Prefazione Calciopoli

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Tempi moderni

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Calciopoli La vera storia Giuseppe Narducci

con prefazione di Marco Travaglio

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Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purchÊ non a scopo commerciale. Š 2012 Edizioni Alegre - Soc. cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma e-mail: redazione@edizionialegre.it sito: www.edizionialegre.it

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Analisi, notizie e commenti www.ilmegafonoquotidiano.it

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Indice

Prefazione Pallisti e pallonari di Marco Travaglio

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Nota dell’editore

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Capitolo uno L’indagine

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Capitolo due Cosa si intende per reato di frode sportiva

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Capitolo tre Le regole per le designazioni arbitrali

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Capitolo quattro Perché parliamo di associazione per delinquere

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Capitolo cinque Le tracce di una associazione operante già prima del 2004

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Capitolo sei Moggi, Giraudo e i designatori arbitrali

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Capitolo sette Il caso Paparesta

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Capitolo otto Il reperimento delle schede segrete

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Capitolo nove Le prove per l’attribuzione delle schede segrete

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Capitolo dieci Le figure di Maria Grazia Fazi e Massimo De Santis

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Capitolo undici I sorteggi alterati

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Capitolo dodici Le riunioni riservate del sodalizio

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Capitolo tredici L’ influenza sulle carriere arbitrali e sul sistema televisivo

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Capitolo quattordici Le partite in contestazione

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Appendice Imputazioni, condanne e assoluzioni

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Imputati e imputazioni

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La sentenza del 14 Dicembre 2009 del Giudice di Napoli E. De Gregorio

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La sentenza dell’ 8 Novembre 2011 del Tribunale di Napoli 9° Sezione Penale

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Prefazione

Pallisti e pallonari di Marco Travaglio

Ci voleva proprio, questo libro di Giuseppe Narducci, per rinfrescare la memoria agli smemorati di Calciopoli. E non mi riferisco tanto ai tifosi che, per definizione (me compreso, quando ancora lo ero), ragionano con la pancia e non con la testa. Ma ai giornalisti, ai commentatori, agli “esperti” veri o presunti e ai dirigenti del calcio italiano, che sono o sarebbero tenuti a rispettare le regole: quelle della correttezza, della deontologia, della completezza dell’informazione, e anche del codice penale e di quello sportivo. Scrivo questa prefazione poche ore dopo la vittoria dello scudetto da parte della “mia” Juventus: lo scudetto numero 28, che però i dirigenti e molti tifosi bianconeri spacciano per il numero 30, incuranti del fatto che due campionati furono giustamente sanzionati dalla giustizia sportiva (e anche penale) perchè viziati dalle gravissime irregolarità e illegalità di Calciopoli. Sono felice di questo scudetto numero 28 (gli altri due sono quelli della vergogna ed è meglio dimenticarli): felice perchè è stato conquistato sul campo, senza favoritismi né moggismi, così come fui felice che la “mia” Juventus nel 2006 venisse retrocessa per espiare le sue colpe. Colpe che erano sotto gli occhi di tutti i vedenti ancor prima che uscissero le intercettazioni dello scandalo, anche se pochissimi cronisti, commentatori e osservatori osavano scriverlo sui loro giornali e dirlo nei programmi Tv (Moggi controllava militarmente anche quelli). Quelle intercettazioni fui il primo a pubblicarle, sulle pagine di Repubblica con cui all’epoca collaboravo. Ma, per conoscere 7

