda mondiale di litio e alla crescita che si prevede nel futuro, nel contesto della lotta al cambiamento climatico”. Il prezzo del litio ha cominciato la sua corsa al rialzo a partire dalla seconda metà del 2018 a causa della carenza di offerta generata dall’aumento delle produzioni di veicoli elettrici. La domanda crescente di batterie per le auto elettriche ha incentivato gli investimenti nelle miniere di litio. Ma il litio è al centro di un paradosso ambientale: l’incremento dell’estrazione e della lavorazione del metallo potrebbe comportare a medio termine un peggioramento delle emissioni di CO2, ottenendo quindi un risultato opposto rispetto agli obiettivi della transizione energetica.
IL GIRO DEL MONDO IN 30 GIORNI
COMMERCIO, PIÙ INTERSCAMBIO ROMA-RIAD
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Italia, già settimo fornitore dell’Arabia Saudita con un interscambio cresciuto nel primo semestre di oltre il 17% rispetto all’anno precedente, secondo le proiezioni dovrebbe superare quota 7 miliardi di euro a fine 2021. E’ quanto ha sottolineato il 24 ottobre tramite Facebook il sottosegretario agli Affari esteri, Manlio Di Stefano, in missione in Arabia Saudita per il summit della Middle East Green Initiative, nell’ambito dell’impegno dell’Italia contro il cambiamento climatico. La direzione che prenderà la relazione commerciale tra i due Paesi è piuttosto chiara: «Oggi l’attività delle nostre imprese si concentra soprattutto nelle infrastrutture e nel settore petrolchimico», ha detto Di Stefano. «Lo sforzo da fare è proprio su quest’ultimo settore, perché l’Arabia Saudita, nell’ambito della Strategia Vision 2030, ha avviato un programma di transizione ecologica e digitale che cambierà radicalmente il volto del Paese nei prossimi anni». Secondo Di Stefano quindi la sfida per le imprese italiane leader nei settori delle tecnologie e delle energie rinnovabili starà proprio nel cogliere le opportunità derivanti da questo ambizioso programma. Intanto l’Arabia Saudita, come ha dichiarato il principe ereditario Mohammed bin Salman durante una conferenza sull’ambiente, mira a raggiungere emissioni nette di anidride carbonica pari a zero entro il 2060. Il principe ereditario aveva già annunciato in precedenza piani per ridurre le emissioni di CO2 di oltre 270 milioni di tonnellate all’anno nell’ambito della Saudi Green Initiative, su cui il regno sta investendo oltre 700 miliardi di riyal (circa 186,63 miliardi di dollari).
EDITORIA, BOLLORÉ IMITA LA FOX NEWS
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incent Bolloré sta costruendo in Francia un gruppo influente nel settore dei media, caratterizzato da una linea ”conservatrice e radicale”. È quanto riferisce il quotidiano Libération, spiegando che Bolloré, attraverso la presa di potere dell’azionariato del gruppo Lagardère, ha messo le mani sui settimanali Le Journal du Dimanche e Paris Match provocando le dimissioni del direttore delle due testate, Hervé Gattegno, che è stato sostituito rispettivamente da Jerome Bellay e Patrick Mahe. L’imprenditore e produttore televisivo bretone, secondo le indiscrezioni, riceverebbe personalmente nel suo ufficio i giornalisti che vuole assumere per convincerli a entrare nella squadra. In questo modo Bolloré starebbe molto determinato nell’obiettivo di costruire un gruppo editoriale con una linea orientata a destra, che ha come fonte di ispirazione l’emittente americana Fox News. Nel terzo trimestre 2021 il gruppo Bolloré ha registrato ricavi per 5 miliardi di euro, in rialzo del 25%, grazie al buon andamento delle attività logistiche, di distribuzione petrolifera e soprattutto delle comunicazioni. Proprio il gruppo media Vivendi ha dato il contributo più alto ai risultati del gruppo con 2,5 miliardi di euro di ricavi, grazie alle notevoli performance di Canal+ e Havas. Quanto ai ricavi della divisione Trasporti e logistica sono stati di 1,9 miliardi di euro, in crescita del 34%, mentre quelli derivanti dalla distribuzione petrolifera sono cresciuti del 52% a quota 610 milioni di euro.
