TI T E N U R P LBERTO Prunetti A Alberto
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POLARE) O P IA R O T CONTROS A L O C IC P CONTROSTORIA POPOLARE) ((PICCOLA
collana diretta da wu ming 1
© 2015 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Quinto tipo è una collana diretta da Wu Ming 1 Grafica: Alessio Melandri Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale.
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Sommario
Antefatto. I flagellanti di Roccatederighi
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Titoli di testa. Figli di cani maremmani
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Parte prima. Potassa e dintorni
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Parte seconda. Il romanzo del compagno dimenticato
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Una violenta religiositĂ popolare Uno sguardo animale sulla Grande Guerra Giacomo Matteotti al palio Vita e morte dei minatori di Niccioleta Ancora di eretici e di sovversivi Siamo i ribelli della montagna I poeti in ottava e la memoria dei minatori di Ribolla Al compagno Attila, un ricordo e un gotto Ballata per gli antifascisti di Tatti Il romanzo del compagno dimenticato
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Bibliografia 123
PCSP (Piccola ControStoria Popolare)
«[...] In generale il popolo di Maremma è composto di fuorusciti e banditi da altri paesi, di gente che ci cala dalla montagna per guadagnarsi il pane e di maremmani che devono spesso difendersi da quella gente [...]; che però quelli abitanti sono nella maggior parte senza religione, prepotenti, violenti, bestemmiatori, rissosi, dediti alla crapula e al libertinaggio anche sudicio, indisciplinati, resistenti alla giustizia, armigeri e non possono essere contenuti che col rigore, essendo i loro preti i primi che danno cattivissimi esempi in tutti i generi». (Pietro Leopoldo d’Asburgo e di Lorena, Relazioni sul governo della Toscana)
ANTEFATTO
I flagellanti di Roccatederighi
Sembra che da tempi immemorabili nei giorni della Settimana santa un piccolo gruppo di fedeli si riunisse a Roccatederighi, nell’Alta Maremma, nel chiuso della chiesa di San Sebastiano martire, per eseguire pratiche espiatorie che comportavano la fustigazione. C’è chi quella storia la racconta così: I congregati, col cappuccio sul capo, svolta una lunga e complessa funzione in cui variamente intervenivano governatore, cerimoniere e coro, al fioco lume delle candele accese e spente secondo un preciso rituale, si colpivano ritmicamente la schiena con i flagelli, detti anche discipline: fasci di funi da cui pendevano mazzi di spille e di sfere o pezzi di piombo, i primi per straziare, i secondi per intormentire le carni. Le cappe erano indossate alla rovescia, in modo da lasciare nudo e vulnerabile il dorso. Il rumore delle staffilate e delle preghiere riempiva la chiesa mentre i flagellanti si prostravano alle varie stazioni della via crucis.
La collettività di Roccatederighi guardava alle attività dei flagellanti con un atteggiamento benevolo, fin tanto che queste erano racchiuse nel recinto sacro del tempio. Ma di colpo qualcosa muta. 7
Siamo nel 1887, non sono passati dieci anni dalla morte di David Lazzaretti, il profeta della comunità giurisdavidica ucciso dai carabinieri mentre iniziava la discesa dal Monte Amiata per realizzare il suo sogno millenarista: una repubblica e il regno dei cieli, ora, subito e in montagna. Il disagio sociale nell’Alta Maremma stilla come sudore dalla pelle ruvida dei braccianti e dei minatori, che ne portano le stigmate sui corpi. Nella zona cominciano a manifestarsi i germi degli ideali socialisti e libertari, già seminati dagli apostoli della Prima Internazionale. In maniera inspiegabile, dopo secoli di pratiche oscure, confinate tra le mura della chiesa di San Sebastiano, i membri della congrega della Disciplina decidono di uscire allo scoperto, di sortire dalla chiesa per andare “pel mondo”: percorrono le strade di Roccatederighi e prendono a flagellarsi selvaggiamente. L’evento è descritto nel poema I sonetti della disciplina del poeta socialista Pietro Ravagli, nato a Scarlino nel 1864: Ben presto a lacerarsi dette mano, da prima in chiesa e dopo per le vie, la fratellanza di S. Sebastiano. Dalle grandi metropoli lontani e sfuggenti al controllo autoritario questo strano costume ereditario, la Crociata formò dei Rocchigiani.
