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Breve storia alpinistica del Masino 1862-1942

Testo Giuseppe Miotti

Ancora dopo la metà dell’Ottocento si contavano sulle dita della mano gli alpinisti che erano penetrati nelle vallate meridionali delle Alpi Retiche, tanto che il prestigioso Alpine Journal chiedeva ai suoi lettori: «Chi sa dire qualche cosa dei monti che stanno tra il Passo dello Spluga e quello del Bernina?». Naturalmente la sfida fu immediatamente colta dai migliori soci dell’Alpine Club, che in breve scalarono quasi tutte le principali montagne del massiccio. Il 24 agosto 1862 Leslie Stephen, Edward Shirley Kennedy e Thomas Cox con la guida Melchior Anderegg salirono il Monte Disgrazia partendo dalla Val Masino. L’impresa apriva la strada ad altri pionieri e solo due anni più tardi le prime informazioni sicure sulla regione comparivano nella guida Central Alps di John Ball. La presenza in Val Masino di un buon hotel presso le fonti termali dei Bagni forniva un’ottima base d’appoggio e da qui partirono il 25 luglio 1866 Douglas William Freshfield e Charles Comyns Tucker con la guida François Devouassoud per salire l’inviolato Pizzo Cengalo. Sulla punta lasciarono una scatoletta di latta con un bigliettino. Scriveva qualche anno dopo il conte Lurani: «Trovammo una scatoletta di latta recante ancora traccie di unto, ed entrovi un bigliettino di visita del signor C. Comyns Tucker (Univ. Coll. Oxon) il quale con Douglas W. Freshfield A. C. “made the first ascent of this peak with Francois Devouassoud of Chamounix in 4 hrs 40 min. from the Baths of Masino. Juli 25th 1866”. L’indicazione del tempo impiegato è riportata identicamente nelle Italian Alps; una media di quasi 500 metri all’ora, non è davvero perdere tempo!». L’anno successivo il sedicenne William Auguste Brevoort Coolidge, con le guide François e Henry

Alfonso Vinci, negli anni trenta. Foto: Arch. Ialina Vinci

Qualido e Martello

del Qualido. Foto: L. Schiera

Matteo De Zaiacomo

durante la prima libera di King of the Bongo, recente via completamente trad aperta da Schiera, Marazzi e De Zaiacomo al Qualido. Foto: R. Felderer I primi abitanti della Val Masino, i Melat, ovvero gli abitanti del paese di Mello sulla costiera dei Cek, erano soliti portare le bestie nei pascoli di questa valle. La transumanza durava diversi giorni per coprire quelli che sono oggi trenta chilometri di strada. Quando però il fondovalle non divenne più sufficiente per coprire il fabbisogno di tutti gli animali iniziarono ad esplorare le valli più in alto. Per le valli più accessibili furono tracciati dei sentieri nei boschi di faggio e abete che oggi portano anche alle cime più alte, mentre per le valli meno accessibili invece furono ricavati dei sentieri con gradini intagliati nella roccia quasi verticale, oppure si rese possibile il passaggio grazie a fittoni di ferro e funi per permettere il transito delle mandrie. Questi sentieri sono tuttora esistenti e testimoniano l’opera incredibile sia dal punto di vista ingegneristico, sia per lo sforzo necessario a spostare il materiale su quei terreni così impervi. Furono così tracciati dei sentieri in Val Arcanzolo, Temola, Livincina e appunto Qualido, per permettere alle vacche di raggiungere i pascoli in quota. Non si sa quante bestie persero la vita precipitando da questi passaggi esposti o quanto fossero spaventate nel farlo, quello che è rimasto sono gli accessi a queste valli rimasti in buona parte intatti ancora oggi, e se qualcuno crede che le piramidi siano state costruite dagli alieni non ho dubbi che penserebbe la stessa cosa vedendo questi sentieri. Dopo l’abbandono dei pascoli, per qualche decennio la Val Qualido, tuttora di proprietà privata, rimase frequentata o come meta turistica o per i pochi pastori che in estate portano ancora pecore o capre al pascolo, fino a quando i primi scalatori, sul finire degli anni Settanta, dopo avere maturato esperienza sulle piccole strutture di bassa quota, iniziarono a guardare la grande parete Est del monte Qualido. Una fra le prime vie probabilmente fu quella di Ivan Guerini sul lato destro della parete. Nel 1978 Paolo Masa e Jacopo Merizzi aprirono Via Paolo Fabbri 43, seguendo un logico sistema di diedri e fessure nella parte sinistra della parete, oggi in buona parte crollato. Erano anni di grande attività in Val di Mello e le vie nuove erano numerose, ma bisogna aspettare fino al 1982 per vedere la prima via in mezzo alla parete: Il Paradiso può Attendere di Antonio Boscacci, Paolo Masa e Jacopo Merizzi. Segue una serie di diedri verticali che porta in cima al Martello, la caratteristica cuspide rossa ben visibile dal basso. Per diversi anni (solo sette in verità, ma che hanno visto un cambio di generazione in Valle), non ci furono più novità. Nella primavera del 1989, nello stesso momento ma a insaputa fra di loro, le cordate di Vitali-Brambati-Rusconi da una parte e di Fazzini e Riva dall’altra, attaccarono la parete lungo due linee moderne. In quegli anni era arrivato quello che aveva cambiato completamente l’arrampicata non solo in Val Masino ma in tutto il mondo, ovvero l’uso degli spit.

