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Collettivo MetalMente con Wu Ming 2 e Ivan Brentari

MECCANOSCRITTO

Con un racconto di Luciano Bianciardi



SCRITTURE RESISTENTI



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Meccanoscritto Collettivo MetalMente con Wu Ming 2 e Ivan Brentari

con un racconto di Luciano Bianciardi


A Giuseppe Sacchi (1917 - 2016)


Polifazione

L’inizio di una storia è sempre arbitrario e quella di questo libro non fa eccezione. Anzi, trattandosi di un libro collettivo, frutto di tante mani e tante esperienze, ognuno di noi potrebbe raccontarne la genesi a modo suo, a partire dal proprio contributo. Ma poiché si tratta di un libro che tiene insieme due epoche distanti e le narra dal punto di vista dei lavoratori, lo faremo iniziare in un archivio speciale, in una città particolare – la “Stalingrado” o la “Piccola Manchester” d’Italia – in un anno di rivendicazioni operaie, di fronte al classico “documento ritrovato”. Ivan: Era il 2012, a Sesto San Giovanni, nei locali dell’Archivio del lavoro. Spulciando tra faldoni, raccoglitori, buste, documenti ingialliti, graffette mangiate dalla ruggine, mi trovo davanti una risma di carta velina. I fogli hanno contorni irregolari. Comincio a leggere e, no, non sono comunicati stampa o verbali di assemblee, ovvero quello che ultimamente mi devo sorbire. Sono racconti, una ventina. Rileggo l’intestazione del fascicolo, che avevo 7


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completamente ignorato: Testi racconti concorso letterario Fiom, 1964. Scorro le carte con una certa eccitazione, perché, diciamo la verità, nella media delle mie ultime giornate di ricerca questo è l’Inatteso. Dopo qualche indagine, scopro quattro cose: che Il Metallurgico, cioè il periodico della Fiom di Milano, dopo la mobilitazione contrattuale del ‘62-‘63, indisse un concorso letterario per raccontare le lotte di quegli anni; che nella giuria c’era Luciano Bianciardi; che quei fogli sono rimasti sepolti per cinquant’anni, a mollo nell’oblio, e nessuno ne ha più parlato; che con questa roba bisogna farci qualcosa. Ma cinquant’anni di oblio mica si cancellano così, in un amen. C’è da vincere un’inerzia, c’è da rimettere in moto la memoria. Passa almeno un altro anno prima che Ivan traduca la sua intuizione in una mail. From: Ivan Brentari Sent: Thursday, July 18, 2013 8:57 AM To: Wu Ming 2 无名二 Subject: Racconti Operai Gentile Cattabriga, mi chiamo Ivan Brentari e ho 25 anni. Negli ultimi mesi ho lavorato alla biografia di Giuseppe Sacchi, segretario della Fiom di Milano dal 1958 al 1964, e deputato comunista negli anni Sessanta e Settanta, nonché autore della prima proposta in assoluto di Statuto dei lavoratori. Durante le mie ricerche ho scoperto, presso l’Archivio del lavoro di Sesto San Giovanni, alcuni racconti scritti da operai per un concorso letterario indetto dalla Fiom di Milano nel 1964, al fine di celebrare le lotte di quegli anni. Ho copiato e 8


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sistemato minimamente, dove serviva, questi testi. Mi piacerebbe trovare il modo di ripubblicarli, affiancando loro nuovi racconti di importanti autori nazionali, che riguardino il mondo del lavoro oggi. Si potrebbe anche pensare di indire col sindacato un nuovo concorso letterario. Al momento sto solo studiando la fattibilità della cosa. Avrei bisogno di una disponibilità di massima, giusto per avere qualche elemento per poi andare a parlare coi sindacati e con i responsabili dell’Archivio del lavoro, ai quali per adesso ho solo accennato l’idea. Ti chiedo quindi, quando hai voglia e tempo, di dare un’occhiata al file che ti mando e di farmi cortesemente sapere se come Wu Ming potreste essere interessati al progetto. Scusami per il disturbo. Grazie, Ivan

“Cattabriga”, cioè Wu Ming 2, risponde un paio di settimane più tardi, alla fine di luglio del 2013: From: Wu Ming 2 无名二 Sent: Wednesday, July 31, 2013 4:06 PM To: Ivan Brentari Subject: Re: Racconti Operai Gentile Ivan, l’idea è molto affascinante e immagino possa interessare un buon editore. Devo dire che noi WM abbiamo deciso da tempo di non partecipare più alle antologie tematiche, perché non sono mai lavori significativi, molti autori partecipano scrivendo con la mano sinistra e il risultato non è incisivo. 9


