i ann r e i P imone Pieranni S Simone
E U D A T N A nale ETisiT S SETTANTADUE i al Crim Di #DialisiCriminale #
collana diretta da wu ming 1
© 2016 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Quinto tipo è una collana diretta da Wu Ming 1 Grafica: Alessio Melandri Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale.
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RANNI E I P E N IMO S SIMONE PIERANNI
E U D A T N ETTA RIMINALE SETTANTADUE S IC DIALIS #DIALISICRIMINALE #
Sommario When I am pinned and wriggling on the wall
9
La macchina
13
Roma #1
27
La macchina
37
Genova #1
45
La macchina
59
Roma #2
65
La macchina
75
Genova #2
85
La macchina
97
Genova #3
107
La macchina
119
Roma #3
127
La macchina
133
Roma #4
139
La macchina
149
Shanghai #1
159
Intermezzo 177 Shanghai #2
183
La macchina
185
Shanghai #3
191
La macchina
197
Roma #5
201
La macchina
209
Shanghai #4
217
La macchina
229
Genova #4
233
Lo “stacco�
239
SETTANTADUE
«Un padre, disse, è una galleria immersa nel buio più profondo, in cui camminiamo alla cieca cercando una via d’uscita». Roberto Bolaño, 2666 «Il sangue è più denso dell’acqua». Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese, 2015
When I am pinned and wriggling on the wall. Dire, fare, baciare. Salvare la vita. A volte capita: bevi, ti dicono, che bere fa bene. Crampi, contratture, crampi facciali, alle mani, a muscoli che non sai di avere. Perché sei ridotto al minimo. Crampi che non ti puoi alzare né stendere, né contrarre, né rilassare, crampi da bestemmiare. Il minimo cui sei ridotto. Non è un minimo negativo, però. È sufficiente: quanto basta, quanto serve, quanto è giusto. Vivendo attaccato alla macchina, la macchina ti conquista piano piano, con un movimento lento ma assiduo, attraverso le “linee”. (quanto è bello poter citare termini tecnici quando si conosce a pieno la materia?) Non si muove solo nelle vene, conquista le cellule, arriva ai neuroni, lambisce il cuore, l’aorta, i tessuti connettivi, l’intestino. Ti permea, ti scuote e ti allaccia, ti cuce e ti ammorbidisce, per poi indurirti ancora, fino a quando l’osmosi è completa. La macchina ragiona dentro di te. Ci si riconosce, ci si annusa, ci si capisce. 11
La macchina pulisce la tossicità che accumuli. Prima della macchina accumuli. Tossicità e non solo. Con la macchina: no. Non accumuli più: conservi, liberi, scuoti, svesti, rilasci, sventri e prosciughi. Asciughi, riduci, decidi. Prima potevi pensare di avere molto tempo, con la macchina non è più così. In attesa della macchina, pensi: oddio, cosa sarà domani? Quando sei a tu per tu con la macchina pensi: oggi cosa posso fare? Per dare un senso, per stringere il cerchio intorno all’inutilità. Asciugarsi, selezionare, preservare: la macchina è una scelta continua. La macchina ci insegna che alla fine bisogna scegliere, e farlo in modo razionale. Che irrazionalmente vai verso un punto ben preciso che più o meno è due metri di fossa coperta di terra. Che il potassio è trombosi, il fosforo salcazzo cosa, e quasi tutto è male. E l’acqua nelle cellule? Tutto sentimento e irrazionalità. Affanculo il cinismo, io sono razionale, io sono reale, io sono la macchina. Una sera ho cominciato a leggere un libro. Un uomo raccontava il suo presente in seconda persona e il suo passato in prima. Ho avuto la cattiva idea di inframmezzare la lettura a ricerche su Facebook di vecchi compagni del liceo o amici dell’adolescenza. Figli, mogli, mariti. Vite che presumibilmente nascondevano i loro segreti, le avversità, i momenti difficili, ma che apparivano normali. Come posso spiegare la mia, di vita? Quelle sono vite che non sono la mia. Quella di Mauretto è la mia. Uno che mentre ascolta una signora che parla di omosessuali sbotta: «Gay, omosessuali? Ma non erano froci?». O che quando gli chiedo se ha fatto richiesta di invalidità all’Inps, mi guarda e fa: «Ma che sei matto? Mai lavorato io!». Mauro, Maurino, Mauretto, è membro della mia tribù. La sua è una vita che è la mia. 12
