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RTELLI O P D N LESSA A ALESSANDRO PORTELLI COLLANA DIRETTA DA WU MING 1
COLLANA DIRETTA DA WU MING 1
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DENTI R O M A S O R ROSA MORDENTI
O R T N E LC AL CENTRO A À T T I C A N CITTÀ DII U UNA D A M I S S I H NTIC ANTICHISSIMA A E INDICIBIL O UCCISE IA R O T S A L LA STORIA INDICIBILE L DI CHI IGIANO E T R A P N U DII UN PARTIGIANO E DI CHI LO UCCISE D
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PORTELLI O R D N A S LES A ALESSANDRO PORTELLI
SOMMARIO
Prefazione di Alessandro Portelli 7 La rosa è viva (una specie di prologo) Fuori Dentoni
17 27 28
Capitolo 1 Mi inserii in questa emozione Recando giĂ dentro la protesta Ferocemente vivi
31 31 32 37
Capitolo 2 Il mestiere Di tutti i tempi
39 39 40
Capitolo 3 Miti pretese
47 49
Capitolo 4 Le conseguenze della resa
57 59
Capitolo 5 CosĂŹ, ai nostri giorni Al centro
69 72 75
Capitolo 6 Entro nella tua pagina
79 80
Di chi sono le storie? (una specie di epilogo)
87
Infine 91
AL CENTRO DI UNA CITTÀ ANTICHISSIMA
Per i miei nonni Renato e Maria Luisa Per le mie figlie Mimosa e Stella Per tutti quelli in mezzo
PREFAZIONE
IL PASSATO NON È PASSATO di Alessandro Portelli
C’è un grande romanzo di William Faulkner, Absalom, Absalom! (1936), che mi è venuto in mente appena ho cominciato a leggere questa storia raccontata da Rosa Mordenti. Come questa, è la storia di una tragedia familiare antica di un paio di generazioni e di come si riverbera nel presente, coinvolgendo l’identità non solo delle persone implicate ma di tutto un pezzo di mondo che infine è il nostro. Più ancora – come questa – è la storia di una ricerca di senso da parte di una persona nata dopo che cerca di capire il senso del passato mettendo insieme frammenti di memoria, frugando archivi, scrutando immagini e colmando vuoti coi sentimenti, con le congetture, con l’immaginazione. Tutto sommato, è così che tutti noi impariamo a conoscere la storia delle nostre ascendenze familiari. Nessuno si mette seduto, magari accanto al focolare, a raccontarcela dall’inizio alla fine; la dobbiamo rappezzare mettendo insieme frammenti di discorsi sentiti per caso, oggetti trovati, frasi sfuggite ai “grandi” – il Quentin Compson di Faulkner si interroga su una vecchia lettera, e la ricerca di Rosa Mordenti è messa in moto da una frase sfuggita al padre durante un viaggio in macchina – «Quando tua nonna era in prigione...». 7
Quindi questo è un lavoro sulla memoria – di più, sulla storia della memoria e dell’oblio, su come la memoria si rimuove e si confonde senza mai poterla cancellare del tutto, e su come il desiderio di conoscere e di conoscersi la resuscita e la ricompone (“rimembrare”) col cuore (“ricordare”) e con l’intelligenza (“rammentare”). È memoria familiare, ma riverbera in cerchi che si allargano fino a investire la memoria della città e il modo in cui la città stessa si racconta e si rappresenta. Il racconto comincia con un momento emozionante della storia della Resistenza, raccontato attraverso la passione, il senso dell’umorismo, l’incoscienza giovanile di questi “strani comunisti romani” – quelli che ci hanno insegnato poi a chiamare “vecchi partigiani” ma che erano ragazzi che combattevano, sognavano e si innamoravano, come Lucia Ottobrini e Mario Fiorentini, Maria Teresa Regard e Franco Calamandrei, e tanti altri. Il matrimonio fra Renato e Maria Luisa avviene poco più tardi, tuttavia è impossibile non leggerlo (come poi faranno, stigmatizzando, tribunali e giornali) come l’espressione di un momento in cui tutto sembrava possibile, in cui le vecchie divisioni, le vecchie gerarchie, i vetusti classismi sembravano sconfitti e abbattuti («emergemmo [...] con una