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Alberto Prunetti

AmiAnto una storia operaia





scritture Resistenti



Amianto, una storia operaia


Prima edizione: © 2012 Agenzia X © 2014 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Edizione riveduta e corretta Pubblicato in accordo con l’autore c/o Agenzia letteraria Kalama Progetto grafico: Alessio Melandri

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Amianto una storia operaia Alberto Prunetti Consulenza editoriale

Wu Ming 1



A fronte alta, malgrado tutto Valerio Evangelisti

Avete tra le mani un libro terribile e bellissimo. Detto questo, ci sarebbe poco da aggiungere. Ogni lettore noterà da sé la verità della mia constatazione. Ciò che scriverò sotto il giudizio iniziale è dunque, in certa misura, superfluo. Dolore, divertimento, pena, riflessione, compartecipazione. Quanti testi moderni riescono a suscitare una tale gamma di sentimenti? Eppure ho provato tutto ciò leggendo la storia narrata da Alberto Prunetti. Una nuvola di sensazioni alternanti e contrapposte, quali solo uno scrittore vero riesce a condensare. Sulla bravura di Prunetti non avevo dubbi. Le prime cose che lessi di lui erano le sue disavventure tragicomiche di pizzaiolo a Londra. Seguirono racconti, un romanzo (Il fioraio di Perón), ricostruzioni storiche in chiave narrativa (Potassa), antologie, molte traduzioni, molte introduzioni e curatele di scrittori sudamericani (pochi, in Italia, conoscono l’Argentina e la sua cultura quanto Prunetti). Non immaginavo però di ritrovarmi così commosso – au­tenticamente commosso – nel leggere le righe che ha voluto dedicare a suo padre. E così coinvolto in una vicenda che, purtroppo, non è ancora finita. 11


Amianto, una storia operaia

Renato Prunetti, operaio tubista e saldatore, era fiero della sua professione e della sua bravura. Solo che doveva coprirsi d’amianto per svolgere il lavoro. L’amianto uccideva lentamente, e lui non lo sapeva. Quando fu noto, il padronato cercò di tenere nascosto il più possibile il male compiuto, poi di ritardare le misure riparatorie. Scegliere altre forme di protezione avrebbe compromesso un ciclo collaudato, e obbligato a spese senza rientri sul piano del profitto. Sostituire un lavoratore che muore costava (e costa) sempre meno che introdurre modifiche nel processo lavorativo. Direi anzi che oggi costa meno ancora. L’Ilva, e non solo l’Ilva, ce lo ricorda. Alberto Prunetti assiste al logorio progressivo del padre. La vicenda è al tempo stesso angosciante e, nelle prime pagine, quasi divertente, ma solo perché, pur consapevoli dell’esito (ci è stato anticipato fin dalle prime righe), non lo abbiamo ancora “vissuto”. Prunetti calibra benissimo il contagocce delle emozioni. La sua bravura di scrittore la si vede, la si tocca grazie a una lingua vivissima e naturale, impreziosita da espressioni idiomatiche. Una costruzione stilistica raffinata e tuttavia avvertita dal lettore come spontanea, quale è. Si passa da un’infanzia tutto sommato felice, scandita da corse in bicicletta tra cumuli di veleni, all’inizio del dramma. Con, in mezzo, la lunga parentesi “normale” dell’uomo – Renato – soddisfatto di ciò che fa, del suo essere indispensabile per chi lo impiega, delle sue veniali trasgressioni (un bicchiere di vino, qualche esplosione di esuberanza), della protezione che assicura alla famiglia. Con la morte già nelle membra, a sua insaputa. Seguirà l’iter avvilente, burocratico e giudiziario, percorso dal figlio perché sia sancito che fu un delitto. Fino a una deludente soluzione di compromesso, che non voglio anticipare. 12