C’è Banù, che noi chiamiamo l’“orsetto Banù”. È del Mali, è cattolico. Quando arriva padre Udino, il prete, lui fa la comunione. Noi facciamo finta di dormire. Una volta a Banù ho detto: «Chiedi al tuo amico prete cosa pensa la Chiesa dei trapianti». Appena padre Udino se ne va, Mauro sospira: «Quello ha il culo chiacchierato». Banù ora lavora come interprete al tribunale di Frosinone. Ha cambiato il turno, fa quello dei “giorni pari”. Mauro dice che è un infame e che avrà fatto arrestare un sacco di gente. Ogni tanto l’orsetto fa il turno di mattina. Arriva e ancora prima di essere attaccato già dorme. O la vita di Sene, un senegalese che ho incontrato ad Alghero. Lo attaccavano con il catetere. Sistemava entrambe le mani dietro la testa – io lo invidiavo ché il mio braccio sinistro, quando sono “attaccato”, non si può muovere – e si addormentava subito. L’ho invidiato ancora. Io non sono mai riuscito a dormire ad Alghero. Poi ho pensato che io il catetere col cazzo, però. O quella del ciccione cinese che prima di entrare in dialisi si fumava la sigaretta. Io me la fumo sempre dopo. Anche la sua è una vita che è la mia. (ultimamente non la fumo più, ho smesso. Smettere di fumare mi ha aperto un mondo di odori.) A Genova c’era una che improvvisamente urlava come una pazza. Non le faceva caso nessuno. Ammettendo anche che vada tutto bene, è innegabile rientrare in un meccanismo puramente statistico di abbassamento delle probabilità di sopravvivenza. Detta così, fa un certo effetto. Da questa constatazione ne deriva un’altra, sempre puramente numerica: quattro ore ogni volta per tre volte alla settimana, fanno dodici ore alla settimana, quarantotto al mese, ovvero cinquecentosettantasei ore all’anno. Io sono in dialisi da tre anni: 13
millesettecentoventotto ore. Ovvero, diviso ventiquattr’ore, settantadue giorni completi di dialisi. E neanche posso guardare uno in moto e pensare: un rene! Aspetto. That is not what I meant at all; That is not it, at all.
14
La macchina
Alghero «Scusi mi potrebbe indicare il reparto dialisi?». «Deve andare a sinistra, verso l’obitorio». Persone che ho conosciuto durante la dialisi a Pechino Il controllore sull’autobus 684, che passa alle 6.17 spaccate. Non ha il naso da cinese (ovvero ce l’ha lungo, come noi), e l’altra mattina uno è salito e ha detto indicandomi: «Ehi, amico, tu e quello straniero avete il naso uguale». Ci siamo guardati, io e il controllore. «È vero!» gli ho detto. Lui: «Naaaaa». E tutto l’autobus: «È vero!». La coppia che ha il banchetto per le colazioni appena fuori l’ospedale. Io passo, due kuai, venti centesimi di euro, e prendo l’acqua. Loro sono contenti, io ho la faccia un po’ più incazzata. (poesia pre-dialisi: Tu infermiera, che sei furiosa perché: tuo marito è uno stronzo, tuo figlio si fa i cannoni e non reagisce ai 15
tuoi “input”, perché sei a dieta e non puoi sfondarti di cornetti. Tu, infermiera di dialisi, non sai quanto sono furioso io.) Due che stanno fuori, cinque minuti prima di entrare nello stanzone. Fuori in questo senso: c’è un piccolo ambiente come fosse un’anticamera. Poi ci sono gli spogliatoi, un corridoio e si arriva nella stanza della dialisi. Che poi i cinesi si sparano sui letti della dialisi tipo quando prendono: aereo/treno/autobus/ovunque ci sia da accaparrarsi un posto, pensando che non siano numerati. Dicevo, i due nella sala d’aspetto. Uno è un ciccionissimo, l’altro uno sminchio. Uno chiacchiera e fuma. L’altro guarda l’iPad e fuma. Nella sala dialisi di Pechino ci saranno ottanta persone. È immensa. Io sono in uno stanzino da solo, sono uno straniero. Però con gli altri ci salutiamo, in questo i cinesi sono semplici: sanno che pago di più e sto più comodo, quindi sarebbero più pronti a detestarmi. Ma sanno anche che pago di più perché l’ospedale mi ha fregato dicendomi che i posti “normali” erano pieni e dovevo per forza pagare di più. Allora un po’ mi vogliono bene, secondo me. Il coglionazzo che si è fatto fregare dai cinesi. E allora io, per vendicarmi, gli ho spiegato che in Italia la sanità è pubblica e gratis (quasi, ma non mi sono inerpicato a cercare di dire in cinese: “terapie salvavita”). Non ci credevano. No La macchina è conservativa. Ti strizza e ti dice: No. Non è che ti va su il potassio e la macchina ti dice: Certo, capisco che avevi voglia di cioccolata, era una festa a casa di amici. Ti dice: No. Arrivi con troppi liquidi? La macchina non è che ti dice: Eh, certo, d’estate fa caldo. La macchina ti dice: 16
