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Matteo Pucciarelli Giacomo Russo Spena

Podemos

La sinistra spagnola oltre la sinistra

Prefazione di Moni Ovadia



Tempi moderni



Podemos

La sinistra spagnola oltre la sinistra

Matteo Pucciarelli Giacomo Russo Spena Prefazione di

Moni Ovadia


Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purchÊ non a scopo commerciale. Š 2014 Edizioni Alegre - Soc. cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma e-mail: redazione@edizionialegre.it sito: www.edizionialegre.it

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Indice

Prefazione Nosotros también, si queremos podemos! di Moni Ovadia

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Capitolo uno Dove nasce la rivolta Il prezzo della ripresa Sinistra uguale destra? L’origine della crisi Le banche nel mirino I soldi e gli sprechi Il pubblico, brutto e cattivo I corrotti

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Capitolo due Il movimento degli indignados Una lotta globale “Primae noctis” a Puerta del Sol L’altro populismo Repressione e bavaglio

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Capitolo tre 57 La nascita di Podemos Pablo, il caro leader 58 L’intuizione 61 Il movimento prende vita 63 Le idee e il programma 66 Un’altra Europa 70 Dal movimento al partito 75 Il gruppo dirigente 80


Capitolo quattro 83 Da Gramsci a Laclau, l’altra faccia del populismo L’innovazione sul web 87 M5S e Podemos: affinità e (molte) divergenze 89 Se gli squali hanno paura 99 I pericoli del successo 102 L’organizzazione 103 La sfida del futuro 105 Dialogo tra Pablo Iglesias e Alexis Tsipras

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Ringraziamenti

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Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. Antonio Gramsci, Indifferenti, 1917. Il popolo, in questo caso, è qualcosa di meno della totalità dei membri di una comunità: è una componente parziale che ciononostante aspira a essere considerata l’unica totalità legittima. Ernesto Laclau, La ragione populista, 2008.



Prefazione

Nosotros también, si queremos podemos! di Moni Ovadia

Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena, giornalisti rispettivamente di Repubblica e della prestigiosa rivista MicroMega diretta da Paolo Flores d’Arcais, con questo libro sul movimento politico spagnolo Podemos continuano un orizzonte di ricerca che loro stessi hanno di recente inaugurato con un agile e prezioso saggio sul partito della sinistra greca Syriza: un’inchiesta work in progress sulle esperienze vincenti di movimenti fondati sui registri valoriali delle culture della sinistra “radicale”, ma allo stesso tempo del tutto inediti. L’indagine analizza il proprio oggetto nel suo farsi senza rinunciare ad approfondirne gli aspetti problematici e teorici. Il primo e innegabile merito di questo lavoro è quello di permetterci di avere una visione articolata e non superficiale di un fenomeno politico e sociale che sta irrompendo nel panorama delle asfittiche democrazie che governano i paesi della Ue, riflesso delle scelte della troika fondate sul nefasto ibrido di austerity e politiche iper liberiste pro bono di banche e speculatori. Podemos, espressione di una sinistra del terzo millennio che si colloca oltre la sinistra rispetto alle espressioni con le quali l’abbiamo conosciuta fino ad ora, ha fatto irruzione nel contesto politico spagnolo con un impeto imprevedibile, fino a scompaginarlo. Pucciarelli e Russo Spena ne seguono passo dopo passo il percorso, le evoluzioni e gli sviluppi. Partendo da un movimento di protesta e contestazione, gli ormai celebri indignados, nel giro di pochi mesi, grazie ad una dirigenza giovane e dinamica


Podemos

e con un importante background di studi politico-economici e filosofici, Podemos è riuscito a diventare secondo i sondaggi il primo “partito” di maggioranza relativa in Spagna, replicando il successo di Syriza in Grecia. Ci spiegano come è stato possibile che idee definite “estremiste” dalla vulgata istituzionale, abbiano fatto breccia negli orientamenti di cittadini che non vengono da culture politiche radicali tipiche della tradizione e dei principi della sinistra. Podemos è innanzitutto un movimento sorto dal basso per rispondere alle devastazioni di una crisi che ha colpito tutti i settori della società ad eccezione dei privilegiati, dei “super ricchi” e della casta politica che in Spagna è stata protagonista di indecenti scandali quasi come in Italia. Il movimento degli indignados, parente di quello di Occupy Wall Street, ha inaugurato un nuovo obiettivo: non più la maggioranza politica del 51% o giù di lì, ma il 99% contro l’1% oligarchico e antidemocratico di “super privilegiati”, che fondano il loro potere smisurato sulla creazione esponenziale di un mondo di sconce disuguaglianze attraverso la precarizzazione dell’esistenza stessa, non solo del mondo del lavoro dipendente ma anche di una classe media in via di estinzione. Partendo dalla mobilitazione della società civile Podemos, con lungimiranza, ha respinto l’etichetta di movimento di sinistra dichiarandosi “né di destra né di sinistra”. Perché lo ha fatto se ha un programma politico radicalmente orientato a sinistra, di netta ispirazione antifascista e antirazzista? Per prendere le distanze dalla sinistra del ceto politico e da una militanza sclerotizzata ed autoreferenziale che da anni non parla più alla società, neppure ai più deboli e sfruttati, ma anche per rivolgersi al 99%, perché non si tratta solo di conquistare una vittoria elettorale ma di ambire a cambiare un sistema ingiusto e corrotto con un vastissimo consenso, unica vera garanzia di riuscita. Il successo di Podemos non nasce tuttavia solo dalla visione sociale e ideale ma anche, e in misura rilevante, dal suo leader carismatico Pablo Iglesias, soprannominato affettuosamente el coleta per via del codino che porta orgogliosamente dall’età 12


