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Marco Bertorello

Non c’è euro che tenga

Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne



Tempi moderni



Non c’è euro che tenga

Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne Marco Bertorello


Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purchÊ non a scopo commerciale. Š 2014 Edizioni Alegre - Soc. cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma e-mail: redazione@edizionialegre.it sito: www.edizionialegre.it

Analisi, notizie e commenti www.ilmegafonoquotidiano.it


Indice Prefazione

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Punto uno Perché l’euro

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Punto due La trasformazione dello Stato-nazione

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Punto tre Centralità dell’euro, ovvero della sua sovrastima

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Punto quattro In Europa allora va tutto bene?

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Punto cinque I dilemmi del “più Europa”

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Punto sei Obiettivo sovranità monetaria?

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Punto sette Dove colgono nel segno gli anti-euro

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Punto otto La strada della svalutazione competitiva

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Punto nove Come “uscirne”?

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Bibliografia

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Alcune cose ci sfuggono perché sono così impercettibili che le trascuriamo. Ma altre non le vediamo proprio perché sono enormi. Robert M. Pirsig Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Adelphi, 1990


Premessa

Sono trascorsi sette anni dalle prime avvisaglie e sei dalla sua esplosione, ma di una vera fine della crisi non si vedono segnali. Secondo una fastidiosa retorica che deve dispensare ottimismo il 2014 finalmente doveva essere l’anno della ripresa. Una retorica che non fa mai un bilancio dei proclami d’inizio anno e, soprattutto, che ignora le ragioni delle secche smentite che giungono dalla realtà. Con i dati aggiornati a metà anno, però, il senso di marcia dell’economia si può comprendere. L’Italia è tornata in recessione, dopo averla sospesa statisticamente con una parentesi di tre mesi in cui la crescita era stata dello 0.1% del Pil. Il suo debito pubblico è in costante crescita, sia in termini assoluti sia in relazione al Pil, dai tempi del governo Monti. La produzione industriale in questi anni è crollata in termini fisici del 24.6%, cioè è ai livelli del 1986, il Pil è diminuito del 9.1% e quello pro-capite dell’11.5%. Confindustria ammette che l’Italia si presenta alle porte del 2014 «con pesanti danni paragonabili solo con quelli di una guerra»1. Nel 2014 il segno non sembra invertirsi, anzi: rallenta l’economia della Germania (secondo trimestre rilevato persino con una contrazione del Pil uguale a quella italiana, -0.2%), ristagna la Francia, oscillano di trimestre in trimestre dal segno meno al più zero qualcosa paesi come Olanda e Finlandia. Tutta Europa vive un momento di 1  Centro studi Confindustria, Scenari economici. La difficile ripresa, n.19, in www. confindusitria.it, dicembre 2013.

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Non c’è euro che tenga

stagnazione, con rischio di deflazione alle porte a complicare ulteriormente il panorama. A rappresentare con un’immagine la situazione ci pensa la copertina dell’autorevole settimanale inglese The Economist del 30 agosto 2014, in cui si vede una barca di carta che sta affondando, a bordo ci sono la Merkel, Hollande e Renzi impassibili e dietro un presidente della Bce, Draghi, intento a togliere l’acqua con un secchio. Il titolo della copertina è «Quella strana sensazione di affondare (di nuovo)»2. L’articolo di commento, poi, conclude rimarcando come non sia finito il pericolo che uno dei paesi aderenti all’euro decida di abbandonare la divisa comune e come la crisi dell’eurozona non sia affatto superata. Insomma in un contesto economicamente difficile, socialmente insopportabile, tanto che nessuno può far finta di niente, si afferma una gara ad avanzare critiche all’Unione Europea, ma sempre dal segno superficiale. I toni sono persino forti, come quando Romano Prodi, ex presidente della Commissione europea, denuncia come la Germania sia diventata «la padrona d’Europa»3, oppure come Massimo D’Alema, ex presidente del consiglio e attualmente vicepresidente dell’Internazionale socialista che scrive un libro dal titolo Non solo euro, in cui si denuncia «la razionalità economica dominante»4. Ma raramente viene proposta una correzione di rotta che non sia semplicemente quel poco che la situazione disastrosa rende obbligatorio. Anche Renzi, per quanto utilizzi un linguaggio antiburocratico e rivendicativo più accattivante, non sembra intenzionato ad aprire realmente una questione Europa. Il dibattito mainstream sui mali che affliggono l’Italia è quindi insopportabilmente conservatore. E di tale tendenza è intriso anche il confronto nella sinistra più o meno ufficiale, o in quel che ne resta. A fronte della crisi che attanaglia il paese, 2  That sinking feeling (again), copertina de The Economist, 30 agosto 2014. 3  Intervista a Prodi R. di Giannini M., Il Pd di Renzi è l’unico partito vivo, giusta la battaglia contro i no tedeschi, in “la Repubblica”, 31 marzo 2014. 4  D’Alema M., Non solo euro, Rubettino, Soveria Manelli 2014, p. 23.

