Lidia Cirillo
Lotta di classe sul palcoscenico I teatri occupati si raccontano
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Lotta di classe sul palcoscenico I teatri occupati si raccontano
Lidia Cirillo
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Indice
Prefazione Artisti intermittenti e orizzonti di emancipazione Una questione di rapporti di forza C’era una volta il Novecento Come vivere nelle difficoltà del presente Per favore non chiamateci avanguardie L’arte come critica dell’economia politica
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Capitolo uno MACAO: il coraggio di occupare un grattacielo
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Capitolo due L’Asilo: comunità dei lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale
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Capitolo tre IL TEATRO VALLE: un bene comune
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Capitolo quattro SALE DOCKS: la prima delle occupazioni
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Lotta di classe sul palcoscenico
Prefazione
Le occupazioni dei teatri e dei luoghi di cultura non sono un episodio marginale nel conflitto sociale degli ultimi anni in Italia. Nelle vicende del Teatro Valle, del Cinema Palazzo e dell’Angelo Mai a Roma, del Macao a Milano, del Sale Docks e del Teatro Marinoni a Venezia, dell’Asilo a Napoli, del Teatro Coppola a Catania, dei Cantieri e del Teatro Garibaldi a Palermo sono state coinvolte migliaia di persone e i bisogni che vi hanno trovato spazio e parola non sono solo quelli dei lavoratori dello spettacolo e degli artisti in genere. Non si tratta nemmeno di una vicenda poco conosciuta, non solo perché in qualche caso un’occupazione ha messo in subbuglio una città (si pensi a quella di Torre Galfa a Milano) ma anche perché non sono mancati gli articoli, le interviste e i saggi. Ciò di cui abbiamo avvertito la mancanza è qualcosa legata a un interesse specifico. La sequenza delle interviste può essere concepita come uno dei capitoli di una ricerca sulle pratiche, sui discorsi e sulle forme organizzative con cui il corpo sociale reagisce alla precarizzazione e all’impoverimento degli ultimi decenni, aggravati dalla crisi che dagli Stati Uniti si è diffusa con particolare virulenza in Europa. Volevamo ascoltare e accostare il numero maggiore di occupazioni possibile. Alla fine le interviste sono solo quattro e c’è voluto comunque un anno intero per costruire domande significative per coloro a cui venivano rivolte, attendere le risposte, combinare appuntamenti con le occupazioni che hanno scelto di rispondere a voce, tradurre in lingua scritta, rimandare per controlli, sollecitare interviste promesse e mai arrivate, riscrivere 11
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eccetera. La pazienza è stata alimentata dalla convinzione di essere di fronte a un’esperienza che vale davvero la pena far conoscere, per l’intelligenza con cui è stata gestita, in un contesto in cui l’indagine sulle lotte rappresenta uno dei pochi mezzi che ci restano nella ricerca di una via d’uscita dalla crisi. Insieme a quelle degli studenti, dei ricercatori e del personale della scuola, queste occupazioni hanno rappresentato il movimento di lavoratori con alti livelli di abilità e conoscenza meno volatile e più strutturato. Con la differenza che l’ancoraggio è stato in questo caso sapientemente costruito e non fornito dall’organizzazione sociale stessa. La differenza è contemporaneamente un merito e una minaccia perché la prospettiva di uno sgombero incombe permanentemente e può avere come effetto la dispersione delle esperienze anche più innovative e ricche. Queste occupazioni offrono un esempio concreto di ciò che possono o non possono figure sociali precarie, prive di propri specifici luoghi di aggregazione, ma che hanno attraversato o attraversano processi di formazione lunghi e complessi. I protagonisti sono infatti attori, registi, musicisti, danzatori, coreografi, scenografi, traduttori, disegnatori, fumettisti, grafici ma anche studenti, persone con una condizione di vita meno precaria, reduci magari da altre esperienze politiche e attratti da una prospettiva più concreta, più legata al presente, meno segnata da divisioni divenute ormai incomprensibili. La pazienza è stata alimentata anche dalla memoria di lotte ormai lontane (il ’68, per esempio), la cui ricostruzione si è rivelata talvolta difficile perché spesso accade che chi fa non ha tempo di scrivere e chi scrive ne trova il tempo perché non fa o fa di meno. Bisognava quindi esercitare le pratiche dell’insistenza e dell’attesa paziente per costringere almeno alcuni dei protagonisti a parlare con i lavori in corso e sotto la pressione di preoccupazioni e compiti che lasciano pochissimo tempo per altro. Le domande sono state concepite con l’intenzione di conoscere non solo i fatti, ma anche idee e linguaggi che circolano nelle occupazioni. Se le domande non sono uguali per tutte è perché a ciascuna delle occupazioni è stata data la possibilità 12
Prefazione
di accorparle, di rispondere ad alcune e non ad altre o di costruirne diverse. E anche perché nelle discussioni sono emersi elementi nuovi e inattesi che hanno spostato l’interesse e creato altri punti interrogativi.
