Wolf Bukowski
La danza delle mozzarelle Slow Food, Eataly, Coop e la loro narrazione
Tempi moderni
La danza delle mozzarelle Slow Food, Eataly, Coop e la loro narrazione Wolf Bukowski
Consulenza editoriale
Wu Ming 1
Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purchÊ non a scopo commerciale. Š 2015 Edizioni Alegre - Soc. cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma e-mail: redazione@edizionialegre.it sito: www.edizionialegre.it
Analisi, notizie e commenti www.ilmegafonoquotidiano.it
Indice
Capitolo uno Mangiare schifezze per cambiare lo smartphone
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Capitolo due Disco Mozzarella: gli anni ottanta del Gambero Rosso
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Capitolo tre La rivoluzione senza rivoluzione di Slow Food
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Capitolo quattro Relazioni geneticamente modificate
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Capitolo cinque Storia della follia nell’età farinettiana
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Capitolo sei La normalità secondo Oscar
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Capitolo sette Torino, capitale Eatalyana
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Capitolo otto Bologna o la sussunzione della città Coop
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Capitolo nove Il futuro meraviglioso
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Capitolo dieci Il Sud, unico grande Sharm El-Sheikh
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Capitolo undici Contenimento degli effetti della crisi (per i padroni)
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Capitolo dodici La Disneyland del cibo e i suoi Paperoni
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Capitolo tredici Capitani e facchini
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Capitolo quattordici Braccianti e caporali
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Capitolo quindici Il potere d’acquisto della Gdo
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Capitolo sedici Esoscheletro di Expo
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Capitolo diciassette E venne il gatto: Expo e i suoi buoni
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Capitolo diciotto Lavorare nel supermercato del futuro
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La danza delle mozzarelle
Capitolo uno
Mangiare schifezze per cambiare lo smartphone
Voi che c’insegnate a viver rettamente evitando il crimine e il peccato prima dovete darci da mangiare poi potrete parlare, sì!, ma dopo
scrive Bertolt Brecht nell’Opera da tre soldi. E ancora: Per quanto la possiate girare e rigirare prima viene il pasto, poi vien la morale
e quest’ultimo verso nell’originale suona: Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral. Fressen è il mangiare delle bestie alla greppia, al trogolo. Ovvero, per analogia, è il divorare di chi ha fame. Di chi ha una fame – appunto – bestiale. Non frißt chi, già sazio, ha voglia di qualcosa di buono come la contessa dell’indimenticabile spot del Ferrero Rocher; non è per niente Fressen la masticazione giustamente lenta prescritta dal primo dei manifesti di Slow Food, quello del 1987. No: Fressen è lo strafogarsi di Stracci, il borgataro de “La Ricotta” di Pasolini1 che interpreta il ladrone buono nel film nel film – una Passione di Cristo girata nella campagna romana – e che, durante le pause di lavorazione, si nasconde in una cavità per ingozzarsi di cibo. Non ne ha mai visto così tanto, mai come in quei giorni in cui su di lui sgocciola 1 Episodio di RoGoPaG (1963).