Introduzione

Due note conclusive. C’è chi ritiene che la classe operaia sia tramontata per sempre, sostituita dal “lavoro cognitivo” (a cui vorrebbe approdare Alberto Prunetti, salvo trovarsi a sguazzare in un pantano di precarietà e frustrazione). Falso. Basta guardare fuori dai confini occidentali per scoprire che la classe operaia, espunta in un luogo, riappare in un altro. Ed è ancor più sfruttata. Gli operai delle maquiladoras del Messico, delle Filippine, dell’India ecc. sono forse “proletariato cognitivo”? Non prendiamoci in giro. Sono proletariato e basta. Di storie come quella di Renato potrebbero narrarcene a centinaia. Seconda nota. Senza volere santificare il suo martirio, è certo che l’orgoglio di Renato Prunetti per ciò che faceva aveva basi concrete, materiali. Saldava, forgiava, ridisegnava i metalli. Ne andava fiero. Anche i suoi momenti di ribellione traevano origine da tali abilità. Si può irridere un simile passato. Pubblicare romanzetti di successo in cui la fabbrica è solo sfiorata, richiamata nel titolo e poi ignorata. Ma quel passato implicava fierezza, onorabilità, senso di appartenenza, ribellione ai soprusi. Ciò che oggi si cerca di cancellare con ogni possibile, sporco espediente, perché in quella condizione esistenziale, prima ancora che materiale, risiedeva l’antitesi prima allo sfruttamento. Un operaio con la fronte bassa non è un operaio, ma un involucro funzionale a produrre miseria propria e ricchezza altrui. Renato Prunetti la fronte alta la tenne sempre, anche quando fu ormai prossimo a morire. Per fortuna lascia un figlio capace di far rivivere il senso di una resistenza umana con una bravura che mette i brividi.

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Ai figli delle officine. A Sara.


Nota sulla colonna sonora

I titoli dei capitoli si riferiscono a canzoni di Nada e Piero Ciampi. Ma nella testa ronzavano anche i musicisti livornesi Bobo Rondelli, I licantropi, Pardo Fornaciari, Luca Faggella e la canzone “Pugni chiusi” cantata da Demetrio Stratos nella formazione beat de “I Ribelli”.


Ma che freddo fa

Avrei voluto che questa storia non fosse davvero accaduta. Come si dice? Frutto della fantasia dell’autore. Invece è la realtà che ha bussato alle porte di queste pagine. L’immaginazione ha riempito i buchi come uno stucco di poco pregio e ha ridisegnato certi episodi per meglio riprodurre la vicenda di una vita e di una morte. Di una biografia operaia. Il racconto dovrebbe tenere come un raccordo di tanti tubi diversi. Lui lo diceva sempre: mettici il canapone, regge più del teflon. Stai solo attento a rispettare il senso della filettatura e lega il tutto con un dito sporco di mastice verde. Poi stringi con forza, ma senza cattiveria. Non deve perdere. Ho fatto così, con la penna. Ho cercato di rispettare la filettatura della storia, senza forzare il passo degli eventi, senza strozzature. Ho usato il mastice della fantasia e stretto senza cattiveria ma con decisione l’ordine del discorso. Non gocciola: ci ho messo un cartone sotto e le lacrime si sono asciugate. Bisognava saldarle così, l’idraulica dei grandi impianti e la memoria degli uomini che hanno unito chilometri di tubi e acciaio per una vita. Per portare la 17