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il sistema Moggi, non ebbi bisogno di leggerne le trascrizioni: mi era bastato seguire le partite della mia squadra del cuore con occhi non foderati di prosciutto, per rendermi conto che molte delle vittorie travolgenti dell’èra Moggi-Giraudo-Umberto Agnelli avvenivano altrove, fuori dal campo, prima ancora del fischio d’inizio: frutto del doping e dell’abuso di farmaci (come poi dimostrò il processo intentato dal procuratore torinese Raffaele Guariniello al capo dello staff medico bianconero Riccardo Agricola e all’amministratore delegato Antonio Giraudo, salvati dalla prescrizione in Cassazione), ma anche del controllo padronale e capillare su arbitri, procuratori, dirigenti federali, giornalisti, moviolisti e addirittura sui vertici di altri club (come poi dimostrarono le sentenze della giustizia sportiva e poi di quella penale). Chi fosse Moggi, poi, l’aveva stabilito un altro processo, celebrato ai tempi in cui Moggi era direttore generale dell’altro club pallonaro subalpino: il Torino Calcio. Un processo che dimostrò come “Lucianone” fosse solito allietare le trasferte delle terne arbitrali sotto la Mole prima e dopo le partite di coppa Uefa con la dolce compagnia di ragazze squillo da lui ingaggiate (quella volta Moggi se la cavò grazie a un buco nella legge sulla frode sportiva, reato punito soltanto se commesso nell’ambito di competizioni organizzate dal Coni e non dall’Uefa). Eppure, nonostante quell’indecente pedigree, o forse proprio per quello, nel 1994 Umberto Agnelli e Antonio Giraudo lo arruolarono come direttore generale del club più blasonato d’Italia, con tanti saluti allo “stile Juventus”. E lui ricominciò a vincere alla sua maniera: con la frode, solo in forme più sistematiche e spudorate (la famigerata “Cupola”) grazie alla potenza della Real Casa zebrata. Raccontai tutto quel che vedevo e sapevo in un libro, Lucky Luciano, pubblicato da Kaos in tempi non sospetti, nel 1998, a sei mani con due giornalisti sportivi che non vollero firmarlo per non rovinarsi la carriera (questo significava, e forse ancora significa, mettersi contro Moggi). Naturalmente, per motivi di decenza, smisi di tifare per la mia squadra del cuore e mi misi in sonno, in attesa che arrivassero i carabinieri. L’attesa durò 12 8

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anni, ma alla fine i carabinieri arrivarono. La Juventus pagò un prezzo altissimo, ma giusto: cancellati gli ultimi due scudetti, retrocessione in serie B (la prima della storia) e un lungo purgatorio che s’è concluso solo quest’anno con l’arrivo di Antonio Conte, un allenatore preso fra gli ultimi campioni che vincevano sul campo ai tempi di Boniperti e Trapattoni. Ricordo perfettamente quando, nell’aprile del 2006, riuscii a procurarmi il faldone di intercettazioni che la Procura di Torino aveva trasmesso nell’autunno del 2005 alla Federcalcio e all’Uefa, perchè attivassero la giustizia sportiva. Ma, dopo mesi, quel faldone era rimasto chiuso nei cassetti romani della Figc, regno incontrastato del custode del sistema Franco Carraro, forse nella speranza di riuscire a tirare a campare almeno fino al termine del campionato e dei Mondiali di Germania, previsti per il mese di giugno: Moggi avrebbe dovuto parteciparvi come capo della delegazione azzurra; Lippi come commissario tecnico; l’arbitro internazionale Massimo De Santis come rappresentante dell’Italia in giacchetta nera. Invece, grazie a un colpo di fortuna (e alle voci nate dall’improvvisa cacciata di Pierluigi Pairetto da designatore arbitrale Uefa), misi le mani sul dossier. E iniziai a pubblicarlo ai primi di maggio su Repubblica, seguito a ruota dagli altri giornali. Erano le intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Torino fra il 10 agosto e il 27 settembre 2004, nell’àmbito di un fascicolo aperto per associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva: telefonate dei massimi vertici della Juventus con i capi del calcio italiano e con i designatori arbitrali, per avere fischietti amici e pilotare i risultati delle partite a vantaggio della squadra bianconera e dei club alleati, a tutto scapito dei “nemici”. Mattatore assoluto Moggi, seduto al vertice di una vera e propria “cupola” in grado di condizionare partite, campionati, arbitraggi, calciomercato, organi di controllo, stampa, televisione e persino ampi settori del mondo politico e delle forze dell’ordine. L’inchiesta torinese, condotta da Guariniello, era approdata all’archiviazione dopo che l’ufficio dei Gip, con un grave errore 9