ARTE, IL DIRETTORE DEGLI UFFIZI SCHMIDT SPIEGA IL RUOLO DEI “NON FUNGIBLE TOKENS”
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l direttore delle Gallerie degli Uffizi di Firenze, Elke Schmidt, è intervenuto sui “Non fungible tokens” (Nft) - ovvero certificati che attestano l’autenticità e la proprietà di un oggetto digitale che vengono registrati in una blockchain e non possono essere scambiati tra loro né copiati - che ha introdotto nel quadro del rinnovamento del museo avviato da quando ne ha assunto la guida. Intervistato dal quotidiano Handelsblatt, lo storico dell’arte tedesco ha affermato: «Quando pensiamo a opere artistiche create appositamente per il digitale, ovviamente la limitazione e l’autenticazione tramite blockchain offrono oppor-
tunità per renderle finalmente collezionabili, commerciabili e anche prestabili». Ciò ha già portato a «modelli di attività sostenibili per singoli artisti e gallerie». Le copie digitali dei capolavori dell’arte
in Nft, ha aggiunto Schmidt, rappresentano per i musei «una fonte di reddito che riempie una nicchia aggiuntiva». Ma così come nessuna collezione è «mai stata in grado di autofinanziarsi con la vendita di cartoline o calchi in gesso, è altrettanto impossibile immaginare oggi le riproduzioni digitali come una delle principali fonti di entrate». Si tratta, infatti, di «un segmento speciale che ha i suoi clienti e potenziali clienti». Tuttavia, ha concluso Schmidt, poiché si tratta di riproduzioni e non di originali, «vi sono sempre le versioni economiche per coloro che in realtà vogliono solo l’immagine e non i diritti associati o l’esclusività».
Il giro del mondo in 30 giorni è a cura di Gloria Valdonio novembre 2021
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FASHION TRA SOSTENIBILITÀ E BUSINESS
La moda in cerca di eterno con la scorciatoia del riuso di Fabiana Giacomotti
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Ricerca esclusiva di Kearney: il vintage cresce anche in Italia. Ma chi lo compra non è il giovanissimo ambientalista del luogo comune, bensì ultra-quarantenni a caccia dell’affare
on fatevi abbindolare da chi vi dice che l’abbigliamento vintage, o seconda-mano-di-qualità, è la nuova frontiera del consumo responsabile. Primo, perché non è affatto un tema nuovo – sull’usato e il seconda mano sono cresciute le istituzioni bancarie italiane da quando, nel primo Rinascimento, i Frati Minori Francescani inventarono i banchi dei pegni, che altro non erano se non micro-credito al consumo per chi non possedeva altro che un bel paio di maniche e non voleva cadere vittima degli usurai. Secondo, perché l’usato ha già avuto molte stagioni di gloria – l’ultima negli Anni Settanta, tanto che molti dei cinquantenni di oggi ricorderanno le file al mercatino dell’usato di Forte dei Marmi per accaparrarsi divise e cappottoni militari dismessi dell’esercito americano ma anche, quando andava bene perché erano tagliati infinitamente meglio, di una qualche arma dei paesi dell’est. Terzo, perché per la maggior parte dei brand del lusso che sta sposando il verbo del vintage, si tratta di operazioni di marketing in cui non ci è chiaro quanto guadagnino. Forse, fra lanci con feste faraoniche e gestione del day by day, addirittura perdono. Pensate a Gucci, che due mesi fa ha lanciato Vault, piattaforma di vendita di capi “preloved ricondizionati”, cioè vecchi capi del brand riportati all’antico splendore ma con quella patina di vissuto molto chic, oppure a Valentino, che ha appena lanciato una grande iniziativa di valutazione di capi attraverso le più belle boutique specializzate del mondo in cambio di buoni acquisto da spendere nelle proprie boutique. Il loro business non è vendere usato, tanto meno rimetterlo a nuovo impiegando i propri artigiani sopraffini; è vendere sempre più abiti e accessori nuovi. Dunque, perché lo fanno? Perché se investiamo tremila, cinquemila, ventimila euro in una borsa o in un cappotto nuovo di Gucci e Valentino, abbiamo la certezza che la nostra non sarà una spesa ma un investimento, esattamente come il ricco mercante del Cinquecento che per abbigliare la propria sposa 96
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Uno screenshot di Vault, la nuova piattaforma di Gucci per la vendita di capi “ricondizionati”
