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Risarcimento ICA, la struttura deve osservare i protocolli di igiene
from GSA 9/2019
by edicomsrl
24
settembre 2019
Risarcimento ICA, la struttura deve osservare i protocolli di igiene
Una sentenza della Corte d’Appello di Roma condanna un’Azienda Ospedaliera per non aver organizzato un efficace sistema di contrasto all’insorgere delle ICA. E’ una pronuncia che “fa scuola”, e che richiama all’importanza della prevenzione e dell’organizzazione di adeguati protocolli igienici. Fondamentale, nemmeno il caso di dirlo, il ruolo della pulizia.
Si fa un gran parlare, e a ragione, di Infezioni correlate all’assistenza (ICA) e del rischio per la salute che esse comportano. Si è più volte ribadito, anche in queste pagine, come l’igiene sia il requisito essenziale per cercare di arginare un problema sempre più diffuso, con esiti anche drammatici.
Una sentenza importante Ma quando sfortunatamente tutto ciò si verifica, quali sono le reali responsabilità della struttura sanitaria? Su questo punto c’è una maggiore incertezza. E’ destinata a fare scuola, e ormai conosciuta da molti addetti ai lavori, la sentenza n. 280/18 della Corte Appello di Roma, pronunciatasi proprio in materia di infezioni contratte in regime di ricovero e derivanti dall’assistenza ospedaliera.
di Simone Finotti
Non in linea coi protocolli igienici
La Corte ha ribadito che la causa più
probabile del contagio infettivo dell’uomo sia da individuarsi nelle condizioni igienico-sanitarie della struttura, in
quanto anche nel giudizio d’appello la
struttura non ha dimostrato di avere posto in essere i protocolli di igiene in ambiente ospedaliero. Ma non solo. Quanto accaduto al danneggiato dimostra la presenza di un grave malfunzionamento organizzativo, una carenza strutturale, di sicurezza, di vigilanza e di custodia. E’ proprio questo, in estrema sintesi, che ha portato alla condanna della struttura sanitaria.
L’igiene innanzitutto Detto in altri termini, le cosiddette infezioni nosocomiali, o ICA, Infezioni correlate appunto all’assistenza. Diciamo subito che la sentenza è da leggere con molta attenzione perché rappresenta un punto-fermo nella giurisprudenza in questo senso. E che richiama alla necessità, da parte delle strutture sanitarie, di implementare un sistema efficace di contrasto alla potenziale insorgenza delle ICA, e adottare corretti protocolli igienici. E –aspetto non secondario- poter dimostrare di averlo fatto.
La vicenda: dall’artrosepsi al licenziamento Ma cerchiamo di approfondire la vicenda, partendo dal principio: un paziente danneggiato ha chiamato in causa l’AO di Frosinone lamentando di avere contratto in ospedale una infezione della ferita chirurgica da cui poi derivava artrosepsi con conseguente insorgere di un ulteriore danno biologico, differente e non riconducibile alla frattura della testa dell’omero e all’intervento chirurgico di osteosintesi. A causa di tale infezione l’uomo veniva costretto a sottoporsi ad altri interventi chirurgici e nelle more veniva anche licenziato.
Oltre 300mila euro di
risarcimento richiesto
Nel giudizio di primo grado si costituiva anche l’Azienda Ospedaliera che sottolineava il corretto operato dei sanitari, nonché la tempestività e idoneità delle cure antibiotiche. Il Tribunale adito, in primo grado, accoglieva la domanda del paziente e condannava l’Ospedale a rifondergli l’importo complessivo di € 325.793,27 comprendente oltre alle voci tipiche di invalidità e inabilità del danno biologico, il danno estetico e la perdita della capacità lavorativa specifica. Accertata la presenza di Ica Tale decisione seguiva la CTU medico-legale svolta che accertava la natura di infezione nosocomiale. L’Azienda Ospedaliera propone appello dinnanzi alla Corte territoriale di Roma sostenendo l’insussistenza di responsabilità; nel giudizio si costituiva il danneggiato che in via incidentale chiedeva la condanna al pagamento dell’ulteriore importo di € 174.206,73 a titolo di risarcimento. Senonché, ed è questo il punto che maggiormente ci interessa, la Corte d’Appello ha respinto il giudizio. Ora, al di là dei tecnicismi “da sentenza”, il senso complessivo è che l’Azienda Ospedaliera nel suo insieme è stata ritenuta responsabile, al contrario del personale sanitario che ha svolto il proprio lavoro correttamente, per non aver organizzato un efficace sistema di prevenzione delle Infezioni correlate all’assistenza.
I sanitari hanno operato
correttamente In punto di responsabilità richiamano quanto in primo grado osservato sulla riconducibilità dell’infezione alla natura nosocomiale in quanto “trattandosi di frattura di tipo chiuso l’unica via di contagio dell’articolazione omerale doveva rinvenirsi nella ferita aperta durante l’intervento chirurgico” a cui seguivano proprio i primi segnali di infezione e che nessuna responsabilità professionale poteva essere ascritta ai sanitari che intervenivano con una corretta terapia antibiotica, mentre sussiste responsabilità in capo all’Ospedale che non ha dimostrato in giudizio l’inevitabilità dell’infezione.
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