Salvatore Cannavò
C’era una volta la Fiat La nuova Fca e lo scontro
di Marchionne con il sindacato
Tempi moderni
C’era una volta la Fiat La nuova Fca e lo scontro di Marchionne con il sindacato Salvatore Cannavò
Nuova edizione riveduta e corretta Prima edizione: Aliberti editore, 2012 Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purchÊ non a scopo commerciale. Š 2014 Edizioni Alegre - Soc. cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma e-mail: redazione@edizionialegre.it sito: www.edizionialegre.it
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Indice
Introduzione alla nuova edizione
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Capitolo uno La vittima Marchionne La frontiera asiatica L’origine di Fabbrica Italia La svolta della Costituzione
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Capitolo due Vivere a Mirafiori
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Capitolo tre Vivere a Pomigliano
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Capitolo quattro Il tramonto di Termini Imerese Le promesse di Marchionne Dieci minuti a Termini Imerese Cosa fanno i cassaintegrati? Lo sciopero per la Nazionale
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Capitolo cinque Fabbrica italiana automobili e discriminazione (Fiad) I tre licenziati di Melfi Il primo reintegro Il caso Capozzi e la Polonia
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Capitolo sei A sud di Cassino La chiusura dell’Irisbus
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Capitolo sette Lavorare più veloci, il Wcm Operai che si “rompono”
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Capitolo otto Padroni e operai
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Capitolo nove Un sindacato americano Il modello statunitense Oltre la Fiat
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Appendice Anni dieci: processo alla Fiat di Alberto Piccinini
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C’era una volta la Fiat
There is a world where people don’t just let things happen. They make them happen. Sergio Marchionne
Introduzione alla nuova edizione
Sergio Marchionne ha scelto la poesia quando il 6 maggio del 2014 ha presentato in una conferenza-fiume di un’intera giornata i piani della nuova Fca, la Fiat-Chrysler Automobiles, agli investitori del mondo. «C’è un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Loro le fanno accadere», ha detto il manager a capo del settimo colosso automobilistico mondiale. «I sogni non restano fuori dalla porta» ha continuato Marchionne ma «vengono resi concreti». Ci sono persone «che assumono i loro rischi» e che «non vivono lo stesso giorno due volte» perché sanno che «c’è sempre qualcosa che possono fare meglio».1 Le parole poetiche dell’amministratore delegato della Fca sono, ovviamente, riferite non tanto e non solo agli uomini che compongono il ponte di comando dell’azienda quanto a sé stesso. Presentando i suoi progetti, più e più volte, Marchionne ha distillato il proprio discorso di retorica romantica, la stessa che sorregge la pubblicità shakesperiana di auto come la Giulietta «fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni». La tecnica è consolidata e permette al manager italo-canadese di abbellire il prodotto cercando di sviare gli osservatori dalla sostanza delle sue proposte. Il dito punta categoricamente la luna e tutti quelli che in questi anni si sono soffermati caparbiamente sul dito sono degli sciocchi o in malafede. 1 http://www.fiatspa.com/it-it/investor_relations/investors/Presentations/Pages/2014_ investor_day_presentations.aspx
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C’era una volta la Fiat