Artisti intermittenti e orizzonti di emancipazione Non corrisponderebbe a realtà parlare di “nuovi soggetti”. Lavoratrici e lavoratori dello spettacolo, che sono stati uno dei principali motori delle occupazioni, si mobilitano in Europa da un secolo o almeno è questo il tempo di cui restano testimonianze. Ma l’eventuale morale della favola che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, sarebbe altrettanto sbagliata. Mathieu Grégoire1, in un libro di recente pubblicazione ha provato a raccontare la vicenda degli “artisti intermittenti” in Francia da un interessante angolo visuale. La sua ricerca vuole mostrare come, sulla base di bisogni e aspirazioni molto simili nel tempo, siano stati poi costruiti “orizzonti di emancipazione” diversi, legati al contesto e alle esperienze. Per orizzonti di emancipazione Grégoire intende una matrice rivendicativa immaginata e portata avanti collettivamente da attori sociali, la cui ambizione è sottrarsi alla subalternità e promuovere istituzioni che considerano capaci di far progredire le loro condizioni collettive. L’aspetto più interessante della ricerca consiste nel fatto che attraverso la lente della diversità di queste matrici rivendicative è possibile leggere le logiche di fondo dell’intero conflitto sociale in un determinato contesto. Ed è possibile quindi ricostruire anche il contesto attuale e comprendere con maggiore precisione il valore di una resistenza e la sua capacità di rispondere alle domande del presente. Grégoire registra tre periodi di lotta che hanno i loro eventi culminanti nel settembre del 1919, nell’aprile del 1976 e nel giugno del 2003. La costante delle mobilitazioni è la continua tensione per il superamento dell’equazione libertà-precarietà, 1
Mathieu Grégoire, Les Intermittents du Spectacle, La Dispute/Snédit, Paris, 2013.
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ovvero di quella specie di destino per cui la scelta di un lavoro, che coinvolge il talento e la passione e che consente di sfuggire all’alienazione del lavoro salariato, deve poi essere pagata con il prezzo della precarietà e in tanti casi del disagio economico o della bi-professionalità. Coloro che compensano i vuoti con l’alto prezzo delle prestazioni, cioè gli artisti davvero affermati, sono l’eccezione e non la regola. Variante è invece tutto il resto: le rivendicazioni, gli interlocutori, i discorsi… insomma, tutto ciò che appunto costituisce un orizzonte di emancipazione secondo la definizione di Grégoire, e in cui si riflettono i rapporti sociali, le egemonie politiche e culturali differenti. Nel periodo tra la fine della prima e della seconda guerra mondiale la logica prevalente in tutte le relazioni di lavoro non è quella della regolamentazione del mercato attraverso un diritto del lavoro, né della promozione della sicurezza e dell’inquadramento legale dei salari. Prevale un mercato flessibile e senza regole secondo il modello liberista e vige quindi la legge del più forte. Vale la pena di dire qualcosa di più a proposito del contesto a cui l’autore fa solo vaghi accenni, che scompaiono del tutto nella seconda parte della ricerca. Nel periodo tra le due guerre, la prima fase secondo Grégoire, il capitalismo conosce periodi di ripresa economica, ma che non hanno la durata e il vigore dei “trenta gloriosi anni” successivi al secondo conflitto. E non solo perché la crisi degli anni Venti destabilizza l’Europa, senza riuscire a produrre al suo interno adeguati antidoti agli effetti devastanti del liberismo. Questi antidoti non si producono automaticamente e per la sola forza delle dinamiche economiche perché la loro assunzione è ostacolata da interessi conservatori nella stessa parte di società, in cui pure ci sarebbe un obiettivo interesse padronale a innovare. E d’altra parte le sollecitazioni politiche non sono abbastanza forti: le rivoluzioni in Europa che avrebbero dovuto costruire intorno all’Urss la protezione della rivoluzione permanente sono fallite; l’isolamento contribuisce a chiudere la rivoluzione d’Ottobre nel bunker dello stalinismo e della degenerazione burocratica; il fascismo si afferma in alcuni Paesi, assolvendo anche la funzione di minaccia e ipoteca sul futuro degli altri. 14
