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Anina Ciuciu

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SCRITTURE RESISTENTI



Sono rom e ne sono fiera


Edizione originale: Je sui Tzigane et je le reste © City Editions 2013, Saint Victor d’Epine, France © 2016 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Grafica: Alessio Melandri

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Sono rom e ne sono fiera Anina Ciuciu Con la collaborazione di FrĂŠderic Veille Prefazione di Carlo Stasolla Traduzione di Alessandra Cerioli



Prefazione di Carlo Stasolla, presidente Associazione 21 luglio

I rom sono la più consistente minoranza presente sul territorio europeo. Nei paesi membri del Consiglio d’Europa (47 paesi, circa 800 milioni di cittadini) gli appartenenti alle comunità rom sono stimati intorno ai 12-14 milioni di individui, mentre sono circa 6 milioni quelli che vivono all’interno dell’Unione Europea. Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa in Italia è stimata una presenza di rom e sinti che oscilla tra le 160mila e le 180mila unità, circa lo 0,25 per cento del totale della popolazione italiana, una tra le percentuali più basse del continente. Nel nostro immaginario collettivo, il più delle volte costruito e alimentato da un messaggio politico amplificato dai media, il termine “rom” si accompagna a quello di “asociale”, abitante della periferia più estrema, spettro di paure che affondano le radici nella nostra infanzia. Eppure rispetto ai quasi 180mila rom presenti nel nostro paese solo 35mila vivono nei cosiddetti “campi nomadi”, in condizione di povertà, precarietà abitativa ed emarginazione sociale. I restanti risiedono in abitazioni convenzionali, lavorano, frequentano le scuole, contribuendo alla crescita 7


Sono rom e ne sono fiera

di un paese e di un continente dei quali si sentono pienamente parte. Nessuno ha una contezza esatta di quanti siano, sa dove si trovino e conosce il loro passato. Sono cittadini “mimetizzati”, che la paura di essere discriminati ha reso ombre prive di un’identità dichiarata e riconosciuta. Con i dovuti distinguo oggi in Italia si ha paura di dichiararsi cittadino rom così come nell’Europa attraversata dal nazifascismo si aveva timore di dichiararsi ebreo. Sono pochi coloro che hanno la forza e il coraggio di farlo ed Anina Ciuciu è una di queste persone. Il titolo del suo libro, Sono rom e ne sono fiera, è uno schiaffo nel volto dell’ignoranza e dell’ipocrisia nelle quali, soprattutto in Italia, siamo impantanati. La prima volta che ho incontrato Anina è stato a SaintDenis, in uno stabile “alternativo” della periferia parigina. L’anno precedente avevo letto la sua autobiografia nell’edizione originale francese, con il titolo Je suis tzigane et je le reste, e mi aveva subito colpito il fatto di aver inconsapevolmente condiviso con lei, all’inizio degli anni Novanta, quello spazio di vita denominato Casilino 900, il più grande campo nomadi d’Europa. Situato nella periferia orientale di Roma l’insediamento si estendeva su un’area verde abbandonata, strozzato tra un aeroporto militare e una lunga fila di sfasciacarrozze che ancora oggi sopravvivono lungo via Palmiro Togliatti. Anina e la sua famiglia avevano vissuto nell’area abitata dai rom rumeni, io con mia moglie e i miei figli in quella dei montenegrini. La mia era stata una scelta volontaria di condivisione, quella della famiglia di Anina un obbligo dettato dalla fuga. La Romania del periodo immediatamente successivo alla deposizione di Ceaus,escu odiava i rom, detestava la loro presenza e cercava ogni pretesto per allontanarli. «Mi ricordo la scuola d’infanzia in Romania», 8