Tra costoro, però, questa volta ci sono stati i famigerati “mercati”, teoricamente alleati fedeli del nostro mega-dirigente, che hanno inesorabilmente bocciato il piano di “Fabbrica-mondo” come qualcuno ha ribattezzato gli annunci del 6 maggio. Bocciato per via di un debito elevatissimo che Marchionne non ha spiegato come abbattere ma anche per numeri illustrati con grande fiducia nel futuro la stessa che, però, le borse mondiali non nutrono con altrettanta fede. Vediamo, allora, più nel dettaglio questi numeri. Ad Auburn Hills, il 6 maggio 2014, Marchionne ha promesso che dai 4,2 milioni di automobili vendute da Fiat e Chrysler nel 2013 la nuova Fca passerà a 6,3 milioni nel 2018 (7 milioni con le joint ventures) frutto di circa 48 miliardi di euro di investimento. Di questi, 5 miliardi sono previsti per l’Alfa Romeo senza prevedere la chiusura di nessun stabilimento. Marchionne ha garantito che la Ferrari, fiore all’occhiello dell’intero gruppo, resterà ancora Fca e non si venderà «nemmeno per 17 miliardi di dollari», una frase dentro la quale alcuni osservatori hanno individuato il tentativo di fissare, comunque, un prezzo per il mercato. L’obiettivo di 6 milioni di auto vendute era stato già fissato una volta, nel 2010, da un amministratore delegato che puntava, allora, a portare il proprio gruppo, nato dalla fusione di due medie aziende internazionali, dentro i primi sei posti mondiali. Quell’amministratore era lo stesso Marchionne e il piano, allora, si chiamava “Fabbrica Italia”. L’obiettivo è stato mancato per quasi due milioni di vetture e al prezzo, per quanto riguarda l’Italia, di circa 20 mila cassaintegrati. La presentazione americana di Marchionne ha ricordato, con altri numeri e obiettivi, il metodo dell’annuncio via slide ben illustrato dal premier italiano, Matteo Renzi. Tra i due, in effetti, dopo qualche screzio iniziale riferito alla “piccola città” di Firenze, il feeling è ormai saldo e reciproco. E lo stile del manager ha ricordato quello di Renzi quando, tra un pesciolino rosso e un carrello della spesa, presentava il proprio programma nella sala stampa di palazzo Chigi. 14
Introduzione
Tante slide, investimenti miliardari, modelli che si sovrappongono ad altri, stime di vendita eccezionali da qui al 2018. La strategia sul versante italiano, come detto, ruota attorno al glorioso marchio dell’Alfa per cui si spenderanno 5 miliardi di euro in quattro anni con nuovi otto modelli e un obiettivo di vendita di 400 mila vetture nel 2018, il quintuplo di oggi. Ma, a sfornare utili per l’azienda e a trainare le previsioni di vendita, sarà il marchio Jeep la cui produzione dovrà più che raddoppiare e che rappresenterà la metà delle maggiori auto prodotte. Il fulcro dell’azienda è negli Stati Uniti e l’occhio guarda con interesse allo sviluppo del mercato asiatico. Non è un caso se la vera festeggiata del Presentation Day sia stata la Jeep per la quale l’obiettivo è vendere 1,9 milioni di vetture nel 2018 dalle 732 mila del 2013. Anche Chrysler dovrà salire dalle 350 mila dello scorso anno alla bellezza di 800 mila nel 2018 mentre Ram, leader nei pick-up, è prevista in crescita dalle 463 mila del 2013 alle 620 mila del 2018. Per quanto riguarda la Fiat, invece, l’obiettivo di vendita nel 2018 è di 1,9 milioni nel mondo dal-l’1,5 attuale. Come? Raddoppiando le vendite nell’area nordamericana (Nafta) dalle 50 mila odierne, incrementando quelle asiatiche da 70 a 300 mila stimando come stabili quelle in Europa, Medio Oriente e Africa (area Emea) a 700 mila. Aumento previsto anche in America latina da 700 a 800 mila: «L’obiettivo è uno, rimanere al top in Brasile», ha detto l’amministratore delegato della nuova Fca. Il balzo della Fiat dovrebbe essere garantito da otto nuovi modelli: una 500X (una sorta di grande Suv), una berlina compatta e un’altra “Specialty” non precisata. Poi, dal 2016, una compatta due volumi, una station wagon compatta e una vettura di segmento B. Nel 2017 uscirà una Cuv (Cross utility vehicle) mentre nel 2018 ci sarà una nuova Panda. Ma è sull’Alfa Romeo che si appuntano le speranze migliori. Il responsabile del marchio, Harald Wester, ha stimato in 400 mila le vetture vendute nel 2018 a fronte delle 74 mila delle del 2013: una crescita del 500%. Obiettivo: «Tornare alle nostre radici». Entro il 2018, i nuovi modelli saranno otto, mentre dal 15
C’era una volta la Fiat
