Alegre la mia guerra di spagna

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SCRITTURE RESISTENTI



La mia guerra di Spagna


Titolo originale: Ma guerre d’Espagne à moi, Ed. Denoël, Paris 1976 Prima edizione italiana: Bompiani, 1977 © 2016 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Grafica: Alessio Melandri

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La mia guerra di Spagna Mika Etchebéhère Prefazione Goffredo Fofi Traduzione Serena Nozzoli



Prefazione

La “guerra di Spagna” non finisce mai di Goffredo Fofi

Ci riguardava, ieri, la guerra di Spagna, per lo slogan lanciato da Carlo Rosselli dopo la battaglia di Guadalajara in cui si fronteggiarono, tra i repubblicani e i franchisti, anche soldati italiani spediti lì dal fascismo e membri italiani delle Brigate Internazionali: “oggi in Spagna, domani in Italia”. Ogni guerra è guerra civile, è stato detto da molti, tra gli altri da Paul Nizan negli anni Trenta dello scorso secolo, non così lontani nei loro insegnamenti da quelli che viviamo. Su questa convinzione non sarebbero affatto d’accordo in Italia i giornalisti-propagandisti dell’attuale regime, tra la Repubblica di Napolitano e Scalfari (e Renzi) e il Corriere (del capitale e della finanza, e dunque di Renzi), maestri del pensiero unico e propagandisti dell’accettazione del mondo così com’è, e che contribuiscono attivamente a far diventare ogni giorno peggiore. Ma resta che la Resistenza trovò i suoi modelli nella guerra di Spagna, e in qualche modo vendicò la sconfitta di quelle speranze, e che i suoi leader avevano ben presente quell’esperienza, nel bene e nel male (anche, per esempio, nella diffidenza dei Giustizia e libertà verso i comunisti...). La guerra di Spagna fu, tutti 9


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l’hanno detto, a sinistra come a destra, la prova generale della Seconda guerra mondiale, la dimostrazione delle potenzialità di un popolo in armi (di un proletariato urbano e di un proletariato contadino) e la dimostrazione della viltà delle borghesie europee e dei loro governi, anche di quelli (primo fra tutti il Fronte Popolare francese, socialista) che più avrebbero dovuto accogliere il suo grido di aiuto, la sua richiesta di concreta solidarietà. È comprensibile che la generazione di giovani italiani cresciuta dentro e dopo la Seconda guerra mondiale vivesse con partecipe ansia le sorti della Spagna franchista, e si nutrisse del mito della Resistenza spagnola, coltivato su libri, riviste, film e cantando le canzoni di allora. Dalla pubblicazione a puntate sul “Politecnico” di Per chi suona la campana ai dischi dei Cantacronache, dall’accoglienza (comunista) degli esuli famosi nei festival dell’Unità alle manifestazioni per Grimau, su fino al ’68 e alle animate discussioni intorno al film di Resnais e Semprun La guerra è finita. Si aprì perfino un lungo dibattito sul turismo: era giusto o no andare in Spagna da turisti? C’era chi diceva giusto boicottare la Spagna di Franco e chi diceva che il turismo avrebbe portato in Spagna aria nuova e modelli altri, accelerando in tal modo la caduta del regime... La guerra di Spagna non è finita, si diceva, essa continua in altri modi e continua altrove, e promuove nuove solidarietà e nuovi scambi. Ricordo le riunioni torinesi e parigine con i compagni di “Ruedo iberico” e quelle tra i militanti dei “Quaderni rossi” e i giovani delle commissioni operaie di Barcellona e Madrid. E più tardi l’ostinazione con cui Elsa Morante volle sulla copertina di La Storia un’immagine che veniva da quella guerra, e che il romanzo si aprisse con un verso di Vallejo e finisse con due versi di Hernandez, che 10