Inizia così una pratica di fustigazione che assume ben presto il carattere di sfida nei confronti dell’ordine stabilito, un progetto deliberato e violento di turbativa della quiete pubblica. I disciplinanti cominciano a cambiarsi e a indossare la cappa nelle grotte circostanti il paese. Ripetono le processioni, per secoli limitate all’eccezionalità della Settimana santa, ormai quotidianamente, arrivando prima a minacciare gli altri abitanti del borgo, sconcertati, poi a picchiarli animosamente. I muri della chiesa non 8
riescono a celare la rabbia e il malcontento delle genti. Rotti gli argini del tempio sacro, la violenza del corpo straziato del santo martire non è più simbolo ma realtà concreta. I flagellanti brandiscono dei bastoni acuminati, detti “mattarelle”. L’esaltazione mistica non permette di capire se il prossimo è un altro flagellante o un comune passante: nel dubbio i fustigatori malmenano tutti e i pestaggi sono continui. Quando la battistera segnala col suo suono sordo il passaggio della processione, la gente serra la porta. Chi mette la testa fuori dall’uscio viene cardato malamente, come raccontano i versi del Ravagli: Quando sotto il comando del Mazziere a schiena nuda e col cappuccio in faccia, mutilando il latin del “Miserere” rompean le righe e, come cani in caccia, contro color che stavano a vedere nacque la ritorsion per tal minaccia.
I disciplinanti percorrono le viuzze del borgo maremmano. Quando il mazziere batte a terra la mazza per la prima volta, ci si colpisce con le sfere; al secondo colpo di mazza, si agitano gli spilli, e così via. Dopo, nel chiuso delle abitazioni, si cospargono le ferite di aceto e sale. A quel punto i flagellanti per il dolore imprecano. Addirittura bestemmiano: Quindi per completar l’ultima azione Escon di chiesa tutti i penitenti Che alternando bestemmie con lamenti, vanno a curar del dorso la lesione.
La violenza ormai si è impossessata del rituale religioso. Le zuffe si moltiplicano e si risolvono spesso col coltello, la Settimana santa è finita ma le “processioni del picchio” continuano fino alla fine del mondo. 9
Gli abitanti delle zone limitrofe si recano a Roccatederighi per osservare le cruente processioni. Partecipano con curiosità al clima sconcertante del paese, a rischio di qualche livido e ben disposti a gettarsi nella mischia. Intanto però un membro della Disciplina, manovale nelle miniere di Ribolla, viene punito per la sua appartenenza alla setta: l’occhiuto sguardo del potere non guarda con benevolenza quelle sacre picchiantane. Le autorità pubbliche hanno infatti deciso di reprimere un culto che pratica una forma di violenza che sfugge al controllo delle istituzioni statali: si vietano le processioni e si apre un processo contro i membri della setta. Contro ogni previsione, i magistrati però emettono un verdetto di assoluzione. La vittoria al processo esalta gli spiriti dei flagellanti, che si riversano per le strade del paese. Ebbri di vino e risate, intonano stornelli con toni apocalittici: Fiore di mela / i disciplinanti hanno avuto la vittoria / ora si fanno / finché il mondo dura.
Le processioni ricominciano, sempre più eccitate. Rompono la muta stolidità di generazioni di anonimi braccianti, di quei lavoratori usi a dormire nelle capanne di fascine nei boschi per seguire le carbonaie, proni alle dure fatiche delle miniere, alle migrazioni stagionali della transumanza. Le processioni del picchio proclamano la fine del mondo, la festa continua dell’eccitazione delle busse. E ormai minacciano di usare le fruste sui corpi dei benestanti. Ma i carabinieri non demordono, il prefetto ordina delle perquisizioni a Roccatederighi e il sequestro delle mattarelle. E tuttavia le processioni si fanno ancor più spavalde, radicalizzate dall’intervento repressivo delle autorità. I membri della congrega decidono di riunirsi in un’assemblea: gli incerti vengono espulsi, i più ostinati decidono di continuare a oltranza. Fino alla fine del mondo alla rovescia. Le processioni si fanno di notte, 10