Prefazione

scrive Anina, «nessun compagno mi dava la mano quando la maestra ci metteva in fila. In classe mia sorella ed io abbiamo subìto insulti, siamo state isolate». Aveva sette anni quando la sua famiglia decise di lasciare un paese diventato ostile per inseguire il sogno di un occidente libero e tollerante, attraversando le stesse strade oggi percorse da ragazzi afghani e siriani: l’Ungheria, la Serbia, la Slovenia e poi l’Italia. Il camion che li trasportò aprì il suo cassone davanti alla baraccopoli del Casilino 900: «Sino ad allora», ricorda Anina, «il mio naso aveva respirato il profumo dei fiori, delle arance, del sole. Ora l’acre odore della legna bruciata riempiva le mie narici». Oggi Casilino 900 è uno spazio abitato solo dai ricordi dolenti dei baraccati che in quel luogo hanno condotto una vita di stenti. Negli anni Cinquanta i pugliesi e gli abruzzesi dell’Italia post bellica vi avevano costruito le loro baracche, sopravvivendo con il piccolo commercio abusivo, l’elemosina, i lavori domestici, consegnando il racconto delle loro giornate alle penne di scrittori e sociologi, da Pier Paolo Pasolini a Franco Ferrarotti. Poi dagli anni Ottanta il loro posto fu preso dai rom che fuggivano dalla disgregazione dell’ex Jugoslavia, il paese che solo Tito era riuscito a tenere unito. Ad essi negli anni Novanta si aggiunsero, in un lembo di terra strappato alla vicina discarica, piccole comunità di rom rumeni. In concomitanza con il Giubileo del 2000 l’insediamento è stato considerato dai media la più grande baraccopoli europea, la contraddizione più evidente della nascente Roma veltroniana, la Roma della sinistra buona e compassionevole, delle cooperative sociali, degli affari sulla pelle dei rom e degli immigrati, che un decennio dopo la compagnia di Buzzi avrebbe imparato a maneggiare con destrezza. 9


Sono rom e ne sono fiera

Tanti bambini sono nati nel Casilino 900. La baraccopoli è stata una cloaca che ha risucchiato intere generazioni in una vita senza speranza e priva di qualsiasi futuro. Da quel luogo la famiglia di Anina, dopo difficili vicende, riprese il suo viaggio per terminarlo in Francia. Nel 1997 giunse a Bourg-en-Bresse. Con l’aiuto di due donne la famiglia Ciuciu trovò un appartamento presso il quale alloggiare, Anina poté studiare il francese ed iniziare a frequentare la scuola. Alla clandestinità seguì la regolarizzazione e con essa i successi scolastici fino alla Sorbona, una delle più prestigiose università europee. Quale sorte le avrebbe invece riservato la scelta di restare nella baraccopoli romana? La risposta la ritroviamo nelle storie delle sue coetanee che, sgomberate dal Casilino 900 nel 2010 dalle ruspe di Gianni Alemanno, sono oggi concentrate nei ghetti etnici di Salone, Gordiani e Candoni – sfacciatamente chiamati “villaggi” – in condizioni di povertà estrema. Nel suo quarto di secolo di vita e di alterne vicende Anina è sempre restata la stessa: una donna rom. In famiglia ha conservato le sue tradizioni, parla il romaní, cucina secondo le ricette che i rom rumeni tramandano di madre in figlia. Ma non si è chiusa nella gabbia della sua identità culturale: lei è una donna rom, ma è anche una donna francese ed una donna rumena: «Mi considero fortunata ad avere tre culture insieme e ne sono fiera». Anina è anzitutto una vera cittadina europea. Non dell’Europa dei burocrati e della finanza, della Brexit e dei nazionalismi, ma di quella sognata al momento della sua fondazione, quella abitata da “giovani Erasmus”, sognatori che non si accontentano di sopravvivere e che costruiscono ponti. Il messaggio contenuto in questo libro non è rivolto a gruppi di xenofobi e razzisti – persone con le quali si perde 10


Prefazione

la connessione nel momento in cui il dialogo assume una qualche complessità – quanto a coloro che tra attivisti del sociale, volontari dell’area cattolica, associazioni rom e pro rom, si sentono investiti del ruolo di paladini difensori di una presunta cultura rom, unica e cristallizzata, figurativamente espressa in scene bucoliche di insediamenti malmessi dove bimbi scalzi si rincorrono attorno al fuoco al suono del violino. Ogni cultura – compresa quella incarnata dalle diverse comunità rom – sopravvive se si perde, si confonde, si contamina, muta e riprende forma scavalcando visioni stereotipate che mettono in pace la nostra coscienza. Per questo la riflessione di Anina ha come interlocutori anche quei blocchi di borghesia rom che in varie parti d’Europa rivendicano spazio, autorevolezza e finanziamenti in nome di un unicum culturale utilizzato come strumento di compassione ma anche di contrapposizione e di autoesclusione. Nel titolo di questo libro Anina si dichiara fiera di essere una donna rom. Ma esserlo, come racconta nel libro, significa respirare a pieni polmoni l’aria d’Europa, essere una donna francese e rumena. «Riuscire ad avere una vita più simile ai propri sogni non è impossibile, anche se i ragazzi rom devono dimostrare di essere molto più forti di tutti gli altri per ottenerla», ripete Anina nelle sue interviste e rivolgendosi in primo luogo ai “figli delle baraccopoli” che, come lei in passato, vivono oggi sulla loro pelle l’esclusione e la discriminazione. Sono loro – da molti ritenuti la generazione persa delle nostre periferie – il nostro futuro, perché dal loro impegno e dalla loro forza riprenderà vita la nostra capacità di costruire qualcosa di diverso, che i nostri padri costituenti hanno solo intravisto e che i fondatori dell’Europa hanno iniziato ad abbozzare. 11