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Premessa

una crisi senza precedenti almeno considerato il complessivo contesto globale e le principali prospettive di fondo, prevale uno strano savoire faire, un ragionare di fioretto dentro le più importanti compatibilità di sistema. Specificatamente sull’impalcatura dell’Unione Europea e della moneta unica le sole carte giocate sono quelle di una maggiore democrazia sul versante politico e dell’unione bancaria e dei bond continentali su quello economico. Paradossalmente la stessa Bce è andata oltre ipotizzando un quantitative easing in salsa continentale, cioè l’allargamento della base monetaria mediante l’acquisto di titoli, presumibilmente anche di Stato. Dai più, dunque, un approccio minimalista a fronte di un cataclisma pienamente in corso, una sproporzione incredibile. In alcuni emerge invece un atteggiamento figlio di una fede cieca nel progresso lineare, ben rappresentato dal filosofo della scuola di Francoforte Jurgen Habermas, il quale dichiara che l’Europa deve unire le forze per incidere nell’agenda e nella soluzione dei problemi globali e che, di conseguenza, «rinunciare all’Unione europea significherebbe anche prendere congedo dalla storia mondiale»5. Tale visione implica che ogni passo indietro o momento di stallo costituirebbe una battuta d’arresto e il sottrarsi dal mitico racconto umano. Una visione teleologica della storia incapace di leggere le odierne contraddizioni sia sul piano degli effetti della globalizzazione economica sia sulle ricadute nella declinante Europa. E che non dice che proprio nei passaggi essenziali su scala mondiale l’Europa ha alzato voci contrastanti sia dentro al perimetro della moneta sia in quello dell’Unione. Non c’è stato conflitto bellico negli ultimi anni che non sia stato affrontato in ordine sparso, con alleanze spurie che rispondevano alla tutela dei propri interessi nazionali o al grado di adesione alle politiche di guerra degli Usa, con molteplici ribaltamenti di fronte tra paesi favorevoli alla pace e alla guerra in base al tipo di conflitto preso in esame. Per non dire di come 5  Habermas J., Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, Laterza, Bari 2014, p. 27.

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Non c’è euro che tenga

questi anni siano stati all’insegna di un’omologazione dell’Europa al modello anglosassone e liberista piuttosto che a quello sociale e centro-europeo. Non è stata l’Europa a cambiare il modello mercatista quanto quest’ultimo a cambiare l’Europa. I dubbi, le critiche, le riserve, per Habermas vanno bene, ma solo se consentono di rimanere aggrappati al treno della storia. Un treno trainato dai motori dell’economia e del mercato. L’unica opzione critica che ha valore di progetto compiuto è costituita dalla prospettiva di uscire dall’euro. Un progetto inteso come prerequisito per uscire dalla crisi in cui versano Italia & co. Io tenterò di sottrarmi a questa logica binaria secondo cui o stai con l’euro oppure sei per abbandonarlo. In entrambi i casi con un approccio piuttosto palingenetico, in cui la soluzione dei problemi è in alternativa alla catastrofe, sia in una direzione sia nell’altra. Mi soffermerò molto sulla prospettiva dell’uscita dall’euro, poiché tale slogan, nel senso buono del termine (cioè di idea semplificata che rimanda a un progetto), mi pare stia avendo consensi crescenti anche a sinistra, oltre che a destra. Una distinzione, quest’ultima, che è andata perdendo di polarizzazione, rimescolando spesso confini culturali, in special modo nelle classi subalterne. Esiste un’adesione trasversale alla soluzione dell’uscita dall’euro, adesione che ci dà la misura del discredito delle politiche dominanti e della disponibilità a pensare fuori dagli schemi consueti. Proverò a incunearmi su questo fertile terreno con un ragionamento un po’ differente. Il tema è certamente complesso e rimanda non solo a scelte economiche squisitamente tecniche, ma anche a scelte politiche e sociali. Per certi versi il tema rischia di essere complicato anche dalla sovrapposizione dei termini in questione. Abbiamo, infatti, l’Unione europea fatta di 28 paesi membri e una moneta unica ma non dell’intera Unione, bensì solo di 18 paesi. A volte si ritiene, con qualche ragionevolezza, che la fine dell’euro condurrebbe alla fine dell’Unione; a ciò viene contrapposto un ragionamento che nel perseguire la fine dell’euro intenderebbe rilanciare l’unione dei paesi, cioè di un mercato unico senza barriere tariffarie e doganali. In effetti tutto può accadere. Non è pensabile che tornare alle divise nazionali sia 12