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Piuttosto, penserei a un laboratorio di scrittura collettiva con iscritti Fiom, che abbia come obiettivo proprio la riscrittura, in chiave attuale, dei testi prodotti per il vecchio concorso, oppure di testi completamente nuovi. Magari dopo l’estate se ne potrebbe parlare meglio a voce, con un appuntamento telefonico, su Skype o di persona. Grazie della proposta e a presto, Giovanni

A questo punto il contatto è preso, le premesse ci sono, ma per il primo incontro del laboratorio di scrittura collettiva condotto da Wu Ming 2 passa un altro anno e mezzo. Come mai tanto tempo? Wu Ming 2: Anzitutto, prima di aprirne uno nuovo, c’erano da chiudere vecchi progetti. E poi bisognava pure studiare. Per prima cosa, leggere i racconti del ‘64, e in parallelo, farsi un’idea di quella stagione di lotte operaie. Ivan, nella sua prima mail, ne parlava come di un avvenimento “da celebrare” e le dava per scontate, ovvie. Ma per me, che non sono uno storico del sindacato, di ovvio non c’era un bel niente. Avevo giusto una vaga idea di quel che poteva essere il clima, nelle fabbriche milanesi dei primi anni Sessanta. Giuseppe Sacchi: Tieni presente che eravamo trattati peggio delle bestie. Se un operaio si ammalava, per i primi tre giorni stava senza stipendio e poi a metà paga per quelli successivi, dal quarto in poi. Invece, se un cavallo sta male, il padrone lo ricovera in stalla, chiama il veterinario e fino a quando non sta bene, lo tiene a riposo, niente lavoro e vitto speciale. E questo perché se muore il cavallo, il padrone ha 10


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un danno, deve acquistarne uno nuovo e costa molto caro, mentre se muore il lavoratore, c’è un esercito di disoccupati pronto a sostituirlo. Come dicevamo allora: “Cavallo malato doppia biada, operaio malato mezza paga”. Quindi, tra le nostre rivendicazioni c’era la questione della malattia, la riduzione dell’orario a quaranta ore, l’aumento di stipendio del 15% e la parità di salario a parità di mansione tra uomo, donna e giovane. Con gli elettromeccanici abbiamo ottenuto molto, ma ci sono voluti quattro scioperi, due dei quali di settantadue ore, e poi un ultimo, lunghissimo sciopero a tempo indeterminato, di mezza giornata tutti i giorni, che per alcune fabbriche è andato avanti quattro mesi. Perché guarda, io ho 99 anni, ho iniziato a combattere quando ne avevo 18, e una delle prime cose che ho imparato è che i padroni non regalano niente, mai. Ivan: Dal punto di vista storico la lotta degli elettromeccanici dell’autunno-inverno ‘60-‘61 è importante per un motivo molto semplice. È la prima lotta che gli operai italiani vincono dopo la Liberazione. In sostanza: quindici anni di licenziamenti discriminatori, repressione nelle fabbriche, umiliazioni, crollo del tesseramento sindacale... e poi gli elettromeccanici. Una mobilitazione vittoriosa e unitaria, o meglio: vittoriosa perché unitaria. Sacchi: E questa è la seconda lezione che ho appreso, in ottant’anni di lotte: l’unità che decide è l’unità che si costruisce dal basso. Persi un sacco di tempo con i dirigenti della Cisl, non volevano nemmeno sedersi al tavolo con noi. Ma quando gli operai sono scesi per strada, l’unità s’è fatta da sola.