Prefazione
In questo contesto l’orizzonte di emancipazione è la corporazione, si fonda cioè sulla capacità di rispondere alla logica del più forte con un corpo solido e coeso, con una solidarietà interna senza brecce. È in questo periodo che la Cgt, il sindacato legato alle sinistre, acquista notevole forza e tenta di imporre la famosa (o famigerata) clausola numero 1, per la quale non dovrebbe essere possibile agli impresari il ricorso ad artisti non sindacalizzati. Anche se la clausola verrà abbandonata nel 1922, non solo per la difficoltà di farla accettare alle controparti ma anche per resistenze interne allo stesso corpo dei lavoratori dello spettacolo, per tutte le organizzazioni vige la regola della rigida solidarietà interna. Il bilancio di questo periodo appare all’autore modesto, in modo particolare per quel che riguarda il sostegno alla disoccupazione che avrebbe dovuto essere garantito da forme di mutualismo sindacale e riesce invece a rispondere alle necessità solo raramente e grazie a espedienti e ad aiuti statali. Insomma finché devono contare solo su se stessi i lavoratori dello spettacolo finiscono col trovarsi in una sorta di specificità discriminante, testimoniata dal fatto che le protezioni che in questo periodo cominciano a costruirsi intorno a embrioni di Stato sociale non li coinvolgono che marginalmente e tardivamente. La rottura delle logiche che hanno guidato l’organizzazione del lavoro salariato tra le due guerre si realizza dopo la seconda guerra mondiale con la breve prefigurazione del governo di Fronte Popolare in Francia nel 1936. Anche per questa seconda fase è utile aggiungere agli argomenti di Grégoire un cenno ai cambiamenti prodotti dagli esiti della seconda guerra mondiale. L’enorme distruzione di forze produttive operata dal conflitto ha consentito al capitalismo di uscire finalmente da una lunga crisi che, come tutte le crisi del modo capitalistico di produzione, aveva al fondo fenomeni di sovrapproduzione effettiva e potenziale. Il padronato è quindi interessato a creare le condizioni migliori possibili per un forte rilancio dell’occupazione. La svolta contiene però anche elementi politici, culturali e simbolici. L’estrema destra, che il padronato aveva scagliato contro il movimento operaio, è stata sconfitta, lasciando dietro di sé la 15
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memoria di orrori senza precedenti nella storia. La resistenza al nazifascismo si è trasformata in alcuni Paesi in movimento rivoluzionario, la cui sola natura, al di là delle stesse intenzioni dei capi, sembra mettere in discussione i rapporti sociali. Le sinistre, che hanno dato alla resistenza un contributo decisivo, escono rafforzate sul piano elettorale e dell’immagine. L’esistenza di margini economici ampi e duraturi consente alle borghesie europee, o almeno a una loro parte significativa, di produrre un modello di democrazia e di diritti capace di disinnescare le micce accese dalla guerra, anche per organizzare il confronto con gli Stati che in un modo o nell’altro si sono sottratti al mercato. È questo contesto a produrre la matrice rivendicativa che Grégoire descrive e che si fonda sul mito dell’impiego stabile e pieno. Non si tratta di far leva solo sulla coesione interna alla categoria, ma su rapporti di forza complessivi in questo periodo più favorevoli che in passato per chi vive del proprio lavoro. La condizione di salariato appare adesso desiderabile perché consente di godere dei diritti elaborati dalla legislazione sociale. La specificità corporativa viene quindi