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La danza delle mozzarelle
la ricchezza di impresari e gente di cinema. Così mangia e s’abbuffa fino a morire sul set, in croce, di indigestione. Prima viene il pasto allora, e poi viene la morale; e che […] sia possibile anche alla povera gente tagliar dalla pagnotta la fetta che le spetta.2
Quando gli sfruttati, quando gli esclusi hanno fame, no anzi: quando riconoscono la propria fame e il proprio inalienabile diritto alla fetta di pane, alla più grossa delle fette di pane, ecco che la morale perde improvvisamente la sua importanza, e i moralisti sono lasciati tra loro a scambiarsi banali sciocchezze – tanto poi, appena sentiranno un po’ d’appetito, correranno ad abiurare il moralismo, giurando di non essere gli sputasentenze che sono. Al contrario, quando la povera gente si beve la menzogna che quel dolore che sente tra il ventre e il cuore, quel malessere e quell’impossibilità a prefigurarsi un domani migliore, vengano da una mangiata pantagruelica di cui non c’è traccia nella sua memoria, siano il lascito di banchetti a cui non ricorda d’aver preso parte e siano eredità di anni in cui sarebbe vissuta sopra le proprie possibilità;3 ecco che in quel momento, che è poi questo tempo qui che noi viviamo, ecco che i moralisti offrono il bicarbonato, si fanno testimonial della Citrosodina e affermano che prima viene la morale – che immediatamente si rivela moralismo – e dopo, solo molto dopo, il pasto. Come fa Michele Serra, maître à penser di quella cosa che, per i giri di valzer della storia, ci troviamo a chiamare sinistra:4 La spesa per l’alimentazione [...] rappresenta circa il 10 per cento delle uscite di ogni famiglia. Circa un terzo di quanto si spende 2 Bertolt Brecht, Dreigroschenoper (L’Opera da tre soldi, con musiche di Kurt Weill), prima rappresentazione nel 1928 a Berlino. I brani citati sono tratti dal Zweites Dreigroschenfinale; la traduzione, estremamente libera, è mia. 3 “Squinzi: situazione drammatica, serve una scossa”, Il Sole 24 Ore (on-line), 29 agosto 2014. 4 Userò il termine sinistra in modo pratico e non nostalgico né ideologico.
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1. Mangiare schifezze per cambiare lo smartphone
per comunicazione e trasporti. Questo significa che risparmiare mezzo euro su un chilo di riso (o su un chilo di pasta) incide di ben poco sul bilancio di casa. Cambiare smartphone incide molto di più.
“Eppure”, continua Serra con abuso di pasolinismo, si rinuncia più facilmente alla qualità del cibo, risparmiando pochi euro, piuttosto che all’aggiornamento febbrile di quegli statussymbol [...] Persone malnutrite ma con telefonini eccellenti: pare l’aggiornamento delle digressioni pasoliniane sulla vita in baracca, ma col televisore. Per giunta, con una torsione sorprendente di ogni criterio materiale, chi spende un po’ di più nel primario, cioè per mangiare sano e buono, è in fama di essere un fighetto o uno snob. Non altrettanto chi si indebita per pagarsi uno degli spettabili gadget elettronici in voga. I nostri nonni contadini non sarebbero d’accordo. Erano snob anche loro?5
Nonostante la banalità e le furbizie retoriche che toccano la vetta con i nostri nonni contadini, questo corsivo è letto e commentato in rete da centinaia di persone. Alcune condividono e mipiaciano il pensiero del maestro: «Io sono dello stesso parere. Manco a dire mangiano pane e cipolla pur di sfoggiare lo smartphone di ultima generazione!, perché pane e cipolla già sarebbero un pasto sano...»; «Condivido tantissimo: dal popolo che dimora in baracche ma con il televisore non è cambiato nulla, non si è cresciuti in consapevolezza, in cultura, in sogni»; «Il mio cellulare funziona solo se un elastico tiene la batteria attaccata al resto ma nella moka ci metto il caffè della torrefazione di fiducia»;
altre che propongono correzioni di tiro o addirittura critiche:
5 Michele Serra, “L’amaca”, La Repubblica, 12 luglio 2014.
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La danza delle mozzarelle
«Non si sta parlando, spero, di chi è costretto a raschiare il fondo del borsellino per arrivare a fine mese, ma di chi ha 729 euro da spendere e preferisce cambiare il proprio sfornaselfie e di chi, invece, con la stessa cifra preferisce comprarsi un quintale di pasta artigianale o fare la spesa per un anno al mercato anziché al discount. Poi, oh, ognuno è libero di fare come crede»; «Penso che se guadagni 900-1000 euro al mese, di sicuro non compri la Baladin6 da Eataly. Lo stesso per le famiglie monoreddito, di precari, studenti o operai»; «Quelli che spendono 729 euro per il telefonino tutti insieme, di solito pranzano un giorno sì e l’altro pure al ristorante. E cambiano telefono ogni 6 mesi, appena esce l’ultimo modello. La gente normale approfitta delle innumerevoli offerte che con 15-2030 euro al mese prevedono telefono e abbonamento. E se lo fanno “durare” 2-3 anni. Poi è una questione di scelta, gusti e priorità, ma sentir sproloquiare sui doveri del popolo uno che con il popolo non ha niente a che fare...».