serie di illusioni, di ingenuità, di rozzezze politiche. Ma ferocemente vivi», scrive Laura Lombardo Radice, citata nel libro). E allo stesso modo, il fallimento e il disastro con cui si conclude sembrano anche una trasparente metafora della tragica sconfitta di quelle speranze, la fine dolorosa di un futuro balenato e scomparso. Quella che Rosa Mordenti chiama la “normalizzazione” politica e sociale del dopoguerra sta già nel tornare “indietro e nei ranghi” di Maria Luisa. Renato Mordenti diventa, così, una specie di filo rosso che attraversa il dopoguerra romano. Non è mai “al centro”: nei film sta ai margini dell’inquadratura e 8
della trama; nell’Unità, inventa una pagina di “giornalismo gregario” lontana dagli editoriali politici. Tuttavia, secondario nella storia e protagonista nel racconto come un picaro classico, strania la normalità del centro grazie al suo sguardo laterale: la sua storia personale ci fa da guida attraverso intrecci culturali complessi di un momento forse irripetibile in cui cultura di massa e cultura politica si intrecciano, nello sport come nel cinema, con Emil Zátopek metafora del socialismo reale immaginato (ma, da ragazzino ignaro di politica, Zátopek l’ho sognato anch’io: erano anni senza televisione, in cui l’epica sportiva era soprattutto racconto, e in questo Renato Mordenti era maestro); o con Roma ore 11 di De Santis sintesi del perverso incrocio fra povertà, sessismo, speculazione edilizia, sfruttamento del lavoro (e quindi sintesi della città, che non a caso è la prima parola del titolo). Da qui anche una caratteristica insolita del libro di Rosa Mordenti, che combina narrativa e saggistica raccontando una storia familiare e un’esplorazione sociale infilate l’una dentro l’altra, il personale inventato e distrutto dal sociale, la biografia incastrata dentro la storia, inoltrandosi di volta in volta nelle storie dietro le storie senza paura di sembrare digressiva (esemplare, per esempio, il passaggio dedicato al retroterra del film di De Santis) perché poi tutto torna insieme in Renato Mordenti: sono i suoi rapporti, i suoi compagni di scuola, i suoi amici, i suoi compagni di lotta, i suoi lavori a disegnare come una ragnatela che si stende su tutta Roma. Questa storia romana del primo dopoguerra ci fa vedere quante cose sono cambiate in questa città e nella sua cultura: basta leggere i toni appassionatamente politici con cui l’Unità dava conto della morte e della vita del compagno Renato Mordenti («un ricordo umano acuto e doloroso come una ferita, un’immagine ferma, 9
rispecchiante la fisionomia precisa e netta di un combattente giovane, audace e ostinato, della classe operaia»), e confrontarli con oggi. Ma anche quante cose sono rimaste identiche: il volgare sessismo da “Balocchi e profumi” con cui i giornali (nessuno escluso) scaricano scorie di immaginario malato sulla figura di Maria Luisa. Solo per lei una relazione fuori del matrimonio diventa un’aggravante. Una donna non può essere solo colpevole, ma deve essere anche dissoluta («una moglie che non esitava a raggiungere il suo amante in un albergo»: l’Unità), viziata per appartenenza di classe («natura molto esuberante, tutta presa dalle sue vanità femminili e quanto mai desiderosa di condurre una vita dispendiosa e brillante»: l’Avanti!) e contemporaneamente traditrice della classe a cui appartiene («esaltata da sentimenti antiborghesi», «comunista dilettante»); deve essere la donna fatale contemporaneamente travolta dalle passioni («ha agito in stato d’ira») e gelida («L’imputata, pallidissima, ha accolto la sentenza... con apparente freddezza»). Da cronista, Rosa Mordenti dà conto della sentenza. Ma, come è compito sia della letteratura sia della storia, non permette che