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pressione del sangue nei canali dell’esistenza, per pomparla nei serbatoi della memoria e vederla gocciolare giorno dopo giorno a fertilizzare una pagina. Lui indossa una tuta verde e un paio di guanti scamosciati. Piega un ginocchio appoggiandosi sulla terra ghiaiosa del cantiere. Impugna la mola: con un colpo di mazzuolo sulla testa di un cacciavite dall’impugnatura smussata, in direzione opposta al senso di rotazione, allenta la ghiera che fissa la spazzola e inserisce un disco a taglio. Poi, con il pollice guantato, preme l’interruttore verso l’alto. La lama comincia subito a girare alla velocità di diecimila giri al minuto. Avvicina il disco al tubo grigio. Al contatto della lama il rumore cambia, si trasforma in un urlo metallico, seguito da un’esplosione di scintille e dalla proiezione verso l’alto di una doccia secca di particelle fibrose e regolari. Sono piccoli dardi cristallini. Saette invisibili capaci di scendere lungo l’esofago, di calarsi nei polmoni e rimanere attaccate alla pleura per venti, trenta, anche quarant’anni, producendo una ferita mal cicatrizzata che l’organismo non riesce a debellare e che avvia un processo di degenerazione cellulare. Un tumore. Lui distende una prolunga industriale che si snoda lungo il perimetro di una cisterna piena di idrocarburi. Il terreno è impastato d’olio denso e vischioso, d’un nero virato al cobalto. Collega la saldatrice al cavo elettrico, fissa la pinza a un elemento in metallo, inserisce nella seconda pinza un elettrodo, poi l’appoggia a terra. Impugna con la sinistra una maschera da saldatore e se l’avvicina al volto. Un altro operaio afferra un telone grigio sporco e lo srotola sopra di lui. Adesso è completamente al buio. Con la destra impugna la pinza, avvicina l’elettrodo al metallo. Scocca la luce, violenta, ammortizzata dalle lenti affumicate della 18


Ma che freddo fa

maschera: scintille fioccano dalla punta dell’elettrodo che si consuma velocemente, sciogliendo e raggrumando metallo attorno ad altro metallo. Quando l’elettrodo è completamente fuso, l’uomo, sempre sotto il telone, afferra il mazzuolo e nell’oscurità indovina facilmente il grumo ancora incandescente ma già rappreso. Con la testa del mazzuolo picchia sul grumo e rompe la scorza di scorie attorno al punto di saldatura. Un lavoro pericoloso, saldare a pochi centimetri da una cisterna di petrolio. Una sola scintilla è in grado di innescare una bomba che può portarsi via una raffineria. Per questo ti dicono di utilizzare quel telone grigio sporco, che è resistente alle alte temperature perché prodotto con una sostanza leggera e indistruttibile: l’amianto. Con quello le scintille rimangono prigioniere e tu rimani prigioniero con loro e sotto il telone d’amianto respiri le sostanze liberate dalla fusione dell’elettrodo. Una sola fibra d’amianto e tra vent’anni sei morto.

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Andare, camminare, lavorare

Questa è la storia di un uomo che si chiamava come me ed era nato nel giorno in cui io sono nato, eppure non sono io. È un racconto che comincia con una canzone di Nada e finisce come una storia di metallo pesante. È il 1969, siamo alla fine dei “favolosi” anni sessanta e al Cardellino di Castiglioncello, in provincia di Livorno, Nada Malanima, reduce dal festival di Sanremo, ha appena cantato Ma che freddo fa. Un paparazzo livornese, conosciuto col soprannome di “Nick Vampata” per la potenza del flash alogeno, la fotografa circondata da ammiratori e camerieri. Accanto a lei c’è un ragazzo. È il cameriere più alto, è magro e assomiglia vagamente a Jean-Paul Belmondo. Nada ha sedici anni, lui ventiquattro. Lui è Renato, il protagonista di questa storia che comincia con la colonna sonora degli anni sessanta e finisce con una vittima uccisa lentamente. Se fosse un noir, sarebbe uno di quelli in cui si capisce subito il nome dell’assassino. Una storia di “omicidi bianchi”, con un colpevole circondato da indizi e tanti complici che negano ogni responsabilità. Senza lieto fine: la minaccia è ancora attorno a noi, libera, un killer silenzioso protetto da una legione di medici, ingegneri, consulenti, industriali. 21


