Testimonianze sulla sindrome del gemello scomparso. Sul sentiero della resilienza

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Le testimonianze qualche suggerimento per la lettura

Abbiamo ricevuto molte testimonianze, e buona parte di esse provengono da persone che avevano già letto La sindrome del gemello scomparso e che avevano già percorso un lungo cammino. Relazioni fallite, figli difficili, sintomi fisici e la mancanza di felicità le avevano spinte verso percorsi di ricerca per trovare delle soluzioni. Sono quindi proprio le difficoltà a produrre l’effetto che si parta alla ricerca di cambiamento e guarigione, che li si inviti ad entrare nella propria vita. I nostri testimoni hanno tutti una caratteristica in comune: sanno o sentono che esiste un amore incondizionato e che non ha bisogno di parole, quello stesso che hanno sperimentato in passato, con il loro gemello. Questo sapere è spesso perlopiù inconscio e sempre unito al dolore della perdita, all’impotenza e al sentirsi indifesi. Le testimonianze, quindi, esprimono anche il dolore vissuto. Le persone che le hanno scritte sono già arrivate alla fine delle loro dolorose esperienze, ma sono ancora piene del senso di orrore e di impotenza e sono ancora alle prese con le conseguenze che questo ha sulla loro vita attuale: i loro contributi sono un’istantanea del loro attuale percorso, e nella maggior parte dei casi non descrivono una completa risoluzione delle loro profonde ferite. Si intravedono nei testi alcuni tratti depressivi dovuti al trauma ancora irrisolto, che potrebbero rivelarsi, almeno temporaneamente, addirittura contagiosi per il lettore; la guarigione è un percorso che ha bisogno di tempo, e anche questo è un messaggio molto importante.

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Leggere tutte queste storie di vita è un’esperienza molto toccante che può anche andare a stimolare il vostro vissuto. L’entrare in contatto con ciò che hanno provato nel ventre materno, quando erano ancora piccolissimi, è stato per molti un passo estremamente coraggioso alla volta della loro completezza. L’intimità vissuta allora nell’utero è stata per loro il paradiso, dove hanno potuto sperimentare un senso di unità, il comprendersi senza parole, un amore profondo senza “se” e senza “ma”. Nel momento in cui però l’amato Altro sparisce o si indebolisce sempre di più finché l’energia vitale svanisce, tutto cambia… Tutto ciò avviene in uno spazio antecedente alla parola e al pensiero e per questo è difficile comprenderlo e verbalizzarlo: spesso, nel gemello sopravvissuto rimangono “strane” sensazioni, difficili da inquadrare, come sentirsi inerme o stordito, o spiacevoli sensazioni fisiche dovute all’improvvisa mancanza di quello stare piacevolmente insieme, o l’impressione di non poter andar via, di non avere nessuna via d’uscita, o il dubbio che in loro ci sia qualcosa che non va, il non sentirsi “a posto”, il desiderio di raggiungere l’Altro, quello uguale a sé, ovunque si trovi… Nel leggere queste testimonianze, cari lettori, può darsi che sorgano anche in voi “strane” sensazioni: svogliatezza, stanchezza, “è tutto troppo”, impotenza, irritazione o rabbia nei confronti di chi scrive… In tal caso è bene che vi prendiate cura di voi, essendo, queste, le tipiche reazioni che si scatenano quando si stimola il punto dolente di un trauma. Una parte di voi ricorda qualcosa: forse anche per voi le cose sono andate così, come canta Andreas Bourani nella sua canzone Su altre strade: Il mio cuore batte più veloce del tuo, non battono più all’unisono. Splendiamo più forte da soli, forse dev’essere così […] Ti do la libertà ti amerò sei rimasto parte di me ti do la libertà ti amerò Libero, ti amerò tictac tictac