C’è chi ne fa una questione econometrica: «Non sa di cosa parla: un riso di qualità costa mediamente almeno il doppio di un riso economico, se non il triplo, in alcuni casi anche il quadruplo, stessa cosa per la pasta. Almeno una controllatina ai prezzi poteva darla»; «Nel nostro paese la spesa per l’alimentazione rappresenta circa il 10 per cento delle uscite di ogni famiglia. In quale paese? Ai Parioli?».
Ma anche chi ne rifiuta il framing: «Se facciamo finta di considerare un lusso avere un telefono allora è inutile discutere, perché si parte da un presupposto folle: 6 La birra Baladin Nazionale da 0,75, una delle più economiche, è venduta da Eataly a 8,80 euro (nello shop on-line, agosto 2014).
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1. Mangiare schifezze per cambiare lo smartphone
si può vivere nel 2014 senza pc o smartphone o una connessione internet? Certo, ma si rimane esclusi da un sacco di cose».7
Naturalmente è vero, anzi verissimo quanto sostenuto da chi, sarcastico, riferisce ai Parioli la quota del 10% del reddito per il cibo (vedremo tra poco i dati), ma è soprattutto vero quello che scrive l’ultimo commentatore: si rimane esclusi da un sacco di cose dal punto di vista della socialità, certo, ma anche da quello lavorativo, e dunque della produzione di quel reddito che Serra auspica sia speso «un po’ di più nel primario». Perché nella precarietà un telefono completo di tutte le funzioni serve anche per cogliere occasioni di lavoro – che altrimenti passeranno a qualcuno di più reperibile. Serra è autorizzato a ignorarlo, ma non a fare la morale a chi è vittima di questo meccanismo, lui che non lo è. Ma torniamo al dato, al crudo dato: quello del 10% speso per il cibo. In realtà l’Istat ci informa che nel 2013 la spesa media mensile per famiglia è pari, in valori correnti, a 2.359 euro (-2,5% rispetto all’anno precedente) [...] La spesa per alimentari è sostanzialmente stabile, passa da 468 a 461 euro [e quindi] dal 19,4% del 2012 al 19,5% del 2013
con cui siamo attorno al doppio di quanto sostenuto dal fondatore di Cuore. Ma c’è dell’altro: continua ad aumentare sia la quota di famiglie che ha ridotto la qualità o la quantità dei generi alimentari acquistati […], sia quella di famiglie che si rivolge all’hard discount (dal 12,3% al 14,4%) [...] continuano a diminuire le spese per abbigliamento e calzature 7 Ho dovuto rimaneggiare i commenti per renderli comprensibili al di fuori della loro sequenza originale. Trovate gli originali presso: “Chi siete, italiani? Sapete cibarvi e cucinare bene o mangiate schifezze pur di comprare lo smartphone?”, Dissapore (blog: www.dissapore.com ), 16 luglio 2014 e alla pagina Facebook (non ufficiale) “L’amaca di Michele Serra”, alla data dell’articoletto (www.facebook.com/ AmacaMicheleSerraRepubblica).