Premessa

semplicemente impedito dai trattati costituenti l’euro. La ragione di una mancata formalizzazione della prospettiva di un ritorno alle singole monete, può svolgere, e ha svolto, una funzione di deterrente, ma non può essere assurta a motivo di impedimento perentorio. Una strada per l’uscita dall’euro, se dovesse essere l’unica strada percorribile per sottrarsi alle peggiori regole di bilancio della Ue, si può trovare sempre. Non è certo questo il problema. Alle regole viene sempre incontro la politica. Nelle recenti elezioni europee il cosiddetto populismo antieuropeo non ha sfondato, ma ha comunque ridisegnato alcuni equilibri, per esempio nel caso britannico la principale forza anti-euro si è affermata come primo partito, laddove conservatori e laburisti hanno tradizionalmente in mano i termini dell’alternanza. Anche dalle spinte indipendentiste come quella scozzese (appena fermata al referendum al prezzo di ulteriori concessioni autonomiste), catalana, belga trae nuovo vigore il famigerato populismo. Termine quest’ultimo diventato una sorta di contenitore per bollare in un’unica dimensione qualsiasi forma di dissenso radicale viva e operi nella società. Il sociologo Gérard Mauger definisce il termine populismo una sorta di «parola itinerante» in cui «vengono raccolti alla rinfusa gli oppositori – siano essi di destra o di sinistra, votanti o astensionisti – alle politiche messe in atto dalle istituzioni europee». Questa «inconsistenza del sostantivo deriva dalla diversità dell’uso che ne viene fatto»6, dall’estensione del suo campo di riferimento. Ma nel suo complesso, il sedicente populismo, in quanto opposizione, un risultato l’ha ottenuto. A livello continentale ha costretto la politica ufficiale ad agire in regime di emergenza permanente anche a livello parlamentare. Dopo i casi di Grecia, con la nomina a capo del governo di Loukas Papademos, e Italia, con Mario Monti, passando per la Grosse Koalition tedesca che sostiene Angela Merkel, i numeri a favore dell’Europa sono andati diminuendo, costringendo le forze storiche ad allearsi. Nel parlamento 6  Mauger G., Populismo, una parola itinerante, in “Le Monde diplomatique”, luglio 2014.

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europeo, a suggellare questa tendenza, nasce una maggioranza costituita da popolari e socialdemocratici, l’unica possibile per il proseguimento senza scosse del progetto europeo, al prezzo di presunte e storiche differenze. I due principali filoni politici e culturali del Vecchio continente, dunque, sono costretti ad allearsi per far sopravvivere l’Europa, un progetto però che perde definitivamente la politica a tutto vantaggio della tecnica, finanziaria ed economica. I filoeuropeisti si uniscono quasi tutti. Come in Grecia e in Italia l’emergenza è dettata dalla volontà dei mercati e non più da progetti politici distinti e autonomi. Un processo che viene da lontano, ma che con la crisi si radicalizza. Dentro le istanze sociali maldestramente semplificate e confuse nella categoria del populismo si trovano invece le potenziali spinte per un ritorno della politica, nel senso di governo collettivo e radicalmente democratico. Ciò può avvenire a condizione che si affermi una nuova visione della polarizzazione politica, contraddistinta dalla logica che il basso si riesca a organizzare contro l’alto. Ecco il vero discrimine da praticare in questi tempi difficili. Questo testo è diviso in 9 brevi punti che vogliono costituire una bozza di riflessione su temi tanto complessi quanto urgenti. Inizio riflettendo sulle ragioni che hanno spinto alla costituzione dell’euro dentro un processo globale di trasformazione degli Stati-nazione, per poi analizzare il rischio di sovrastimare il ruolo della moneta nei meccanismi economici attuali. Seguono i limiti delle politiche dominanti sull’Europa, sotto il segno dell’austerità combinata con il liberismo, poi i limiti dell’opzione che vuole rafforzare l’Europa per superare le attuali impasse. Finisco con il ragionare dell’araba fenice della sovranità monetaria, degli spauracchi allarmisti delle conseguenze di un’uscita dall’euro, ma allo stesso tempo di ciò che costituirebbe la principale strada dell’opzione no-euro: la svalutazione competitiva. Concludo soffermandomi su quali strategie possano essere più efficaci per rilanciare gli interessi delle classi subalterne e dei ceti popolari. Questo lavoro è un approfondimento e una sistematizzazione di contenuti che ho iniziato a elaborare in occasione di un 14