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di sottovalutazione, aveva deciso di non rinnovare l’autorizzazione alle intercettazioni proprio nel momento in cui – a fine settembre del 2004 – la stagione agonistica entrava nel vivo: gli episodi accertati nei mesi estivi, pur gravi e indicativi del sistema Moggi, non costituivano reato in quanto si riferivano a partite amichevoli del pre-campionato. I magistrati, comunque, decisero che gli episodi accertati non potevano non interessare alla giustizia sportiva e nel settembre 2005 trasmisero il dossier alla Figc, all’Uefa e poi alla Procura di Roma, che nel frattempo aveva avviato un’indagine sulla “Gea World”. Si trattava di una società che “gestiva” centinaia tra calciatori, allenatori e dirigenti facente capo a un’agguerrita pattuglia di “figli di papà”: Alessandro Moggi, figlio di Luciano; Chiara Geronzi, giornalista del Tg5 e figlia di Cesare, il banchiere di Capitalia; Giuseppe De Mita, figlio del politico democristiano Ciriaco; Francesca Tanzi, figlia del finanziere-bancarottiere Calisto, già patròn del Parma; Andrea Cragnotti, figlio del finanzierebancarottiere Sergio, già presidente della Lazio; Davide Lippi, figlio di Marcello, ex allenatore bianconero e allora commissario tecnico della Nazionale; Riccardo Calleri, figlio di Gianmarco, ex presidente della Lazio e del Torino. Un caso di scuola di conflitto d’interessi. Gli appuntamenti fra Lucianone e il superbanchiere Geronzi, di solito, li fissavano i rispettivi rampolli. Secondo gli investigatori, fu proprio grazie a questo colossale conflitto d’interessi che il presidente della Roma Franco Sensi, inizialmente riottoso al sistema Moggi, ma indebitato fino al collo con la sua Italpetroli nei confronti di Capitalia, fu indotto a cedere la guida del club alla figlia Rosella, ben presto risucchiata nell’orbita geronzianmoggiana, e a sacrificare uno strenuo oppositore della “cupola”: il direttore sportivo Franco Baldini. C’è un po’ di tutto, in quelle bobine. C’è il folklore: Moggi che chiama il telegiornalista Aldo Biscardi («amore», «angelo»), il quale gli rinfaccia una scommessa vinta e mai pagata: Lucianone è costretto a ricordargli di averla già onorata con «un orologio da 40 milioni». C’è il controllo militare sui designatori arbitrali: 10

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da un lato il torinese Pierluigi Pairetto, che Moggi al telefono chiama «Pinochet»; dall’altro il livornese Paolo Bergamo, nome in codice «Atalanta». Ci sono le istituzioni, dalla Figc all’Uefa, piegate a interessi di parte: per sistemare gli amici e soprattutto per avere arbitri malleabili, in campionato e in Champions League. E ci sono addirittura le riunioni in casa di Antonio Giraudo, amministratore delegato della Juventus, con Lucianone e i due designatori. Visto dal buco della serratura, Moggi è la copia conforme del suo stereotipo leggendario: trafficone, spregiudicato, amico di tutti e di nessuno, sempre al telefono per “aggiustare” tutto. Ora col bastone, ora con la carota. Si sceglie “à la carte” gli arbitri preferiti per le partite della Juventus: i due designatori prendono nota e obbediscono. Il direttore generale della Juventus è in grado d’influire sulle loro carriere, e su quelle dei fischietti, non solo intervenendo sui dirigenti del calcio, ma anche controllando capillarmente uno stuolo di giornalisti sportivi, della carta stampata e della tv. Compresi i “moviolisti” incaricati di analizzare le scelte arbitrali e di condizionare così i giudizi sugli eventuali errori. Chi sbaglia a vantaggio della Juve e dei suoi amici viene coperto e salvato. Chi invece sbaglia contro, o fa semplicemente il suo dovere se ne pente amaramente: viene attaccato dai giornalisti moggiani e punito dagli organi federali. Moggi istruisce i commentatori televisivi a uno a uno, prima che vadano in onda. Una sera il mezzobusto di una Tv privata lo chiama per sapere come trattare l’arbitro Trefoloni che «ha regalato un rigore alla Lazio». E Lucianone: «Bisogna trattarlo bene». Poi c’è l’ex arbitro Fabio Baldas, “moviolista” del Processo di Biscardi su La7, che ha appena inaugurato la “patente a punti” per gli arbitri. Anche per lui, istruzioni dettagliate: «Allora – raccomanda Moggi – te devi salvare Bertini, Dattilo e Trefoloni... Sul Milan puoi battere quanto ti pare». Il moviolista fa notare che due dei tre arbitri hanno commesso errori e «qualcosina dobbiamo tirar via a Trefoloni e Dattilo, magari un punto. Dimmi tu cosa devo fare e io nei limiti del possibile faccio». Ma Moggi, inflessibile: «A Dattilo, Trefoloni e Bertini 11

