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Rojava Calling

Kobane, diario di una resistenza Racconti di una staffetta di solidarietĂ

Prefazione a fumetti di Zerocalcare



Sulla frontiera



Kobane, diario di una resistenza

Racconti di una staffetta di solidarietĂ Rojava Calling Prefazione a fumetti di

Zerocalcare


Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purchÊ non a scopo commerciale. Š 2015 Edizioni Alegre - Soc. cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma e-mail: redazione@edizionialegre.it sito: www.edizionialegre.it

Analisi, notizie e commenti www.ilmegafonoquotidiano.it


Indice

Prefazione Riconoscersi di Zerocalcare

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Introduzione La pace in Medio Oriente passa dal Rojava

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Kobane, diario di una resistenza

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Appendice 1 A tutto il nostro popolo di Abdullah Ă–calan

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Appendice 2 Carta del contratto sociale del Rojava

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Link utili e consigli di lettura

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Autori

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Introduzione

La pace in Medio Oriente passa dal Rojava

Sin dall’inizio della guerra civile che sta riducendo in macerie la Siria e costringendo milioni di persone alla fuga, le forze rivoluzionarie si sono autorganizzate per prendere il controllo della regione a maggioranza curda del nord del Paese, il Rojava. I media occidentali hanno raccontato l’andamento della battaglia contro l’autoproclamatosi Stato Islamico (Isis, chiamato in senso spregiativo daesh in tutto il Medio Oriente) senza mai cercare di spiegare i motivi della loro sollevazione e per cosa stanno lottando. Creare una contronarrazione degli eventi in corso e portare una solidarietà concreta in quei territori è stato il motivo che ha spinto decine di attivisti a far partire una staffetta presente in maniera permanente a Kobane e dintorni. Nella convinzione che senza una presenza sul campo ed una conoscenza reciproca non ci possa essere alcuna solidarietà internazionale. Dal giugno 2014 abbiamo assistito all’avanzata inarrestabile in Iraq e Siria di daesh, che con la presa di Mosul – la città più importante tuttora sotto il suo controllo – ha nelle mani un enorme potere economico e militare che gli ha permesso di dichiarare la nascita del Califfato. Il gruppo è diventato così una concreta minaccia mondiale anche grazie ad un brand del terrore che ha sbaragliato la concorrenza degli altri gruppi jihadisti. In ogni parte del Mondo i fedeli dell’Islam hanno disconosciuto l’idea di uno Stato Islamico guidato da Al-Baghdadi. In Occidente i mass media hanno raccontato soltanto di un nemico invincibile senza riuscire a fornire alcuna soluzione interpretativa. I governi 17


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dal canto loro non sono stati in grado di individuare una valida strategia per la sua sconfitta. L’inazione complice delle grandi potenze sta lasciando al massacro intere popolazioni. Caduta Mosul è scoppiata l’emergenza umanitaria e il pericolo di genocidio per oltre centomila iracheni della minoranza religiosa ezida, che si sono trovati intrappolati sul Monte Sinjar. Sono stati gli uomini e le donne delle forze di autodifesa dello Ypg/Ypj e del Pkk a salvare le popolazioni ezide ed a fermare l’avanzata di daesh grazie all’apertura di un corridoio umanitario che ha condotto in salvo oltre centomila persone. Sempre gli stessi uomini e donne sono accorsi in difesa di Kobane, venutasi a trovare in una situazione disperata in seguito all’assalto di daesh iniziato il 13 settembre ed arrivato a controllare in ottobre il 90% della città. La Turchia ha reso la situazione ancora più disperata costringendo Kobane in un assedio da ogni lato, mentre forniva sottobanco supporto diretto alle gang del Califfato. Ancora più enigmatico è l’embargo imposto da Barzani e dal suo Governo Regionale del Kurdistan in Iraq. Kobane fa parte del Rojava, regione del nord della Siria che si è proclamata autonoma sulla base di un nuovo contratto sociale, la “Carta del Rojava”: Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale.