spendeva una cifra simile a quella che si sarebbe resa necessaria per armare un vascello, ma che da quella spesa aveva un ritorno importante e immediato in termini di status, e successivamente di impiego: quella veste sarebbe stata legata per testamento o, in caso di dissesto finanziario, sarebbe stata portata al banco dei pegni, trasformandosi in moneta sonante. Uguale uguale a quel che succede ora. Adesso, al tema di base si è aggiunto quello dell’ambiente. Il mercante del Cinquecento che tagliava allegro le foreste europee per farne legna da ardere non sapeva che sei secoli dopo il pianeta sarebbe stato a corto di polmoni verdi e coperto di fumi tossici, a cui contribui-
FASHION scono in misura non secondarie vestiti che non sarebbero buoni neanche per ricavarne mezzo fiorino al banco dei frati minori. Sì, il vituperato fast fashion. La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi, come diceva quel battutista di Oscar Wilde negli anni della crescita sfrenata dell’economia di consumo, fra l’Otto e il Novecento, e per quasi un secolo tantissimi hanno pensato così. Per vent’anni, il sistema del fast fashion ha accelerato in maniera esponenziale la scadenza di un vestito: da sei mesi a due settimane. Materia di scarsa qualità intrinseca, priva non solo di una seconda vita, ma perfino di una prima esistenza abbastanza lunga. Da qualche stagione, la spinta verso la sostenibilità della moda e la risignificazione del valore dell’abito ad opera di molti brand, sta portando all’attenzione di una fascia sempre più vasta di pubblico l’opportunità anche morale ed etica di dare alla produzione di moda una vita più lunga e la chance di un passaggio generazionale, magari non con gli stessi codici e lo stesso significato, ma con modalità non troppo diverse da quelle del Medio Evo. Buy less, choose well, make it last: compra meno, scegli meglio, fallo durare, come dice Vivienne Westwood, che è anche la base di ricerca su cui ha lavorato Kearney per la prima grande ricerca mondiale sul mercato del vintage, presentata dal Foglio della Moda in anteprima un mese fa e le cui risultanze per l’Italia sono state condotte e prodotte in esclusiva. Ne è uscito un quadro molto variegato, che ha visto il nostro Paese agli ultimi posti nella coscienza etica, ma anche decisamente interessato all’”affare” del second hand o del capo invenduto di magazzino, di firma e qualità importante. In parole povere, nel second hand la spinta etica è decisamente minoritaria rispetto
Carlo Capasa, presidente di Camera nazionale della moda. In basso Pauline Grange, gestore globale di portafogli finanziari ed esperta, tra l’altro, di fashion
all’opportunità di acquistare un brand a costo ridotto. Questo non accade solo in Italia, dove la prevalenza di acquirenti di vintage non sono affatto i giovanissimi del nord, come tramanda un certo storytelling, ma donne ultraquarantenni del centro-sud, ma anche negli Usa e in Germania, che è forse il paese dove l’attenzione all’ambiente è più sviluppata. Siamo agli ultimi posti, come segnala anche il presidente di Camera nazionale della Moda, Carlo Capasa, anche, nel riciclo, che è quanto sostiene anche la Ellen MacArthur Foundation: una quota minuscola di ciò che il settore della moda produce viene riciclato e riutilizzato; la maggior parte degli articoli finisce in discarica o negli inceneritori entro un anno dalla produzione. L’industria mondiale della moda produce circa 53 milioni di tonnellate di fibre all’anno, di cui più del 70 per cento diventa un rifiuto. Meno dell’1 per cento viene riutilizzato per produrre nuovi capi d’abbigliamento. Tuttavia, come segnalano da Columbia Threadneedle Investments, al momento ci troviamo nelle fasi iniziali di una transizione strutturale a livello dei consumi di capi di vestiario, caratterizzata da una crescente presa di coscienza in materia di sostenibilità. I venditori stanno iniziando ad abbracciare l’idea del riciclo e della rivendita, mentre i governi stanno ideando una serie di iniziative a sostegno della transizione. Il riciclo di scarpe e indumenti vecchi è una tendenza in aumento, come osserva Pauline Grange, gestore di portafogli azionari globali, nella recente ricerca “La moda punta alla sostenibilità attraverso l’economia circolare”. Oltre al riciclo, tuttavia, l’espansione del mercato del riutilizzo e dei capi di seconda mano è destinata a offrire agli investitori un’incredibile opportunità: secondo le proiezioni, dovrebbe raddoppiare nei prossimi cinque anni, arrivando a quota 77 miliardi di dollari, ed entro il 2030 potrebbe raggiungere volumi doppi rispetto al fast fashion che, comunque, sta combattendo per non perdere ancora terreno usando materiali di riciclo (filati da pet, per esempio). Sarà una battaglia appassionante. In cui dovremmo però evitare di giocare solo il ruolo degli spettatori.