Amianto, una storia operaia

Questa storia comincio a raccontarla controvoglia. Volevo anzi dimenticarla, come se l’oblio fosse l’unico modo per elaborare il lutto: niente visite al cimitero, niente ricordi, niente più ospedale, niente letto terminale nel salotto di casa. Ma poi è ricomparsa questa fotografia che non pensavo esistesse davvero. A questa foto di Renato e Nada Malanima, perduta in qualche scatola di cartone in un archivio fotografico, io non avevo mai creduto. Lui lo raccontava e tutti giù a ridere. Sì, sì, gli dicevamo ogni volta che, svuotato il bicchiere di rosso, lui tornava a vantarsene. Fatto sta che un anno dopo che ci ha lasciato, telefona suo fratello: “Comprate il giornale che c’è la foto di Renato con Nada”. Sicché, dé, di volata in edicola, apro “Il Tirreno” e la vedo. Era vero. Sua moglie, Francesca, inizia a piangere, a dire quant’era bello... e comincia a raccontare. Uno non può neanche provare a lasciarsi ingoiare dal buio della memoria, dal tempo che come dicono risana le ferite, che neanche due giorni dopo la pubblicazione della foto con Nada sul giornale ci arriva una lettera del patronato: stavano per scadere i termini per il riconoscimento dell’esposizione professionale all’amianto, che lui aveva provato inutilmente a ottenere prima della malattia. Che si fa? Lui voleva andare avanti. Però bisogna ricostruire il suo curriculum e per uno che nella vita ha solo e sempre lavorato e che ha identificato se stesso con il proprio mestiere di metalmeccanico, significa ricostruire la sua stessa vita, la sua biografia operaia. Poi è arrivato anche il sogno. Non era la prima volta che mi appariva in sogno ma stavolta era diverso. Immagino che alla gente “bennata” – i pargoli dei ceti abbienti – i morti tornino in sogno per risolvere conflitti edipici o altri imbarazzi esistenziali, oppure per svelare il luogo in cui è 22


Andare, camminare, lavorare

nascosta la gioielleria di famiglia. A me il morto si ripresentò come se dovessi fare la revisione della macchina. La mia automobile è infatti la sua, una vecchia Audi 80 del 1990, che io tratto con disinteresse negli aspetti di pulizia degli interni ma a cui garantisco una regolare e attenta manutenzione. Sono in grado anche di cambiare le parti usurate, per quanto sia difficile trovare pezzi originali o sostituti compatibili anche dai ricambisti più sgamati. In ogni caso, nonostante la carrozzeria stia subendo gli insulti del tempo, il motore va che è una meraviglia: non mi ha mai lasciato a piedi, funziona anche senz’olio, con la benzina sporca o con solo tre cilindri (succede quando le candele sono sudice e non innescano tutti i pistoni). Secondo il mio meccanico l’auto mi vincerà per noia. Solo una volta ha provato a fermarsi dalle parti di Ribolla, nel grossetano più agro, perché la pompa della benzina si rifiutava di funzionare, ma un contadino sceso dal trattore per soccorrermi mi spiegò che in queste macchine la pompa cede se si surriscalda: ovviamente va cambiata, ma se vuoi tornare a casa, ogni volta che si ferma basta che ci sputi sopra, mi disse. Ci provò lui e non ripartì nonostante un paio di catarri filamentosi. Allora bestemmiò, si infilò nel fosso al margine dell’asfalto e ne rispuntò con una bella zolla d’erba umida. Fece un impacco di biadoni selvatici alla pompa della benzina e lo lasciò lì per un minuto. Poi ordinò perentorio: “Gira la chiave”. La macchina si mise in moto e mi riportò fino all’officina. Capirete che un’automobile così vale oro, altro che euro zero. Il problema è che va a benzina e il costo del petrolio mi sta inducendo a rottamarla: per metterla a metano, con i suoi trecentomila chilometri, è forse troppo tardi. Comunque, presentata l’automobile che fu di Renato e che per regolare passaggio di proprietà è diventata mia, ecco il sogno in 23