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(-8,9%), quelle per tempo libero e cultura (-5,6%) e quelle per comunicazioni (-3,5%).8
Insomma: nel generale impoverimento c’è poco contante anche per gli spettabili gadget elettronici in voga, come scrive Serra con scelte lessicali dalla coloritura, francamente, reazionaria. Eppure, nonostante i dati, l’insistenza sul fatto che gli italiani spenderebbero troppo poco per l’alimentazione sembra essere un leit motiv dell’intellighenzia di sinistra. Così Oscar Farinetti: fino al dopoguerra il cibo, cioè l’agricoltura, costituiva il pezzo più importante dell’economia. Nel ’46 il 50% dei consumi era costituito da cibo. Oggi è sotto il 25%.9
E ancora: gli agricoltori [...] sono malpagati, come tutta la filiera dell’agroalimentare [...] perché il cibo costa troppo poco [...] Io con 2 euro le procuro 4 chili di pasta, le pare possibile?10
Anche se non è genericamente la filiera dell’agroalimentare a essere malpagata, ma è la Grande Distribuzione Organizzata, quella GDO con cui Farinetti ha un rapporto organico, a mangiarsi i profitti lasciando ben poco agli agricoltori (e meno che briciole ai braccianti). Nel coro non manca Carlo “Carlin” Petrini, fondatore e guida riconosciuta di Slow Food: Non si è mai pagato così poco per il cibo. Negli anni Settanta gli italiani spendevano il 32 per cento del loro reddito per 8 “I consumi delle famiglie, anno 2013” (pdf scaricabile da: www.istat.it), Istat, 8 luglio 2014. 9 “Oscar Farinetti di Eataly al Salone del Libro di Torino” (senza data ma 2013) su www.mondodelgusto.it 10 Pier Luigi Martelli, “Spiego il cibo a tutto il mondo” [Intervista a Farinetti], Il Resto del Carlino Bologna, 13 ottobre 2013, pag. 8.
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1. Mangiare schifezze per cambiare lo smartphone
mangiare, oggi solo il 14 per cento mentre il 13 per cento lo investono in telefonini.11
Ma nei Settanta la spesa per l’abitazione (giusto per dirne una irrinunciabile quanto il cibo) era infinitamente più modesta di oggi e, se si ignora una differenza così macroscopica, il confrontare percentuali tra periodi diversi diventa un po’ come sommare mele e pere, come dicono le maestre (e lasciamo perdere che le percentuali sono pure sbagliate); e c’è, infine, Andrea Segrè, guru renziano del green, a sostenere che: oggi si rinuncia al buon cibo, ma non all’ultimo modello di cellulare [...] e spesso si spende di più per dimagrire che per mangiare, inseguendo diete costose.12
Ma anche, al rovescio: Siamo più poveri, e si vede dall’incidenza della spesa [alimentare] sul reddito che infatti aumenta13
e poi di nuovo al dritto: Continuiamo a sacrificare la quota di reddito dedicata alla spesa alimentare. Ho fatto un calcolo su me stesso: ero al dodici per cento, e allora mi sono imposto di portarla al sedici, rinunciando a qualcosa di non necessario.14
Eppure, più che rinunce a cui verosimilmente il suo reddito non lo costringe, Segrè dovrebbe imporsi di collocare socialmente 11 Intervista al mensile Max di aprile 2011, parzialmente riprodotta in “Delle due una: o Ilaria Bellantoni è un genio o non abbiamo capito un tubo di Slow Food”, Dissapore (blog), 13 aprile 2011. 12 Claudio Visani, “Perché buttiamo il cibo buono e mangiamo quello cattivo”, Il Venerdì, 6 giugno 2014. 13 Andrea Segrè, Spreco, Torino: Rosenberg & Sellier, 2014, pag. 102. 14 Andrea Guolo, “Chi getta una mela al giorno...”, Vogue Italia, giugno 2014.