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da quella guerra venivano. Oggi ancora la guerra di Spagna continua a influire sul nostro immaginario – di vecchi e di giovani – attraverso la vitalità della “resistenza” messa in atto in quel paese da indignati e inaccettanti, confrontata con l’abulia e povertà di una non-resistenza italiana dell’accettazione ipocrita dello status quo e dei suoi vantaggi. Tornare alla guerra di Spagna vuol dire anche – come dovrebbe accadere per ogni storia in grado di ammaestrare, di dar spinta e chiarezza al presente – parlare di noi oggi, qui. Le memorie di Mika Etchebéhère sono qualcosa di più di un promemoria storico-politico o una esercitazione letteraria. L’autrice ha vissuto quella storia da dentro, assai da dentro, e ha saputo raccontarla da vera scrittrice: non solo memoria, rivendicazione, pamphlet, e recriminazione contro i franchisti e contro coloro che, dall’interno dello schieramento repubblicano, non tennero fede, per motivi di politica altra e in previsione di una guerra ben più larga, alla necessità dell’unione tra i combattenti ma praticarono divisioni brucianti, fino a vere e proprie slealtà, veri e propri tradimenti mascherati da realpolitik; non solo questo – o questo solo di sfondo – ma la quotidiana avventura dei combattimenti, comprese le loro più interne contraddizioni, in un racconto che tanto è epico quanto doloroso e frantumato, amaro. Una rievocazione bruciante, fitta di episodi e di figure memorabili, tanti e inarrestabili perché ogni momento di quella guerra le sembrava, ed è, significativo, degno di venir ricordato. Si è impressionati, trascinati, coinvolti dalla precisione delle sue descrizioni, dalla riberesca energia ed esuberanza dei suoi ritratti, dal ritmo e dalla suspense delle azioni e soprattutto da quell’avvicendarsi di tensioni e di pause, di paure e di speranze, di scontri e di tregue che caratterizza 11


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il suo racconto: non con il respiro della grande Storia, che vede sempre alternarsi periodi di febbre e periodi di stasi, ma con quello della cronaca, ché il suo racconto è tutto dentro la febbre, e le soste durano poco. Nelle città o al fronte, nel pieno delle mischie o nelle angoscianti attese da assediati (tra le macerie di una chiesa di villaggio o nella città di Madrid l’angoscia non è diversa) o anche nel ribaltamento delle situazioni, quando da assediati si diventa assedianti, da attaccati attaccanti. “Questi uomini sono nostri nemici, domani forse li uccideremo, forse ci uccideranno loro. Eppure ci assomigliano tanto!”. Questo è una guerra civile, dove la parte di Caino e quella di Abele sono prese in carico da persone che si somigliano, che sono o potrebbero essere fratelli. Eppure, “partir bisogna”, e combattere, difendere la Repubblica è un obbligo morale e non solo politico anche quando si vedano con estrema lucidità le sue interne divisioni, e si disperi del suo futuro. La “guapa” Mika venuta da fuori guarda e riflette, guarda e registra con una memoria di ferro e con la libertà della scrittrice di vaglia, e ci restituisce a distanza volti e parole, stracci e macerie, rumori e silenzi, asprezze e dolcezze, dubbi e fiducie, conflitti col nemico e conflitti interni alla propria parte, agli amici. Da grande scrittrice oltre che da memorialista. Ha vissuto quel che racconta e quando ricostruisce la sua esperienza di combattente con dovizie di particolari, se pure qualcosa vi aggiungesse si tratta della conseguenza di un vissuto così forte, così unico, da risultarle indimenticabile: se c’è del verosimile è per precisare il vero, è fatto di vero. E le emozioni che il lettore ne ricava non sono il frutto di una mistificazione ma di un’adesione: mai, in nessun momento, dubitiamo della sincerità della 12


Prefazione

narratrice, e sempre, in ogni momento, sentiamo il suo calore e la sua passione. Li condividiamo in virtù della sua scrittura, dell’affanno e della pena del suo evocare. Grazie a letture come questa, i morti di Spagna ci parlano ancora, ci sono vicini, ottant’anni dopo; grazie a letture come questa il ’36 del Novecento può somigliare al ’16 del Duemila che viviamo, ancora estranei per nostra fortuna ai grandi macelli in corso come siamo stati estranei a quelli passati da poco, ma senza poterci dare, almeno una minoranza, al dolore delle vittime, senza esser ciechi sull’abominio delle politiche e i fanatismi degli schieramenti. E, si spera, non complici, ma aperti alla comprensione, nonostante la confusione da cui veniamo avvolti, del giusto e del vero e di chi almeno in parte li rappresenta. La “guerra di Spagna” non finisce mai.