Gucci ha lanciato Vault, piattaforma di vendita di capi “preloved ricondizionati”, cioè vecchi capi riportati all’antico splendore ma con una patina di vissuto molto chic novembre 2021
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MALALINGUA
BREVE STORIA DELLA CANCEL CULTURE, DA CAINO E ABELE A FRATELLI D’ITALIA
S Vittorio Borelli Giornalista di lungo corso, condirettore de Il Mondo, fondatore e direttore di East, già direttore delle relazioni esterne di Unicredit nella gestione Rondelli-Profumo
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baglia chi pensa che sia stato un puritano americano o una femminista nord europea a inventare la cancel colture. In realtà il primo uomo che vi ha fatto ricorso è stato Caino. Che sperava così di togliersi dai piedi Abele senza doverlo assassinare. Caino si era rivolto all’Altissimo sostenendo di aver sorpreso il fratello mentre accarezzava in maniera sospetta la loro pecora nera. La denuncia, tuttavia, non sortì alcun effetto perché a quei tempi l’Altissimo era impegnato a reinventare l’Islanda che, la prima volta, gli era venuta troppo fredda. Nei secoli successivi furono in molti a cercare di cambiare la storia usando la cancel colture. Tra gli altri Bruto, che accusò Cesare di tradire la repubblica e di indulgere a un dispotismo di matrice asiatica. Papa Leone III che, non volendo riconoscere l’egemonia di Carlo Magno, lo nominò subdolamente imperatore per riaffermare la supremazia del potere spirituale su quello temporale. Il cardinale Roberto Francesco Romolo Bellarmino, che accusò Galileo Galilei di ribaltare la credenza, ereditata addirittura dalle Sacre Scritture, secondo cui è il Sole a girare intorno alla Terra. Elisabetta prima e Maria Stuarda, che si combatterono in nome della illegittimità delle rispettive corone. Nel Novecento si è distinto Adolf Hitler che ha sterminato milioni di ebrei colpevoli di non essere abbastanza ariani e di tramare contro il potere legittimo, il suo. Oggi la cancel colture mette nel mirino indifferentemente Cristoforo Colombo e i Fratelli Grimm, Biancaneve e Woody Allen, Carlo Marx e Roman Polanski. Domani è un altro giorno, si vedrà. Non si può escludere, per esempio, che Vladimir Putin venga deposto per stalking nei confronti di una cameriera uzbeka. Che Emmanuel Macron possa essere accusato di aver copiato da Max Weber la sua tesi di laurea. Che Angela Merkel vada sotto processo per aver favorito, in un appalto pubblico, il proprio podologo turco. Che Boris Johnson venga licenziato per aver fatto più figli fuori dal matrimonio che nel matrimonio. In Italia, dopo essersi dati reciprocamente per anni del fascista, i leader sono alla ricerca di nuove chiavi di delegittimazione. Ecco un piccolo elenco delle innovazioni più creative. Lo staff di comunicazione di Matteo Salvini, la cosiddetta Bestia, suggerisce di attaccare la sinistra “perché troppo politicamente corretta, formalista, in ultima analisi noiosa”. I payoff rias-
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Il primo fratricida della storia si era rivolto all’Altissimo contro il fratello accusandolo di aver accarezzato in modo sospetto la pecora nera di famiglia. Ma la denuncia non fece effetto suntivi sarebbero: “Con la sinistra si sbadiglia”, oppure “Regalate un sorriso a questa sinistra votando per noi”. A Fratelli d’Italia sono più orientati per denigrazioni sanguigne, tipo “Alla sinistra piace trans”, “Un rutto di periferia vi seppellirà” o “Tardo comunisti, vagabondi senza Dio e senza Patria”. I propagandisti del centro sinistra rispondono anteponendo il prefisso “neo” all’usato sicuro. Quindi, non più “Populisti” ma “Neo Populisti”, stop ai Sovranisti e avanti tutta con i “Neo Sovranisti”, basta con i “Liberisti selvaggi” e semaforo verde ai “Neo liberisti selvaggi”. I centristi di Carlo Calenda e Matteo Renzi, infine, vorrebbero attaccare destra e sinistra ripescando dal Guicciardini il celeberrimo “Franza o Spagna purché se magna”. Mentre la sinistra off-off ripropone immodestamente un classico autoreferenziale come “Vox populi vox, dei” e vorrebbe come testimonial nientemeno che Amadeus.
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