Prefazione

di quindici anni. Professore di scienze politiche all’università “Complutense” di Madrid, eurodeputato, Iglesias ha un curriculum di alto profilo accademico e non solo. È un politico di orientamento inedito, capace di tenere testa ai soloni più navigati del ceto di potere del Pp e del Psoe nei talk show televisivi, che ritiene importanti perché ancora ambito di formazione dell’opinione politica della maggioranza dei cittadini. Ma naturalmente Iglesias è anche un grande sostenitore della rete come strumento imprescindibile di una democrazia dal basso. Per l’uso di internet, per la leadership carismatica, per l’ispirazione populista e per la predilezione del rapporto diretto con i cittadini vi è chi ha apparentato Podemos ai nostri Cinque Stelle. Ma se ci sono affinità formali che motivano il parallelo, più grandi, ci fanno notare Pucciarelli e Russo Spena, sono le differenze sostanziali: il programma decisamente di sinistra di Podemos, il suo retroterra antifascista e di difesa dei diritti dei migranti e la capacità dell’organizzazione sul territorio, solo per citarne alcune. Inoltre in Podemos non è presente il tipo di leaderismo alla Grillo-Casaleggio. In Europa fa parte del Gue e ha stretto una solida alleanza con Syriza mentre Grillo ha cercato l’alleanza con Farage, leader euroscettico paraxenofobo. Gli autori, dopo aver delineato con chiarezza e vivacità partecipe il profilo identitario di Podemos, concludono opportunamente la loro disamina con un’analisi critica degli aspetti problematici e delle difficoltà che la pur galvanizzante utopia di Podemos verosimilmente si troverà ad affrontare quando la straordinaria proposta scenderà nell’agone della politica operativa. In un mondo globalizzato “l’utopia in un solo paese” non è possibile, e le forze del privilegio sono potenti e molto attrezzate. La grande rivoluzione che Podemos propone deve trovare istanze di mobilitazione in tutta Europa. E per quanto riguarda l’Italia in particolare è ora che i militanti democratici abbandonino le anguste prospettive di una sinistruccia di risulta e tornino davvero ad occuparsi dei problemi dei cittadini. Nosotros también, si queremos podemos!

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Podemos



Capitolo uno

Dove nasce la rivolta

17 ottobre 2014, Madrid, calle Zurita Mezzogiorno di sole, sembra ancora estate. Miguel Urbán arriva tutto trafelato e ordina un caffè. Poi un secondo. Infine un terzo. Nel giro di dieci minuti. «Da noi si usa così», dice sornione. Il suo iPhone trilla in continuazione, la mela morsicata impera anche qui ma la custodia è militante: sul retro c’è il faccione di Karl Marx che oscura il marchio. È un fiume in piena, parla veloce, incrocia date e incontri, fatti e sensazioni, passato, presente e futuro. Del resto è stato in Italia pochi giorni prima proprio per questo: per spiegare cos’è Podemos, e soprattutto come si fa. Ovvero, come si crea un movimento-partito dal nulla, come lo si fa arrivare al 25 per cento dei consensi (secondo i sondaggi) neanche un anno dopo la sua nascita. Nei circoli della sinistra nostrana, quella che non si riconosce nel “riformismo” di Matteo Renzi, ci si entusiasma per quello che avviene altrove. Magari in Grecia, con Syriza, con Alexis Tsipras. O con un occhio alla Spagna, con Podemos, appunto. Ma se nel primo caso tutto è abbastanza chiaro sin dal nome del partito, che tradotto sta per “coalizione della sinistra radicale”, nel secondo le novità sono tante e tutte insieme, l’animale è strano e accende fantasie forse maggiori. «Podemos è un processo costituente, figlio del movimento degli indignados. Dopo mesi di resistenza e conflitto nelle strade 17