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va dato un punto in più: anziché 20, 21! Poi ci sentiamo dopo la trasmissione». Le telefonate immortalano un mondo di politici, giornalisti, dirigenti e calciatori, tutti in fila, anzi in ginocchio davanti a Lucianone, in attesa di un favore, una raccomandazione, una parola buona. Una miniera inesauribile di piccoli e grandi scandali che vanno molto al di là dei luoghi comuni sul tentacolare Lucianone, che gli italiani scoprono essere in ottimi rapporti perfino con molti politici, a partire dal ministro dell’Interno Beppe Pisanu (che chiede e ottiene il salvataggio della Torres Sassari in serie C1) e da quello dell’Ambiente Altero Matteoli (tifosissimo bianconero). Non potendo proseguire con le intercettazioni, alla Procura di Torino non resta che archiviare il caso. La richiesta firmata il 19 luglio 2005 dal procuratore Marcello Maddalena e poi accolta dal Gip è comunque durissima, tanto con i vertici juventini quanto con quelli arbitrali: «Anche se non sono emersi fatti penalmente rilevanti, lo scenario è quantomai inquietante. È inquietante che la salute di un giocatore sia considerata meno importante di un positivo risultato sportivo in quello che è pur sempre un giuoco. Ma soprattutto è inquietante che un dirigente di società come il Moggi possa, da un lato, puntualmente ottenere dai vertici arbitrali le designazioni a lui gradite nei casi in cui il sistema lo consente (come per le amichevoli) e dall’altro vantarsi, parlando con dirigenti della federazione, di poter «far cacciare» uno dei due designatori arbitrali [...] Le possibilità di influire su Pairetto là dove il sistema lo consente non sono millanteria, ma dato reale, preciso e provato (almeno in un’occasione) in maniera indiscutibile [...]. Una situazione anomala che merita l’attenzione dei competenti organi della Figc». Sembra finita lì, ma Calciopoli è soltanto all’inizio, perché il 12 maggio cominciano a uscire a raffica le telefonate intercettate dai Carabinieri del Ros di Roma per conto della Procura di Napoli (Pm Giuseppe Narducci, autore di questo libro, e Filippo Beatrice) durante tutta la stagione 2004-2005. Stralci delle conversazioni sono contenuti negli inviti a comparire recapitati ai 12

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41 indagati. Investigando su un caso di calcio-scommesse, infatti, i Pm partenopei hanno (parallelamente quanto inconsapevolmente) portato a termine il lavoro lasciato a metà dai colleghi torinesi. Così, dai nuovi “ascolti”, il fronte di Calciopoli si allarga. E, a far compagnia alla Juventus, entrano nello scandalo anche il Milan, la Lazio, la Fiorentina e altre società ancora. Fra le migliaia di telefonate, la più inquietante è quella in cui il dirigente bianconero concorda col designatore Bergamo i sorteggi arbitrali a vantaggio della sua squadra, ma anche di quelle alleate. I magistrati di Napoli scoprono che molte “combine” arbitrali del duo Moggi-Giraudo sono sfuggite alle intercettazioni perchè i dirigenti della Juventus hanno fornito a designatori e arbitri loro complici decine di schede telefoniche Sim estere, dunque “criptate”, per comunicare lontano da orecchi indiscreti. Un sistema che il Gup di Napoli Eduardo de Gregorio, condannando Giraudo con rito abbreviato nel 2009, definirà «molto importante per raggiungere gli obiettivi», in quanto le Sim criptate «costituivano il mezzo necessario agli imputati per colloquiare in modo sicuro con riguardo, in special modo, alle griglie arbitrali nonchè, in prossimità di partite di calcio, con gli arbitri che dovevano dirigerle. Nel periodo in cui fu in vita l’associazione per delinquere, fu accertata la disponibilità e l’uso di 29 schede straniere da parte di alcuni dei coimputati. D’altra parte il possesso e il conseguente uso di schede segrete deve essere considerato, oltre che come predisposizione di un minimum di mezzi comuni, come sintomo, insieme ai precedenti, di appartenenza all’associazione e del vincolo associativo tra i possessori e gli usuari». Sia Paparesta sia Bergamo ebbero a disposizione quelle Sim, come hanno dichiarato il padre dell’arbitro e il designatore stesso, e – ricorda il Gup – «lo stesso Moggi, nel suo pur lungo interrogatorio, non ha trovato elementi ed argomenti per negare il fatto di aver parlato di rilevanti cose calcistiche con più coimputati e con grande frequenza usando schede non identificabili. Quale fosse il contenuto dei colloqui tra imputati facendo uso delle utenze riservate non è dato, ovviamente, sapere a causa di detta 13