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tictac tictac tictac tictac Accogliete tutte queste emozioni, anche se non riuscite ancora a dar loro un nome: vi farete un gran regalo se lascerete spazio in voi per tutte queste strane e spiacevoli sensazioni. Magari vi verrà voglia di prendere in mano qualcosa che simboleggi il minuscolo essere che eravate nella pancia della mamma: una pietra, un fiore, una figura in argilla o qualcosa che vada bene per voi. Dedicate del tempo a questa parte di voi e mettetevi in contatto con essa, guardando il simbolo che avete scelto, tastandolo e parlando con esso. Nel capitolo “Percorsi di guarigione: i nostri suggerimenti” che trovate nell’Appendice 2 descriviamo le diverse possibilità. Nel leggere questo libro, procedete di un paio di testimonianze per volta: lasciate che facciano il loro effetto su di voi. Scoprirete così tanti tasselli colorati sulla via della guarigione. Nella storia che segue, in realtà tratta da un libro di Bert Hellinger1, un medico descrive la morte di un gemello in gravidanza avanzata, attraverso ciò che osserva nelle ecografie. 1 – Veder morire un gemello durante l’ecografia Durante un seminario di Bert Hellinger, una donna che era medico e sposata con un medico disse: «Volevo dire… che l’ultimo dei miei figli è un gemello vero, ma che suo fratello è morto al sesto mese di gravidanza. Durante l’ecografia, sia io che mio marito abbiamo visto affievolirsi lentamente i battiti cardiaci del bambino che stava morendo. Il gemello che sarebbe poi nato lo ha abbracciato e non lo ha più lasciato fino a quando è morto. Poi si è rannicchiato nella parte opposta dell’utero, dove è rimasto a lungo, praticamente senza muoversi. Era chiaro che era vivo e in buona salute, ma per mesi non si è più mosso e non è più cresciuto: cominciavamo a pensare che non sarebbe nato sano, anche perché pesava troppo poco. Ma la gravidanza è stata lunghissima, quattro settimane 1 Bert Hellinger, À la découverte des constellations familiales: de la théorie à la pratique, Jouvence. La traduzione italiana è stata effettuata a partire dall’edizione francese.

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oltre il previsto, e nelle settimane finali il bambino ha finalmente cominciato a crescere, fino a raggiungere un peso normale. Durante il resto della gravidanza, il gemello sopravvissuto non ha mai più sconfinato nello spazio che precedentemente era appartenuto al fratello, tanto che il mio pancione penzolava da un lato. Potevamo vederlo molto chiaramente, perché la gravidanza era già in fase avanzata. Avevamo già scelto i loro nomi, così, ormai, il figlio sopravvissuto li porta entrambi». L’esperienza del sopravvissuto avrà più tardi una grande risonanza sulla sua vita affettiva. In via orientativa, nella vita affettiva dei gemelli adulti nati soli riscontriamo due tipologie, i “gemelli fusionali” e i “gemelli fuggitivi”. Per i primi, il contatto non sarà quasi mai abbastanza profondo, mentre i secondi vanno perlopiù in panico se il contatto si approfondisce. Nel caso degli appartenenti al secondo gruppo, il gemello morto è rimasto a lungo nell’utero, e vicino: quindi si sono trovati costretti a vivere accanto al suo corpo senza vita. Questa è spesso un’esperienza agghiacciante che rimane impressa nella memoria del corpo, e in seguito il ricordo di essa, perlopiù inconscio, potrà provocare impulsi di panico e fuga. Molti dei gemelli nati soli presentano impulsi sia di simbiosi che di fuga, di diversa intensità. La storia che segue è un bell’esempio di come un gemello scomparso possa mostrarsi a un bambino. 2 – La storia di Micaela: “la mia figlioletta ha perso un gemello” Da quando so di aver perso un figlio, sono ancora più triste per la mia bambina, perché so ciò che prova avendo trascorso con il suo gemello le prime nove settimane di vita. Quando la gravidanza è stata accertata, alla sesta settimana, la cavità coriale era ben visibile nell’ecografia. Alla fine della nona settimana, mi sono accorta improvvisamente di una leggera perdita rosa pallido. E lì, io che avevo sempre avuto sensazioni talmente precise da non aver mai avuto bisogno di fare un test di gravidanza per sapere se ero incinta, io, che per