Premessa

incontro pubblico con Marino Badiale tenutosi al Circolo Arci “Lo Zenzero” di Genova dal titolo Euro si o euro no?. Badiale da tempo sostiene la tesi antieuro7 e quell’incontro mi ha consentito di approfondire l’argomento. Il confronto è stato proficuo, con tesi diverse sull’euro, ma all’interno di una comune matrice che ritiene il cambiamento radicale dell’esistente una necessità. La polemica con le sue tesi presente in questo libro, dunque, è frutto di un dissenso che ci siamo garbatamente già espressi, ma che penso non intacchi la reciproca stima. Spero solo non aver travisato il suo punto di vista a vantaggio del mio, ma di aver focalizzato quanto ci divide sull’interpretazione della moneta unica. Il tema, come detto, è complesso, dunque il testo che segue intende costituire un punto di vista da approfondire, non ha un carattere compiuto e definitivo, è aperto a ulteriori approfondimenti e, perché no, a smentite. La strada della trasformazione non si presenta diritta, ricerca e soprattutto conflitti concreti ci parleranno di dove incamminarci più convintamente. I tempi sono difficili, ma anche stimolanti, per cui si tratta di continuare a provarci. Ringrazio, quindi, Marino Badiale che da quella occasione ho avuto ripetutamente modo di apprezzare e il circolo dello Zenzero per l’opportunità che mi ha dato. Infine voglio ringraziare Danilo Corradi per i suoi consigli puntuali.

7  Badiale M., Tringali F., Liberiamoci dell’euro, per un’altra Europa, Asterios, Trieste 2011, Badiale M., Tringali F., La trappola dell’euro. La crisi, le cause, le conseguenze, la via d’uscita, Asterios, Trieste 2012, è poi animatore del blog www.il-main-stream.blogspot.it.

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Punto uno

Perché l’euro

Una lettura critica indica il processo di unificazione europea (e successivamente la sua moneta) semplicemente come un grossolano errore delle classi dirigenti dei paesi periferici oppure la risultante di un progetto burocratico di forze non sempre identificate. L’Europa unita e la sua moneta risponderebbero a intenti irrazionali dal punto di vista economico, considerata la loro insostenibilità. Oppure sarebbero il risultato raggiunto dal paese più forte che avrebbe poi sottomesso gli altri in un processo che più che di unificazione sarebbe di semplice annessione. Un blocco centro-europeo che riesce a imporre la propria egemonia su un continente senza anima. In quest’ottica il ruolo delle classi dirigenti dei cosiddetti paesi periferici, compresa la Francia, sarebbe unicamente subalterno. E lo sarebbe fin dal principio. In genere non credo nell’irrazionalità dei comportamenti e delle scelte delle classi dirigenti di qualsiasi formazione economica e paese. Le classi dominanti commettono errori di valutazione, anche gravi, ma raramente vengono risucchiate in un irrazionalismo inspiegabile. Esistono sempre delle ragioni per le scelte adottate. Nel caso dell’unificazione europea prima e della sua moneta poi si tratta di guardare le tendenze macroeconomiche di fondo che hanno fatto propendere per tali scelte le classi dirigenti di paesi anche molto differenti tra loro. Alle ragioni che si potrebbero definire di ordine esterno poi corrispondono persino delle motivazioni di carattere interno, basate su fattori di ordine storico-politico. Escludere queste ultime, o 17


