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Angelo Ferracuti

I tempI che corrono





scritture Resistenti



I Tempi che corrono


© 2013 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it In copertina: Il mondo di Piero della Francesca: Contadino italiano nella zona di Sansepolcro, Arezzo. 2000 ca di Mario Dondero. Progetto grafico: Alessio Melandri

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I TEMPI CHE CORRONO Angelo Ferracuti



Muovete le labbra, muovete le menti perché erompano nuovi intenti. Seamus Heaney

Questi reportage sono stati pubblicati dal 2005 al 2013, soprat, Il tutto sul Diario, Gente viaggi, Il Manifesto, reportage. Alcuni brani della mancata intervista a Charley Haden sono tratti dalla rivista americana All About Jazz. L’idea di pubblicare questo libro è stata dello scrittore Stefano Tassinari. Se esiste è anche merito suo, e anche per questo (e per molto altro) voglio qui ricordarlo e ringraziarlo.



Lacrime e sangue



Una giornata particolare Uscendo dall’autostrada Salerno-Reggio Calabria, proprio a Padula, cittadina di una delle vittime della tragedia dove sono morte due operaie, il paese si scorge arroccato su un’altura a 850 metri sopra il livello del mare, come se le case ricoprissero, una vicina all’altra, una capigliatura stretta di tetti. Sotto undicimila ettari di territorio del Vallo del Diano, quattromilacinquecento di demanio, che fanno di questo, il terzo paese della provincia per estensione geografica, e poi la catena appenninica della Maddalena che stringe l’ampia vallata in lontananza con le sue quinte rocciose. Arrivando si sente già un’aria di silenzio e desolazione, ma forse perché è una domenica italiana e la gente sta rintanata nelle case nell’attesa del grande evento di stasera, la finale dei Campionati del mondo di calcio. Chiedo ad un vecchietto dove si trova l’albergo Venezuela, lì alloggerò, anche perché non ce ne sono altri, che la dice lunga sulla storia di emigrazione di questa gente, avvenuta soprattutto 15


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tra gli anni Quaranta e Sessanta, anche se il triste esodo continua; ma il tipo traccagnotto è sordo, mi depista. Così, quasi casualmente, finisco nella frazione Prato sotto, dove continuo a girare a vuoto come uno scemo, fin quando due ragazzini che stanno giocando a pallone in strada mi indicano il luogo dove si è consumata la tragedia. Quando ci arrivo mi trovo di fronte l’edificio di una scuola elementare come tante, con la bandiera italiana che spicca e dentro ancora i resti degli scatoloni dell’ultimo referendum sulla Costituzione, che riesco a scorgere dai vetri delle finestre. La nostra, quella dell’Italia, una Repubblica fondata sul lavoro. Peccato che proprio nel sottoscala di questo edificio, in un garage di cento metri quadri, quattro giorni fa è divampato un incendio e ha ucciso due donne che stavano cucendo materassi. Anna Maria Mercadante, di quarantanove e Giovanna Curcio di quindici anni. Ventiquattro euro la paga, per dodici ore continue di manodopera a nero. L’ingresso è transennato, sotto le finestre della scuola ci sono ancora mazzi di fiori e lumicini con l’immagine di padre Pio che ancora ardono. Supero gli sbarramenti, e a pochi metri c’è questo edificio sventrato dalle fiamme, pezzi di materassi bruciacchiati, mattoni forati fatti a pezzi, il pavimento invaso da una fanghiglia nera che calpesto avanzando cauto. Fuori, sul piazzale, lo scheletro arrugginito e completamente spoglio del furgoncino che trasportava il prodotto finito, anche i pneumatici si sono volatilizzati. L’odore di bruciato è ancora nauseante, vedo i muri spaccati, e un gorgoglìo d’acqua che scorre, non si capisce bene dove, forse sono le mura che scricchiolano. Arrivo dove c’era il bagno, la camera a gas dove hanno perso la vita le due operaie, adesso non c’è più niente. Solo una stanza vuota piena di calcinacci e polveri. Poi infilo una scalinata che sta di 16