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ognuno dei miei tre figli avevo anticipato non solo il sesso ma anche la data esatta del parto, ero combattuta fra due sensazioni: «il bambino è morto», «il bambino è vivo»! L’ecografia mostrava una cavità coriale e un embrione con il cuore che batteva. Quando il medico ha osservato con più attenzione, ha scoperto una seconda cavità! Non potevo crederci! C’era un sacco vitellino notevolmente sviluppato, ma la cavità coriale era più piccola e conteneva qualcosa che non assomigliava molto a un embrione. Alla dodicesima settimana, fu chiaro che era rimasto solo un bambino: la seconda cavità coriale si era ristretta ulteriormente; il sacco vitellino c’era ancora, ma non si scorgeva più nulla al suo interno. Dopo aver partorito in casa, serenamente e senza complicazioni nella vasca da bagno, ho osservato la placenta: i resti del secondo sacco vitellino erano ancora visibili! Da subito mi sono resa conto che Iduna era diversa rispetto ai suoi tre fratelli e sorelle. Quando aveva una settimana, si è verificato un incidente che mi ha fatta preoccupare moltissimo: è scoppiata a piangere improvvisamente, ma non ho potuto consolarla subito perché stavo affettando della carne. Il tempo di lavarmi in fretta le mani, e lei aveva già smesso di piangere. L’ho trovata sdraiata, con il viso girato da un lato mentre fissava il vuoto con lo sguardo spento. Mi è venuto il panico. Con le mani ancora bagnate l’ho sollevata e ho cominciato a chiamarla. Dopo una specie di sussulto ha inspirato profondamente: era “tornata”. Il giorno dopo è accaduto di nuovo, e, per la seconda volta, mi sono spaventa moltissimo. Le ho parlato, l’ho supplicata di non morire anche lei, le ho detto che il fatto che il suo gemello non fosse sopravvissuto doveva essere stato sicuramente terribile per lei, ma che le volevo bene e che ero felice della sua presenza. Dopodiché, non è mai più successo. Anche il suo primo bagno in una vaschetta shantala è andato diversamente da quello dei fratelli. Ho sempre potuto osservare con chiarezza che i bambini, una volta nell’acqua, si ricordano immediatamente della loro vita intrauterina. I fratelli e le sorelle di Iduna avevano fatto esattamente gli stessi movimenti che avevo percepito durante la gravidanza attraverso la parete addominale, e sin dal primo bagno si

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erano completamente rilassati. Ma non Iduna: appena ha toccato l’acqua si è irrigidita e ha cominciato a piangere. E anche se poi si è calmata in fretta, aveva i tratti tesi e si muoveva come se volesse evitare di toccare la parete della vasca. Allora l’ho tirata fuori dall’acqua velocemente e ho notato che sembrava davvero sollevata. Adesso, fare il bagno le piace. 3 – La storia di Eva Maria: “…e all’improvviso mia figlia ha cominciato a piangere” Durante un viaggio in macchina, mia figlia, che allora aveva tre anni, è scoppiata a piangere senza motivo apparente. Quando le ho chiesto cosa fosse successo, mi ha risposto singhiozzando che piangeva per la morte della sorella… All’epoca non sapevo ancora nulla sui gemelli scomparsi, ma, forse per via di una conoscenza profonda di cui non ero consapevole, ho capito il suo dolore e l’ho presa sul serio. Qualche anno dopo, a seguito di diverse sedute terapeutiche indipendenti le une dalle altre, sono emersi vari elementi che indicavano che anch’io ero una gemella sopravvissuta. Mia madre ed io abbiamo entrambe avuto delle perdite ematiche durante le prime settimane di gravidanza, e avendo letto La sindrome del gemello scomparso 2 parto dal presupposto che, in entrambi i casi, un gemello non sia sopravvissuto (e le mie sensazioni confermano questa ipotesi). Adesso, complessivamente, riesco a capirmi meglio. 4 – La storia di Helga, 64 anni: “non sentirmi più una madre colpevole” Vi ringrazio molto per aver scritto il libro sui gemelli scomparsi: mi ha aperto gli occhi e riconciliata con la vita. Ho tre figli, e anche io ho sofferto per la perdita di un gemello. Oggi Luise, la più giovane, ha trentasei anni. È stata una bambina difficilissima. Qualche settimana fa Luise mi ha regalato il vostro libro: l’ho divorato. Mentre leggevo, mi è capitato spesso di scoppiare a piangere, tanto ritrovavo la mia Luise. 2 Alfred e Bettina Austermann, La sindrome del gemello scomparso, Amrita, 2016.