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caratteristica. Tuttavia è molto utile segnalare il discorso tra Moggi e Bergamo avvenuto nella notte del 9 febbraio 2005 ed ascoltato dalla polizia giudiziaria solo per l’imprudenza di quest’ultimo che chiamò il primo dal suo telefono casalingo senza sapere che fosse sotto controllo. In questa conversazione i due parlarono con chiarezza e senza problemi della composizione delle griglie e delle scelte arbitrali che i designatori dovevano fare dopo due giorni. Dunque in una delle pochissime occasioni in cui fu disvelato l’argomento dei dialoghi avvenuti tramite telefoni “coperti”, fu palese che i conversanti parlarono di temi che, nel rispetto dei reciproci ruoli, non avrebbero dovuto condividere, concordando cioè le “fasce” all’interno delle quali effettuare il sorteggio e le scelte stesse degli arbitri per le partite da giocare nel turno successivo del campionato». Per evitare che esploda uno scandalo a ogni arbitraggio pilotato, a ogni partita addomesticata, bisognava poi sincerarsi che i giornalisti più influenti, quelli televisivi e della carta stampata, non facessero il proprio dovere. Moggi infatti trascorreva ore e ore al telefono con loro. Un giorno parla con Biscardi di come «stangare» Zdenek Zeman, l’allenatore boemo che da anni criticava il sistema-Moggi e denuncia lo scandalo del doping. Biscardi: Zeman lo faccio stanga’ da Riva... Moggi: ...Ma vogliamola una bella cosa? Andiamogli addosso di brutto!

Ed ecco Moggi e Biscardi a consulto dopo Juve-Milan 0-0, il 20 dicembre 2004. Moggi: ...I due episodi dei rigori, uno che c’era e uno che non c’era. Allora te non rompe’ tanto i coglioni... Biscardi: L’unica moviola che ho fatto io, barando un po’, come puoi immaginare, che Costacurta stava dentro l’area con i piedi fuori, ma con la mano che ha fatto il fallo da rigore, stava dentro l’area... Moggi: ...Però, guarda che bisogna far assolvere l’arbitro con formula ampia.

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Biscardi: Bertini... sì sì... gli faccio mettere poco! Moggi: Niente, no... niente, niente, niente Aldo. Taglia... taglia... taglia tutto... O dici che ha ragione l’arbitro oppure devi taglia’ la moviola.

Il 17 gennaio 2005 Moggi parla con Baldas, il moviolista di Biscardi: Baldas: C’è il fuorigioco di Trezeguet sul gol. Moggi: L’arbitro deve essere assolto alla grande! Anzi! Baldas: Tutto quello che vuoi, però voglio dire, siccome sai... si vede che c’è... che ci sono 50 centimetri di fuorigioco! Moggi: Poi i 50 centimetri li accorci, devono diventa’ 20!

Miracoli della tecnologia. Oltre al fulvo conduttore e al moviolista, al Processo furoreggiano il commentatore del Tempo Franco Melli e il vicedirettore del Tg5 Lamberto Sposini, entrambi teleguidati dal puparo Lucianone. Poi ci sono i vertici di Raisport, da Fabrizio Maffei a Ignazio Scardina, che addirittura consentono a Moggi di scegliersi gli inviati e gli intervistatori preferiti per le partite della Juventus e di porre il veto su quelli sgraditi. Decine di giornalisti sportivi che seguono il calcio sono perfettamente al corrente dei metodi truffaldini di Moggi. Ma non solo evitano accuratamente di informarne i loro lettori e telespettatori che il gioco è truccato: vanno addirittura in tv a difendere Moggi e la sua cricca da qualunque critica, che pure sanno fondata. Tacciono o mentono, sapendo di mentire. Alla fine Biscardi sarà sospeso dall’Ordine dei giornalisti del Lazio per sei mesi, Melli per quattro, Sposini per tre. Anche la vicenda della Fiorentina di Diego e Andrea Della Valle è emblematica. I due fratelli rilevano la società viola da Vittorio Cecchi Gori nel 2002. L’uno è presidente onorario, l’altro presidente effettivo. E subito provano a scardinare la cupola del calcio, fondata su due pilastri: il sistema Moggi con la sua rete di clientele e il sistema Milan con il potere politico e il controllo militare sui diritti televisivi e sulla Lega Calcio 15