2015 uscirà di produzione la Mito a tre porte prodotta a Mirafiori. Nel 2015 ci sarà la Giulia, berlina media, il resto tra il 2016 e il 2018: la Giulia station wagon, una ammiraglia, due suv, una sportiva, la nuova Giulietta e una non meglio precisata nuova berlina compatta. Grandi prospettive anche per Maserati le cui vendite dovrebbero passare dalle 15.400 unità del 2013 alle 75 mila del 2018. Anche qui, circa il 500%. I modelli sono destinati a diventare 6 dagli attuali 4. Confermata, infine, la produzione di “sole” 7 mila Ferrari, per mantenerne l’esclusività (si parla di una vettura il cui costo supera i 200 mila euro per poter arrivare anche a 300 mila). I numeri pirotecnici si fermano qui, l’avvisaglia di un “mondo migliore”, in procinto di essere realizzato, è racchiusa sapientemente in una cornice scintillante. Però i problemi non sono aggirabili e la realtà è sempre pronta a presentare il conto. A partire dal soggetto di riferimento di Sergio Marchionne, il mercato. Il titolo Fiat, appena resi noti i piani di sviluppo, è letteralmente precipitato. Se il 22 aprile 2014 la quotazione era a 9,07 euro, una flessione si era già avuta alla vigilia del Presentation Day, a 8,47 euro. Ma il giorno dopo la caduta è stata davvero netta e il titolo è sprofondato a 7,48 euro per poi scendere ancora, il 15 maggio, a 7,13. La bocciatura è stata quindi inesorabile. Secondo Il Sole 24 Ore2, gli analisti finanziari hanno reputato «0ttimistici gli obiettivi di crescita delle vendite» sia sul mercato americano che per quanto riguarda l’Alfa Romeo. «Il nuovo piano finanziario contiene obiettivi estremamente ottimistici» ha scritto Max Warburton, della Sanford Bernstein: «L’Ebit [l’utile netto, ndr] dovrebbe triplicare a 9 miliardi di euro e l’Ebitda (il risultato operativo al lordo di tasse, interessi e dividendi) raddoppiare da 8 a 17 miliardi». Quello che ha maggiormente preoccupato i mercati è stato il livello dei debiti e la strategia di riduzione spiegata da 2 http://www.ilsole24ore.com/art//2014-05-08/fiat-cade-borsa-piano-e-conti-063806. shtml?uuid=ABpesbGB
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Introduzione
Marchionne. Secondo il piano, infatti, il debito netto industriale di Fiat Chrysler resterà attorno a 10 miliardi di euro fino al 2016, con un onere netto per interessi di circa 2 miliardi di euro l’anno, per poi calare drasticamente fino quasi ad azzerarsi a fine 2018. Il commento di Maurizio Landini3, segretario della Fiom, la principale avversaria della Fiat di Marchionne, si è sintonizzato in una paradossale lunghezza d’onda con i mercati. Il leader delle tute blu ha sottolineato le incongruenze del progetto basandosi esclusivamente su quanto avvenuto in passato: «Anche Fabbrica Italia prevedeva che il gruppo Fiat nel 2014 avrebbe dovuto produrre in Italia 1,4 milioni di modelli. La realtà è che oggi il 50 per cento dei dipendenti è in cassa integrazione o con contratti di solidarietà, e le auto realizzate negli stabilimenti italiani sono 386mila». Anche il rilancio del marchio Alfa, «è identico a quello fatto quattro anni fa», ha sottolineato Landini. Gli annunci possono essere fatti una volta ma la seconda lo scetticismo non è più prevenuto ma basato sulla realtà. Tanto più se si pensa al numero – tra i 15 e i 20 mila – dei dipendenti Fiat in Italia in Cassa integrazione. Ipotesi che si profila di nuovo confermata se è vero che la produzione effettiva dei nuovi modelli si preannuncia non prima del 2016. Allo scetticismo di Landini fa da corollario quello di un ex dirigente della Fiom, oggi parlmentare della Repubblica, Giorgio Airaudo, che il 12 maggio ha presentato un’interpellanza al governo,4 Nel documento, depositato presso gli uffici della Camera, si sottolinea lo studio di Exane Bnp Paribas, secondo cui i target al 2018 diffusi nella giornata del 7 maggio 2014 sono sembrati «eccessivamente ottimisti su volumi, margini e soprattutto sulla riduzione del debito, perché i risultati dell’ultimo trimestre sono stati del 24 per cento inferiori alle stime e rappresentano un segnale dei rischi al ribasso associati al piano». Airaudo fa notare, correttamente, che nell’ultima relazione finanziaria annuale di Fiat, 3 http://www.fiom-cgil.it/web/comunicazione/stampa-e-relazioni-esterne/320-conferenzastampa-di-maurizio-landini-su-fiat 4 Atto Camera/Interpellanza 2/00532 depositata il 12 maggio 2014.