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Ivan: Insomma, spinte dagli eventi, Fim e Uilm – le organizzazioni metalmeccaniche di Cisl e Uil – capiscono che non possono restare indietro, e si trovano mani e piedi in una lotta storica che per molti aspetti sarà l’altra faccia del miracolo economico, o per meglio dire, la sua controstoria. Sacchi: Siamo riusciti a cambiare le regole di come si fanno le lotte. All’epoca c’era l’abitudine di interrompere gli scioperi durante le trattative. Noi abbiamo detto: sospendiamo lo sciopero quando cessano le cause che l’hanno determinato. Non basta che tratti, devi darci quello che chiediamo. Un’altra regola: più lunga è la lotta, più alto sarà il prezzo dell’accordo. È chiaro che organizzare una mobilitazione del genere non era facile. Mandavamo gli attivisti nei negozi per parlare con gli esercenti. Gli dicevano: «Guarda che tu i tuoi prodotti li devi vendere a me operaio. Se io sul mio posto di lavoro sto male e non ho abbastanza soldi, non ti posso comprare niente. Questa lotta riguarda tutti». Quelli non erano scemi e capivano. Ivan: In quattro mesi di mobilitazioni, se ne vedono di tutti i colori. Il movimento riceve solidarietà da più parti, resiste ai tentativi di frazionamento e alle offerte “in moneta” della Confindustria. Tra le iniziative mai messe in campo prima, c’è anche quella del cosiddetto “Natale in piazza”, una delle pietre miliari della storia del movimento operaio italiano. Sacchi: Il Natale in piazza del Duomo è stato magnifico. E di nuovo abbiamo rotto le regole, perché non s’era mai visto nessuno manifestare il giorno di Natale. Non ci credevano in molti, anzi, tanti erano contrari, anche la Fiom 12


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nazionale e la Cgil. Quando abbiamo fatto l’assemblea degli elettromeccanici c’erano tutti i dirigenti, ma proprio tutti, che ci hanno detto di non andare in piazza Duomo, perché il prefetto non aveva dato il permesso, e il ministro Scelba non ne voleva sapere. Quella mattina avevo la febbre a 39, ma non potevo mancare, erano settimane che lo ripetevo: resisteremo un minuto in più dei padroni. Già in luglio la Confindustria aveva stampato un volantino, convinta che non ce l’avremmo fatta a tirare fino alla fine. Per tutta risposta, io gli diedi appuntamento a Natale in piazza del Duomo, veniteci a contare là. Ecco perché non potevo starmene a casa. Gli operai sarebbero venuti a prendermi! La piazza era piena. C’erano migliaia di lavoratori con le famiglie. C’erano i regali per i figli degli operai. C’erano normali cittadini che la fabbrica non l’avevano mai vista nemmeno dipinta, eppure erano lì. C’erano gli intellettuali. Avevamo la solidarietà di gente come Elio Vittorini e Luchino Visconti. A un certo punto è uscito sul sagrato a benedirci anche il cardinal Montini, che aveva appena finito l’omelia in Duomo. Tutto questo accade a Natale del 1960 e per la fine dell’inverno, nell’anno successivo, la vertenza si chiude con una grande vittoria. Però la Fiom indice il concorso letterario nel ‘63 e proclama il vincitore nel ‘64. Che succede in quei due anni di intervallo, tra il ‘61 e il ‘63? Ivan: Succede che i metalmeccanici si battono per il nuovo contratto nazionale, dal giugno del 1962 al febbraio del 1963. Una lotta che non valeva solo per sé, ma era un fiume in cui confluivano gli affluenti di tutte le 13


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mobilitazioni degli ultimi anni. Fallire lì significava buttare all’aria ciò che c’era stato prima. La vertenza procedette tra accelerazioni e colpi di freno, tira e molla, accordi con le aziende pubbliche, accordi siglati e poi disattesi dalla Confindustria, cortei, scontri con la polizia, provocazioni, riunioni nelle prefetture. La posta in palio era molto più alta di qualche aumento salariale. Il sindacato doveva entrare legittimamente nelle fabbriche. Non si trattava solo di soldi. Si trattava di norme. Cambiare la funzione del sindacato. Cambiare la vita nelle fabbriche, la vita di milioni di persone in tutta Italia. Quando fu firmato il contratto, molti parlarono di un punto di non ritorno. Il concorso letterario di allora nasce sull’onda di quell’entusiasmo. Nel 2013 invece non si poteva contare su una spinta simile. Quando ti trovi a fare i conti con gli esodati e il Jobs Act, è facile che le iniziative “culturali” ti sembrino un di più, qualcosa che puoi permetterti solo in tempi di vacche grasse. E invece la Fiom si è lanciata nell’impresa con molta convinzione. Maurizio Landini (segretario generale della Fiom): Per qualunque organizzazione che si occupa della “cosa pubblica”, dare la parola alle persone in carne e ossa dovrebbe essere una pratica quotidiana, uno dei principali strumenti di costruzione della democrazia. Per un sindacato lo è senz’altro, fin dalla sua nascita: dagli incontri individuali alle riunioni, dai capannelli di fronte a una fabbrica alle assemblee, le persone che lavorano hanno costruito il sindacato per trovare soluzioni comuni, a partire dal racconto della propria condizione, del proprio particolare problema. 14