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(tramite il presidente Galliani, che è pure il vicepresidente rossonero). I Della Valle si battono per cacciare Carraro dalla Figc e Galliani dalla Lega. Ma ben presto sono costretti a scendere a patti con la cupola. Come? Con una vera e propria persecuzione arbitrale, che a poche giornate da fine campionato precipita la Fiorentina sull’orlo della retrocessione. E che costringe i Della Valle a baciare la pantofola prima di Bergamo, poi di Moggi in persona, grazie alla mediazione del vicepresidente della Figc Innocenzo Mazzini. L’ultima giornata di campionato è decisiva: il Parma non deve vincere a Lecce, altrimenti si salva e manda in B la Fiorentina. Arbitra il solito De Santis. Il designatore lo chiama prima della partita per le ultime raccomandazioni: Bergamo: Massimo, è tutto a posto? De Santis: Ho parlato con i guardalinee, gli ho spiegato un po’ velatamente le cose, ci mettiamo in mezzo noi. Bergamo: L’importante è che tu vinca.

Infatti la Fiorentina batte il Brescia 3-0 e Lecce-Parma finisce rocambolescamente 3-3. Vittima sacrificale: il Bologna che, senza santi in paradiso, retrocede al posto dei viola. Mazzini si felicita con Della Valle per la missione compiuta. Mazzini: I cavalli boni vengono sempre fori. Le nostre pedine funzionano sempre, l’operazione chirurgica è stata perfetta. Della Valle: Certi errori non li faremo più.

Il ruolo della Lazio nello scandalo è ancor più complesso: il presidente Lotito avrebbe agito – si legge nella sentenza dell’arbitrato del Coni (l’ultimo della lunga serie di verdetti della giustizia sportiva) – nella «putativa convinzione di dover reagire a torti subiti e di poterlo fare avviando contatti non trasparenti con i vertici federali». Le sue proteste vanno a buon fine, anche perché Carraro ha bisogno del voto di Lotito per essere confermato alla presidenza della Figc. Non per niente il 3 febbraio 2005, in vista 16

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dell’incontro fra Chievo e Lazio che si giocherà il giorno 20, Carraro ordina a Pairetto: «Bisogna dare una mano alla Lazio». La posizione del Milan è particolare, rispetto a quelle di Juve, Fiorentina e Lazio. Visto che gli arbitri li controlla Moggi, il club rossonero si accaparra i guardalinee. Se ne occupa un consulente “esterno” del club berlusconiano, in stretto contatto con Galliani: il ristoratore Leonardo Meani, molto addentro alle segrete cose del calcio, essendo stato lui stesso guardalinee. Nella primavera 2006 lo choc per lo scandalo Calciopoli è enorme, e non soltanto in Italia. Anche perché cade alla vigilia dei mondiali di Germania. Moggi “salta” come capodelegazione in pectore degli azzurri. E così l’arbitro De Santis. Galliani, deferito al processo sportivo, è costretto a mollare la poltrona della Lega Calcio, sebbene Berlusconi lo inviti a restare. Carraro si dimette da presidente della Federcalcio. Se ne va pure il presidente dell’Aia (l’associazione arbitri) Tullio Lanese, mentre l’associazione sospende nove “fischietti” e dieci guardalinee. E la festa della Juventus per il 29° scudetto è funestata dalla cacciata di Moggi e Giraudo e dalla probabilissima revoca degli ultimi due titoli viziati dagli illeciti della Cupola. Sulle prime la classe politica, unanime, chiede la massima severità. Così al capezzale del calcio moribondo vengono chiamati d’urgenza due rari simboli di legalità in Italia: l’avvocato Guido Rossi, massimo esperto di conflitti d’interessi, diventa commissario straordinario della Figc al posto di Carraro; Rossi nomina subito l’ex procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, come capo dell’Ufficio indagini al posto del generale della Guardia di finanza Italo Pappa, per seguire l’istruttoria che dovrà portare al processo sportivo, possibilmente entro l’estate e dunque in tempo utile prima che vengano compilati i calendari del nuovo campionato e della Champions League. Berlusconi, ancor prima che emergano le intercettazioni che coinvolgono il suo Milan, protesta sgomento: «La sinistra ha messo le mani sul calcio». Fabrizio Cicchitto intravede «una manina che vuole recuperare il giustizialismo». Il meglio lo dà l’on. avv. Gaetano Pecorella: «Se Borrelli farà al calcio italiano quello che ha fatto 17