“GRAZIE AL CHIODO A ESPANSIONE, UN SAPIENTE USO

DEI PIEDI E TANTO CORAGGIO, FURONO SALITE VIE IN PLACCA CHE SOLO POCHI ANNI PRIMA ERANO ASSOLUTAMENTE IMPENSABILI. SI DICE CHE VITALI IMPIEGASSE SOLO SETTE MINUTI PER PIANTARE UNO SPIT E CHI HA RIPETUTO LE SUE VIE SA QUANTO ALCUNE VOLTE PUÒ ESSERE PRECARIO ANCHE SOLO MOSCHETTONARE, IMMAGINATE FERMARSI A PICCHIARE QUALCHE CENTINAIO DI MARTELLATE.

Sulle placche dell’Oasi, fine anni 70. Foto: G. Milani

Prima salita della Crepa del Bamba, Val di Mello, Antonio Boscacci, 1978. Foto: G. Milani

NUOVA DIMENSIONE VII-, 3 tiri Con Jacopo Merizzi nel maggio 1977

Nuova dimensione, oltre ad essere una bellissima via sul Trapezio d’argento, è anche conosciuta come la prima via in cui fu scomodato il settimo grado sulle Alpi. Anche se diverse valli hanno la loro versione dei fatti sull’apertura della scala Welzenbach oltre al VI+, questa via ha una particolarità: il passaggio chiave è anche sprotetto (infatti si cade direttamente sui due chiodi di sosta e sotto ad un tetto)... È una via di tre tiri abbastanza ripetuta, molto bella ma sicuramente non banale.

LUCIDO DA SCARPE VII, 5 tiri Con Mirella Ghezzi, Jacopo Merizzi e Gaspare Piccagnoni, nel giugno 1977

Aperta qualche settimana dopo Nuova dimensione, è ancora più impegnativa sia mentalmente che tecnicamente, infatti sale su una placca stretta e molto esposta sospesa sopra ad uno strapiombo. Pochissimo ripetuta, in pochi hanno capito esattamente dove sale: l’unica cosa certa è che in caso di caduta c’è il rischio di pendolare oltre il bordo del tetto del Tempio dell’Eden con tutte le conseguenze del caso.

OKOSA VII+, 2 tiri con Guido Merizzi, nel giugno 1978

Okosa si trova su una piccola struttura, il Muro della Vacche, situata sopra la grande placca dell’Alkekengi e ormai seminascosta dal bosco. È una linea molto estetica che segue una sottile fessura obliqua che porta al bordo sinistro della placca dove forma uno spigolo dalla geometria regolare. In origine fu salita in due tiri separati, ma per aggiungere un po’ di sicurezza (essendocene già poca) è meglio salire il tutto in un tiro unico. Si sale la fessurina che conduce allo spigolo a circa un terzo di altezza della parete, e grazie ad un semplice calcolo matematico si capisce che dopo pochi metri non si può più cadere. Salendo in aderenza e con l’aiuto dello spigolo si sale la lunga placca con difficoltà tecniche decrescenti fino ad una pianta alla fine della placca. Racconta Jacopo Merizzi (impegnato sulla via adiacente) che quel giorno vide il Bosca salire quella che al tempo era la via più difficile della valle, e una volta sceso si liberò dalla tensione accumulata sdraiandosi per terra e urlando per circa un’ora.

CRISTALLI DI POLVERE VIII con Graziano Milani, nel novembre 1978

La prima via di ottavo grado della Valle, salita slegato dato che la corda sarebbe stato un peso inutile. A differenza delle altre questa via fu prima provata con la corda dall’alto per capire se fosse stata fattibile o meno. Oggi non c’è niente di strano ma è stata forse la prima via della Val di Mello ad essere stata aperta così, fra l’altro quando non ci sono appigli non cambia poi molto sapere dove salire. Sale una placca chiara che inizia da una cengia sospesa in mezzo alle Placche dell’Oasi: salendo le difficoltà diminuiscono, ma il passaggio chiave è comunque molto alto da terra.

Testata della Val Porcellizzo. Foto: L. Maspes

INNAMORARSI DEL MASINO

Luca: Ho percorso il Sentiero Roma a nove anni, l’unico mio record “podistico”, e forse quei cinque giorni di cammino sotto tutto quel granito mi avevano fatto innamorare di quelle montagne. Finito il servizio militare, mi sono stabilito a San Martino, dove partivo per arrampicare tutto quello che c’era, cominciando sui boulder e nella bucolica Val di Mello, così hippy e diversa dall’eroismo della lotta con l’alpe. La gavetta la facevo lì, ma i miei pensieri “eroici” erano per quello che c’era sopra, in quota. Il tempo libero in quegli anni non mi mancava, così il Masino ha riempito la mia vita alpinistica.