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Alla ricerca del combattimento

Madrid, luglio 1936. Lo sciopero dello stabilimento continua. Negli alloggiamenti degli scioperanti, a Cuatro Caminos e a Chamberí, ai Barrios Bajos e a Las Ventas, la fame comincia a farsi sentire. Nei cantieri si moltiplicano gli scontri e la notte echeggia dei colpi di arma da fuoco. La destra vuole spezzare lo sciopero a ogni costo. I señoritos della Falange provano le loro mitragliette nuove di zecca sparando dalle proprie macchine sulle finestre dei sindacati. Per le strade di Madrid si sentono rumori di tutti i tipi. Circolano voci sullo scontento che serpeggia fra i militari; alcuni generali sono stati trasferiti. Viene assassinato il luogotenente Castillo, della Guardia d’assalto, un corpo di polizia creato dal governo repubblicano per controbilanciare la Guardia civile, odiata dagli operai e dalla gente di sinistra. Per le strade di Madrid c’è odore di polvere da sparo. Tutti sanno che la destra sta preparando un complotto, solo il governo pare ignorarlo; ma il popolo è sul chi vive e picchetti di operai vigilano in continuazione la sede dei sindacati. La Puerta del Sol si gonfia di suoni; l’ansia si impadronisce della città. 15


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Un altro morto: stavolta si tratta di Calvo Sotelo, uno degli uomini più in vista della reazione. La gente dice che le Guardie d’assalto hanno vendicato il luogotenente Castillo. Una tensione dolorosa ci tiene tutti svegli, come al capezzale di un agonizzante. Alla notizia della sollevazione militare in Marocco, alle Canarie, a Siviglia, il governo sembra stupito, mentre il popolo accoglie i fatti senza sorpresa e quasi con un senso di sollievo, perché, finalmente, l’ombra si dirada. Il pomeriggio del 18 luglio la speranza, con l’appello alla lotta, diventa certezza: finalmente vediamo in faccia il nemico e il nostro destino è ormai lineare; una strada dura, aspra, ma nitida, si apre davanti a noi. Lo sapevamo già? Non è questione di saperlo, ma di sentirlo; ci sentivamo le mani rattrappite nell’attesa di un’arma. Tutta Madrid si precipita per strada alla ricerca di un fucile. Notte del 18 luglio. Titoli enormi sulle prime pagine delle edizioni speciali. Il governo assicura che è padrone della situazione, che i ribelli si arrenderanno da un momento all’altro. Dalle bocche di altoparlanti collocati nelle strade dell’Alcalá, della Montera, del Carmen e della Gran Vía, i ministri esortano la popolazione alla calma e alla fiducia. È una notte blu, alta e profonda come quella di ieri, eppure diversa: una notte adolescente e matura insieme: è la notte del 18 luglio 1936. Uomini e donne sono affluiti alla Puerta del Sol da tutti i quartieri, si sono fermati un momento davanti al Ministero degli Interni, sorpresi, e hanno ascoltato il messaggio, ripetuto mille volte, che parla di ordine, di calma e di lealtà; poi, alzando le spalle hanno proseguito... Non è più il momento di parlare, ormai. Dov’è che danno le armi? Chi le 16


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ha? Il governo si deciderà ad armare il popolo, i sindacati, i partiti operai? Agli angoli delle strade le Guardie d’assalto, in tuta da lavoro e con la carabina in mano, fermano le macchine e le perquisiscono. Si è saputo che parecchi reazionari sono già partiti portandosi via armi e denaro per andare a raggiungere i rivoltosi. Si instaura una legalità nuova, in cui la tessera del sindacato o di un partito di sinistra prende il posto della carta d’identità. Le ore passano, ma nessuno ci bada: il tempo, a partire da questa notte, non si misura più come prima, in termini di tante ore di lavoro e tante di riposo; non si misura con i presto o con i tardi, col bisogna dormire o bisogna alzarsi. Il tempo è immensamente lungo quando si va da un sindacato all’altro, da un ateneo a un altro ateneo, dalla centrale della Cnt alla Casa del popolo. Percorriamo distanze interminabili alla ricerca di qualche arma e il tempo registra sprazzi di felicità quando la mano si chiude su un revolver. «Dicono che la Gioventù socialista ha ottenuto dei fucili... In via de la Flor distribuiscono revolver... A Cuatro Caminos c’è gente armata...». Gli uomini hanno dimenticato le sfumature che li separavano e ora avanzano cantando tutti insieme, mescolando i diversi inni. È la lotta finale..., Alle barricate, alle barricate..., Venite, anarchici... Il pericolo comune cementa una vasta alleanza e spezza ogni barriera. Una sola, ormai, è la discriminante fra gli operai di Madrid: da una parte stanno quelli che hanno già una pistola, un fucile da caccia o delle cartucce di dinamite; dall’altra, quelli che ancora continuano a riversarsi da Las Ventas a Cuatro Caminos, dal ponte di Segovia al ponte di Toledo, in cerca di un’arma. 17