La stesura della Carta del Rojava rappresenta oggi un modello alternativo di sviluppo sostenibile per le società mediorientali e non solo. Costruito attorno ai quattro pilastri del confederalismo democratico, della centralità del ruolo della donna, dell’autodifesa e dell’economia solidale ed ecologica, il Rojava è un 18


Introduzione

luogo che ha fermato non solo l’avanzata militare di daesh, ma anche ciò che rappresenta, smascherando il sistema di potere globale che ne garantisce la legittimità. La rivoluzione in Rojava rappresenta un punto di svolta cruciale nella questione curda, aperta in Medio Oriente da quasi un secolo. È nel 1920 infatti, con la conclusione del Trattato di Sèvres, che le Potenze vincitrici della Prima guerra mondiale si accordano per la spartizione dell’Impero Ottomano prevedendo la nascita di un Kurdistan indipendente. Tuttavia, la sollevazione nazionalistica dei turchi guidati da Mustafa Kemal e la scoperta del petrolio negli stessi territori, portò ad una ridefinizione dell’assetto politico mediorientale sancito dal Trattato di Losanna del 1923. Il Kurdistan è stato così diviso in 4 Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, alimentando la diaspora di milioni di curdi per sfuggire alla repressione in ciascuno di questi Stati. Nel 1978 Abdullah Öcalan – chiamato affettuosamente “Apo” (zio) dai curdi e considerato uno dei pensatori politici più importanti e influenti al mondo – fonda il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), un movimento di liberazione nazionale di ispirazione marxista-leninista. Il Pkk ha ridato nuovo vigore alla causa curda intraprendendo un lungo percorso di rinascita dell’identità culturale dei curdi ed una lunga fase di lotta armata in Turchia nella ricerca dell’indipendenza. Sin dal suo arresto, avvenuto in Kenya nel 1999 ad opera delle forze di sicurezza turche con la collaborazione delle intelligence occidentali ed una grave responsabilità dell’Italia e del suo premier Massimo D’Alema (che non concesse lo status di rifugiato politico ad Öcalan quando si trovava in territorio italiano), Apo si trova rinchiuso nell’isola carceraria di Imrali di cui è l’unico prigioniero. Durante il processo e attraverso diversi scritti dal carcere, Öcalan ha apportato una sostanziale revisione della strategia politica del Pkk, chiedendo ai suoi membri di rinunciare alla lotta armata per favorire l’apertura di un processo di pace ed approcciando la strada del “confederalismo democratico”, tracciata dal filosofo dell’“ecologia sociale” Murray Bookchin. È questo oggi il fondamento della Carta del Rojava e della strategia seguita 19


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anche dai partiti di riferimento del movimento in Turchia, il Bdp e l’Hdp, e in Siria, il Pyd. Il Bdp, il Partito della Pace e della Democrazia, è il partito con il quale il movimento si presenta alle elezioni in Turchia nelle zone a maggioranza curda del sud est del Paese ed è nato nel 2008 in seguito alla chiusura del precedente partito a causa dei suoi legami con il Pkk. L’Hdp quest’anno correrà per la prima volta alle elezioni generali in Turchia del 7 giugno. Entrambi i partiti non vogliono essere un’espressione monoetnica dei curdi, ma al contrario rappresentare tutti coloro i quali vogliano sostenere i principi del confederalismo democratico. In Siria il Pyd partecipa alle elezioni democratiche nelle regioni proclamatesi autonome nel gennaio 2014, nel mezzo della guerra civile siriana. Il Rojava è diviso amministrativamente in tre cantoni privi di continuità territoriale. Il più grande, il cantone di Cizire si trova ad est, al confine con la Regione del Kurdistan Iraqeno (KR-I) e la Turchia e conta quasi due milioni di abitanti. Quello centrale è il cantone di Kobane, mentre più a ovest, sempre al nord della Siria sul confine con la Turchia, vi è il cantone di Afrin. Come associazioni, collettivi, centri sociali e singoli abbiamo sentito la necessità di recarci a Kobane e a Suruç, in territorio turco a pochi metri dal confine, per rendere visibile la nostra solidarietà a chi non si è mai arreso e continua a lottare per la propria autonomia. Se per loro resistere è l’unica scelta possibile di fronte alla minaccia jihadista, per noi significa sostenere una possibilità concreta, una terza via al fascismo islamico e a quello nostrano che si nutre di islamofobia. Significa non fermarsi davanti alle immagini stereotipate che ci raccontano i mass media e cercare di affrontare i problemi in maniera radicale. Se è l’utopia ad aver mosso il nostro cammino, quella che abbiamo incontrato nel viaggio è un’utopia ancora più grande che ci spinge ad essere ancora oggi presenti su questi territori. Come in tutte le resistenze cruciali della storia del Novecento, Kobane ha saputo parlare non soltanto al popolo curdo, ma al mondo intero. Lo ha fatto contrapponendo alle brutalità delle gang jihadiste tutta l’umanità di un progetto politico 20