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Avere quest’attenzione, saper ascoltare e capire, sono le basi per poter organizzare, lottare, conquistare; sono la pratica quotidiana di un’organizzazione e ne dovrebbero scandire la vita interna, caratterizzarne l’edificio. La comunicazione, nel mondo sindacale, è soprattutto orale: dai luoghi di lavoro a quelli di svago, vive di discussioni, discorsi, comizi. Qualcosa di caldo. Molto meno è comunicazione scritta, quasi sempre riservata ai documenti ufficiali dei congressi, dei contratti, fino alla neolingua degli accordi aziendali o ministeriali, il “sindacalese”. Qualcosa di freddo. In questo panorama fa eccezione la memorialistica: le autobiografie di lavoratori o sindacalisti, i diari, il racconto di episodi significativi, perlopiù a livello di comunità locali. Qui la comunicazione scritta assume i contorni della vita concreta, persino intima, dei protagonisti. Qui i soggetti in carne e ossa prendono la parola, ci riflettono su, si trasmettono un’esperienza che, anche quando è personale, è pur sempre collettiva. Un materiale caldo. Marcello Scipioni (segretario generale della Fiom di Milano): Ancor più rara della memorialistica è un’ulteriore rielaborazione: quella letteraria e narrativa, capace di parlare a una comunità più vasta, di dare al caso particolare un valore universale. Quando accade, il più delle volte non sono i lavoratori a raccontare, non è il sindacato, bensì qualcuno che traduce la loro testimonianza – uno scrittore, un giornalista, un intellettuale. Il concorso del ‘63 proponeva agli operai di superare quel divario, di trasformare la propria esperienza in riflessione narrativa, senza ulteriori mediazioni. Il laboratorio del 2015, con strumenti diversi, riportava in auge quella 15


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sfida. Una bella sfida. Anzi, una sfida doppia. Proprio perché arrivava in un periodo durissimo. Forse fu un caso, ma Ivan Brentari si mise in contatto con me nei primi mesi del 2013, a cinquant’anni di distanza dal contratto nazionale del 17 febbraio ‘63, mentre la Fiom era impegnata in una delle lotte più difficili della sua storia, contro la stipula del contratto separato dei metalmeccanici. In quei mesi avevamo aperto, azienda per azienda, un’azione conflittuale che faceva esplicito riferimento alla “Carta rivendicativa” degli elettromeccanici. Si trattava di riconquistare il diritto del sindacato a contrattare le modalità della prestazione lavorativa, come vincolo solidaristico tra tutti i lavoratori dello stesso settore. Si trattava, insomma, di essere all’altezza dei padri del moderno sindacalismo di classe, come Giuseppe Sacchi. Questa era la prima sfida, che in qualche modo ci legava ai primi anni Sessanta e ci metteva nello spirito giusto per affrontare la seconda: raccontare senza mediazioni giornalistiche e false rappresentazioni le nostre storie, non più come atto creativo individuale, ma collettivamente. Così la Fiom milanese, verso la fine del 2014, lancia il progetto del laboratorio dalle pagine del suo sito, da quelle del nuovo Metallurgico, dalle bacheche delle sue sedi: Per una volta quel che vi proponiamo non è una piattaforma, è un esperimento che esula dalla nostra tradizionale azione eppure ha un nesso stretto con ciò che sentiamo, viviamo, facciamo: un percorso che è già in sé un risultato. Quello che vi proponiamo è un laboratorio di scrittura collettiva. In un mondo dell’informazione e della comunicazione che si nutre di “eventi eclatanti”, che descrive distorcendole le nostre 16


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idee, le nostre lotte, che parla di noi con parole che non sentiamo nostre, crediamo che una narrazione condivisa possa servire a noi e pure a chi metalmeccanico non è: per capire chi siamo, cosa vogliamo, oltre gli stereotipi.