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Ho un vago ricordo di aver avuto qualche perdita ematica verso la metà della gravidanza, ma non ci avevo dato molto peso perché mi avevano detto che ero ancora incinta. Sin dalla nascita Luise è stata difficile: durante i primi mesi piangeva in continuazione, qualunque cosa facessi; molto più di quanto avevano fatto i fratelli maggiori. Io cercavo di consolarla, la cullavo, le scaldavo il pancino con un asciugacapelli, eccetera… ma non capivo di cosa aveva bisogno. Sin dalla materna, ma anche dopo, alle elementari, ha rivelato un carattere solitario. Spesso non mi permetteva di avvicinarla e io mi sentivo respinta: prima veniva a chiedermi consiglio, ma poi si allontanava da me. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, quando le succedeva qualcosa, quando cadeva o si faceva male, quando litigava con un’amica o aveva una pena d’amore… mi sarebbe piaciuto poterla abbracciare teneramente per consolarla, come facevo con i più grandi. Ma lei non voleva, e mi respingeva, spesso bruscamente. Mio marito ed io eravamo perplessi e disarmati. Quante volte mi sono detta che dovevo aver sbagliato qualcosa con lei, che avrei dovuto fare meglio certe cose. Per fortuna Luise non era la prima, se no sarei stata davvero disperata. Più tardi ho dovuto constatare che riservava altrettanta durezza anche agli uomini della sua vita. Adesso Luise ha due bambini piccoli (da due padri diversi) che cresce da sola. Per caso, un’amica le ha parlato dei gemelli scomparsi. Luise ha poi comprato il libro e partecipato a un seminario. Da allora, il suo atteggiamento verso di me è cambiato radicalmente: è molto più aperta, e finalmente, ogni tanto, accetta di essere consolata quando è in difficoltà con i figli. Ho capito infine che era alla ricerca del suo gemello, che le mancava, e che al tempo stesso essere vicina a qualcuno era per lei una minaccia. Ho capito che non riusciva a lasciarsi andare completamente con gli altri (io o gli uomini della sua vita) se non a costo di grandi sforzi: temeva di poter essere abbandonata e di ritrovarsi nella stessa orribile situazione di quando il suo gemello era morto. Adesso ne sono convinta: non è colpa mia se mia figlia è così diversa e se mi sono sentita respinta così spesso. Non ho fatto nulla di male.

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5 – La storia di Mara: “mio figlio Erik cerca la sorellina” Leggendo La sindrome del gemello scomparso ho provato una grande emozione: mi sono detta che avrei dovuto trovare il coraggio di leggerlo prima. Quante situazioni sarebbero apparse più chiare! Quante volte avrei potuto capire meglio il mio figlio maggiore ed essere disponibile per lui! Erik, nato nel febbraio del 2006, è un bambino molto premuroso, aperto, gioioso ed intelligente. Sono molto orgogliosa di lui! Erik e mio marito Patrick sono i grandi amori della mia vita e dovremmo essere una famigliola felice, ma, spesso, ho la netta sensazione che ci manchi qualcuno. Dovete sapere che, da quell’anno in poi, non sono più riuscita a sopportare la vista di un passeggino doppio, o di gemelli, o di una bambina bionda dell’età di Erik senza soffrire immensamente. Ogni volta dovevo trattenermi dall’impulso di urlare o di scappare via. Eppure, avrei dovuto essere felice del fatto che Erik fosse vivo! Perché, sfortunatamente, neanche per lui era stato poi tanto facile. Quando ho scoperto di essere incinta, è stato uno shock: ero già alla fine del secondo mese o all’inizio del terzo, e c’erano TRE embrioni nell’utero! Era la prima volta che aspettavo un bambino, ed ecco che mi ritrovavo ad aspettarne tre in un colpo solo! Uno di loro ha smesso molto presto di svilupparsi, ma gli altri due continuavano a crescere. Inizialmente si erano posizionati ai lati opposti dell’utero. Ma ben presto si sono trovati entrambi al centro, accoccolati l’uno contro l’altro, nonostante ognuno galleggiasse nel proprio liquido amniotico. Paventavo un po’ ciò che sarebbe accaduto dopo il loro arrivo, ma accarezzare il pancione, parlare con loro o vederli nell’ecografia era una sensazione meravigliosa. Proprio il giorno in cui io e mio marito ci siamo messi d’accordo sui loro nomi, dal ginecologo abbiamo appreso che il cuoricino di nostra figlia aveva smesso di battere… Karin era morta. Erik era diventato molto calmo: si era rannicchiato su se stesso. Sembrava quasi che non volesse più muoversi. Era irrigidito dalla paura. Non riuscivo a capire: il periodo a rischio era già passato, ed ero già a metà gravidanza! Com’era potuto succedere?