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le sue affermazioni. Perché c’è sì qualcuno che spende per diete, ma ci sono altri che sono sempre più poveri. Le famiglie dei facchini che lavorano presso il mercato ortofrutticolo che presiede, il Caab di Bologna, spendono probabilmente il 21,3% in alimentari (questo è il dato Istat riferito alle famiglie con persona di riferimento15 operaia); se poi si aggiunge che nel settore della logistica sono tantissimi i lavoratori che subiscono tagli di stipendio quel dato potrebbe essere sottostimato. Ma meglio (meglio!?) ancora dei facchini fanno i disoccupati, che spendono per il cibo il 21,9%. Insomma: nessuna di quelle affermazioni è vera se non si esplicita a chi e di chi si stia parlando (o lo sono tutte, ma non aiutano a capire granché). Altra cosa invece i dati aggregati (che si presentano, appunto, come tali: senza moralismi), soprattutto se posti in prospettiva storica: nel 1953 le famiglie italiane spendono il 52,4% del loro reddito in alimentari e bevande;16 nel 1973 il 35,9%; nel 1983 il 30,1; nel 1993 il 22,7; e giù fino (2000) al 18,6%; e al 18,8 del 2007.17 Segue una risalita fino ai valori attuali (19,5%). Non è dunque la saggezza dei nonni contadini o la barbarie dei consumatori post-consumisti a guidare le oscillazioni della quota destinata al cibo! Non è la nostra predilezione per il “mangiare sano e buono” o per il junk food, per la quarta gamma del supermercato o le verdure comprate dal contadino, la private label18 o i marchi più pubblicizzati, i cibi artigianali o 15 Quella che un tempo si chiamava capofamiglia. 16 Il dato 1953 è riferito alle famiglie “non agricole” e comprende i consumi per tabacco: “Italia in cifre 2011” (pdf scaricabile da www.istat.it), Istat, pag. 8. 17 “Spesa media mensile per consumi familiari per categoria di consumo... anni 19732012” (foglio excel scaricabile da: seriestoriche.istat.it) Istat, data del file 2013. 18 A marchio del supermercato (come i prodotti Coop venduti alla Coop).
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precotti e surgelati a determinare e modificare i rapporti sociali, perché se così fosse la storia avrebbe la sua matrice determinante nella cucina e le rivoluzioni coinciderebbero coi mutamenti radicali dell’alimentazione di massa. Il contrario è [invece] storicamente vero: cioè sono le rivoluzioni e il complesso sviluppo storico che hanno modificato l’alimentazione e creato i “gusti” successivi nella scelta dei cibi [...]
come scrive Gramsci19 criticando l’affermazione di Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia». E come la serie storica dell’Istat conferma. È infatti la rivoluzione verde iniziata negli anni Cinquanta, ovvero l’ingresso sostanzioso degli idrocarburi in agricoltura con la meccanizzazione e i pesticidi20, che ha consentito un tale aumento delle rese agricole da far calare costantemente il prezzo del cibo, ed è proprio questo che ha liberato risorse per i consumi non alimentari: la lavatrice, l’automobile e i feticci del consumismo. Proprio come sostiene Gramsci: una rivoluzione, in questo caso tecnologica e agronomica, e il complesso sviluppo storico hanno modificato l’alimentazione e creato i gusti successivi nella scelta del cibo, e dell’abbigliamento, arredamento, cura di sé e tutti quegli «elementi della vita sociale in cui […] in modo più evidente e più diffuso (cioè con estensione di massa) si manifesta il complesso dei rapporti sociali».21 Dall’altro capo di quello stesso complesso sviluppo storico, cioè il nostro presente, non c’è più quello slancio, ma solo la raggiunta consapevolezza che la crescita dei consumi non è più possibile qui né potrà essere estesa all’intero pianeta. Oltre al declino della disponibilità di materie prime ci sono: rese agricole in calo, desertificazione, urbanizzazione e cambiamento climatico 19 Antonio Gramsci, Quaderno VII in Quaderni dal Carcere, vol. 2, Torino: Einaudi, 1977, pagine 883-884. 20 Pesticidi di cui, ancora nel pieno della loro vita lavorativa, i nonni contadini di Michele Serra è assai probabile abbiano fatto abbondante e inconsapevole uso. 21 Gramsci, Quaderno VII..., pag. 884.