per eludere il controllo delle autorità e ribadire la frattura col secolo, coi ritmi del sonno, del riposo, del lavoro, della quiete e dell’ordine pubblico. Muta anche la geografia della Disciplina. I flagellanti iniziano a preferire i dintorni selvaggi di Roccatederighi, con le grotte e i ripari trogloditi, piuttosto che il cerchio urbano del borgo: un segno ulteriore del contrasto tra la vita civilizzata e urbana e le pulsioni disorganizzate e libere dei sovversivi della mazzarella. E per qualche tempo, il paese è la roccaforte assediata dai ribelli di una eresia che sfugge al controllo delle autorità. Anche il Ravagli, nelle sue ottave, parla di sentinelle che «ai fiochi raggi di sbiadite stelle / sovra le rocce stavano in agguato». Adesso i carabinieri presidiano il paese: sono appostati nei pressi delle grotte, vicino alle porte, nelle viuzze del piccolo borgo. I disciplinanti hanno deciso di rendere pubblica l’ora della processione, a dimostrazione della loro sicurezza. E anche stavolta la sorte è favorevole ai flagellanti: il cerchio dei carabinieri non riesce a chiudersi, i disciplinanti trovano una via di fuga, si disperdono lungo i fianchi boscosi del colle roccioso su cui sorge Roccatederighi. Non conoscendo la zona, nel timore di imboscate notturne, le forze dell’ordine rinunciano a inseguire gli eretici. I membri della congrega trovano riparo nei poderi di contadini complici che abitano nei dintorni. Ormai la legge risiede in pianta stabile nel paese: la caserma dei carabinieri, tutt’ora esistente, viene installata anche per fronteggiare le attività dei membri della congrega. E sui muri della locanda di Roccatederighi vengono affisse le disposizioni del governo Zanardelli che vietano ogni forma di turbolenza popolare. Vale per gli anarchici della Prima internazionale, varrà anche per questi spostati che sembrano usciti dal Medioevo. Di fronte all’inasprirsi della reazione i flagellanti decidono di evitare un epilogo tragico, memori anche dei fatti che condussero alla morte di David Lazzaretti, il 11
profeta dell’Amiata che sognava una repubblica sotto il vessillo di uno straccio rosso. Dopo un’ultima assemblea, la Disciplina viene sciolta. Il disagio dei minatori e dei braccianti da allora in avanti non passerà più dalle forme religiose degli eretici, ma da quelle politiche dei rivoluzionari e dei sovversivi. Ancora pochi anni e le poesie di Pietro Gori, l’apostolo dell’Ideale, saranno ripetute, mandate a memoria e cantate, di generazione in generazione, dai contadini spesso ancora analfabeti delle Colline Metallifere. E l’anarchico Errico Malatesta verrà immortalato tra i braccianti e i minatori di un altro paese maremmano, come un evangelista. Da quel momento, in Maremma, la Passione si chiamerà Rivoluzione, le Processioni diventeranno Manifestazioni, il Regno dei cieli sarà il Comunismo. E qualcosa del lessico millenarista degli eretici rimarrà nelle rime del poeta popolare Antonio Gamberi (18641944), che si proclamava ateo e sovversivo. Siamo la turba dei diseredati, dei rejetti, dei paria, degl’iloti; vittime oscure siam, martiri ignoti, vilipesi, derisi e calpestati. Siamo i cenciosi, i poveri sfruttati, del culto di Giustizia sacerdoti; siamo gli oppressi, all’avvenir devoti, gli apostoli del Vero calunniati. Siamo il Lavoro che non soffre inchini, siamo la Libertà senza barriere, siamo la Fede che non ha confini; siamo il “fango che sale”, furibondo, ordinato in falangi battagliere, per la conquista d’un novello mondo.
Titoli di testa
Figli di cani maremmani
Ho riscritto la mia piccola storia sovversiva della Maremma. Potassa, il mio primo libro del 2003, era stato dato alle stampe con l’idea che non avrei mai più scritto altro. Dentro avevo messo tutto quel che mi stava a cuore a quell’epoca, facendo rimbalzare le vicende narrate su più luoghi, in forma ellittica. Le prime due edizioni del libro cercavano di ricostruire ‒ storicamente e in chiave narrativa – un movimento circolare di ribelli che non si erano conosciuti ma si erano sfiorati camminando per sentieri storici molto simili. Forse in quelle trame narrative c’erano tre libri distinti, ma chi allora aveva frettolosamente licenziato il manoscritto di Potassa era un ex pizzaiolo, ex laureato, ex pulitore di cessi a Bristol, ex renitente alla leva, al momento sguattero in una cucina inglese. Per dirla tutta, non pensava di avere l’occasione nella propria vita di pubblicare tre libri e aveva infilato tutti i suoi assi nell’unica mano che riteneva di avere a disposizione, montando quelle tre storie assieme in una forma dinamica (anzi: dialettica) che doveva ricordare la teoria del montaggio di Sergej Ėjzenštejn. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Negli ultimi tempi avevo pensato di estendere la parte 13