abbandonata da gran parte dei lavoratori e diventa il mezzo per garantire la realizzazione concreta della nuova matrice rivendicativa: i contratti collettivi, che fissano nei dettagli la relazione di lavoro dall’indennità di trasporto ai salari minimi, alle condizioni di impiego, ai diritti sindacali. Ma l’elemento più significativo della svolta consiste nell’assunzione da parte dello Stato di un ruolo assai maggiore che in passato. Attraverso i loro portavoce sindacali o di lotta gli artisti teorizzano la funzione sociale dello Stato, a cui chiedono sia una politica di promozione del cinema, del teatro e della musica sia di farsi garante di regole da imporre al mercato. Il posto di lavoro stabile viene visto come il supporto essenziale della sicurezza sociale e quindi il pieno impiego diventa il nuovo orizzonte di emancipazione, la soluzione dei problemi di precarietà, scarso reddito, carenza di diritti e condanna a un bi-professionalismo emarginante. Tuttavia se la specificità della prima fase era discriminate, l’assimilazione tout court al lavoro salariato rivela presto i suoi limiti, perché esiste un’intermittenza 16
Prefazione
della categoria inevitabile e allo stesso tempo indispensabile, che impedisce di usufruire compiutamente di diritti così legati alla quantità dell’occupazione. Grégoire spiega in maniera più articolata i limiti dell’assimilazione meccanica al lavoro salariato quando illustra la terza fase, quella della “socializzazione come orizzonte di emancipazione” che avrebbe avuto inizio nel 1979 e sotto il cui segno ancora si svolgerebbe la vicenda dei lavoratori dello spettacolo. In quell’anno l’indennità di disoccupazione, prevista fino a quel momento solo in casi eccezionali e improbabili, si estende a gran parte del settore, anche perché la soglia per averne il diritto passa dalle mille alle cinquecento ore annuali di lavoro effettuate prima della rottura del contratto di impiego. Nel 1984 poi si consolida una nuova architettura dell’indennizzazione che integra gli artisti intermittenti nel regime di solidarietà interprofessionale. Rimesso continuamente in discussione, il “salaire socialisé” sarà difeso da una lunga serie di mobilitazioni degli intermittenti, ma anche dallo Stato su cui l’organizzazione padronale progetta di scaricarne i costi. La conquista resiste ancora oggi, malgrado l’accordo firmato dalla Cfdt nel 2003, che aumenta il numero delle ore necessarie ad accedere all’indennizzazione, sia pure senza riportarle ai livelli precedenti gli accordi del 1979 e del 1984. A Grégoire l’obiettivo di un salario sociale incondizionato, complementare e non sostitutivo, appare come una svolta decisiva operata da una maturità rivendicativa finalmente raggiunta e che si manifesta anche con la comparsa di nuovi attori del conflitto, come per esempio la Coordination des intermittents et précaires de d’Île-de-France. Ne argomenta le ragioni specifiche per un settore che non è possibile assimilare tout court agli altri perché la monotonia uccide l’arte, perché accettare un lavoro qualsiasi abbassa i livelli della produzione, perché spesso il lavoro dell’artista ha le caratteristiche di un autentico lavoro autonomo e per una serie di altre ragioni in genere di buon senso. Polemizza con la Gct che, pur difendendo l’indennità, la considera solo un espediente in attesa che si ricreino le condizioni economiche per rimettere in campo l’obiettivo del 17
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pieno impiego. Sostiene giustamente che un salario sociale, nelle forme auspicate per lavoratrici e lavoratori intermittenti dell’arte, dovrebbe spettare a tutte e a tutti. Ma i suoi ragionamenti hanno un limite, che spiega le ragioni per cui le occupazioni in Italia non hanno intrapreso una lotta per rivendicarlo e, pur condividendone in genere la necessità, si sono dedicati ad altro almeno nei loro primi anni di vita.