Sono rom e ne sono fiera

Anina non è un personaggio straordinario né una donna fuori dal comune. È semplicemente una ragazza rom cui è stata offerta un’opportunità che lei ha saputo e voluto cogliere. La stessa che stanno attendendo i quasi 20mila minori rom presenti nelle baraccopoli italiane. A noi, cittadini di un’Italia civile e democratica, e agli amministratori delle nostre città, la responsabilità di non rubare a questi bambini l’unico diritto ancora rimasto: sognare un destino diverso da quello al quale li hanno condannati dalla nascita le nostre politiche discriminatorie e segreganti. Perché l’eccezionalità non è la storia di Anina, ma le esistenze sospese di migliaia di bambine e bambini senza orizzonti, di fronte alle quali dovremmo provare solo vergogna.

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A Nicolae e Constanta i miei genitori



Capitolo uno

Non ringrazierò mai abbastanza i miei genitori per avermi permesso di essere quella che sono oggi e che spero di diventare domani. Lo so, forse è un po’ banale da dire o da scrivere, ma lo penso davvero. In effetti l’ho sempre pensato, sin dalla mia prima infanzia. Un’infanzia di ricordi già lontani, ma impressi per sempre nella mia memoria. Così, quando vedo mio padre e mia madre, quando li guardo e sul loro volto compare quel sorriso eterno ed espressivo nonostante le difficoltà che hanno subìto, mi dico che il giorno in cui anch’io avrò dei figli spero di avere lo stesso coraggio, la stessa combattività, la stessa forza di trasmettere affetto e amore, appoggio e sostegno. Perché fin dalla mia nascita i miei non hanno mai smesso nemmeno per un istante di volere il meglio per i loro figli. Nel corso degli anni hanno fatto di tutto perché la mia vita, e quella delle mie tre sorelle, fossero la migliore possibile, al prezzo di sacrifici spesso smisurati. L’hanno fatto a discapito della loro vita e della loro salute, ormai così fragile. Ma a pensarci bene sembra che sia nelle mie radici, nei geni del mio popolo, volere il bene del prossimo. Sembra 15


Sono rom e ne sono fiera

che la più bella ricompensa per un padre e una madre sia vedere che loro figlio è diventato qualcuno, e che si è battuto per questo. Per tutto il corso della mia giovane esistenza i miei genitori non hanno voluto che questo, e ancora oggi non aspirano che a questo. Per tutta la loro vita hanno affrontato montagne, si sono trovati di fronte a muri e porte chiuse. E altrettanto spesso si sono visti sbattere quelle porte in faccia, non sono riusciti a scavalcare i muri né a scalare le montagne. Ma non si sono mai arresi, per noi, per loro. La mia vita, come quella dei miei genitori e delle mie sorelle, non sono state sempre facili e so perfettamente che anche il mio avvenire, e quello dei miei cari, non si annunciano certo senza nuvole. È il nostro destino, vi siamo preparati dalla nascita. Alcuni nascono con la camicia, e non hanno che da chiedere per ottenere: non è stato il mio caso. La mia vita, e quella delle mie radici, sono state, sono e resteranno un’eterna lotta contro l’ingiustizia e i pregiudizi: sono rom, rom di Romania. Sono rom, e oggi sono fiera di esserlo e di dirlo. Ma non è sempre stato così. Se oggi vivo in Francia, patria dei diritti umani, la mia lotta – il mio sacerdozio – così come quella dei miei cari sono quotidiane, per cancellare la cosiddetta differenza tra noi e gli altri e per far sì che quel testo, redatto nel 1798 dai rappresentanti del popolo francese, sia rispettato nei nostri confronti. Il primo articolo lo stabilisce chiaramente: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali nei diritti [...]». Ma la frase che ho sempre amato e difeso fin da piccola è quella dell’articolo XI, che spiega che «La libera manifestazione 16