la sentenza chiuda il racconto e confini le soggettività. Nel testo della sentenza, scrive, manca letteralmente Renato. Ma più profondamente, sebbene di lei si parli, manca anche Maria Luisa: al di là dell’ammassamento di stigma e luoghi comuni, di lei come essere umano nel discorso pubblico di giudici e giornali non rimane quasi niente. Per figli e nipoti, sia lei sia Renato sono due assenze; ma sono due assenze di genere diverso, perché diversa è la presenza pubblica di uomini e di donne, in quegli anni e forse ancora. Le linee generali della storia di Renato si possono documentare, con le testimonianze dei compagni e con le cose che ha scritto, lo possiamo persino vedere nelle inquadrature dei film. Ma che cosa si agitava dentro Maria Luisa lo 10
possiamo solo intuire; i suoi sentimenti, i suoi anni di carcere, come li vive e come li ricorda e li pensa, sono un silenzio che possiamo colmare solo con racconti e immaginazioni altrui. Qualcosa però lo fa intuire la testimonianza in prima persona di sua nipote sulla “seconda vita” di Maria Luisa: «nella casa all’ultimo piano, la casa dei miei ricordi, dalle mattonelle azzurre e dai fiorellini sulla carta da parati, mia nonna non ha mai voluto le sbarre alle finestre». “Mia nonna” – è il punto di vista di una narratrice coinvolta sentimentalmente e politicamente, parole emozionanti proprio per la loro normalità, infine intravista dopo tanta pena: «Non so, invece, come mia nonna sia potuta sopravvivere alla colpa, all’orrore, al processo, alla galera, al dolore, al rimorso, ai rimpianti, allo sguardo dei suoi figli. Ma l’ha fatto per fortuna [...] e io l’ho amata moltissimo, come si amano le nonne che ci hanno a loro volta infinitamente amato». Non è un lieto fine: fine pena mai, dice Rosa Mordenti. «Il passato non solo non è morto; non è neanche passato», dice William Faulkner. Per questo, il libro che abbiamo fra le mani è un romanzo nel senso più pieno del termine: perché parla soprattutto di quello che non si vede ma che ci portiamo dentro. Le speranze e le sconfitte, l’amore e la morte, la città di muri e la città di sentimenti. Io ho un ricordo di un nonno amatissimo, costruttore di giocattoli artigianali indimenticati, cesenate come Renato Mordenti, fascista ante marcia nella turbolenta Romagna, “sciarpa littorio” mai pentito né cambiato. L’amore ha percorsi insondabili e indistruttibili. Sotto tutti gli eventi concreti e raccontabili, la trama profonda di questo racconto sta nel viaggio invisibile tra l’amore euforico e tragico di Renato e Maria Luisa e l’amore tenerissimo tra nonna Lisa e Rosa a cui dobbiamo queste pagine. 11
«E potremmo avere tutto questo», disse la ragazza. «E potremmo avere tutto e ogni giorno lo rendiamo sempre più impossibile». «Che hai detto?». «Ho detto che potremmo avere tutto». «Possiamo avere tutto». «No che non possiamo». «Possiamo andare dappertutto». «No che non possiamo. Non è più nostro». «È nostro». «No, non lo è. E quando te l’hanno portato via, non riesci ad averlo mai più». Ernest Hemingway, Colline come elefanti bianchi
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Perciò ti ho visto correre con i tuoi compagni a rotta di collo lungo via Nazionale, inseguito dai soldati tedeschi che vi avevano fermato sulla strada; avevi le mani sporche di vernice e avevi vent’anni. Ti ho visto scavalcare quel cancello di ferro altissimo con la forza della disperazione, poi perdere la scarpa, nasconderti dietro un cespuglio o un albero o forse un muretto, aspettare il buio e che si calmassero il respiro e il cuore. Ti ho visto, finalmente. Perciò ora ti posso scrivere e ti scrivo per quello che posso. Seguo le tracce.
ISBN 9788898841646
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