Una questione di rapporti di forza Accettando per buona, almeno per due terzi, la suddivisione in tre periodi di Grégoire, potremmo dire che le occupazioni in Italia sembrano appartenere a un quarto in una realtà che non ha mai conosciuto il terzo e che perciò ne illustra i limiti e le illusioni. Il periodo è quello in cui la crisi rafforza e accelera l’aggressione alle conquiste e ai rapporti di forza che il lavoro salariato ha strappato nel Ventesimo secolo, soprattutto nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Non sarebbe un caso se questa eventuale quarta fase si realizzasse proprio a partire dall’Italia, nella nazione europea più colpita dalla crisi dopo Grecia e Spagna e in cui in maniera più visibile si manifestano gli effetti della decomposizione delle forze materiali che alle logiche di mercato avevano comunque posto un limite. In Italia la perdita di ancoraggi sociali da parte degli apparati politici e sindacali appare più grave che altrove e la società resiste alla chiusura di fabbriche, ai licenziamenti, ai tagli, alle privatizzazioni, alla devastazione ambientale in ordine sparso perché non dispone degli strumenti per fare delle resistenze un insieme sinergico. Nella sua argomentazione Grégoire rimuove alcuni non trascurabili particolari. Quando infatti scrive che l’indennità-salario sociale-reddito (di cittadinanza, di esistenza, di base ecc.) risponde alla necessità di un contesto caratterizzato da tassi di disoccupazione insensati, chiusura di fabbriche e delocalizzazioni e in cui il moltiplicarsi dei contratti atipici mette in crisi la 18
Prefazione
stessa società salariale, non si chiede se questi stessi fenomeni non stiano distruggendo anche la forza materiale in grado di imporli a una controparte, che in questo caso dovrebbero essere padronato e istituzioni statali. Il salario sociale è stato in Europa una conquista del secondo periodo, complementare ad altre, ottenute in un contesto di ascesa economica e con un lavoro salariato strutturalmente forte grazie anche ai livelli di occupazione, concentrazione nei medesimi luoghi di lavoro e organizzazione politica. Il salario sociale è stato esso stesso coinvolto dall’opera di demolizione del welfare, diventando attraverso una serie di interventi successivi sempre più condizionato, di difficile accesso e di modesta entità. Catherine Lévy in un lavoro sul sistema delle reti di protezione in Europa2 ha ripercorso le vicende dell’indennità di disoccupazione dagli anni Quaranta, spiegando come nelle situazioni più avanzate non vi fosse alcun obbligo di accettare lavori a basso salario e non rispondenti alle aspettative e alla qualificazione. E datando alla fine degli anni Settanta l’inizio della marcia indietro, che comincia dove era cominciata quella in avanti, in Inghilterra, con l’introduzione dell’obbligo a stage di formazione, a incontri regolari negli uffici e all’accettazione di lavori di ogni tipo. Nel 1996 l’indennità diventa job seeker, cioè compenso per la ricerca attiva di un lavoro e nel 1997 il governo laburista indurisce addirittura le misure. Il problema è che l’aggressione al lavoro salariato, cominciata proprio nell’anno in cui Grégoire colloca l’inizio del terzo “orizzonte di emancipazione” è stata fondata non solo su propositi di natura economica, di aumento dello sfruttamento e della spoliazione. Prima ancora, e come condizione necessaria, l’obiettivo è stato quello di un mutamento radicale dei rapporti sociali, di cui la messa in concorrenza della forza lavoro sul piano globale è stato il principale strumento. La precarietà si è affermata come effetto di questo proposito e per rendere più difficile il conflitto da parte delle classi senza privilegi e poteri. 2 Catherine Lévy, Vivre au Minimum, La Dispute/Snédit, Paris, 2003.