Cazzi tuoi, ora ti faccio pompare il cuore a un ritmo tale che la prossima volta che vedrai l’acqua pregherai che si trasformi in merda. Cosa fa la macchina? Ti pulisce, ti preserva, ti fa vivere, perché ti asciuga. Ti asciuga a tal punto che i muscoli si tendono, alla ricerca di acqua. Il fosforo è bastardo perché è ovunque. E quando sale il fosforo, ti gratti a morte. Il fosforo è ovunque, impossibile sfuggirgli. Se mangio un pezzo di formaggio la sera prima della dialisi, è matematico il prurito. Basta un pezzo. E quando mangi la pasta: «Eh, ma metticelo il formaggio! È la parte BUONA». #DialisiCriminale Una mattina Mauro arriva in stanza scortato da due guardie penitenziarie. Noi che siamo già nei letti ci guardiamo un po’ così. Lo avevamo capito, era girata la voce, avevano chiamato l’ospedale e soprattutto non era arrivato come al solito col pulmino da Ostia. Entra. Silenzio. Fa una faccia un po’ tra il sorridente e un perentorio “’Ste merde, ’st’infami”. Io e S., il portantino, ricambiamo lo sguardo. Fissiamo le guardie, come a dire: “’Ste merde, ’st’infami”. E secondo me, loro lo intuiscono. Da precedenti scambi di opinione con Mauro, visto che lo frequento più di chiunque altro, avevo capito che al gabbio c’era finito parecchie volte, quindi senza scompormi gli chiedo: «Che è successo?». «Ma niente… ’Sta cosa, ’st’associazione del cazzo» mi dice. «Impicci de robba». Allora mi incuriosisco, mi sporgo un po’. «E…?» gli faccio. «Un casino. Duecento guardie, elicottero, m’hanno sonato alle 5 del mattino che ho detto: “Aò, ma che cazzo ve sonate, arivo”». 17
«E…?». «Ma niente, comunque non centro ’n cazzo, io». Poi lo attaccano, saluta il medico, aspetta che se ne vada e mi dice: «So’ cose vecchie, vecchi amici della Magliana». Il Secco Il “Secco” è uno dei dottori del “Città di Roma”, l’ospedale dove fino ad ora mi sono trovato meglio al mondo (e posso dirlo visto che i primi buchi in assoluto sono cinesi). L’altro dottore è chiamato “Santo Subito”. Il Secco, in effetti, è secco, molto magro, si aggira per la stanza con le braccia dietro la schiena come un vecchio professore di matematica. Fa le maratone e ha il tipico corpo asciutto di chi ormai m’immagino intento a bere e un secondo dopo a sudare tutti quei liquidi maledetti. Deve anche fare una dieta di fibre, perché più che secco lo definirei fibroso. Ha la faccia dei cattivi dei film, ma quelli astuti, non i cattivi coglioni che poi si fanno fottere. Parla poco, ma snocciola un numero micidiale di parole e valori quando legge le analisi. È anche sarcastico; dice poche cose, ma sempre ficcanti. Esempio di un dialogo medico con il Secco «Le abbiamo fatto il kt su v». «Bene! Cos’è?». «È il valore che indica il livello di adeguatezza della dialisi, per sapere se dializza bene. È un valore medico ad hoc per i dializzati». «Quanto ho?». «Allora, il suo dato è di 1,1». «Che vuol dire?». «Che una dialisi fatta correttamente deve dare come valore 1,4, che è il livello standard di adeguatezza». «Quindi?». (adeguatezza mi rimbomba nel cervello: devo essere “adeguato”.) 18
«Significa che ogni 0,1 per cento che allontana, per così dire, dall’1,4 per cento secondo lo studio pubblicato nel 1999 da Rasmussen dell’università di Tallin, riconosciuto come studio primario circa l’affidabilità e la corretta dialisi, riconosciuto dalle Nazioni Unite, secondo il canone YTF23984 dell’università di Monaco di Baviera, e di recente applicato a un campione di 24mila e 345 dializzati in un periodo che va da quando comincia ad affacciarsi una simpatica brezza primaverile fino all’arrivo dei primi freddi autunnali, rappresenta un otto per cento di possibilità in più di decesso». «Nel senso di morte». «Sì, lei signor Pieranni, ha il ventiquattro per cento di probabilità di morire durante la dialisi». «…» «…» «…» «Ma non si preoccupi» aggiunge, «la rimettiamo a posto noi». Esigenze #1 A volte penso questo: avrei bisogno di un abaptista, capace di scendere nei meandri più reconditi della scatola cranica, osservando l’interno come fosse un film, andare avanti e indietro, fare un fermoimmagine e concepire il momento supremo in cui un’idea si forma. Oppure beccare quell’aneurisma che sta lì, fermo. E speriamo rimanga così. Quattro millimetri. Bloccarlo. Dirgli: “Se non ti muovi, va bene”. (un giorno un’infermiera mi dice: «Eh, i reni policistici. Certo c’è chi eredita una casa…». E ancora: anni fa, molti anni fa, cercai: “reni policistici” su Google. Finii su una pagina di Corriere Salute. Spiegava: malattia genetica, bla bla, cisti, insufficienza, dialisi. E terminava: “Il malato di reni policistici muore 19
