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Tanto tempo fa, nel lontano Oriente, in un’epoca remota in cui esistevano sultani e Gran Visir, fate e geni, principi e principesse incantate, lampade magiche e tappeti volanti, vivevano due fratelli.

Shahriyar, il maggiore, forte e valoroso, autorevole e saggio, regnava sulle terre che si estendevano dall’India alla Cina; Shahzaman, il minore, gentile e generoso, giusto e raffinato, era il sultano di Samarcanda.

I due sovrani si volevano molto bene, così, dopo dieci anni di lontananza, Shahriyar fece chiamare il fratello e lo invitò a fargli visita nel suo regno.

Shahzaman era felice, perché anche lui soffriva di nostalgia e non vedeva l’ora di riabbracciare il fratello maggiore.

«Affido a te i miei sudditi» disse al Visir, montando a cavallo.

E partì con il suo seguito, carico di doni e accompagnato da un festoso rullo di tamburi.

Nel cuor della notte, però, gli venne voglia di andare a salutare sua moglie. Senza farsi vedere da nessuno, lasciò l’accampamento e tornò a palazzo.

Quale e quanta fu la sua disperazione, quando la trovò teneramente abbracciata a un altro uomo.

«Ma come,» mormorò «sono partito da poche ore e tu già mi tradisci? Che cosa farai, quando starò via per mesi?»

Accecato dal dolore e dalla rabbia, fece rinchiudere la regina e il suo amante in fondo a un pozzo profondissimo e ordinò che fossero lasciati morire.

Poi si mise nuovamente in viaggio verso il regno del fratello. Al suo arrivo, Shahriyar lo accolse con le lacrime agli occhi dalla contentezza, e anche Shahzaman era commosso, ma il pensiero del tradimento della moglie non lo abbandonava mai.

«Perché proprio a me?» si chiedeva senza potersi dare pace.

«Perché sono stato così sfortunato?»

Per il dispiacere iniziò a digiunare, a dormire tutto il giorno e a restare sempre chiuso nella sua stanza. A nulla valsero i tentativi fatti da Shahriyar per rallegrarlo: lo ospitò in uno sfarzoso appartamento tra cuscini damascati, tappeti intrecciati dai mille colori, lampade d’oro e vasellame d’argento; organizzò feste e banchetti; lo ricoprì di magnifici doni. Quando dovette partire per una battuta di caccia, propose al fratello di andare con lui, sperando che si sarebbe distratto dai suoi pensieri. «Ti ringrazio, non me la sento, preferisco rimanere qui ad aspettarti» gli rispose Shahzaman.

Una mattina, se ne stava presso la finestra a rimuginare ancora una volta sulle sue disgrazie, mentre ammirava il magnifico giardino del palazzo. Vi crescevano più di mille varietà di fiori profumati, i pavoni si aggiravano tra i cespugli facendo la ruota, e carpe bianche, arancioni e rosse saltavano nelle acque limpide di una fontana. Improvvisamente si aprì una porticina nascosta, e Shahzaman vide la moglie del sultano che entrava in giardino e correva ad abbracciare un altro uomo.

“Allora non sono l’unico sciagurato sulla faccia della terra” si disse, incredulo. “Anche Shahriyar è vittima della mia stessa sventura. Siamo proprio nati sotto una cattiva stella.”

Eppure, la consapevolezza che la sorte non si fosse accanita soltanto contro di lui lo rallegrò talmente che al ritorno di Shahriyar dalla caccia era di nuovo di buon umore, pronto a divertirsi e a godersi la vita.

Il fratello maggiore ne fu molto contento, e lo pregò di spiegargli le ragioni di quel cambiamento di umore.

Shahzaman fu costretto a raccontargli tutta la storia.

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