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E sarebbe davvero strano se proprio in questo contesto si fosse affermata la matrice rivendicativa più matura dal punto di vista materiale e culturale. Si dirà: “Ma la Francia… ma gli esiti delle lotte degli artisti intermittenti…”. La risposta non è difficile perché si tratta di spiegare l’ovvietà: che gli assedi hanno talvolta tempi lunghi. Il mutamento dei rapporti di forza non è stato un fenomeno con una data in cui essi siano stati rovesciati o distrutti. È stato ed è ancora un processo che si è dispiegato nel corso di più di tre decenni, ha conosciuto resistenze anche vincenti, è stato ostacolato da contraddizioni interne e da preoccupazioni elettorali. L’indennizzazione degli intermittenti in Francia con gli accordi del 1979 e del 1984 ha fatto leva su rapporti di forza non ancora deteriorati e in cui a un incremento della disoccupazione, legato alla fine del ciclo economico ascendente, si è ancora potuto rispondere con la misura più immediata e più logica. Del resto la prova che non c’è relazione, anzi che c’è spesso una relazione inversa tra crescita della disoccupazione e diffusione del salario sociale è anche l’Italia, dove alla percentuale spaventosa di giovani senza lavoro non corrisponde alcun movimento di massa che rivendichi l’indennizzazione. Naturalmente non si può escludere che qualche mancia condizionatissima e miserabile alla fine arrivi in cambio della demolizione definitiva del welfare e della precarizzazione totale del lavoro salariato. Ma ci sarebbe allora ben poco da compiacersi. Queste considerazioni non significano che l’obiettivo dell’indennizzazione debba essere messo nel cassetto in attesa di tempi migliori. Significa che siamo ormai altrove, cioè in un orizzonte in cui ogni matrice rivendicativa, prioritariamente e come condizione necessaria, deve prima di tutto fare i conti con una questione di rapporti di forza. L’interesse e il valore delle occupazioni intervistate consiste appunto nel modo in cui la questione è stata affrontata, nell’adattamento creativo e duttile a uno stato di cose e nel tendenziale superamento dei limiti delle diverse culture di provenienza, tutte o quasi quelle della sinistra radicale e dell’antagonismo. 20
Prefazione
C’era una volta il Novecento Continuando ancora per un po’ il gioco della periodizzazione, bisogna chiedersi dove siamo, cioè a quale obiettivo stato di cose le occupazioni abbiano saputo adattarsi. Siamo in un mondo in cui la penetrazione delle logiche capitalistiche in nuovi ambiti, la proletarizzazione degli ex-ceti medi, la costituzione di nuove classi operaie in Paesi come la Cina o l’India hanno ampliato a dismisura l’area della rivolta potenziale. Ma il moltiplicarsi degli esseri umani assimilabili alla condizione proletaria in sé non rappresenta una garanzia storica della riscossa della gente senza privilegi e poteri. In fondo l’esistenza di piccoli gruppi che godono degli uni e degli altri e di sterminate masse di sfruttati e subalterni ha caratterizzato grandissima parte della storia del genere umano, senza che si siano prodotte significative dinamiche di liberazione, con l’eccezione di pochi eventi. La questione è se e come l’iniqua relazione possa trasformarsi in rivolta consapevole, capace di utilizzare gli strumenti più adeguati del conflitto e quindi di risolvere i problemi di organizzazione, di comunicazione, di alleanze, di tempi e di modi, di rapporti con le istituzioni, di violenza e non-violenza quando ci si trovi a confronto con l’una o con l’altra. Di quale spessore sia il problema diventa più evidente, se si pensa alle condizioni specifiche in cui si è affermato il welfare in Europa e all’entità delle forze materiali, la cui distruzione o deconnessione ne ha determinato la crisi. Decisivo è stato il venir meno di quello che nel Novecento è stato chiamato “movimento operaio”, formula che non deve essere pensata in stretta analogia con altre dello stesso tipo. “Movimento studentesco” per esempio significa movimento di studenti e “movimento delle donne” significa appunto movimento di esseri umani di sesso femminile. Nella formula movimento operaio il secondo termine ha finito per indicare una genesi, enfatizzando così solo una delle componenti di una più complessa costruzione (il termine non è utilizzato qui in senso postmoderno, ma prima di tutto nel senso della convergenza storica di una serie di forze e di interessi materiali). 21
Lotta di classe sul palcoscenico
F u t u r o
a n t e r i o r e
«Alle avanguardie del “secolo breve” da cui proveniamo, siamo debitrici e debitori dell’assalto al cielo cui hanno tentato di renderci partecipi. Noi andiamo oltre le macerie, scavalchiamo il solco che persiste tra politica e arte»
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