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cui lui mi apparve. Diceva: “Mi raccomando i rabbocchi... quando fa freddo mettici l’antigelo al liquido... l’olio, ricordati di cambià anche il filtro e quando rabbocchi stai sotto al massimo... li hai fatti novantamila chilometri? Devi cambià la cinghia di trasmissione... controlla anche quella dell’alternatore, che a forza di girà tra le pulegge tende a sfilacciarsi... se si rompe la cinghia dell’alternatore non si ricarica la batteria e poi devi andà a spende soldi dall’elettrauto... una volta la cinghia si ruppe anche a me ma io al su’ posto ci misi un calzino e feci altri cento chilometri... io l’avevo fatta cambià, ma ’un si sa mai... a proposito, la batteria... ricordati di staccà i morsetti quando te ne vai in culo al mondo a fa i tu’ giri e se c’è un po’ di schiumetta bianca, primo vole di’ che sei un brodo, secondo vedici di passarci la spazzola con le setole di bronzo per toglie’ l’ossido... e ogni tanto rabbocca gli elementi con l’acqua demineralizzata... il filtro dell’aria in che condizioni è? Te che vai sempre in campagna... d’estate la polvere è un problema... dai uno sguardo al liquido dei freni... controlla le candele, gli elettrodi so’ usurati? Ci so’ tracce d’olio? Dalle candele si capisce se un motore carbura bene... in ogni caso ogni tanto bisognerebbe sgrassarle con un po’ di benzina, solo che voi giovani ’un ciavete voglia di fa’ ’na sega...” Era un po’ un discorso di questo tipo. Avrei dovuto appuntarmi tutti i numeri che diceva (perché il sogno era molto più dettagliato, mi dava il voltaggio della batteria, il codice del filtro della benzina, mi indicava i chilometraggi massimi per la sostituzione dei pezzi rovinati) e giocarmeli al lotto. Io invece ho buttato i soldi in ricambi, l’auto oggi cammina ancora e il meccanico mi ha detto che ancora un po’ e si sarebbe rotta la cinghia dell’albero di trasmissione, 24


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con conseguenze funeste sul motore. Quindi per quanto non creda alle visioni metafisiche, il sogno è stato provvidenziale. A questo punto gli indizi erano tre: foto, lettera e sogno e non andavano presi sottogamba. Bisognava raccogliere le idee, dare battaglia sul fronte dell’amianto, rintracciare colleghi, riunire memorie, ricostruire il curriculum lavorativo. Scrivere insomma la sua vita. Bisognerebbe metterla giù con calma questa vita, cominciando dai giorni felici, da quel ragazzetto magro che è giovane ma di cartellini ne ha già timbrati tanti: ha smesso di studiare a quattordici anni, prima ha fatto il bagnino, poi il cameriere. Adesso, è il 1969, per qualche giorno si ritrova a indossare la tuta blu in fabbrica di giorno, alla Solvay, per poi “rigovernarsi” la sera: papillon con giacca, cameriere al dancing Cardellino. Come Nada, Renato è cresciuto tra Rosignano Solvay, il Gabbro, Castiglioncello e la strada tortuosa del Romito, quella che da Quercianella porta a Livorno lungo la scogliera, quella resa famosa dal film di Risi, Il sorpasso, dove Gassman esce di strada. Lavorare ai tavoli dopo la fabbrica forse è un diversivo per provare a ingannare il destino. Al Cardellino si diverte, passano di lì i nomi della musica leggera italiana, quella che sta rivoluzionando il costume, con le minigonne e le cover del pop rock anglosassone. La fabbrica è lontana, per una sera, e Nada è vicina. Renato sorride, sa che con quella foto farà morire d’invidia i suoi amici. Finisce l’estate e l’autunno del 1969 si fa caldo. Renato si toglie la giacca e il papillon per indossare esclusivamente la tuta blu. La fabbrica è il suo destino. In fondo, la Solvay è il destino di famiglia. Suo padre, Santi, è un muratore e la città-fabbrica lo ha sradicato dalle Colline metallifere, da quel lembo di terra, boschi di leccio sopra il suolo e 25


Amianto, una storia operaia

scritture resistenti

“Se uno legge Amianto e non gli arriva la botta, vuol dire che ha la testa sbagliata e si è messo il cuore sotto le scarpe. Vuol dire che i padroni lo hanno lavorato bene”. Wu Ming 1 “Dolore, divertimento, pena, riflessione, compartecipazione. Quanti testi moderni riescono a suscitare una tale gamma di sentimenti? Eppure ho provato tutto ciò leggendo la storia narrata da Alberto Prunetti. Una nuvola di sensazioni alternanti e contrapposte, quali solo uno scrittore vero riesce a condensare”. Valerio Evangelisti

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