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che riducono i terreni coltivabili; competizione tra food e feed, tra cibo per umani e mangime per animali d’allevamento, a cui si aggiunge l’altra effe, il fuel (il biofuel), cioè la produzione di carburanti per mezzo di derrate agricole. E questo per limitarci al campo agroalimentare. Già mettendo in fila questi pochi elementi è chiaro che l’illusione coltivata dalla sinistra-del-capitale, ovvero che sia possibile una crescita infinita della pagnotta (l’economia mondiale)22 da cui derivi per meccanica conseguenza un aumento delle dimensioni della fetta che spetta “alla povera gente”, è un’illusione che deve essere dichiarata finita. A questo drammatico chiudersi delle prospettive future è possibile rispondere in due modi: - o assumendo che il capitalismo è un crimine di cui è indispensabile contrastare tanto le manifestazioni concrete e presenti (l’iniquità) quanto i sogni (lo sviluppo infinito); - oppure facendo il contrario di ciò che dice Gramsci e quindi fantasticando una trasformazione sociale a partire dal modo di fare la spesa e di cucinare. Insomma coltivando una nuova illusione: consolatoria per i consumatori (che pensano di poter fare finalmente qualcosa di buono, pulito e giusto) e innocua per il capitale (anzi potenzialmente profittevole, come vedremo in seguito). Di questa chimera, di questo nuovo inganno i nostri intellettuali salottieri sono i raffinati propugnatori. D’altronde decenni di militanza tra le fila della sinistra che predica l’ineluttabilità – quando non addirittura la bontà – del capitalismo non possono portare che a questo. Perché, se l’orizzonte è pieno delle atrocità del capitalismo, l’unico modo per non vederle è chinarsi sul buco della serratura e di lì sbirciare il consumatore – per sentenziarne la rettezza o, al contrario, l’indegnità morale. C’è infine un’altra questione sui consumi – e non da poco. Se anche il consumatore fosse deciso a rinunciare a quelli riprovevoli 22 Per rimanere fedele alla metafora brechtiana sostituisco la classica torta con una pagnotta.
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e tornare ai fondamentali, potrebbe poi farlo? E in che misura? L’intera struttura della spesa è infatti completamente cambiata: l’abitare costa molto di più che negli anni Settanta, come Petrini dimentica; le telecomunicazioni sono indispensabili, come abbiamo visto a proposito dello smart; la suburbanizzazione crea dipendenza dai trasporti privati e/o collettivi; i processi di privatizzazione (voluti, peraltro, dai partiti di riferimento dei nostri) e le spese conseguenti ci impoveriscono ulteriormente eccetera. Insomma: del nostro reddito né il 52,4% (dato del 1953), né il 35,9% (dato del 1973) è oggi disponibile per l’acquisto di cibo. Anzi: tra il 2002 e il 2012 il prezzo medio degli alimenti è cresciuto del 35% e, soprattutto, il gap di costo tra cibi sani e cibi meno sani è andato aumentando, come ci informa una ricerca britannica. Questo trend, come è ovvio, potrebbe avere «implicazioni per la sicurezza alimentare individuale e la salute pubblica, e accentuare diseguaglianze sociali in riferimento alla salute».23 Risultato simile quello che fa temere l’allarme di Coop, che dichiara di sopportare un sovrappiù di costi di 10 milioni di euro all’anno per garantire che nei propri prodotti a marchio non ci siano Ogm. E prevede che se l’Europa dovesse diventare davvero un sistema aperto [agli Ogm] e contaminato, i costi lieviterebbero in maniera terrificante e questi [costi] andrebbero poi sul prodotto24
determinando così una separazione delle filiere alimentari tra quella destinata a chi potrà permettersi l’Ogm-free e quella per chi, invece, dovrà accontentarsi di qualsiasi cosa; e dunque rendendo vera a posteriori la menzogna secondo cui gli Ogm 23 Nicholas R. V. Jones, Annalijn I. Conklin, Marc Suhrcke, Pablo Monsivaisones, “The Growing Price Gap between More and Less Healthy Foods: Analysis of a Novel Longitudinal UK Dataset”, PLoS ONE (on-line open access: www.plosone.org), 9/2014 (traduzione mia). 24 “Prodotti Coop, garantire l’assenza di Ogm costa 10 milioni di euro”, Consumatori (on-line: www.consumatori.e-coop.it), marzo 2014 (la seconda citazione è dalla videointervista a Claudio Mazzini di Coop Italia).