Collettivo MetalMente: Quando sono venuto a sapere di questo progetto per la prima volta, ho provato sensazioni contrastanti: da una parte mi piaceva l’idea di partecipare ad un esperimento di scrittura creativa insieme a una ventina di compagne e compagni. Dall’altra, però, c’era un elemento che mi sconcertava: io, che dell’agire collettivo ho fatto un’ideologia di vita, non riesco a concepirlo applicato alla scrittura. WM2: Proprio per ammorbidire questa naturale diffidenza, abbiamo occupato la prima giornata di laboratorio con un esercizio individuale. Ognuno ha scritto, su foglietti separati – come nel metodo di don Milani – un breve episodio esemplare, utile per illustrare il mondo della fabbrica a chi non ci ha mai messo piede. Quindi abbiamo radunato questi racconti e tutti insieme ne abbiamo spremuto il succo, dal particolare all’universale, dalla fabbrica tal dei tali, alla Fabbrica in generale. Abbiamo distillato così cinque concetti chiave: Socialità, Produttività, Tempo, Identità, Realtà&Rappresentazione. In seguito, questi sono diventati i temi di fondo dei racconti collettivi, uno per ogni racconto. I gruppi – di 4 o 5 persone – si sono formati intorno a uno di questi concetti e lo hanno tradotto in una storia particolare, evitando riferimenti a una realtà specifica, ma inventando un’ambientazione verosimile, un protagonista, una trama.

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Ovvero, detto in altre parole: Collettivo MetalMente: Lancio un’idea, ne discutiamo un po’ e decidiamo che va bene. Nella mia testa il racconto diventa tridimensionale: si allarga, si allunga e comincia a prendere spessore. Sembra facile, ma Giovanni/Wu Ming 2 ci dà indicazioni strampalate: dobbiamo pensare una prima scena, stabilire quel che succede, e poi ognuno deve raccontarla per iscritto, individualmente. Quindi dobbiamo confrontarci per ottenere da tutte le diverse redazioni un inizio condiviso... no no no... così non va bene, non è quello che intendevo io, e poi la sua versione è così simile alla mia, quale terremo? La mia, vero? Per le scene successive il metodo cambia: si fa insieme la scaletta di ognuna, ma poi ce le si divide, ciascuno scrive la sua... nooo, quella di Tizio è troppo lunga e quell’altra non rende proprio l’idea... Cosa? Vogliono tagliarmi quella frase nel mio pezzo? Non se ne parla proprio! Il senso ne sarebbe com-ple-ta-men-te snaturato! In qualche modo arriviamo alla fine lasciando a terra parole, frasi, idee come fossero cadaveri al passaggio di una guerra, perché proprio una guerra è stata, ognuno a difesa del proprio figlio, senza esclusione di colpi. Altro che fine: il racconto completo passa a un altro gruppo, che ha facoltà di cambiarlo, modificarlo, stravolgerlo... Che depressione, mi sento tradita, come se tutto il lavoro fatto finora non avesse più un senso. Per l’ultima volta, l’ultima rilettura, il racconto ci ritorna indietro. Lo leggo d’un fiato e lo butto lontano da me, malamente... Mi fa schifo, non è più il nostro racconto! I fogli decantano insieme alla rabbia. 18


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Raccolgo le pagine sparpagliate, mi siedo e le rileggo, questa volta con calma. C’è qualche incongruenza, c’è qualcosa che deve essere detta con più forza, c’è qualcosa da ripristinare perché era più bella prima, c’è qualcosa da tenere perché è più bella adesso... «Ma sapete che c’è? – dico agli altri del gruppo – Non è poi così male...». Nascono così, dopo sette incontri di due giornate e molti “compiti a casa”, cinque racconti nuovi di zecca. E subito si capisce che a differenziarli da quelli del ‘63, non è soltanto la voce collettiva. Scipioni: Le due epoche, e gli stili narrativi, sono diversissimi. Da “lavorare stanca” a “lavorare manca”, parafrasando l’imprescindibile libro di Gabriele Polo. A Milano, dal 2007 ad oggi, sono più di quattrocento le aziende sindacalizzate che mancano all’appello. Una catastrofe. Da un lato, il boom economico e il super sfruttamento dei lavoratori, col trionfo della produzione di massa nelle fabbriche tayloriste; dall’altro, la deindustrializzazione di Milano, la chiusura delle fabbriche, i licenziamenti. Il cocktail sociale che era alla base dell’insorgenza operaia dei primi anni Sessanta si trasfigura, negli anni Duemila, nella ricostituzione di quell’“esercito industriale di riserva” che fiacca la resistenza dei lavoratori all’offensiva padronale nei luoghi di lavoro, nella società e nella politica. Ma nonostante tutto, nella città che vide risorgere le lotte operaie alla fine degli anni Cinquanta, c’è chi non si rassegna, chi tiene alta la bandiera per chiamare a raccolta 19