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lato, ci sono ancora barattoli di prodotti chimici sugli scalini e, arrivato al piano superiore, scorgo un tipo losco che sta uscendo dalla porta dello stabile portando via delle cose dentro un cesto di quelli che usano nei forni. Lo chiamo, l’uomo mi viene incontro minaccioso, dice che avvertirà i carabinieri, lì non ci posso stare. “Ma lei è il proprietario?” gli chiedo rincorrendolo. “Sì”, mi fa lui beffardo, quasi in tono di sfida: “Sono il proprietario bruciato”. Lo ritrovo fuori dello stabile, non so da dove è sbucato, mi affronta spavaldo, telefonino in mano, pancetta prosperosa e jeans da quattro soldi. Non mi lascio certo spaventare, e gli chiedo: “Cosa prova dopo questo macello?” risponde con freddezza: “Niente, sei fortunato che è giorno… se era notte…” Quando raggiungo in auto il centro di Montesano è l’una passata, in giro non c’è nessuno. Sto per andarmene quando incontro per caso un tipo calvo sorridente dalla faccia paffuta che somiglia all’attore Antonio Albanese, è socievole al massimo e sembra conoscere molte cose di questo posto. Poi verrò a sapere che è un geometra, si chiama Simone Bianco, per diletto fa il musicista, ha un’aria da buon diavolo e viaggia a bordo di un vecchio fuoristrada Defender rosso, ammaccato da un lato. Qui non ci sono più trattorie, se voglio mangiare bene, dice, debbo andare sotto, ad Arenabianca, lì c’è il ristorante Arteca. È facile arrivarci. Anche se è domenica, dentro i tavoli sono tutti vuoti, c’è solo il proprietario che sta consumando un pasto, poco dopo arriveranno tre suoi conoscenti. La cameriera che porta le pietanze, mingherlina e con la faccia smagrita che sembra uscita da una tela di Otto Dix, mi dice che questa storia qui ha sorpreso tutti. Nessuno sapeva niente della fabbrichetta. “Qua lavoro non ce ne sta proprio, non c’è niente” si lamenta. “Se ne sono andate famiglie intere, sono rimasti solo 17


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i vecchi”. Mangio cose autoctone gustose, bevo del buon vino, poi scambio quattro chiacchiere con gli avventori che stanno seduti ai tavoli. Un signore distinto coi baffi che sta pranzando con i due giovani figli, mi dice: “Quelli che vogliono lavorare vanno ad Eboli a raccogliere ortaggi nelle serre per 25 euro al giorno. Si alzano alle tre del mattino e tornano nel tardo pomeriggio”. C’è anche il problema della concorrenza extracomunitaria: “I caporali li arruolano a Salerno e quelli lavorano anche per meno, ma questo ormai so che avviene anche al nord” racconta il figlio universitario che studia Beni Culturali a Napoli. “Facciamo parte della coda della Campania, ma i soldi si fermano tutti a Salerno, eppure questa è una zona sana, a due passi c’è la Certosa di Padula, patrimonio dell’umanità Unesco, però nessuno la valorizza” continua. “So che anche la stazione termale ha chiuso i battenti, a vederla sembra un luogo di fantasmi e l’hotel che sta di fronte cade a pezzi. Peccato, perché qui c’è il Parco Nazionale del Cilento, una bella natura di fitti boschi e vedute che incantano, aria buona e grande ospitalità”. Il pomeriggio ritrovo sulla piazza del paese il geometra Bianco. Mi accompagna con il fuoristrada nel posto più alto del paese dove c’è un enorme edificio fatiscente, un pugno in un occhio in un paesaggio così bello. “Lo edificò Filippo Gagliardi”, dice, una sorta di imprenditore tuttofare (c’è il suo busto nella piazza intitolata) “che qui chiamavano il pezzenticchio, tornato dal Venezuela con idee megalomani; doveva diventare un convento per monache intitolato a sua madre, ma nel corso dei lavori anche quella volta morì una donna che ci lavorava, così rinunciò a finirlo” esterna convinto. Lui campicchia facendo qualche accatastamento, ristrutturazioni di case, il suo socio è un ingegnere, ma è dura. Qui non conviene neanche edificare, chi costruisce 18