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datata 31 dicembre 2013, «emerge chiaramente che il complesso dei debiti finanziari di Fiat corrisponde a 29.902 milioni di euro, in crescita peraltro rispetto all’anno precedente, a fronte di liquidità complessiva disponibile pari a 22.729 milioni di euro». Ma nella relazione «nulla si dice su questa liquidità»: dove è collocata, in quale Paese «e in quali strumenti sia considerata». La Fiat, quindi, si trova nella paradossale situazione di un’azienda in cui aumenta il debito e, contestualmente, aumenta la liquidità senza che il primo venga ridotto. Come se si dovesse sempre essere in procinto di partire con i nuovi investimenti che, però, non si avviano mai. Almeno in Italia dove, infatti, si fa leva sulla cassa integrazione. Secondo il Sole 24 Ore, del 15 giugno 2013, i risparmi per Fiat provenienti dagli ammortizzatori sociali, sono stati pari a 1,7 miliardi. «I minori oneri salariali hanno raggiunto con la crisi i 200 milioni annui per l’auto» scrive Andrea Malan sul quotidiano di Confindustria. Per una fabbrica come quella di Melfi o Mirafiori (che impiegano oltre 5.000 dipendenti) il risparmio per ogni giorno di Cig si può stimare in 600-700.000 euro. Automotive News Europe, competente giornale statunitense del settore, ha stimato nel 2013 che un giorno di Cig ai cosiddetti enti centrali di Mirafiori (circa 500 impiegati) fa risparmiare alla Fiat «circa 1 milione di euro». Il deputato di Sinistra, Ecologia e Libertà, nel suo documento parlamentare, ritiene in realtà che l’ultimo piano della Fiat rappresenti «l’epilogo finale di un disegno di conclusivo allontanamento del baricentro produttivo dall’Italia, già iniziato con la formalizzazione da parte di Fiat dell’accordo con il Governo americano e canadese per la scalata in Chrysler». «Attraverso la lettura di quell’accordo – si legge ancora nell’interpellanza – è, infatti, possibile decifrare la strategia seguita da Fiat in questi anni e le conseguenze che si sono prodotte, visto che il disegno esterofilo che ne discende poneva già, da tempo e di fatto, le condizioni di base per la disintermediazione dei siti produttivi italiani ed il conseguente trasferimento della ricerca e dei risultati della ricerca italiana a favore di quelli esteri». Il timore è che Marchionne stia puntando a rigenerare un’azienda, la Fca, trasformando la Fiat storica in una “bad company”. 18
Introduzione
Colpo grosso a Detroit Il sospetto di Airaudo, e di molti altri osservatori, soprattutto gli operai del gruppo, è confortato da quanto avvenuto a inizio del 2014 quando, in anticipo sul crono-programma, Sergio Marchionne e la famiglia Agnelli, di cui non si deve mai dimenticare il ruolo e la presenza, hanno rilevato l’intero capitale della Chrysler, completando l’avventura americana con un successo. L’accordo con il sindacato americano Uaw, che deteneva, tramite il fondo sanitario Veba, il 41,5% dell’azienda automobilistica salvata da Obama e ceduta alla Fiat, è stato raggiunto infatti esattamente il primo gennaio a simboleggiare l’alba di un nuovo anno. Dal successivo 29 gennaio, data di perfezionamento dell’accordo, la Fiat di Torino è entrata in possesso del 100% dell’azienda di Detroit con un esborso tutto sommato minimo, 4,35 miliardi di dollari la maggior parte dei quali provenienti dalle stesse casse della Chrysler. Come da comunicato ufficiale, l’accordo ha riguardato il 41,4616% della casa americana detenuto da Veba Trust e acquistato dalla controllata Usa della Fiat, la Fiat North America Llc (Fna). «A fronte della vendita della partecipazione il Veba Trust riceverà un corrispettivo complessivo pari a 3,65 miliardi di dollari Usa». Soldi che non sono usciti dai forzieri degli Agnelli. Più della metà, 1,9 miliardi, sono stati, infatti, il frutto «di un’erogazione straordinaria che Chrysler Group pagherà a tutti i soci». L’azienda, insomma, ha versato un dividendo straordinario, possibile grazie ai risultati fin qui raggiunti, e la quota di pertinenza della Fiat è stata girata al Veba costituendo parte del prezzo di acquisto. Quella che al Lingotto è stata definita “la magia di Marchionne” non è stata altro che un’abile operazione finanziaria che ha consentito alla società degli Agnelli di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. La “magia” è riuscita più volte al manager italo-canadese, a cominciare dal primo affare fatto con la Chrysler. Quando la società è fallita, nel 2008, finendo sotto il Chapter 11, la procedura che negli Usa seguono le società finite in bancarotta, il gruppo 19