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le vittime della globalizzazione neoliberista. Le lotte organizzate dalla Fiom di Milano in decine di vertenze contro i licenziamenti e le chiusure delle aziende, le manifestazioni in difesa della dignità dei lavoratori hanno coinvolto migliaia di individui che hanno capito una cosa: “...se divisi siam canaglia”. Anche la scrittura collettiva diventa, in questa crisi devastante, l’antidoto alla solitudine del lavoratore nella società contemporanea. Questo processo di creazione collettiva è stato una sfida faticosa ma vinta, un esperimento ambizioso ma riuscito. Che deve trasformarsi in una metodologia della formazione sindacale. Per stessa ammissione delle compagne e dei compagni che lo hanno animato. Collettivo MetalMente: L’esperienza della scrittura collettiva è stata un’isola, un privilegio. Con il mestiere che facciamo, prendersi un po’ di tempo per riflettere su quello che facciamo è salutare. All’inizio, non avevamo certezze, se non quella che non eravamo in grado di farlo. Eppure lo abbiamo fatto. Semplice però non è stato. Scrivere è difficile, farlo assieme è stato inaspettatamente faticoso. D’altra parte, lo sapevamo: uno degli aspetti difficili da affrontare nella vita e nell’attività sindacale è l’uso dello strumento del “confronto”. Il pericolo immediato è sempre quello di superare la soglia della “prepotenza” delle proprie convinzioni. È stato così anche per questo laboratorio, e sono rimasta sorpresa di come un racconto comune possa cambiare forma e colore se condiviso e scritto con più persone. Alla fine il risultato è nettamente superiore alle aspettative e tuttavia, dannazione come brucia l’ego nel momento in cui la tua frase viene modificata o la tua idea cassata. 20


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È un’esperienza che mette a dura prova: nel confronto, nell’ascolto, nell’accettare il contributo di tutti, nell’accettare la critica rivolta alle nostre opinioni, nel riuscire a criticare le opinioni degli altri in modo costruttivo e propositivo. Fare insieme, misurare le proprie idee con quelle degli altri accresce la consapevolezza di ciò che si fa, rafforza i concetti e un po’ per volta ti senti parte di un progetto collettivo, finalmente riesci a perdere l’individualismo, che pervade la nostra cultura, a favore del senso di appartenenza ad un gruppo che si muove, in maniera a volte caotica, ma si muove nella stessa direzione; una sensazione che ha rafforzato, ove ce ne fosse stato bisogno, il concetto di essere parte di un organismo complesso, di una classe, quella dei lavoratori, senza provare imbarazzo per un concetto oramai denigrato da coloro che gestiscono il potere. Proprio per questo credo che questa esperienza ci abbia arricchito tutti quanti. Perché parlare di problemi e situazioni lavorative, con un approccio narrativo, diverso da quello che abbiamo ogni giorno come Rsu in azienda, può essere anche il modo per raggiungere persone che sono stufe di ascoltare “i soliti discorsi”. Landini: Tutti questi racconti hanno in comune lo sforzo di comunicare un proprio punto di vista a partire da un’esperienza concreta; e di farlo usando la scrittura, cioè uno strumento che impone elaborazione e che per sua natura “lascia il segno”, non scompare nel batter d’ali di un attimo, cosa particolarmente rilevante per i racconti del 2015, circondati da una contemporaneità in cui tutto si consuma e brucia in tempo reale. Inoltre, il poter confrontare documenti così distanti nel tempo, ci permette di capire continuità e cambiamenti nella vita e nel lavoro delle 21


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persone; e lo possiamo fare proprio perché questi racconti costruiscono altrettante storie, non si limitano a un elenco di fatti o all’interpretazione che ne viene data dall’organizzazione sindacale. Ci raccontano come sono cambiati il lavoro e – soprattutto – la sua percezione, il suo “peso” nella vita personale e in quella sociale. Il lavoro nella sua forma concreta – il tempo che prende e il reddito che dà, la mansione, il ruolo che assegna – era e rimane il centro del mondo di ogni singolo lavoratore, ma non è più il centro del mondo comune. I lavoratori del 1963 percepiscono se stessi come un qualcosa di omogeneo in una società ordinata attorno al lavoro, ai suoi ritmi e alle sue regole; in cui il conflitto – organizzato, o perlomeno sempre organizzabile – per quanto duro e “costoso” è considerato un elemento propulsivo persino della dinamica economica, aggregante della comunità d’appartenenza, trovando attenzione anche nell’opinione pubblica e sponda nel mondo politico. Questo è l’ambiente in cui si collocano i racconti delle lotte e degli scioperi che vanno dalla vertenza degli elettromeccanici del 1961 al contratto nazionale del 1963: è un mondo in cui il lavoro ha sempre una doppia faccia, può essere occasione o condanna, valorizzare o alienare, farti salire la scala sociale o precipitarti in basso. Cinquant’anni dopo il cambiamento è evidente. Che siano mutate tecnologie, organizzazione e divisione del lavoro è cosa ovvia. A partire dalla frantumazione delle filiere produttive e dalla conseguente parcellizzazione dei lavoratori. Ma a questo si accompagnano fenomeni meno “neutri”, frutto di scelte economiche, sociali e politiche. Nei racconti del 2015 il lavoro “pesa” sui suoi protagonisti: pesano la condizione che peggiora, il valore che viene sminuito, le divisioni che 22