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case lo fa perché c’è nato e magari vuole tornarci dopo anni passati all’estero, soprattutto in America Latina. Proprio ieri è arrivata in paese una donna che vive a Caracas nel tentativo di ritrovare i parenti, racconta. Sotto la pioggia battente mi traghetta paziente per tutto il pomeriggio col Defender su e giù per il paese, e grazie a lui, che si dice molto commosso per questa brutta storia, incontro una signora che abitava nello stabile dove si è consumata la tragedia. Adesso si è rifugiata nella casa patriarcale a Montesano Scalo, sono sette le famiglie evacuate. Mi parla del proprietario della Bimal.tex, indagato per omicidio plurimo colposo e incendio colposo, un certo Biagio Maceri, originario di Tortora, “uno caldo di testa che aveva molto carisma con le persone che non potevano difendersi”, dice indignata. Pare ci sia stata anche una denuncia per maltrattamenti nei confronti di una giovane operaia qualche tempo fa, poi ritirata in zona Cesarini. “Dentro non c’erano secchi, bacinelle, estintori, nessuna norma di sicurezza, e poi ci sono stati ritardi incomprensibili nei soccorsi, dalle 9,30 alle 12,30 i Vigili del Fuoco hanno fatto solo voci, mentre dentro si sentivano ancora le urla di quelle poverette. Mi fa rabbia, tanta rabbia. Solo alle 13,00 sono arrivati i soccorsi da Salerno, ma era troppo tardi”. Pensare che al piano di sopra c’era una scuola e delle abitazioni, le vittime potevano essere molte di più in un altro mese dell’anno. Sull’altro lato della strada vive una delle quattro operaie che quella mattina si trovavano a lavorare nel sottoscala. È una donna bassa di statura, vestita di nero, ancora adesso molto scossa. Ha perso suo marito di recente e aveva bisogno di lavorare. “Voglio solo dimenticare, guardi, non mi va di parlare” mi dice impaurita sulla soglia di casa, mentre i suoi figli piccoli la osservano preoccupati con le faccette 19


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allampanate, “non dormo più la notte”. Lei non ci andava tutti i giorni, ma solo quando lui aveva bisogno. Infatti, alla Bimal.Tex si poteva lavorare due ore, quattro, sei o anche dieci, lo stabiliva il titolare al momento dell’arrivo, così come mi ha confermato la ragazza da dietro al bancone del bar Baby Luna di Casalbuono, dove viveva la giovane studentessa Giovanna Curcio, una delle vittime, figlia di un idraulico forestale, e dove passava insieme agli amici il tempo libero, che qui è molto e spesso confina con l’antica noia dei luoghi abbandonati a se stessi. L’operaia superstite, invece, si stringe nelle spalle e mi racconta sgomenta che tornava dal bagno quando ha visto improvvisamente le fiamme alzarsi, e allora è riuscita a scappare, trovando un piccolo varco tra le pile alte dei materassi, messi uno sull’altro fino al soffitto, che impedivano il passaggio. “Si vede che quelle due hanno avuto paura di affrontare il fuoco” riferisce ancora incredula. Gli chiedo quale era la sua paga, e lei mi risponde candidamente, come fosse una cosa normale: “A me davano 2,50 euro l’ora, in nero”. Quando la sera arrivo in piazza Gagliardi c’è già molta gente seduta davanti al grande schermo di fianco al bar Good to eat per guardare la finale dei campionati del mondo. Zidane ha già freddato il loro entusiasmo segnando il rigore che ha portato in vantaggio la Francia, i baristi vanno e vengono sudatissimi con in mano panini farciti e bevande fresche. Ci sono parecchi ragazzini con le bandiere e le trombette, le guance disegnate in tricolore. La nostra squadra di calcio adesso è all’attacco, insiste, è padrona del gioco, Cannavaro è un bronzo di Riace, Gattuso è tutto rabbia e muscoli, la verve proletaria del lavoratore di centrocampo, così, quando Materazzi si alza sopra tutti e schiaccia di testa la palla in rete, grido anch’io insieme agli altri. 20