Introduzione

estremamente innovativo. Il “confederalismo democratico” ha colto nello Stato nazione e nel nazionalismo il cuore del problema immaginando contemporaneamente un’alternativa radicale e concretamente realizzabile. Ed è proprio dal Medio Oriente, dove il nazionalismo di importazione occidentale ha oppresso un’infinita varietà di culture, religioni, etnie e lingue, che il progetto del “confederalismo” ha saputo affermarsi. Un progetto che parla anche a tutte le democrazie occidentali dove emergono forze reazionarie che si rifiutano di accettare la ricchezza che la molteplicità di un mondo sempre più connesso e globalizzato è in grado di offrire. In questo scenario ha avuto inizio la nostra staffetta che ha unito attivisti di diverse città, in un rinnovato spirito internazionalista come non succedeva da diversi anni. Abbiamo dato vita ad una pratica di solidarietà e di conoscenza reciproca importante per chi è abituato ad agire localmente nei propri territori, ma a pensare che le soluzioni a problemi come il militarismo, le migrazioni, l’ecologia, la finanza, i fondamentalismi religiosi, il patriarcato debbano essere globali. Per alcuni di noi è stata la prima esperienza del genere, altri avevano già attraversato i movimenti globali di inizio millennio e le carovane in Palestina, in Chiapas, nei Paesi baschi o proprio in Kurdistan. Questa volta abbiamo però scelto di non partire con grandi delegazioni, vista la situazione logistica molto complicata a causa della guerra. Siamo partiti con delle staffette composte da pochissime persone, per rispettare le richieste dei compagni curdi della municipalità di Suruç che ci avrebbero ospitato. Il coordinamento è stato costante con loro anche in Italia, attraverso Uiki Onlus, l’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia. Nei nostri viaggi abbiamo cercato di raccontare in prima persona quello che accadeva e dare voce ai veri protagonisti di questa resistenza, partigiani che per noi sono diventati immediatamente fratelli e compagni di cui poterci fidare. Con le staffette di Rojava Calling siamo entrati più volte nei campi profughi, per supportare il lavoro dei molti volontari e per vedere con i nostri occhi la reale situazione. Abbiamo 21


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provato a dare un aiuto concreto cercando di ascoltare i loro bisogni e di sostenerli con ogni mezzo a disposizione, dal lavoro manuale all’invio di farmaci e personale medico. Abbiamo cercato di sostenere come potevamo l’autogestione che ha permesso la vittoria della resistenza di Kobane. E così siamo partiti da Napoli, Milano, Bologna, Roma, dalle Marche, dal Veneto e dalla Liguria, e ci siamo incontrati per capire come portare avanti un lavoro comune di aiuto e sostegno. La conoscenza profonda ci ha permesso di avviare la parte più importante della nostra campagna: la costruzione di azioni concrete affinché l’Europa riconosca e sostenga l’autonomia democratica del Rojava, cancelli il Pkk dalle liste del terrorismo internazionale e intraprenda azioni concrete per la liberazione di Abdullah Öcalan dalle carceri turche. Perché pensiamo che dalla sopravvivenza del Rojava passi gran parte delle possibilità di vedere un futuro di pace, libertà e democrazia in Medio Oriente. Da Kobane e dai campi profughi, siamo tornati in Italia per raccontare quanto può fare una comunità indipendente e determinata, e per tenere insieme la voce di chi vuole sostenere questa battaglia attraverso azioni di solidarietà e cooperazione. È una scommessa capace di aprire una relazione vera fra noi e il popolo curdo. Perché dove per ottusità e tatticismi politici non arrivano le istituzioni ed i governi vogliamo provare ad agire noi, dal basso, liberi da burocrazie nocive. Liberi da scuse. Da questa scommessa nasce questo libro. Un diario di viaggio collettivo raccontato in prima persona plurale dalle decine di attivisti che si sono succeduti nelle staffette. Un racconto corale dei veri protagonisti di questa straordinaria resistenza, guardando con i propri occhi e senza tanti giri di parole.