argentina del vecchio racconto, anche sulla base delle storie raccolte in anni di viaggi tra Buenos Aires ‒ dove sono diventato amico dello storico Osvaldo Bayer ‒ e l’International Institute of Social History di Amsterdam, dove mi sono recato in pellegrinaggio. Poi però ho cambiato idea, puntando tutto sull’unità di luogo. Volevo scrivere insomma una sorta di contro-storia popolare dell’Alta Maremma, tra ribellione, disagio sociale, tensione millenarista e sovversiva. Così è stato. Nella prima parte di questo nuovo libro presento una nuova versione delle vicende raccontate in Potassa. È una riscrittura, rivista ed emendata delle tante, troppe, imprecisioni. Dal plot ho escluso le vicende argentine di un protagonista della prima edizione e altri inserti narrativi. Nella seconda parte approfondisco la storia delle turbolenze e delle rivolte della parte meridionale della Toscana, agganciando il sovversivismo politico del Novecento alla tensione millenarista («trasformare il mondo, cambiare la vita») degli eretici dell’Ottocento. La chiave espressiva rimane quella dell’ibrido narrativo. Questa nuova storia è ancora più ibridata sui piani dell’esposizione. Ho rifiutato di fare note a piè di pagina per mantenere la concentrazione del lettore sul testo, come in una vera fiction, e non mancano invero contributi finzionali. La numerazione dei paragrafi serve a dare ordine e a distinguere tra diversi tipi di materiale (racconto, citazione/rimpasto da documenti archivistici, poesia e canzone popolare, memoria orale più o meno arrangiata e accordata). Quanto alle schegge narrative della seconda parte del libro (alcune inedite, altre frutto di una rielaborazione di miei contributi per la rivista Carmilla o per l’edizione toscana di Repubblica), si prefiggono di spingere il racconto su nuove traiettorie centrifughe. L’idea è quella di approcciare ed estendere in forma obliqua i temi della prima parte, dalla Grande 14
Guerra al fascismo, fino al protagonismo sociale dei minatori. In queste schegge narrative si alternano anche i piani espositivi e le forme del genere (il reportage e la storia giornalistica, la memoria autobiografica, il racconto politico romanzato alla maniera dei latinoamericani). Le storie raccontate non le ho inventate né le ho scoperte io: erano infilate nelle pieghe dei repertori bibliografici, nelle pagine degli storici locali, nei faldoni degli archivi. I ricercatori che le avevano “scoperte” non le avevano “raccontate”. Sono le vite dei compagni dimenticati, disperse in una letteratura che si rivolgeva solo ai militanti o ai cultori della temperie storica. Le loro vicende non vanno solo inventariate, devono passare attraverso il racconto per essere condivise con tutti coloro che vogliono abolire lo stato di cose presente. Vanno romanzate, perché tornino a essere vive, perché siano liberate dalla forma erudita del resoconto oggettivo e tornino a pulsare, rifermentate dai lieviti di una narrativa ibrida. Solo così potranno parlare ai contemporanei e creare un immaginario alternativo a quello esistente. Bisogna raccontare le stesse storie con parole sempre nuove. Come si faceva nella cultura popolare, alla veglia, al camino o al fresco nell’aia: per tramandarle alle nuove generazioni, per rendere quelle storie lettera viva, per tagliare la zavorra del linguaggio logoro del passato. Quelle storie le avevamo abbandonate, quei compagni li avevamo dimenticati. Erano rimasti intrappolati nella memoria monumentale o in quella militante o nel disprezzo dei nuovi apologeti della fine delle ideologie, erano eroi o fossili di un’era che molti non conoscevano più. Il mondo è cambiato, ci dicevano, quelle storie non parlano più al presente, ci dicevano. Eppure gli avversari di quei compagni dimenticati non hanno neanche cambiato nome e fanno le stesse cose. Pestano ragazzini, assaltano centri sociali, aggrediscono i rifugiati. La loro ideologia non invecchia, 15
U MINg 1 W A d A T dIRET OLLANA diretta da Wu Ming 1 C Collana
«...i fratelli Ancarani: Ettore ai ponti di Badia, durante le proteste contro il caroviveri tronchicciò di tonfi due gosti che si permettevano impunemente di sventolare la bandiera sabauda, mentre il fratello Paolino massacrò di legnate una guardia e venti giorni dopo andò a cercarla all’ospedale, dov’era ancora degente, per finire il lavoro... No, obiettate, non vi piacciono questi bruti. Volete storie bucoliche, miti che celebrino la vita agricola, l’onestà del sudore, il duro lavoro dei campi... Eccovi il Bartolommei, che al posto delle rape nell’orto sotterrava tubi di dinamite affinché germogliasse la rivoluzione sotto il sol dell’avvenire. Dopo questi crostini avete ancora fame di mitologia? L’assedio di Troia? E che dire dell’assedio di Grosseto...»
ISBN 9788898841219
16
13,00 euro