Capitolo uno

dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente [...]». È ciò che ho sempre voluto: avere il diritto di fare le cose liberamente, senza vincoli. Ma durante il mio percorso, e guardando la vita dei miei cari, mi sono rapidamente resa conto che erano solo belle parole! Da quasi quindici anni vivo in Francia, paese europeo, senza frontiere; ma anche questo, in realtà, è vero solo sulla carta. Perché ogni giorno devo dimostrare che il mio posto e quello dei miei cari sono qui, nella patria di Voltaire e che, dopo tutti questi anni, oggi qui siamo a casa nostra. Ho letto di recente da qualche parte che i rom, da sempre cacciati, sarebbero un “popolo dell’autostrada”. Be’ se è così posso tranquillamente dire che i miei genitori hanno oggi – spero – superato l’ultimo casello. Mi auguro con tutto il cuore, soprattutto, che non rifacciano il cammino in senso opposto, e che possano posare definitivamente le valigie in questa sorta di Eldorado raggiunto al termine di un percorso disseminato di ostacoli. Per loro, per il popolo rom spesso sconosciuto ma così tanto biasimato, ho voluto raccontare la mia storia, perché tutti possano capire che nei nostri occhi c’è amore e speranza, che non vogliamo essere rifiutati o compatiti ma semplicemente compresi. Mi chiamo Anina, ho ventidue anni, il mio paese è la Francia ma le mie radici si trovano a più di duemila chilometri da Parigi. È a Craiova che sono nata, nel freddo rumeno del mese di gennaio del 1990. In quell’inverno glaciale il mio paese stava vivendo quella che fu certamente la più grande rivoluzione della sua storia. 17


Sono rom e ne sono fiera

La sollevazione del popolo rumeno, esasperato da tanta ingiustizia e miseria, oppresso da anni di dittatura, aveva portato solo qualche settimana prima alla caduta dell’antico regime comunista e all’esecuzione degli sposi Elena e Nicolae Ceaus,escu. Salito al potere nel 1965, il conducător era stato l’ultimo, nell’est Europa, a brandire la bandiera del dogma e a voler praticare un nazionalismo di facciata che non fece che rinforzare il suo carattere xenofobo. Per i rumeni la vita a quell’epoca non era facile. Ma per il popolo rom, o “romani cel” (da qui il nome romanichel), fu certamente il peggior periodo della propria esistenza. Arrivato dall’India intorno all’anno 800, si era stabilito su quella che è poi diventata la Romania. Sotto il regime del dittatore il nostro popolo è stato senza sosta beffato, violentato e obbligato a piegarsi alle volontà politiche. Il potere al governo fece di tutto perché i miei antenati lasciassero i mestieri tradizionali che gli erano propri da secoli, i mestieri più disparati, come forgiatore, calderaio, canestraio, mattonaio, falegname... Altri, e questo sin dalla notte dei tempi, erano più orientati verso l’arte e si presentavano come musicisti, danzatori folcloristici, ammaestratori di serpenti o di orsi. Le donne erano per la maggior parte cartomanti, chiaroveggenti o lavandaie, e si occupavano dei bambini. Ma il regime comunista rumeno, tale pretesa repubblica popolare, forzò queste donne e questi uomini a lavorare nelle fattorie di stato come veri schiavi. Dò il giusto peso alle mie parole quando dico “schiavi”. Durante questo periodo di politica repressiva instaurata nel mio paese Ceaus,escu aveva inoltre spronato la sedentarizzazione forzata sistemando i rom in vecchie case tirate su alla meno peggio e costruite nelle periferie cittadine. 18


Capitolo uno

In uno di questi quartieri, situato nella vicina periferia ovest di Craiova, viveva la mia famiglia. Ho ovviamente solo vaghi ricordi di com’erano quei luoghi all’epoca, ma ricordo molto bene che eravamo tutti riuniti nella casa di Boana, il mio nonno paterno. Mia nonna si chiamava Cijmarita. In quel piccolo fabbricato, che aveva costruito mio nonno stesso, vivevano anche i miei genitori, mia sorella maggiore Anita e Maria, la mia sorella più piccola, mio zio Gari con sua moglie Carmena e i loro figli, Tibi, le gemelle Nori e Meri, e il figlio più piccolo Boana. Mio zio Vasile, il più grande dei figli, abitava in un’estensione aggiunta alla casa di mio nonno con sua moglie Ministra, le figlie Ancuta, Citadela, Pamela e il figlio Tibi. Eravamo sempre insieme. Tutti i rom vivono così, in famiglia, congiunti, uniti. È una tradizione. Nelle nostre case c’è spesso una stanza centrale, dove prima i bambini e poi i genitori consumano il loro pasto quando c’è qualcosa da mangiare. Poi, attorno a questa stanza, troviamo diverse piccole camere dove dormono le fratrie. Tradizionalmente i figli maschi restano nel domicilio dei genitori e li aiutano sia finanziariamente che nelle faccende quotidiane, mentre le figlie vanno ad abitare dai genitori del marito in un’altra casa che non è mai molto distante. È così che si formano i quartieri rom, dove tutti si conoscono, dove in ogni casa si trova un cugino, una zia, un fratellastro... Tutti gli studi e le osservazioni fatte dalle rare organizzazioni che si interessano al nostro popolo rilevano spesso che, in questi quartieri in cui siamo tollerati, il primo 19