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17 ottobre 2014 Arriviamo a Suruç la mattina. Prima tappa Istanbul. Seconda Sanliurfa e poi Dolmush che in poco più di quaranta minuti porta tra le strade sterrate e fangose di Suruç. Appena arrivati ci scolliamo di dosso tutte le paure che ci avevano introiettato fino al giorno prima e ci facciamo prendere dalla sensazione familiare che le città curde regalano ad ogni viaggiatore. Gli stranieri sono pochissimi e noi siamo i soli italiani. La curiosità intorno al nostro strano gruppo è enorme così come l’ospitalità. Ci fermiamo tra i tanti in un bar, una stanzetta fatiscente con le pareti verde acqua e due tavolini di plastica, però ha il wi fi. Il proprietario e i ragazzi che lo frequentano diventano immediatamente amici e tra fotografie e strette di mano, le prime ore trascorrono come fossimo in un qualunque bar di una periferia napoletana. Suruç, si capisce subito, è una città divisa. Da una parte, il tetro colore dell’esercito inviato dal Governo di Ankara per impermeabilizzare ancora di più la frontiera, chiudendo cinicamente ogni varco, ogni strada, ogni via d’accesso al confine. Dall’altra, l’umanità viva e vera dei curdi. L’enorme massa umana che si distribuisce tra i campi profughi in cui si accalcano le famiglie dei partigiani (soprattutto anziani e bambini) che lottano incessantemente dall’altra parte dei blocchi. Una massa a cui si uniscono progressivamente anche i feriti, che tornano indietro e superano clandestinamente il confine per farsi curare, rischiando l’arresto e gli abusi dei militari. 25


Rojava calling

Una delle prime immagini che ci colpisce, e che racconta la violenza della frontiera turca, è quella dei giovani, tanti, che si accalcano sulle colline in attesa che si apra una porta, un varco, una possibilità di ingresso che gli permetta di unirsi alla resistenza. La sensazione è che questa città stia solo aspettando di speronare collettivamente il muro di soldati e di vergogna per invadere Kobane e riprendersi i territori dalle mani fasciste dell’Isis. Da dentro invece arrivano continuamente notizie affatto rassicuranti sulla scarsità di mezzi, munizioni e cibo, nonostante lo sforzo immenso della resistenza nell’organizzazione dei passaggi clandestini notturni. Tra poche ore incontreremo il sindaco della città e proveremo a farci raccontare cosa è accaduto nelle ultime settimane in questo posto ai confini dell’Europa, dove va in scena una delle più eclatanti rappresentazioni dell’ingiustizia delle frontiere. Intanto a Kobane si combatte ancora. Sono cessati da pochi minuti spari ed esplosioni ad appena un km da noi e proprio ora iniziati i bombardamenti aerei sulle basi d’appoggio dell’Isis.

