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Arrampicare a ungia
Oto Bajana e Martin Heuger
Durante la prima libera di Elettroshock, Picco Luigi Amedeo, 1994. Foto: Arch. I.Köller
Prime salite
In apertura sul Diedro dei cecoslovacchi alla Punta Ferrario. Foto: F. Piaček
Sulla Diretta cecoslovacca alla Cima di Castello. Prima ripetizione. Foto: Arch. R. Libera «Avevamo ripetuto la Nusdeo-Taldo, unica via esistente, e abbiamo notato una linea ben definita alla sua destra. Volevamo scalarla in un giorno solo, non abbiamo portato niente sulla parete, solo quello che indossavamo, niente cibo, acqua e ovviamente nemmeno una macchina fotografica». Di Fero conoscerò la fama pochi giorni dopo, in cima a una sua vecchia e rognosa via sulla parete di Manin che scalo insieme a Dino Kuran, giovane e fortissimo che comparve anche lui nel Masino in anni più recenti, sempre sul Picco. Dino, alle mie perplessità nel vederlo preparare dalla cima una calata nel vuoto su un singolo chiodo normale, mi risponde che «quello è un chiodo di Fero, tutti si fidano dei chiodi di Fero!». Ancora oggi le vie dei Ceki nel Masino non sono diventate delle classiche, fatta eccezione per le due vie di Fero e compagni sul Picco e sulla Punta Ferrario, che contano una ventina di ripetizioni in quarant’anni. Le altre sono rimaste quasi sconosciute e dimenticate, come quella che forse è la più impegnativa di tutte, la Diretta al liscio pilastro della Cima di Castello, l’unica dove i Ceki dovettero ricorrere a qualche chiodo a pressione per passare. L’ha ripetuta solo una cordata, quella dell’espertissimo Rossano Libera insieme a Nico Rizzotto: «Ci abbiamo messo due giorni, lasciando le corde fisse sui primi tiri e dormendo alla base - racconta Rossano -. La relazione originale coincideva raramente nelle difficoltà: il tratto più difficile per noi, un 6c mortale appena sopra una brutta sosta, sulla relazione era indicato come V grado e artificiale. Rispetto a Feri Ultra sul Picco, che ho salito a vista, questa via è decisamente più alpinistica e richiede un alto livello mentale, anche per i tratti di artificiale delicato».
I Ceki, diventati solo Slovacchi, ritornarono ancora molti anni dopo, questa volta in piccoli gruppi e con obiettivi che non erano solo rivolti a tracciare nuove vie. L’arrampicata libera si era presa un posto preponderante negli interessi dei più forti, che
seguivano il capobranco Koller in queste trasferte alpine, questa volta in piccoli team.
«Per me il viaggio in Val Masino nel 1980 è stato di grande ispirazione. Jan Ďoubal e io abbiamo provato a salire una nuova via sul Qualido, l’attuale percorso della Spada nella roccia. Un fallimento perché non avevamo chiodi larghi e non eravamo in grado di mettere alcuna protezione. Solo quindici anni dopo siamo tornati sul Qualido,
nel 1995 e nel 1996, riuscendo nella prima salita in libera de Il paradiso può attendere e una nuova variante, Forse sì, forse no, con un primo tiro di 8b salito in libera da Miro Piala. Nel 1994 invece siamo saliti sul Picco Luigi Amedeo, incredibile monolite di granito, seguendo le indicazioni di František “Feri” Piaček, una delle autorità più rispettate dell’alpinismo slovacco. Piaček insieme al suo compagno più giovane Bohuš Čiernik aveva salito una bellissima e logica nuova via. È stata un’ispirazione per noi provare a scalarla in libera e con Dino Kuráň siamo riusciti a farcela. Allo stesso tempo, Dino ed io abbiamo aperto la difficile nuova via Denti del granito».
Storia CEKI 80 “Duro Alpinismo” DUŠAN JELINCIC GLI EROI INVISIBILI DELL’EVEREST
Jelinčič, alpinista, narratore e giornalista tra i più tradotti e apprezzati, ci regala un racconto a cavallo fra occidente e oriente che mette al centro il ruolo degli sherpa e il loro rapporto con la montagna sacra.
Un romanzo ricco di tensione che getta ombre sulle prime ascese all’Everest e su come gli occidentali affrontano la cima più alta del mondo.
Giornalista e alpinista, è uno degli scrittori sloveni contemporanei più apprezzati. Nel 1986 ha scalato, primo in Friuli Venezia Giulia, un Ottomila himalayano, il Broad Peak. Nel 1990 ha partecipato alla spedizione internazionale sull’Everest e nel 2003 ha conquistato l’Ottomila Gasherbrum 2.
Disegno originale del Precipizio con tutte le vie, di Simone Pedeferri.
tranquillo ci porta al secondo intoppo: la via fa un diedro sulla sinistra, superabile solo con chiodi, quindi la possibilità è una placca sulla sinistra improteggibile. Alberto mi guarda, io guardo la placca e gli dico: «La tento, sono sicuro che si sale». Primi metri facili poi sempre più ripida, quando diventa verticale in quel momento si è accesa... potevo farcela... ero sicuro nonostante la difficoltà... un momento di lucidità che in anni di scalata ho vissuto raramente, forse una decina di volte: finisco il tiro, faccio la sosta a friends e tra me e Alberto ci sono trenta metri di corda liberi. Ho appena fatto un tiro fantastico da sosta a sosta a vista e senza la possibilità di proteggermi, in mezzo a una parete grandiosa... Alberto mi raggiunge, anche lui rimane perplesso per il tiro che ho appena fatto e mi fa capire con una parola quello che ho appena combinato: «Pazzesco»! Continuiamo fino all’inizio del lungo diagonale, il sole sta per scomparire, le corde si distendono, è ora di scendere e salutare la parete, metto il discensore, guardo Alberto e dico: «Cazzo, meno male che doveva essere il piano di riserva!». Un cambio folle che ci ricorderemo a lungo.
CLIMB THE CIRCUIT
There’s simplicity to a bouldering circuit. You know each problem, and the path from one boulder to the next. There’s a ritual to the repetition. When the circuit is dialed, the less you need. A single crash pad, a chalk bag and a pair of climbing shoes. Eventually, the circuit becomes engrained, and the meditation of movement is an exercise in efficiency.