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Il secondo tempo lo vedo in un baretto lì a fianco di vago sapore sudamericano. Il bancone e tre tavoli in fila, e poi il calcio balilla disabitato in fondo. C’è un signore baffuto che continua a bere birra, due o tre vecchietti che si lamentano perché non segniamo e, fuori un gruppo di ragazzi albanesi che stanno per conto loro, continuano a guardare la partita senza incitamenti nella speranza di stabilire un contatto. La barista grassoccia sta arrostendo salsicce su un barbecue di fianco al bancone mentre la Francia adesso macina gioco ed è aggressiva al massimo. “Dobbiamo vince” continua a dirmi un vecchietto basso. Lo rassicuro con lo sguardo, gli sorrido, mentre sul bancone continuano ad apparecchiare boccali di bionda spumosa. Quando Zidane dà una testata sul petto di Materazzi gli insulti piovono da tutte le parti. La sofferenza continua durante i supplementari, dalle case vicine voci e cori d’incitamento, mentre in piazza continua a giungere gente da ogni angolo di paese. Poi si arriva alla lotteria dei rigori, ma i nostri non ne sbagliano uno, e quando Grosso mette a segno l’ultimo, un boato intorno m’avvolge e un ragazzino obeso con le guance disegnate in bianco, rosso e verde mi prende in braccio alzandomi verso l’alto. Mi sposto verso la piazza, stanno scoppiando i mortaretti, i clacson delle auto sembrano impazziti. Ma sopra la tabaccheria c’è un lenzuolo bianco che prima non avevo visto. C’è scritto con lo spray argentato: “Giovanna e Anna Maria per sempre nei nostri cuori”. Quando torno all’albergo Venezuela per le strade c’è un delirio di auto che sfrecciano. Automobili, trattori, tir che strombazzano, bandiere che sventolano. Sento persone che cantano “Volare”, vanno e vengono scooter lanciati a mille, scoppi improvvisi di mortaretti. Sto dentro il letto ma non riesco a dormire. Mentre imperversa la febbre della vittoria, 21


I tempi che corrono

ripenso alle due povere donne che sono morte nello scantinato. Ne muoiono seimila al giorno in tutto il mondo, silenziosamente se ne vanno come sepolti nella grande nave della memoria, uno tsunami umano grande e potente come l’urlo di Munch. Vorrei che almeno un giorno questi militi ignoti del lavoro nero diventassero per davvero l’incubo rigenerante del paese, che in tutti i televisori si sentisse il loro grido mostruoso, penso ancora inquieto, rigirandomi nel letto, prima di addormentarmi.

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Micron, Italia Quando scendo dal treno e arrivo nell’atrio della stazione di Avezzano, capisco al volo chi è Gianni Simone. Ci guardiamo come a dire sei tu, anche lui deve pensarlo. Nella stretta di mano si stabilisce un rapporto d’umanità profondissimo, è come varcare una soglia sensibile dove riconosci ad occhio l’altro. Ha uno sguardo malinconico e arreso. Quello che mi colpisce è l’odore della nicotina, il suo fumare nevrotico, la sigaretta sempre al centro di un viso buono di vecchio ragazzo. Anche l’auto che guida ne porta i segni. Le polveri si sono addensate sul cruscotto. Avezzano è una cittadina che fu rasa al suolo dal terremoto del 1915, che risparmiò miracolosamente solo la casa del noto matematico Palazzi e il castello Orsini, stretta in una culla di monti che innerva i propri insediamenti aperti verso l’orizzonte vasto della piana del Fucino. Fa molto freddo d’inverno, nei mesi cruciali la neve si fa sempre viva, i monti brulli accerchiano lo sguardo. Qui ti senti stretto, 23


scrItture resIstentI

“Un popolo degenerato, mostruoso, criminale”… “non ho speranze, non mi disegno un mondo futuro, tendo verso una forma anarchica”… Cosa avrebbe pensato Pasolini di questa Italia? Cosa direbbe del popolo immigrato e disperato, della guerra in Iraq? Non debbo farmi più queste domande, inutile. Anzi debbo farmele più spesso. Promesso.

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