18 ottobre 2014 Ieri pomeriggio, dopo alcuni giri tra i campi, abbiamo chiesto di poterci fermare in una stanza per riprenderci dalle due notti insonni e dal lungo viaggio. Il tempo di infilarci in uno di quei giacigli curdi, fatti di coperte ammassate le une sulle altre per far calore e spessore, e ci accorgiamo che i media italiani, con il solito pressapochismo sensazionalista, stanno lanciando la notizia della liberazione di Kobane. Schizziamo fuori di casa per cercare di capire cosa stia accadendo. Kobane è a un soffio da Suruç, e quello che accade dall’altra parte della frontiera ha ripercussioni immediate per le strade della città. È bastato poco per capire che i media Italiani, come al solito distanti e incapaci di capire le dinamiche reali, hanno preso una cantonata. L’ennesima. Chiediamo in giro alla gente e tutti ci dicono senza meraviglia che i combattimenti stanno 26


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proseguendo incessantemente. A quel punto, rinunciato al riposo, decidiamo di spingerci fino alla frontiera, alle porte di Kobane, per arrivare il più vicino possibile al blocco dell’esercito. Sentiamo chiaramente spari, esplosioni, voci, urla. Rumori di una città in guerra. Anzi di una città che resiste. Attorno a noi, nella campagna che circonda la città, c’è tantissima gente pronta a sconfinare per assestare i colpi definitivi allo Stato Islamico e a cacciarlo dalla comunità autonoma e resistente del Rojava. Davanti all’aumentare dei corpi in attesa, l’esercito serra le fila, fa accorrere mezzi a difesa del confine. Restiamo sulla frontiera fino a quando il cielo non comincia a farsi scuro. Senza luce sarebbe difficile e pericoloso tornare indietro, per cui ci incamminiamo nuovamente verso la città. Appena rientrati ci informano che Ismail Kaplan, un pezzo grosso del Bdp di Suruç, ci aspetta per un incontro. Il Bdp, il Partito della Pace e della Democrazia, è un partito con il quale i curdi si presentano alle elezioni in Turchia nelle zone a maggioranza curda del sud est del Paese ed è nato nel 2008 in seguito alla chiusura del precedente partito a causa dei suoi legami con il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan fondato nel 1978 da Abdullah Öcalan. Raggiungiamo Ismail al tavolino di un bar. Pochi istanti per superare i convenevoli e poi iniziamo una chiacchierata densa e sincera, tra gente che difende la stessa idea di mondo. Ci dice innanzitutto che Suruç e Kobane sono la stessa comunità, divisa artificiosamente da una cortina impietosa. È qui che arrivano tutti quelli che vogliono passare. Parla a lungo dei campi profughi e dell’estrema difficoltà di gestione della quotidianità con le sole forze dell’autogestione e dell’autofinanziamento. Il Governo di Ankara interviene in queste zone solo per sparare e bombardare. Non fa altro. L’abbandono e l’accanimento su un pezzo di mondo apparentemente così insignificante, ci spiega Kaplan, sono in realtà motivati solo dall’estrema paura che il Rojava incute in tutte le forze conservatrici del mondo. Il Rojava è una contraddizione a cielo aperto nel mezzo della barbarie. Ed è per questo che bisogna difenderne l’autonomia e oggi soprattutto l’esistenza. 27


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20 ottobre 2014 Le ore trascorrono mentre senza posa cerchiamo di capire e orientarci. Sono giorni importantissimi, in cui le forze di autodifesa curde tornano a controllare più della metà della città strappandola dalle mani di daesh, acronimo dell’autoproclamatosi Stato Islamico che viene utilizzato in maniera spregiativa dato che i jihadisti vorrebbero sentir pronunciare il nome per intero. Questo avanzare fa bene all’umore e i successi della guerra si leggono sui volti della gente. Suruç è la città del cotone e del melograno. Un grande obelisco di fronte al municipio ricorda l’oro di questa terra. Nelle immediate vicinanze c’è la piazza centrale del paese, lo spazio di incontro di centinaia di familiari della resistenza che passano intere giornate a organizzare gli aiuti, cercare i propri cari e trasmettere informazioni nel mezzo di una città che, nonostante la solitudine e le difficoltà, non perde la dignità e non si ferma. I negozi sono aperti, così come le scuole e le banche, funzionano i mercati e i ristoranti, e le sale da tè sono gremite di uomini e donne che si scambiano idee, informazioni e si impegnano a trovare il modo di far arrivare gli aiuti al fronte e nei numerosi campi profughi che la città ospita. Decidiamo di spostarci a Mesher, uno dei tanti nobet, i presidi autorganizzati ed autogestiti con l’intento preciso di arginare eventuali scorribande dell’Isis che da mesi entrano ed escono dal confine per raccattare armamenti, generi alimentari e uomini. In questo quadro i presidi sono l’unica sicurezza. I nobet sono pienamente coinvolti, anzi travolti dalla guerra, eppure sono quotidianamente messi in sordina nei racconti mediatici. Nel descrivere la guerra a volte bastano le immagini dal fronte, le caricature embedded di un conflitto complesso ridotto all’osso o a beceri giochi politici, con semplificazioni e luoghi comuni. A Mesher conosciamo moltissimi curdi che entrano ed escono da Kobane, dandosi il cambio con gli altri fratelli e sorelle che aspettano al di là del confine. Uno di questi è Barac, un rappresentante istituzionale del Cantone di Kobane. 28