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fu scorporato in due unità: “la bad company”, con tutti i debiti e la “good company” in qui furono collocate le attività industriali. È stata questa la società che Marchionne “ha comprato” senza sborsare un dollaro. Quando sigla l’accordo con Barack Obama, il manager italiano riceve un prestito di 9 miliardi di dollari dai governi americano e canadese, i quali si riservano una quota del 12% nella nuova società. Il 67%, invece, va al sindacato dei metalmeccanici, Uaw, che la detiene tramite il fondo sanitario Veba che, però, deve erogare servizi ai suoi assistiti e ha bisogno, prima o poi, di rientrare della liquidità a cui rinuncia. Fiat, invece, riceve a titolo gratuito il 20% della Chrysler con la possibilità di arrivare al 35 al raggiungimento di alcune performance: trasferire propria tecnologia e risorse strategiche, vendere fuori dall’area regolata dal Trattato di libero commercio del Nord America (Nafta) un valore superiore a 1,5 miliardi di dollari e, infine, sviluppare negli Usa un modello a basso consumo. L’ascesa continua si conclude con la restituzione del prestito ai governi di Stati Uniti e Canada che viene effettuata grazie a un prestito bancario. Nel luglio 2011, quindi, la Fiat è proprietaria del 53,5% della Chrysler per poi salire ancora tra il 2012 e il 2013 al 58,6% iniziando ad acquistare una parte della quota detenuta dal Veba. A gennaio 2014 l’operazione è completata. Grazie a Obama e ai sacrifici del sindacato Usa – che congela una parte della propria liquidità ma, soprattutto, concede la “pace sociale” fino al 2015 e accetta di dimezzare i salari per i nuovi assunti – la Fiat diventa Fca avendo sborsato “solo” 3,7 miliardi di dollari. La Daimler, per acquistare Chrysler, aveva dovuto tirare fuori ben 36 miliardi mentre il fondo Cerberus, quando acquistò l’80% dell’azienda di Detroit, pagò 7,4 miliardi. Non c’è dubbio, quindi, che dal punto di vista aziendale, si tratti di una storia di successo. Marchionne, finalmente, è seduto al comando di una “fabbrica globale” l’unica chance reale di poter competere a livello internazionale. Nel 2010, infatti, fu proprio lui a collocare a 6 milioni la soglia di auto vendute sopra le quali un gruppo può avere prospettive di vita a livello mondiale. Secondo i dati del 2012 sopra quella soglia ci sono soltanto la 20
Introduzione
Toyota (9,75 milioni), la General Motors (9,28), la Volkswagen (9,07), la Nissan-Renault (8,19), la Hyundai-Kia (7,1) e la Ford (5,6). Sotto, si collocano società come Honda (3,82), PeugeotCitroen (2,96), oppure Bmw (1,845) e Mercedes (1,424) per le quali, però, gioca a favore la collocazione in una fascia “premium” di nicchia in cui non servono necessariamente volumi eccessivi. Con i suoi 4,2 milioni la Fca è, dunque, ancora sotto la soglia di sopravvivenza che secondo gli annunci del 2010 avrebbe dovuto essere stata già raggiunta nel 2014. La lotta per la vita è dunque ancora in corso. È questo il quadro complessivo che giustifica la convinzione che l’Italia sarà sempre più una “provincia” dell’Impero e non più la testa del gruppo; un mercato tra i tanti in cui governare un insediamento storico che non si può smantellare sic et simpliciter e che, nemmeno, può essere superficialmente delocalizzato. Le delocalizzazioni, in fondo, sono servite soprattutto a presidiare i mercati emergenti dell’est europeo, della Turchia o dell’est asiatico più che a strappare risparmi eccezionali sul fronte del costo del lavoro. Come notano i due economisti Barba Navaretti e Ottaviani5 «il costo del lavoro diretto per i marchi generalisti non supera il 5% dei costi totali, pesando poco meno del 2% nei paesi dove i salari sono bassi». La chiusura di stabilimenti nel nostro paese si è già verificata a Termini Imerese e con la Irisbus di Avellino e non va esclusa nell’immediato futuro. I problemi di sovra-capacità produttiva in Europa, stimata intorno al 15-20%, sono enormi e il peso della ristrutturazione internazionale è ormai strutturale. Secondo i dati di Acea, l’associazione internazionale dei costruttori, la quota dell’Europa a 27 nel mercato mondiale, tra il 2000 e il 2012, è scesa dal 39,3 al 23,2%, quella Nafta dal 20,3 all11% mentre i paesi cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina) sono passati dall’8,4 al 37,1 con la sola Cina al 24,6%. Nel 2013 i ricavi di Fiat-Chrysler sono provenuti per il 53% dal Nafta, l’11% dall’America latina, 5 Giorgio Barba Navaretti-Gianmarco I.P. Ottaviani, Made in Torino?, Il Mulino, Bologna 2014.
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«L’aggancio dell’Italia alla condizione sindacale degli Usa, è il vero paradigma di questa storia in cui, non casualmente, si connettono le relazioni sindacali e l’avvio dell’avventura americana della Fiat. […] Un sindacato orientato alla clientela, al prodotto, ai risultati aziendali e non un sindacato concentrato sulla difesa degli interessi dei propri iscritti e dei lavoratori in generale».
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