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sarebbero più economici.25 Spenderemmo quindi come oggi per mangiare molto peggio, oppure molto di più per mangiare come mangiamo oggi. Insomma: non si può invertire la sequenza dei consumi rinunciando a quelli riprovevoli per ritrovare quelli fondamentali, perché nessuno di essi è più allo stesso posto di prima. E neppure si può pretendere, come fa la nostra gauche caviar, dall’ultimo anello della catena (il consumatore) uno sforzo che retroagisca sull’intero processo produttivo. Non solo perché sia titanico, ma perché, semplicemente, è impossibile.
25 Prima di commuoversi per la sollecitudine di Coop si consideri che la cooperativa è Official Food Distribution Premium Partner di Expo 2015, l’evento che ha il più subdolo dei suoi scopi proprio nel rendere l’Europa un sistema aperto agli Ogm.
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Capitolo due
Disco Mozzarella: gli anni ottanta del Gambero Rosso
Abbiamo fin qui osservato Serra e compagnia insistere perché il lavoratore e la lavoratrice si decidano, dopo la sbornia consumistica, a spendere di più per il cibo. Ma il lavoratore e la lavoratrice, nella loro veste di consumatori, sono alle prese con una struttura della spesa vincolante – e soprattutto con redditi in calo fin dai primi anni Novanta. Il telefonino smart, ah!, quasi una prova del patto col demonio per i moralisti, è un modesto consumo che si può ottenere con 20 o 30 euro al mese. Ma d’altra parte è vero, né ha senso negarlo, che i consumatori sono avvezzi ad acquisti voluttuari e sono abituati a merci divertenti e spiritose (nel senso di dotate di spirito) come e più del tavolo evocato da Marx ne Il Capitale, in un passaggio sul carattere di feticcio della merce e il suo arcano: Finché [la merce] è valore d’uso,26 non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, 26 Cioè, semplicemente, serve: ha una sua utilità come una penna, o un panino quando hai fame.
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il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare. […] Di dove sorge dunque [questo] carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma [… che] rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti [...] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi.27
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«Un grande comunicatore, attento a usare un linguaggio semplice», un «imbattibile venditore di spensierata evasione dalla realtà» che manifesta «un amore totale verso se stesso»; il leader naturale «che per la [sua] personale audacia e Ovvero, grossomodo e semplificando: dietro la fantasmagocapacità perdelle diventare simbolo queria, il fascino,finisc[e] il sex-appeal merci ci sono rapportidi sociali determinati di produzione e quindi, nel regime capitalista, rapsta smania irrefrenabile di fare, di agire, di sentirporti sociali di sfruttamento. Il passaggio non è ovviamente facile sidavivi». Farinetti? No, no: Berlusconi. digerire, e devo confessare di averlo metabolizzato complePiaccia o non a chidella nelCoop ventennio passato tamente solo graziepiaccia a una trovata – che racconterò più avanti. Per adesso fermiamoci alla forma(e di sono merce che simolto è dedicato all’antiberlusconismo stati rimanda «come uno specchio i caratteri sociali del […] lavoro tanti), i punti di contatto i dueSiimprenditori trasformati in caratteri oggettivi deitra prodotti». tratta di uno specchiocosì che funziona nei due sensi: sono numerosi che ci si potrebbe costruire 1) riflette fedelmente i rapporti sociali capitalistici quando un quiz, un trova le differenze. propone un bene feticcio per i pochi, per gli happy few, come 28
per esempio un costoso prodotto Apple; 2) nasconde alla vista, come gli occhiali a specchio degli anni Ottanta, quando vende quegli stessi oggetti come alternativi e innovativi – ancora Apple: think different29 – occultando le 27 Karl Marx, Il Capitale (libro primo), Roma, Rinascita, 1951, pp. 84-86. 28 È Walter Benjamin a parlare di sex-appeal dell’inorganico, proprio a proposito del feticismo della merce. 29 Così il claim della campagna Apple del 1997. Lo spot televisivo era, ancora più esplicitamente, dedicato a folli, anticonformisti, ribelli e piantagrane... che fanno progredire l’umanità.
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