Podemos

del nostro paese, raccoglie l’immenso desiderio di cambiamento e lo inserisce in una strategia politica. Questo il nostro merito. Veniamo dal basso, per sconfiggere l’alto», spiega Urbán in trenta secondi. E sono queste due le parole che ricorrono con frequenza: l’alto e il basso. Sopra e sotto. Non destra e sinistra. Trentaquattro anni, perfetto look da attivista con jeans e maglietta politica che inneggia a rivolte e resistenze, nella vita di tutti i giorni Urbán fa il consulente editoriale. «Sono precario – spiega – come la maggioranza dei miei coetanei, in Spagna e credo anche da voi». Il suo quartier generale è una libreria-caffè nel centro di Madrid, esattamente nel quartiere popolare e pittoresco di Lavapiés, dove si trovano i testi sacri del marxismo, ma pure Rossana Rossanda e Norberto Bobbio, o anche riviste come New Left Review. Sulla porta di ingresso tra tanti c’è un adesivo: la faccia di una combattente palestinese, fucile in spalla. A distanza di 50 metri si vede una specie di magazzino, venti metri quadrati. «È la sede nazionale di Podemos», ci fa segno con la mano. Eccola: una scrivania all’ingresso con il pc portatile, molti scatoloni con materiale di propaganda, manifesti e magliette, sedie sparse qua e là. Anonima, disordinata, eppure accogliente proprio perché informale. Da qui hanno organizzato una campagna elettorale lampo durata tre mesi, portato a casa l’8 per cento dei consensi, cioè 1,2 milioni di voti, e mandato in Europa cinque deputati. Urbán è stato uno dei responsabili dell’organizzazione di Podemos (il cosiddetto “equipo técnico”) fino al 15 novembre 2014, giorno in cui si è definito – dopo un lungo “congresso” – il nuovo organigramma del movimento-partito. È stato il primo dei non eletti della lista alle scorse elezioni europee, eppure presto potrebbe andare a Bruxelles, a sedere insieme agli altri nel gruppo del Gue, la sinistra rosso-verde. Arriveranno delle dimissioni da eurodeputato di alcuni degli eletti tra le fila di Podemos molto presto, e allora toccherà a lui; ma questa è un’altra storia. Ci racconta subito un aneddoto. Siamo agli albori di Podemos, è il mese di febbraio del 2014, tra gli attivisti ci si 18


1. Dove nasce la rivolta

interroga ancora sulla capacità o meno di candidarsi alle europee, intanto nel paese circola un dettagliato appello di presentazione del progetto politico. Un appello che non dà ancora per scontata la formazione della lista elettorale. Si ha il timore di non riuscire a raccogliere le firme necessarie per la lista, che alle spalle non ha alcuna formazione politica organizzata. Il dibattito è serrato, il rischio di farsi male è alto. Urbán e gli altri “quadri” decidono che occorrerà girare come trottole per la Spagna, da un’assemblea pubblica all’altra, per avere il polso della situazione, per capire se c’è davvero uno spazio politico ed elettorale per questo esperimento. La prima assemblea è a Saragozza. Un signore di mezza età – al termine dell’affollato incontro – gli si avvicina e dopo i convenevoli gli domanda se è iscritto al circolo di Podemos di Saragozza. «Circolo? Mah, io sono di Madrid, ma di fatto non esiste ancora un’organizzazione territoriale del movimento», è la risposta. «Ma come? Io sono il portavoce di Podemos Alagòn [paesino di poche migliaia di anime dell’Aragona, ndr] e siamo già attivi da giorni». Insomma, è la stessa sensazione di quando ti accorgi che la realtà corre più veloce di ogni aspettativa. Ovunque i promotori trovano una gran voglia di partecipare, di dire la propria, con passione e anche con una certa rabbia. Se nella testa dei “dirigenti” c’erano ancora dubbi e perplessità, in Spagna si era già sedimentato il percorso politico di Podemos. Una marcia iniziata quasi 3 anni prima. Quando il 15 maggio 2011 (diventato la sigla “15M”) un gruppo di cittadini appartenenti alla piattaforma web “Democrazia Real Ya!” (Democrazia Reale Ora) – con il supporto di organizzazioni come Attac, Intermon Oxfam, Ecologisti in Azione o “Juventud Sin Futuro” (Giovani senza Futuro) – si dà appuntamento alla Puerta del Sol di Madrid per protestare contro le misure del governo, che taglia la spesa pubblica e aumenta la pressione fiscale. Ma questo – come detto – era tre anni fa. Cosa è accaduto nel frattempo? E soprattutto: la crisi in Spagna non era finita?