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Con lui facciamo una lunga chiacchierata, intervallata come sempre dal sapore del çai. “Siamo sotto assedio da più di un anno – ci dice – e da cinque settimane i daesh sono penetrati dentro la città. A nord siamo a ridosso dell’esercito turco, ed esposti ai passaggi tattici che i daesh riescono a compiere fra nord-est e nordovest infiltrandosi dal lato turco. A ovest abbiamo il fronte più protetto; siamo riusciti a respingere i jihadisti fino al villaggio di Tell Shaer, con un raggio di due km. I fronti aperti sono quello meridionale e quello orientale. A sud, daesh può contare sui rinforzi da Raqqa; a Est, controlla ancora un 20% di città. Liberare Kobane significa in pratica riuscire a far retrocedere i jihadisti di almeno tre km, e mantenerli a distanza. Ormai controllano una fascia di regione troppo ampia tutto intorno a noi per sperare in qualcosa di più che forzarli alla tregua. Durante l’assedio i daesh ci hanno tagliato l’acqua; la prima urgenza è stata quella di evacuare bambini e anziani verso Suruç. Noi che siamo rimasti ci siamo organizzati scavando pozzi e razionando quanto rimasto nei container delle case abbandonate. Zucchero, sale, farina vengono reperiti con lo stesso sistema. Ogni tanto, dopo lunghe trattative, il governo turco permette alla municipalità di Suruç e ai villaggi vicini di mandarci del cibo, e apre il passaggio lungo la strada principale di Mürşitpınar che come vedete entra dritta dentro Kobane. Le armi e le munizioni invece non possono in alcun modo superare i controlli turchi, e sugli altri fronti siamo circondati. Quindi lo Ypg ha istituito dei mini-commando incaricati di rubare le armi ai jihadisti. Fin dall’inizio abbiamo combattuto con tattiche di guerriglia. Non si può fare altro contro i carri armati e i missili a lunga gittata dei jihadisti. La tattica più efficiente sono le imboscate notturne, perché i jihadisti non conoscono il terreno e sono meno agili negli spostamenti. I partigiani si organizzano in commando di massimo sei combattenti che procedono a doppia mandata: un primo raid va in avanscoperta e apre il fuoco, un secondo gira fra le case coprendo le spalle e raccogliendo le armi. Il fatto che da qualche giorno i bombardamenti occidentali colpiscono obiettivi mirati ci ha consentito di mettere da parte qualche arma in più”. 29


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«Il varco è aperto e c’è lo spazio per entrare. Entriamo tutti uno dopo l’altro. I militari scendono e urlano in turco. Noi restiamo schiacciati a terra per un tempo che ci pare interminabile. Abbiamo i fucili puntati addosso, vicinissimi. Ci sentiamo poco tra noi. Non ci troviamo. Lentamente e strisciando sul terreno ci allontaniamo da quel maledetto filo spinato e ci contiamo. Una di noi è ferita al dito. Abbiamo il fiatone e i pantaloni rotti. Aspettiamo seduti per terra ancora qualche istante fino a che non compare il combattente venuto ad accoglierci e che con uno di quei sorrisi curdi che abbiamo imparato a conoscere a Suruç ci dà il benvenuto in Rojava».

Isbn 978-88-98841-17-2

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