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Avevo già cominciato ad acquistare tutto in doppio. E poi, eravamo finalmente riusciti a metterci d’accordo sui nomi: Erik e Karin. Sarebbero dovuti essere i nomi dei nostri figli… Non riuscivo a smettere di piangere. Alla clinica ci dissero che non si poteva fare più nulla per nostra figlia, e che per aumentare le possibilità di sopravvivenza di Erik dovevo cominciare immediatamente una cura ormonale, nella speranza che rimanesse nella pancia il più a lungo possibile. I medici non sapevano come sarebbe andata a finire, e io neanche. Sapevo solo che ero incinta di due gemelli: mio figlio Erik, vivo, e mia figlia Karin, morta. La seconda metà della gravidanza è stata un inferno: visite settimanali dal medico, visite settimanali in clinica, e, come se non bastasse, oltre alla cura ormonale, vivevo nella paura costante che potesse accadere qualcosa anche ad Erik. In quanto futura mamma, non sapere se almeno questo tuo figlio è ancora vivo, o se magari è appena morto, è una cosa ai limiti del sopportabile. Era una gravidanza a rischio: il pericolo di un parto prematuro era molto alto. E la mia piccola Karin era ancora lì. Era lì, ma morta. Non ne potevo più. E se io stavo così male, chissà come stava Erik… Aveva appena perso sua sorella, l’unico essere che aveva conosciuto davvero, l’unico con cui stava bene. Adesso, c’era questa cosa dura di fianco a lui, e, come se non bastasse, percepiva costantemente la paura e l’angoscia della sua mamma. Gli ultimi sei mesi devono essere stati ancora più terribili per mio figlio! Il primo giorno dopo il parto non è stato possibile lasciarlo da solo neanche per un secondo, perché incominciava subito ad urlare. Era come se stesse sprofondando in una spirale di panico. Naturalmente, oggi so che aveva paura di rimanere da solo, come era già successo nel ventre. Erik è stato male per mesi, anzi: per quasi tre anni e mezzo. A quattro mesi gli è venuto un eczema e ha cominciato ad avere reazioni a qualsiasi tipo di cosa. Ciliegina sulla torta, gli sono venuti anche l’asma e il broncospasmo. Avevamo costantemente paura che soffocasse, o che si grattasse fino a sanguinare dalla testa ai piedi. Ci sono stati dei momenti, quando non ne potevo più, in cui urlavo per farlo smettere di grattarsi. Era una lotta conti-