La mia guerra di Spagna

Senza che quasi ce ne accorgessimo, il 18 luglio è diventato il 19, una luminosa domenica estiva, di cui nessuno ha pensato che fosse domenica. È un giorno denso, raccolto, perché la gente sa con più chiarezza quel che succede in certe caserme di Madrid e nessuno ascolta più i discorsi ufficiali e la milizia è appena nata e i lavoratori formano pattuglie per le strade; e perché di fronte alle canne ostili dei mauser bisogna mostrare la tessera del sindacato o un salvacondotto, e perché i señoritos si travestono da poveri e le pallottole iniziano a fischiare un po’ dappertutto, e a Madrid ci si prepara a dare l’assalto alla caserma della Montaña; perché il popolo si dimentica dell’esistenza del governo e organizza per conto proprio quella feroce battaglia che durerà quasi tre anni. Sono a Madrid da cinque giorni appena. Hippo, mio marito, è arrivato due mesi prima di me. Nelle lettere che mi spediva a Parigi, mi descriveva il clima sempre più teso creato dai molti scioperi e dalle mosse della destra in seguito alla vittoria del Fronte popolare: «...La politica è presente ovunque», scriveva il 27 maggio 1936, «più visibile ancora che a Berlino nel 1932. Anche i bambini fanno politica. Jeanne Buñuel mi ha appena raccontato una storiella divertente. Si trovava nel parco della Moncloa col suo bambino, quando una banda di monelli le è venuta incontro domandandole se era dell’Uhp. Probabilmente le avevano fatto questa domanda vedendo che portava un fazzoletto rosso al collo. “Sicuro”, dice Jeanne. “Anche il tuo marmocchio?” Il marmocchio era sui diciotto mesi. “Naturalmente”, fa la madre. “Allora, ti salutiamo, compagna”, e tutti alzano il pugno, per sottolineare l’intesa». Mio marito e io siamo andati in Spagna a cercare ciò che avevamo creduto di trovare a Berlino nell’ottobre del 18


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1932: la volontà di lotta della classe operaia contro le forze della reazione che si stavano trasformando in fascismo. Un giorno dopo l’altro, vivendo in mezzo ai militanti socialisti e comunisti, avevamo inteso i primi dire che, dato che lo sciopero dei trasporti non aveva raccolto le adesioni necessarie, dovevano astenersi dal parteciparvi, mentre i secondi, i comunisti, trattavano i socialisti da fascisti e in fabbrica facevano blocco con gli operai nazisti contro di loro. Eravamo scesi in piazza con i comunisti durante quelle manifestazioni che tagliavano il respiro alla borghesia, tanto erano folte e ordinate, gravi e minacciose come un esercito alla vigilia del combattimento. I nostri canti rivoluzionari salivano fino al cielo livido di quel 15 gennaio 1933 il cui freddo micidiale abbatteva vecchi, donne e figli di scioperanti, gli stessi che sfilavano in corteo con lo stomaco scavato dalla fame e le vesti consunte da lunghi anni di miseria. Ma in quelle cupe giornate che precedevano l’avvento di Hitler al potere – un potere che avrebbe potuto essere di chiunque avesse osato impadronirsene –, né il Partito socialdemocratico, né quello comunista vollero scatenare la lotta per afferrarlo. E le loro truppe, educate da una lunga tradizione di disciplina politica, non prendevano in considerazione la possibilità di combattere in ranghi dispersi, senza o contro i loro capi, che avevano confuso o falsato ogni cosa. E la “notte dei lunghi coltelli” cadde sulla classe operaia più lucida, più addestrata e meglio armata alla lotta degli anni Trenta. Forse è una fortuna che in questo 18 luglio 1936 non ci siano in Spagna partiti politici così potenti. I comunisti sono una piccola minoranza e nelle file dei socialisti, più consistenti, si va delineando un’ala sinistra costituita 19