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liquidarle come banale ideologia, non favorisce la comprensione dei processi avvenuti e di una loro relativa capacità di seduzione, almeno in origine. Prendiamo le mosse dai fattori esterni. Sono i processi della globalizzazione, coniugati con la vittoria del capitalismo non solo sul blocco sovietico, ma su qualsiasi idea alternativa, che fanno propendere per la scelta di organizzare un terzo spazio economico e politico tra la perdurante forza degli Usa e quella dei paesi emergenti. Certamente la globalizzazione muove i suoi primi passi dentro la guerra fredda e lo sviluppo tecnico di quegli anni, ma è la fine dell’Urss che toglie le briglie a una dinamica inedita che si muove ormai su scala globale. Non sembri un paradosso se proprio i paesi Occidentali prima promuovono la globalizzazione e poi ne sono le principali vittime. La mondializzazione, infatti, riduce proprio il loro ruolo economico e conseguentemente il loro potere. I loro investimenti esteri, oltre a determinare un contenimento dei prezzi interni danno vita a un processo di crescita, e non unicamente di sfruttamento, nei paesi in cui sono destinati. Una specie di eterogenesi dei fini. Gli Usa, appena usciti vincitori dallo scontro titanico con il mostro comunista, nel giro di un paio di decenni vedono vacillare il loro primato in favore di un paese come la Cina, una formazione ibrida che coniuga il mercato liberista al potere dispotico e che si muove con le sue ambivalenze (capital-socialiste) sempre più come una potenza su scala internazionale. Tale scontro però non è la riproposizione di una nuova edizione della guerra per blocchi appena terminata. La globalizzazione, infatti, ha il potere di mescolare le carte, scompaginare vecchie dicotomie. La Cina non solo è uno dei principali possessori di Buoni del Tesoro americani, ma sta acquistando, insieme ad altri soggetti emergenti, industrie, risorse, persino cultura dai paesi occidentali come da quelli più poveri. Il rafforzamento della Cina da un lato avviene a scapito dei paesi Occidentali, dall’altro grazie a loro. La stessa crisi europea di questi anni non fa bene alla Cina, nuoce a tutti i paesi orientati verso le esportazioni. Nessun paese emergente riuscirà a riequilibrare il proprio modello di 18


1. Perché l’euro

sviluppo autocentrandolo in tempi brevi. La Cina diventa una potenza mondiale, ma ha bisogno dei consumatori occidentali, almeno per ora. Il declino occidentale è in corso, ma non può essere troppo repentino altrimenti i livelli di interconnessione raggiunti impedirebbero alle nuove potenze di emergere stabilmente. Questa è la narrazione dentro la quale si afferma il progetto delle classi dirigenti europee. Evitare di essere come il don Abbondio di Manzoni: «un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro». L’Europa, dunque, doveva essere un nuovo contenitore che provava a reggere le sfide gigantesche imposte dalla globalizzazione. I mercati interni erano tendenzialmente saturi, la domanda solvibile era soddisfatta in modo crescente e si imponeva una concentrazione ed estensione commerciale al di fuori dei propri confini, occorreva favorire la trans-nazionalizzazione dei colossi nazionali già avviata negli anni Ottanta attraverso l’Atto unico, cioè la libera circolazione di merci e capitali. Dotare il Vecchio continente di un nuovo spazio di razionalizzazione delle attività dell’impresa per ristabilire gli standard di profittabilità realizzati prima della crisi degli anni Settanta8. Ragionerò dopo su come tali tendenze siano anche il corrispettivo continentale delle trasformazioni dentro i processi di internazionalizzazione di produzione e consumi. Per ora ribadisco che il processo di unificazione ha le sue radici alcuni decenni or sono e trova conferma ancora oggi nella propensione delle classi dirigenti di quasi tutti i paesi europei ad orientare le proprie nazioni alle esportazioni, pensate come il vero motore della crescita della prossima fase, nel solco dell’aumento della domanda dei paesi emergenti. Altra questione è se tale progetto sia realizzabile concretamente, ma indubbiamente, stante le condizioni di libero mercato imperanti, rappresenta l’unica soluzione praticabile per il pensiero mainstream. Sempre a partire dagli anni Settanta l’impresa, specie quella grande, ha sofferto della elevata inflazione e della volatilità delle 8  Gabriel C., L’Europa, una costruzione al servizio del capitale, in www. ilmegafonoquotidiano.it.