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Podemos

Il prezzo della ripresa Se ci fermassimo ai proclami e ai titoli dei giornali, allora sarebbe già una storia a lieto fine. “Così la Spagna ha battuto la crisi” (Il Sole 24 Ore); “Il rimbalzo spagnolo, una ripresa sorprendentemente forte guidata dalle esportazioni” (Economist); “La corsa di Irlanda e Spagna: le grandi malate dell’Eurozona sono in via di guarigione” (La Repubblica); “Spagna, la ripresa si rafforza e comincia a creare lavoro” (sempre Il Sole 24 Ore); “Spagna, lezione su come si esce dalla crisi” (Libero) e così via. Gli elementi per un racconto avvincente ci sono tutti: la cresta dell’onda, il successo, seguito da una inaspettata caduta rovinosa; l’arrivo dei severi controllori, unici possibili salvatori con la loro medicina amara; il sacrificio collettivo di un popolo che non aveva capito che il mondo stava cambiando; e alla fine il nuovo modello, moderno ed efficiente, che porta fuori dal pericolo la nazione. La Spagna, invece, non è mai uscita fuori dalla crisi. Se “crisi” significa, nei fatti, un peggioramento della qualità della vita dei propri cittadini, allora non c’è luce in fondo al tunnel. Nell’estate del 2014 il Fondo monetario internazionale – uno dei “severi controllori” – si rallegrava per il buon lavoro compiuto fino a quel momento: «Le condizioni finanziarie sono drasticamente migliorate, con i rendimenti del debito sovrano ai minimi, una solida ripresa degli investimenti aziendali e un inizio di ripresa per i consumi privati». I freddi numeri danno ragione al Fmi: la Spagna è uno dei Paesi a maggior ritmo di crescita tra gli ormai numerosi malati d’Europa. Il suo “invidiabile” +1,2 per cento del Pil la fa quasi passare da locomotiva, soprattutto se si pensa all’Italia e ai suoi tre anni di fila con il segno “meno”. C’è poi un altro dato che sembrerebbe confermare l’entusiasmo della cosiddetta “troika”, composta da Ue, Bce e Fmi. Da quando il governo di centrodestra guidato dal popolare Mariano Rajoy si è insediato a Madrid (era il novembre 2011) la disoccupazione si è ridotta dai 5 milioni ai 4,4 di fine luglio 2014. 20


1. Dove nasce la rivolta

Ma basterebbe scavare un po’, andare oltre la patina, per scoprire una realtà diversa. Lo ha fatto Roberto Centeno, professore di Economia alla “Complutense” di Madrid sul quotidiano Confidencial. Partendo dalla constatazione che comunque sia un tasso di disoccupazione del 25 per cento è e resta una “vergogna”, l’economista ha spiegato qual è stato il “trucco” utilizzato dal premier per contare i disoccupati. «Il metodo di calcolo conteggia un nuovo posto di lavoro anche quando se ne perde uno di 40 ore e se ne creano due di 10. E allora dicono che la situazione è migliorata, quando è esattamente l’opposto». Con un giochetto del genere la Spagna ha magicamente creato 402mila posti di lavoro, ma in realtà sono 61mila se le cifre vengono “destagionalizzate” e «si correggono le bugie sulla popolazione attiva», è l’analisi di Centeno. Che aggiunge: «Il numero di ore totali di lavoro è sceso di 3,8 milioni; cosa che, insieme alla precarietà e ai salari da miseria, sta portando la Spagna verso il Terzo Mondo, verso una società duale: una élite sempre più ricca, una burocrazia gigantesca di raccomandati dipendenti del regime e la maggior parte della popolazione impoverita e indebitata»1. «Il frutto avvelenato dei programmi di austerità è esplicitamente il calo di prezzi e salari», sottolineava Maurizio Ricci su la Repubblica2. «Madrid ha accettato l’aiuto, ha agito poco sul deficit, ma su richiesta europea – scriveva Federico Fubini, ancora sul quotidiano diretto da Ezio Mauro – ha cambiato le regole del lavoro in un modo che persino Matteo Renzi riterrebbe troppo rivoluzionario: gran parte dei contratti si fanno in azienda, non in affollati “tavoli” centralizzati nella Capitale, mentre i giudici non mettono bocca nei licenziamenti economici»3. Che poi sarebbero i licenziamenti low cost: 20 giorni di indennizzo per anno lavorato (prima della riforma erano 45) per un massimo di 1  El Confidencial, 14 luglio 2014, “España hacia el suicidio”. 2  La Repubblica, 8 gennaio 2014, “I Paesi più deboli escono dall’emergenza. Il prezzo è salato: salari giù e poco lavoro”. 3  La Repubblica, 5 giugno 2014, “Va meglio di noi anche l’euro-periferia, Spagna e Grecia corrono il doppio”.

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«La politica è desiderio. Fare politica nel XXI secolo è capire le condizioni di sfruttamento dell’operaio cinese, la negazione del diritto allo studio della studentessa spagnola, i problemi di salubrità nelle favelas di Rio di Janeiro, la precarietà del ricercatore italiano o la rabbia del gay russo. La politica è desiderare di essere la parte che crea un altro mondo».

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