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diventano solitudine, il mancato riconoscimento di ruolo sociale e politico. Al punto da immaginare un futuro in cui il lavoro umano scompare. Lasciando però un vuoto così incolmabile da spingere le persone a lavorare in clandestinità pur di dare un senso al proprio bisogno creativo. Perché alla fine lì si torna: partendo da panorami diversi, nel ‘63 come nel 2015, è sempre il riscatto della condizione umana che viene messo al centro. È quel riscatto l’unica continuità che conta e che si deve tener ben presente. In un mutare di situazioni e ruoli, che in questo percorso letterario lungo mezzo secolo segnala un altro interessante rovesciamento: mentre al lavoro viene preclusa quella dimensione aggregativa e collettiva – che ne aveva fatto la storia dall’Ottocento al Novecento – per essere costretto in ambiti sempre più individuali, la scrittura – almeno nel nostro caso – da fenomeno tipicamente individuale cerca la costruzione comunitaria. Una socializzazione che ci indica la strada. Collettivo MetalMente: Ascolto e comprensione intrecciati hanno fatto sì che persone diverse, in una situazione del tutto inedita, abbiano prodotto quello che avete ora tra le mani. Se sia un buon lavoro o meno lo giudicherete voi. A noi resta un’esperienza unica ed arricchente perché ci ha fatto conoscere compagne e compagni che altrimenti avremmo incrociato in assemblea o in qualche riunione o in corteo. Ci ha fatto sentire per un momento “scrittori collettivi”, capaci di rappresentare con le parole questi anni difficili, sempre più sulla difensiva; un’epoca di individualismo, dove essere collettivo, fare collettivo, è un’impresa vincente.

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Il libro che state per leggere è costruito secondo una struttura a treccia. Tre filoni che si alternano tra di loro disvelano vicende vere e di fantasia, parlano lingue diverse. Uomini, tempi e narrazioni saltano gli uni dentro agli altri, si mescolano, si confondono. Ci sono i racconti individuali del ‘63, quelli collettivi del 2015 e le infrastorie reali che provengono da entrambe le epoche e sono raccontate, a seconda dei casi, attraverso documenti originali, dialoghi, reportage, dati statistici, testimonianze, narrativa. Come si potrebbero definire queste pagine? Forse un’antologia di fiabe operaie, forse un romanzo storico ipercollettivo. La verità è che, arrivati alla fine del percorso, a noi queste definizioni non interessano più.

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Infrastoria #1

Dove qualcosa finisce e qualcos’altro comincia

Il 20 ottobre 1963, sulle pagine culturali de l’Unità, di fianco a un articolo sui centocinquant’anni dalla nascita di Giuseppe Verdi, compare un trafiletto con questa breve notizia: Concorso di narrativa della Fiom La Fiom provinciale di Milano ha indetto un concorso di narrativa ispirato alle grandi lotte sostenute dai metalmeccanici negli ultimi tre anni. Si potrà concorrere con un racconto di cinque cartelle dattiloscritte al massimo, inviando a Il Metallurgico, segreteria premi, corso di Porta Vittoria 43, Milano. Il monte premi è di L. 100.000. La giuria è composta di Arpino, Bianciardi, Eco, Fortini, Spinella. Ai lavori della giuria parteciperanno anche Alini e Sacchi, segretari della Fiom.