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divise nazionali di fronte all’affermarsi di crescenti scambi intraeuropei. Molti soggetti industriali realizzavano la gran parte dei loro scambi dentro il Mercato comune. Il recupero dei profitti passava così per una stabilizzazione degli effetti monetari sui bilanci aziendali, in particolare per le perdite dovute ai cambi9. Tali processi non erano un impedimento unicamente per la potente industria tedesca, ma per la maggior parte delle grandi imprese su scala continentale. Questo era l’ordine dei problemi che ha determinato l’affermarsi del progetto della moneta europea. Per quanto riguarda l’Italia poi dopo l’ultima svalutazione, quella del 1992, era alla ricerca di una modalità con cui stabilizzare la propria moneta, per riuscire a controllare l’inflazione e ridurre gli interessi che pagava sul proprio debito. A meno di due anni dall’entrata in vigore della moneta unica l’economista Luigi Spaventa affermava che «l’Italia è il Paese che più di ogni altro ha tratto beneficio dall’euro»10 proprio in considerazione della crisi valutaria attraversata nei primi anni Novanta e delle manovre approvate a quei tempi per raddrizzare i bilanci pubblici. E in effetti i primi anni dell’euro conducono a un miglioramento del costo del debito pubblico se si considera che nel 1996 il costo complessivo degli interessi pagati dall’Italia era di 114 miliardi di euro, mentre nel 2005 il costo era sceso a 67 miliardi11. Ma quanta acqua è passata nel frattempo sotto i ponti, a partire proprio da un’impennata del debito pubblico e dei suoi interessi. Alle ragioni di natura squisitamente economica si sovrappongono, e per molti versi ne sono anticipate, quelle di natura storico-politica. Nel secondo dopoguerra fa capolino nel dibattito dentro al Vecchio continente l’idea di unificare l’Europa. Lo storico Federico Chabod ricorda come l’idea di Europa, nel senso di civiltà europea, tragga le sue origini agli albori della cultura ellenica, ma ammette che riguardo all’idea di un’Europa politica

9  Ibidem. 10  Spaventa L., La lira nell’euro perché è un bene, in “Corriere della sera”, 23 dicembre 2003. 11  Dati della European Commission Ameco.

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1. Perché l’euro

non si può che trovarne traccia solo in epoca contemporanea12. Questa idea si rafforza dopo che l’Europa nella prima metà del Novecento è stata l’epicentro di ben due conflitti mondiali che hanno causato decine di milioni di morti. Le responsabilità dell’Europa risultavano evidenti e il timore che ciò potesse riaccadere spinse le classi dirigenti emerse dalla seconda guerra mondiale a ragionare in termini di prevenzione. Un processo di unione a livello continentale avrebbe potuto scongiurare tensioni geopolitiche che sarebbero potute nuovamente degenerare in scontri militari. Da questo punto di vista il peso della guerra non può essere sottovalutato nelle scelte di quegli anni, finalizzate a stemperare il potenziale riemergere di spinte nazionaliste. È chiaro poi, come si vedrà, che esistono interessi e assetti internazionali in competizione tra loro, ma l’ambizione verso un continente pacificato rimane uno dei fattori che fanno da sfondo ai processi di progressiva convergenza continentale. Nel 1948 nasce l’Oece (Organizzazione europea di cooperazione economica), tesa a favorire la ricostruzione post-bellica, nel 1951 viene costituita la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) da sei paesi, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia e Italia. Il trattato introduce la libera circolazione dei prodotti in questione tra gli aderenti e rappresenta un primo passaggio di natura prettamente economica, ma che possiede in nuce un’ambizione politica più ampia. E soprattutto prova a fondare una relazione franco-tedesca su uno dei prodotti, il carbone, che è stato all’origine di numerosi conflitti tra i due paesi. Nel 1957 verrà fondata la Cee (Comunità economica europea) da parte dei medesimi protagonisti, successivamente allargata ad altri paesi come Regno Unito, Danimarca e Irlanda. Le ragioni di ordine storico-politico contribuiscono a dare vita al progetto, ma come tutte le ragioni che affondano le proprie radici nel passato con lo scorrere del tempo vedono sbiadire la propria forza. Con il progredire del contesto pacificato tale conquista appare sempre più acquisita e scontata e finisce per far prevalere, tra le spinte 12  Chabod F., Storia dell’idea d’Europa, Laterza, Bari 1961.