LE VIE NUOVE

“LUCA: LE HO APERTE IN OGNI STILE, SENZA PRECLUSIONI E

CON CURIOSITÀ HO PROVATO TUTTO: HO APERTO VIE SOLO PER ME STESSO, A CHIODI, ALCUNE ANCHE IN SOLITARIA, MA HO ANCHE APERTO VIE PER GLI ALTRI, CHIODANDO ANCHE DOVE A ME NON SAREBBE SERVITO.

La Esse

Pizzo Torrone Occidentale. Foto: L. Maspes

Rossano Libera su Tutto vero.

Picco Luigi Amedeo. Foto: L. Maspes Rossano: Già da adolescente accompagnavo mio fratello Valentino sulle montagne di casa (Val Codera), ispirati dalla passione comune per l’arte venatoria (definire semplicemente “caccia” ciò che si faceva, è quantomeno riduttivo...). Ero sovrastato, quasi schiacciato, da quelle presenze mute che infilavano il cielo: la loro forza attrattiva, alla fine, vinse qualunque altra passione. Mio fratello riuscì invece a conciliare famiglia, scalata e arte venatoria. Ciò che abbiamo condiviso nelle salite più importanti di quei lunghi anni, le decisioni prese e forse ancor più quelle non prese, hanno segnato in modo indelebile il mio percorso di alpinista, forgiando l’uomo che sono diventato. Le più ripetute fanno parte di quest’ultimo stile, come quelle in Val di Zocca e in Porcellizzo, comunque vie mai banali e non troppo “plaisir” come inizialmente pensavamo che fossero. Le vie più alpinistiche invece sono un po’ ovunque, frutto di curiosità e di studio storico su quello che c’era prima, spesso in angoli meno conosciuti di altri. Quello che non mi ha mai attirato sono i lunghi “cantieri”, tipici di tante vie attuali dove si chioda spesso in artificiale, si lasciano corde fisse, si pulisce e si prova la libera; l’unica via che ho lavorato per più di due giorni è stata El Diablo sul Torrone, dove forse a farmi rallentare è stato il fatto che era la prima volta che usavo il trapano in quota.

Rossano: Nel versante Sud del Masino mi sono rivolto alle pareti di casa, in Val Codera e in Valle dei Ratti, la Sfinge, il Ligoncio e il Sasso Manduino. Comunque lo stile è sempre stato il metro di misura imprescindibile. Nato alpinisticamente alla fine degli anni Ottanta, mi ispiravo all’etica rigida di quel periodo, senza mezze misure, senza scuse. Sulle placche si piazzavano le protezioni fisse (spit) solamente quando un’eventuale caduta avrebbe potuto causare gravi conseguenze. Il “chiodare lungo” quindi non come una dimostrazione di forza ma come ideale. Un dogma. Sono sempre rimasto fedele a quegli ideali sposati allora, pagandone caro, a volte, il prezzo. Ma ritengo da sempre che in alpinismo il “come” sia infinitamente più importante del “cosa”, il percorso molto più importante del risultato. Una via o una cima assumono valore solo grazie all’esperienza fatta per portarle a compimento.

IN SOLITARIA

Luca: Ho iniziato subito, a 16 anni, a ripetere senza corda le vie classiche del Masino, provando una sensazione esaltante, una sfida con il vuoto dove nell’autocontrollo c’era la differenza tra vivere o morire, anche se a quell’età il pensiero di potersi ammazzare non ce l’avevo. Mi sentivo a mio agio e “sicuro”, allenato da quello che facevo in basso, dai monotiri di 7a/7b slegato del Remenno fino a certe vie della Val di Mello su cui era vietato cadere. Dopo i primi anni la sfida solitaria si è diretta alle vie più impegnative del momento, puntando a quelle di Fazzini che erano il “the best of”, ma in quel caso ho dovuto cedere al compromesso dell’autoassicurazione. Su quei gradi e con quel tipo di arrampicata, spesso su placche in aderenza, il free solo diventava troppo aleatorio. Anche Honnold l’ha fatto capire sul Capitan: il suo incubo prima di attaccare non era il 7c in fessura ma una placca di 6c in aderenza. La mia “chicca” è stata aprire una via di trecento metri di VI+, slegato e a vista (purezza alla Preuss), mentre l’ultimo mio pensiero solitario è stato per la via di Rossano e suo fratello sul Badile, Hiroshima, ma forse su quella mitica montagna avevo già dato tanto in termini di arrampicata solitaria e perso la grossa motivazione che sarebbe servita.

Rossano: Direi che l’arrampicata solitaria è stata La Via. È la lente attraverso cui ho potuto osservarmi e capire... è trascendenza.

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