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nua che scandiva il nostro quotidiano, e tutta la nostra vita. Abbiamo provato di tutto: abbiamo trascorso notti intere sui forum, siamo passati da uno studio medico all’altro, e abbiamo persino consultato un guaritore. Poi, sono rimasta incinta di nuovo. Il 13 novembre 2009, è nato il nostro secondo figlio: Ole è un bambino splendido e in perfetta salute. Erik è felicissimo. Adesso, i momenti in cui rimane seduto tutto triste sulla coperta dei giochi, o in cui fissa il nulla senza saper dire perché è triste, sono diventati molto più rari. Mi sembra di aver notato che quando Erik si sente solo va dal fratello per guardarlo e accarezzarlo. Ogni tanto, dice che gli piacerebbe avere anche una sorella. Sarà davvero solo una coincidenza? Ad ogni modo, durante i suoi primi anni, era sempre affascinato dalle bambine bionde: appena ne vedeva una non c’era più altro che potesse interessarlo, diventava irrefrenabile, doveva avvicinarla ad ogni costo. Con lei si comportava in modo buono, tenero; si occupava di lei, le offriva i suoi giochi e i biscotti. 6 – La storia di Susanna, 50 anni: “il giorno in cui sono partita alla scoperta… e come, per la prima volta, ho sentito il mio gemello” Quindici anni fa, stavo seguendo un seminario annuale di psicologia biodinamica (il metodo di psicoterapia corporea inventato da Gerda Boyesen), nel quale, per una settimana, si usano tecniche di regressione per rivivere l’esperienza intrauterina. All’inizio stavo molto bene, mi sentivo al sicuro, a mio agio. Poi, improvvisamente, senza alcun segno precursore, mi è venuto il terrore di morire: avevo l’impressione di soffocare per mancanza di spazio e mi sentivo come se qualcosa mi tirasse verso il basso. Mi dimenavo per restare in vita, e, per quanto strano possa sembrare, stavo cercando di mettermi in salvo. Poco dopo ho cominciato a sentirmi un po’ meglio, ma nulla è più stato come prima. Me ne stavo tutta sola, rigidamente sdraiata senza muovere un dito e respirando a malapena; mi sentivo completamente persa. “L’evento” che avevo rivissuto era avvenuto fra il quarto e il quinto mese della mia gestazione, e aveva sollevato tantissimi interroga-

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tivi. Chiesi dunque a mia madre se le fosse successo qualcosa di particolare durante la gravidanza. Di primo acchito mi disse di no, ma siccome non mollavo alla fine disse che forse era stato quando era caduta dalle scale. Mi misi in ascolto di ciò che sentivo interiormente, ma il corpo non manifestava nessuna reazione. La mamma aggiunse che era stato in quel periodo che aveva scoperto che mio padre aveva un’amante. Ancora nessun segnale dal mio corpo. «Ah… sì – mi ha detto infine. – Quando sei nata, l’ostetrica ha detto che avresti dovuto avere un gemello». In quell’istante, ho provato nuovamente quella sensazione di massima allerta: ecco perché avevo reagito in modo così forte durante la regressione. Da un lato aver ottenuto quest’informazione è stato un sollievo, ma non sapevo cosa farmene. All’epoca, l’ostetrica aveva spiegato a mia madre che se n’era accorta per via dell’aspetto della placenta, ma non aveva aggiunto nulla di più e per la mamma la cosa non aveva avuto importanza. Tutto ciò che contava era che io fossi sveglia e in buona salute. Ero piccola, certo, e particolarmente gracile per un parto a termine, ma ero sana come un pesce. La questione della gemellarità è riemersa qualche anno dopo durante diverse costellazioni familiari e un bel giorno mi è capitato fra le mani il libro La sindrome del gemello scomparso3. Scoprire che la perdita di un gemello poteva avere conseguenze molto importanti sulla vita del gemello superstite mi ha commossa moltissimo. Mi sono sentita profondamente compresa, e qualcosa all’interno di me è riuscito a rilassarsi, perché avrei potuto ora prendere le mie esperienze ancora più sul serio, e rivedere qualsiasi elemento alla luce del mio vissuto intrauterino. Finalmente ho capito un sacco di cose! Una corazza di pelle Sulla cartella clinica rilasciata dall’ospedale dopo la mia nascita c’è scritto: “pelle molto desquamata”. Dopo un po’ mi è stata diagnosticata un’ittiosi volgare: la mia pelle assomigliava a quella di un rettile. Durante tutta l’infanzia ho 3 Op. cit.

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