Il premio è consistente, pari circa allo stipendio mensile di un operaio specializzato, ma più di quelle centomila lire, che oggi ci dicono poco, colpiscono i nomi dei giurati. D’accordo che Umberto Eco era appena trentenne e Giovanni Arpino non aveva ancora vinto il Premio Strega, ma 25


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quello di Fortini era già il nome di un noto intellettuale e Luciano Bianciardi veniva da un grande successo, ottenuto appena un anno prima con La vita agra. Non sappiamo con quali mosse strategiche la Fiom milanese riuscì ad accaparrarsi una simile giuria, ma con l’aiuto di altri due articoli – sempre de l’Unità – possiamo ricostruire come si arrivò al coinvolgimento di Bianciardi. Prima, però, meglio farsi un’idea di quale fosse il contesto in cui nacque l’iniziativa. E per farlo bisogna conoscere una certa persona. È il 1963 e a capo della Fiom di Milano c’è, da qualche anno, Giuseppe Sacchi. È nato a Robbiano di Mediglia, è comunista, 45 anni, sposato, piccoletto, fisico asciutto e nervoso. È figlio di un mugnaio, i fascisti gli hanno ammazzato un fratello a pugnalate perché indossava un berretto rosso. Ha cominciato a lavorare in fabbrica a 14 anni, è stato un ciclista semi-professionista, tanto che per poco non è diventato compagno di squadra di Fausto Coppi alla Bianchi. È entrato in marina e ha girato il mondo su un esploratore. Massaua, Città del Capo, il Brasile, l’Australia. Durante la Seconda guerra mondiale è sopravvissuto al siluramento della corazzata Littorio e poi è stato imbarcato sul cacciatorpediniere Tigre. A seguito dell’8 settembre è rientrato avventurosamente a Milano dove in breve è diventato comandante della 114ma Brigata Garibaldi, che operava nella zona sud della città. Dopo la Liberazione: il lavoro alla Motomeccanica come collaudatore motorista, il licenziamento per ragioni politiche, il salto nel sindacato e un lungo percorso che l’ha portato a diventare segretario generale della Fiom milanese, alla fine del ‘58. Sono stati anni difficili, quegli anni Cinquanta. Gli anni di Scelba e del suo giocattolo, la celere. Anni di ripiega26


Infrastoria #1

mento per il movimento sindacale. Ma da quando Sacchi è segretario, a Milano, la musica è cambiata. Sacchi non è uno che scherza. Gli operai lo stimano e lo stanno a sentire. Gli imprenditori lo odiano. Nel 1968 la famosa inchiesta di Lino Iannuzzi su L’Espresso rivelerà che il suo nome si trovava nella lista dei personaggi che, secondo il Piano Solo del generale De Lorenzo, dovevano essere incarcerati al momento del colpo di stato perché pericolosi per la sicurezza nazionale. Ma torniamo a quell’ultimo scorcio di anni Cinquanta. La musica è cambiata, dicevamo. Da qualche parte bisognerà pur cominciare. Sacchi dice: iniziamo noi della Fiom «usciamo per primi dalla trincea, gli altri arriveranno». Già alla fine del ‘58 mette nel mirino alcune piccole vertenze aziendali. Dette vertenze vanno a buon fine. Si scaldano i motori. La tattica: procedere per gradi, dal bersaglio piccolo a quelli via via più grossi. L’8 ottobre 1958 hanno luogo alcune mobilitazioni rionali nei quartieri Romana, Gorla e Crescenzago. Ancora buoni risultati. Si scatenano agitazioni più ampie. Il movimento monta, come un’onda. Milano è il motore di una mobilitazione operaia che non conosce soluzione di continuità. Per molti aspetti il capoluogo lombardo e la sua classe operaia diventano l’avanguardia politica del Paese. Intanto facciamolo a Milano, facciamo vedere di cosa siamo capaci. Si perfezionano le tecniche di lotta. Si ricuce un’unità sindacale che i “terribili cinquanta” avevano sfilacciato. Sacchi aveva ragione: Fim e Uilm si accodano alle proteste, escono dalla trincea. Febbraio 1959: occupazione della Pracchi. 1959: lotta per il contratto nazionale dei metalmeccanici. Primavera27


SCRITTURE RESISTENTI

Sacchi, segretario della Fiom, lo ghermisce subito: «Tu devi scrivere un libro, un romanzo su questo sciopero…». Il capannello si forma subito. «Ma io», dice Bianciardi, «ho scritto sui minatori perché li conosco fin da bambino. Il libro sugli operai bisogna scriverlo, deve farlo uno di voi».

euro 16,00 ISBN 978 88-98841-62-2


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