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alla politica, sarà la fine del calcio italiano». È come se tutti già sapessero che il Milan è coinvolto e mettessero le mani avanti buttandola in politica. Il 19 giugno Borrelli chiude la prima parte dell’indagine con una durissima relazione di 190 pagine, consegnata al procuratore federale Stefano Palazzi, in cui denuncia l’esistenza di un vero e proprio «sistema» di «illecito strutturato», un «accordo associativo», una «struttura consistente e pervasiva che ha dimostrato capacità di incidenza sull’intero sistema calcio, occupando tutti gli spazi» e che si è consolidata almeno dal 1999, essendo impensabile che si sia «materializzata d’incanto in un solo campionato». Una galassia perversa che ruotava intorno a due soli: il “sistema Juventus”, più forte sul campo grazie al vassallaggio di designatori e arbitri, e il “sistema Milan”, più forte sul piano politico-imprenditoriale grazie al premier-padrone, al vicepresidente Galliani presidente di Lega, al controllo sulle tv e sui relativi diritti, e al ruolo del “responsabile arbitri” Meani, che chiedeva e otteneva «assistenti graditi come Contini, Copelli, Puglisi, Babini». «Per il Milan – precisa Borrelli – non può parlarsi di organizzazione strutturata come quella juventina», ma ciò «non toglie l’emersione di un’influenza diretta ed efficace sui designatori». Galliani sapeva tutto di quel che faceva Meani, anche se «si è “sforzato” di prendere le distanze dal suo collaboratore, riconducendo le sue attività ad iniziative di carattere personale». Un quadro devastante e sconsolante. Eppure, già due mesi dopo l’esplodere di Calciopoli, il clima intorno allo scandalo muta radicalmente. Basta la vittoria della Nazionale di Lippi ai Mondiali di Germania per fornire al Palazzo un formidabile pretesto per invocare l’indulgenza plenaria. Si parla, prim’ancora che inizi il processo, di un’amnistia, o almeno di forti sconti di pena (in sintonia con l’imminente indulto penale targato Mastella). Si muovono anche gli onorevoli avvocati, i soliti Calvi (Ds), Pecorella (Forza Italia) e Pisapia (Rifondazione), che lamentano presunte violazioni del diritto di difesa. Molti scoprono all’improvviso che, nella giustizia sportiva, vale la responsabilità oggettiva 18

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delle società per le colpe dei loro dirigenti e l’onere della prova è invertito: non è l’accusa a dover dimostrare la colpevolezza degli incolpati, ma sono questi – in presenza di gravi sospetti – a dover provare la propria innocenza. Le regole del calcio sono queste, si è sempre fatto così, molti club medio-piccoli sono retrocessi in base a queste norme: perché mai le stesse regole non dovrebbero valere ora per i “grandi”? Ma questi ultimi schierano potentissime lobby parlamentari a propria difesa. La Juventus ha addirittura un apposito club a Montecitorio, capitanato dall’onorevole Salvatore Buglio della Rosa nel Pugno, che vaneggia di «giustizialismo, gogna mediatica, giustizia sommaria, inchieste politiche». Il forzista bianconero Guido Crosetto parla di «metodi da Gestapo». Il Milan, oltre al direttore di Liberazione Piero Sansonetti che lacrima ogni giorno per il povero Diavolo perseguitato, ha un intero partito ai suoi piedi: interviene in difesa dei rossoneri persino Sandro Bondi, la cui passione sportiva era finora sfuggita ai più. Il forzista romanista Cicchitto difende la squadra del padrone: «Mandano la Juve in C per poter mandare il Milan in B». Il forzista juventino Maurizio Paniz è il primo a invocare l’amnistia per Calciopoli. Il margherito Enzo Carra si associa: «Amnistia fra un anno». E così il ministro della Giustizia Clemente Mastella, amico di Berlusconi, Moggi e Della Valle: «L’amnistia la chiedono la maggior parte dei tifosi. Questo processo è come l’arena del Colosseo». Poi Mastella invita i giudici sportivi a «tener conto della vittoria di Berlino: chi ci ha dato prestigio e dignità va valutato con occhio diverso». Non appena viene coinvolto il Milan, anche l’on. avv. Pecorella lancia l’idea di escogitare «un meccanismo, da introdurre per legge, che sconti un po’ le condanne per evitare che i nostri calciatori, che sono i migliori del mondo, paghino per colpe non loro. Se la giustizia sportiva dovesse decidere di mandare in serie C squadre come la Juventus, applicando la logica dell’indulto si potrebbe pensare ad una retrocessione in B più una penalità. Se invece la condanna è ad andare in B, la squadra punita potrebbe restare in A scontando in più un’altra penalità, magari il pagamento di una somma o altro». 19