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Non c’è euro che tenga

al procedere dell’esperimento di unificazione, quelle di ordine economico. Tanto più si allontana lo spettro della guerra, tanto più l’Europa è pensata in ragione delle cogenti necessità economiche e politiche che emergono dalla guerra fredda prima e dalla globalizzazione dopo. Ciononostante l’impronta iniziale di questo progetto si è basata su un’alleanza tra le principali potenze storicamente in competizione tra loro: Francia e Germania. Tale impronta si trascinerà lungo i successivi sessant’anni. E l’euro ne rappresenta l’ultimo passaggio di rilievo. L’avvento della moneta unica, infatti, si dà dopo il crollo del blocco sovietico. A Berlino crolla il muro e diventa a portata di mano la riunificazione della Germania. Il paese che incendiò l’Europa negli anni Quaranta e fu smembrato per aver dato i natali al nazismo può tornare unito. Un paese che può nuovamente tornare a essere la principale realtà economica del continente. Nel frattempo non solo l’impero sovietico si stava sgretolando, ma si andavano affermando processi globali di riequilibrio economico prima e forse politico dopo. Dunque grandi rivolgimenti a qualsiasi latitudine del mondo. La riunificazione tedesca per la Francia doveva avere come contropartita una moneta unica europea con cui avvantaggiare almeno una parte del continente dentro il nuovo scenario globale. I paesi europei rischiavano la marginalizzazione sotto i colpi della globalizzazione e quindi una moneta unica per imbrigliare, almeno in parte, una Germania unica poteva rappresentare un utile punto di equilibrio. Il finanziere George Soros ha definito l’euro «il prezzo della riunificazione»13 tedesca. Qui si materializza definitivamente il passaggio di fase nella concezione europea da parte delle classi dirigenti. Il cancelliere tedesco Helmut Koll per decenni aveva presentato l’Europa come questione di pace o di guerra. La Germania non aveva perseguito un proprio progetto nazionale anteponendolo ai destini continentali. Il peso dell’orrore della guerra era ancora troppo pressante. Quando, però, passati molti decenni, il crollo 13  Soros G., Salviamo l’Europa. Scommettere sull’Euro per creare il futuro, Hoepli, Milano 2014, p. 52.

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1. Perché l’euro

del Muro di Berlino e la caduta del blocco sovietico spingono verso la riunificazione, allora il gioco cambia. La Germania pur di realizzare questa unificazione era disposta a notevoli concessioni e la Francia di Francois Mitterand comprendeva che per poter reggere i nuovi scenari mondiali aveva bisogno di essere al fianco di una ritrovata potenza tedesca, seppur in forme non imperiali. Da qui l’euro. Il bisogno e la paura nei confronti della Germania sospingono i suoi vicini a tentare d’imbrigliarla e la Germania allo stesso tempo deve cercare di non spaventare il resto del continente, accettando di essere legata ai paesi che storicamente la temono. Questa rete di relazioni vincolanti si realizzerà attraverso la moneta unica. Ma una moneta che nasce da tali dinamiche, come si vedrà in seguito, non può incontrare i requisiti di una qualsivoglia moneta nazionale o federale. L’Europa unita costituisce un progetto sempre più economico, la politica viene progressivamente accantonata e la sua moneta diventa il frutto di un compromesso tra potenze in una fase non proprio ascendente. Tali limiti si riverbereranno nell’arco degli anni a seguire in modo sempre più evidente.

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«Si può sempre sostenere che intanto rompere la moneta europea vuol dire sottrarsi alle dinamiche negative che certamente l’euro comporta e allo stesso tempo almeno aprire alla possibilità di un cambiamento. Difficile però che per rompere i meccanismi dominanti fondati sull’ipercompetitività si passi per una loro riproposizione su scala minore, attraverso riequilibri sui valori monetari. Perché la conferma dei principi competitivi dovrebbe condurre fuori da un sistema ipercompetitivo? Ecco il corto circuito di tale prospettiva. In sostanza non si rimette in discussione la logica del mercato, le sue leggi, ma si ha la pretesa a posteriori, cioè dopo che gli è stato consentito di rimanere la cornice istituzional-economica, di correggerne gli effetti più perversi e contraddittori».


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