– di solito – a cinquant’anni”. Ora hanno cambiato la descrizione, mi pare che l’ultima parola sia “dialisi”.) O forse basterebbe che la bilirubina fosse bianca striata rosa, come una spiaggia thailandese al termine della festa della Luna, dopo aver adeguatamente trucidato tutti i fricchettoni presenti. Un esame Ho sentito caldo, a cominciare dalla gola – la tiroide è ghiotta di iodio, mi avevano avvisato – mentre vedevo il flusso dell’arco sopra di me girare, inutilmente e in silenzio. Ho pensato alla volta precedente, avevo indossato il camice verde, indaffarato nel capire cosa mi stesse succedendo intorno. Questa volta, no: penso allo stent capace di racchiudere un mondo e renderlo impermeabile alle negatività esterne. Che poi sarebbe il mio corpo. Ultimamente mi parlano di titanio. Nel cervello. Un altro esame Sono giorni che ci penso: clisma. Devo fare trecentomillenovantamila esami per entrare nella Mitica Lista Di Quelli in Attesa del Trapianto. Per entrarci, devi essere perfetto. Non è che diamo un rene a uno che ci crepa due settimane dopo, no? Allora devo fare: il clisma. Ho cagato il mondo intero, grazie a dosi massicce di schifosissimi sciroppi. Penso: come entrerò nella sala dell’esame e cosa dirò a quello che mi dovrà infilare tre quintali d’aria, posto che si calcoli in quintali, su per il buco del culo? Entro. Indosso questi fantastici, ridicoli grembiulini verdi che fanno ospedale, che fanno corsia, che fanno obitorio. Ho il culo all’aria. Loro sono in due. Mi guardano. Uno ha le mani in tasca. Mi guardano. Li guardo. Quello con le mani in tasca tira fuori una mano. E fa saltare in aria una moneta. Ha vinto, tocca all’altro. 20
Quando escono – ormai siamo amici – mi dicono: «Oggi non sarai molto di compagnia». La fistola La fistola è una vena cucita a un’arteria in modo che il flusso di sangue sia più ampio. Altrimenti dovremmo stare in dialisi tre giorni di fila, e hai voglia con gli aghetti dei prelievi. La fistola è compagna di sbronze dialitiche, senza di lei non ci si può ubriacare di “fisiologica”, non si può vedere oscillare all’interno delle linee il sangue che entra ed esce, che si purifica, per osmosi cazzo!, e che rientra. La fistola piace molto ai gatti, l’annusano, ci sballano perché sentono il “frullo”, quel rumore di acqua che scorre sul letto di un fiume popolato da pietre piccole e sottili. A volte dico: «Ho i crampi». E mi sparano in vena (in vena, altro che sotto la lingua) vagonate di glucosio. A volte dico: «Ho freddo». E mi alzano la temperatura del sangue. Mi sento bionico. Grazie alla fistola mi faccio pere di ferro, di polipeptide a catena singola formato da ottantaquattro amminoacidi e sintetizzato dalle ghiandole paratiroidi, eritroproietina ad aizzarmi l’emoglobina. Sulle scatole di eritro, l’Epo, c’è scritto grosso: DOPING. È una roba da curriculum. Ahmed Un giorno tale Ahmed, chirurgo egizio-genovese, della cui abilità si discute nei corridoi del mitico Reparto Trapianti del San Martino (l’ultima argomentazione: «È un animale») ha voluto vederci chiaro nella fistola, 21
1 Wu Ming da diretta ollana diretta da Wu Ming 1 C Collana
La dottoressa Yanukovich è ucraina. È di Kiev. È un donnone biondo. Una volta alla settimana è lei il boss. Arriva sempre tardi. Una mattina ha detto che era in ritardo perché si era dimenticata il rossetto. «Se non mi metto il rossetto, mi sento nuda». Dialogo geopolitico con Yanukovich «Mi hanno detto che sei un giornalista». «Sì». «Ti occupi di Ucraina». «Sì». «Devi scrivere che a Kiev ci sono i nazisti».
Isbn 9788898841288
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16,00 euro