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soprattutto da giovani, più combattivi dei loro padri riformisti. La forza decisiva appartiene alla Confederazione nazionale del lavoro, la potente Cnt, in cui i principi libertari sono gelosamente conservati dalla Fai, la Federazione anarchica iberica, una specie di piccola chiesa aperta solo ai puri fra i puri, suprema istanza di Santa madre anarchia, eminenza rossa e nera. I suoi diktat apolitici non impediscono tuttavia agli operai della Cnt di contribuire in larga misura alla vittoria del Fronte popolare in occasione delle elezioni del 16 febbraio 1936. Chi ha lanciato l’appello alla lotta, in questo 18 luglio 1936? Io non lo so, non ho saputo niente. Hippo e io ci uniamo a un gruppo che marcia verso una sede della Gioventù socialista unificata dove, sembra, devono arrivare delle armi all’alba. Non abbiamo cenato; ci penseremo più tardi, quando avremo ottenuto il nostro fucile, ora non è il momento. Una stanza nera di gente, grigia di fumo, rumorosa e calda. Tre giovani, seduti dietro un tavolo, ripetono instancabilmente: «No, compagno, non possiamo promettere niente. Fino ad ora abbiamo ricevuto solo dieci fucili e cinque revolver e non sappiamo se ce ne saranno altri... Sì, infatti, dicono che arriveranno all’alba, ma non è sicuro. Provate da un’altra parte...». È curioso, ma nessuno ci chiede se facciamo parte della Jsu: per diritto di rivoluzione, chiunque vuole battersi merita di essere armato. L’idea che per domandare delle armi occorra avere uno scopo preciso non ci passa neanche per la testa. È dalle quattro del pomeriggio che camminiamo, ora è mezzanotte passata e siamo mezzo morti di fatica. Attenderemo l’alba qui, e forse i fucili, chissà. Mi sdraio sul selciato del cortile e mi addormento di un sonno profondo. 20


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Mi sveglia la mano di Hippo che mi tocca il viso: il giorno è arrivato, ma i fucili no. «Andiamo altrove, verso via de la Flor. Mi ha detto un compagno che i ragazzi della Cnt hanno messo le mani su un deposito di armi della Falange; vieni, presto». «Hippo», dico io, «bisogna che tu rientri a casa e ti riposi un po’. Ricordati che devi evitare di stancarti troppo, se no rischi di ammalarti...». «Ammalarmi il giorno che comincia la rivoluzione? Che idea». Un’allegra risata punteggia le sue parole e sotto due ombre livide gli brillano gli occhi di gioia. Mi stringe forte la mano: «Di’, ti rendi conto? Ci siamo, è la rivoluzione. Abbiamo finito di aspettare; combatteremo duro, durissimo». «Non credi che prima sarebbe meglio passare da casa per vedere se Latorre ha trovato qualcosa? È molto probabile che i sindacati della Ugt siano già armati». No, Latorre non ha ancora trovato niente, ma ha un’idea. Perché non andiamo a vedere dai compagni del Poum? Non ne facciamo parte, ma è l’organizzazione che si avvicina di più al nostro piccolo gruppo di opposizione comunista, e poi ci son dentro degli amici su cui si può contare. Niente armi nelle sedi del Pu, ma molte speranze per l’indomani e forse per stasera stessa. Per terra e sulle panche della piccola sala si ammassano un centinaio di uomini e qualche donna; alcune hanno un aspetto un po’ strano. Vengo a sapere che sono le ragazze di una casa chiusa lì vicino, che vengono ad arruolarsi nella milizia. È la prima volta che posso guardarle senza esserne intimidita, ma mi riportano indietro nel tempo, a una mesta sera a Parigi, in via de la Charbonnerie, al quartiere la Chapelle. Portavo indosso un impermeabile nero, la stanchezza di una spossante 21


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