Sono rom e ne sono fiera

elemento di inquietudine insieme all’insalubrità è il sovrappopolamento. In effetti alcune famiglie, non avendo altra scelta, devono vivere ammassate in quindici o venti in una stanza. È evidente che la convivenza sia spesso difficile, l’intimità non esista e purtroppo la promiscuità spinga, in certe famiglie, a matrimoni tra consanguinei. Fortunatamente noi questo non l’abbiamo vissuto. Ma per quel che riguarda l’insalubrità, al contrario, non siamo stati risparmiati. Come del resto tutte le famiglie del quartiere Fata Luncii in cui abitavamo. Era formato da un raggruppamento di piccole abitazioni di cemento e mattoni, un susseguirsi di costruzioni in legno, lamiere e diversi materiali di scarto. Tutte queste case erano più o meno conformi al paesaggio e si succedevano lungo la via Hanul Rosu, una strada di pietra, piena di buchi e difficilmente praticabile in macchina, soprattutto in inverno. In estate era la polvere ad invaderci, la polvere e gli odori del grande campo vicino che serviva da deposito per i rifiuti della città. Là c’era come del fumo, una specie di nebbia perennemente calata su quella discarica che fungeva da parco giochi per alcuni bambini del quartiere. Ma quella discarica a cielo aperto era soprattutto una fonte di occasioni per i più sfavoriti tra noi. Molti vi passavano le giornate a perlustrare tra i cumuli di immondizia, a frugare e dissotterrare cercando qualcosa che potesse essere utile. Era il quartiere della mia infanzia, dove sono nata, dove ho vissuto. Lì si trovava la casa della nostra famiglia: una casa al piano terra, in terra battuta, un riparo senza acqua corrente, senza sanitari, senza depuratori, con elettricità precaria sistemata alla bell’e meglio dagli uomini. 20


Capitolo uno

In questo quartiere, in cui ancora oggi vivono i rom di Craiova, non un tetto è impermeabile. Ovunque le tegole e le lamiere sono guaste e lasciano passare la pioggia, la neve, il vento. Nemmeno i muri delle case sono in regola in termini di isolamento. Per dirla in altre parole, noi subiamo i morsi delle stagioni: la pioggia in autunno, il caldo soffocante d’estate, ma soprattutto il freddo glaciale con un termometro che scende ampiamente sotto lo zero d’inverno, causando dei danni alla nostra salute. Non si diventa vecchi in un campo rom. Gli studi mostrano che ancora oggi l’aspettativa di vita è tra i dieci e i quindici anni meno elevata che altrove. Il secolo scorso, a Fata Luncii e in tutti gli accampamenti dell’Europa centrale e dell’est doveva essere anche peggio. I miei nonni, che all’epoca erano tra i “più ricchi” della via, disponevano di una casa in cui le uniche comodità erano un caminetto e dei grandi tappeti posati direttamente sulla terra battuta. Ma nemmeno da loro c’era l’acqua. Mia madre andava a prenderla a centinaia di metri di distanza, vicino a quella civiltà che faceva di tutto per non darcene nemmeno una goccia. Nonostante la mia giovane età all’epoca, ricordo ancora mia mamma e una delle mie zie tornare dalla città, congelate, portando dei blocchi di ghiaccio che facevano poi fondere in grandi paioli neri posati su un fuoco di legna. In seguito potevamo lavarci dentro ampie bacinelle. Per quanto riguarda la biancheria mia madre andava a lavarla in un fiume situato all’uscita del quartiere; spesso usava anche il grande abbeveratoio in pietra che si trovava nel giardino del nonno. Eh no, là all’epoca non c’erano rubinetti, né pozzi, né sorgenti naturali. 21


SCRITTURE RESISTENTI

Quando domani per strada incrocerete una signora con la schiena curva, con un cartello di cartone sulle ginocchia, quando vedrete che accanto a lei c’è seduta una bambina dai capelli lunghi e neri, non giudicatela, non insultatela, non picchiatela. Ho vissuto tutto questo e ne sono stata segnata a vita. Ma oggi, davanti a me, ci sono le porte della Sorbona che si aprono.

euro 15,00 ISBN 978 88-98841-50-9


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