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Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi, s’interroga pensoso sul perché «debbano pagare i tifosi, costretti a veder retrocedere la squadra del cuore». Giuliano Ferrara sul Foglio e Piero Ostellino sul Corriere della Sera forniscono munizioni a mezzo stampa al partito dell’impunità. Ostellino, habitué della tribuna vip moggiana, spiega che il processo sportivo «è un mostro giuridico» e rischia di scivolare nella «responsabilità oggettiva dei processi staliniani». Poi ci sono i sindaci, che – con qualche rara eccezione – scendono in difesa delle squadre cittadine: in testa i Ds Leonardo Domenici a Firenze e Sergio Chiamparino a Torino. Il processo sportivo a Calciopoli sarà talmente «staliniano» che alla fine, fra un grado di giudizio e l’altro, si trasformerà in un gigantesco «scontificio» per molti colpevoli eccellenti. Il 14 luglio, in primo grado, la Caf infligge una raffica di squalifiche: Juve in B con 30 punti di penalità, oltre alla revoca degli ultimi due scudetti (quello del 2005-2006 verrà poi assegnato all’Inter); Fiorentina in B a -12; Lazio in B a -7; Milan in A a -15, ma fuori dalla Champions League. Moggi, Giraudo e Mazzini inibiti per cinque anni; Carraro e De Santis per quattro anni e mezzo; Diego Della Valle per quattro; Lotito, Andrea Della Valle, Meani e Dondarini per tre anni e mezzo; Pairetto e Lanese per due anni e mezzo; Galliani per un anno; Paparesta per tre mesi; Bergamo, che s’è dimesso dalla Figc appena in tempo, non è giudicabile per difetto di giurisdizione. Nelle motivazioni, i giudici escludono l’esistenza di una vera “cupola”, ma accolgono in vari casi l’accusa di illecito sportivo. Il processo d’appello si celebra dinanzi alla Corte federale presieduta da Piero Sandulli e rimasta intatta, tale e quale a quella dell’Ancien Regime: tutti avvocati. Il risultato è la sentenza del 25 luglio: uno sconto di pene generalizzato. Per la Juventus è confermata la serie B, ma la penalità scende da 30 a 17 punti (proprio come aveva auspicato lo stesso difensore bianconero, avvocato Cesare Zaccone: «Ci meritiamo la B con qualche punto di penalizzazione»). Lazio e Fiorentina si salvano dalla retrocessione e restano in A, anche se la prima partirà da -11 e la seconda da -19. Il Milan ottiene addirittura l’accesso ai preliminari di Champions 20

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League (e a fine stagione vincerà la coppa) e uno sconto sulla penalità, scendendo da -15 a -8. “Dimagriscono” anche le sanzioni a carico di presidenti e dirigenti (addirittura annullata quella a Carraro, che se la cava con una multa da 80mila euro con “diffida”). Questi però, non ancora soddisfatti, si apprestano a lucrare altri saldi di fine stagione davanti alla Camera di conciliazione e all’arbitrato del Coni, senza contare che qualcuno punta anche sul Tar e sul Consiglio di Stato. Completa il quadro della restaurazione la nomina di Antonio Matarrese, vecchio dinosauro della Dc e del calcio italiano, a presidente della Lega Calcio al posto di Galliani: qualche giorno prima, “don Tonino” aveva paragonato il processo sportivo a quello di Norimberga. Poco dopo, nuovo cambio della guardia alla Federcalcio: il 21 settembre il Coni e il governo approfittano della nomina di Guido Rossi a presidente della Telecom per sbarazzarsi di lui, anche se non c’è alcun motivo che gl’impedisca il doppio incarico. Il nuovo commissario della Figc è Luca Pancalli. In autunno altri sconti a gogò negli arbitrati del Coni: penalità ancora ridotta alla Juventus (che partirà da -9), alla Fiorentina (da -15) e alla Lazio (da -3). Ma i casi più scandalosi sono quelli di alcuni dirigenti. Carraro, già passato dai quattro anni e mezzo del primo grado agli 80mila euro con diffida in appello, rimane con 80mila euro senza diffida (insaziabile, ricorrerà al Tar per farsi levare anche la multa). Galliani, che per l’accusa doveva scontare due anni e per la Caf uno solo, si vede ridurre la squalifica dal Coni a cinque mesi: così alla vigilia di Natale 2006 può tornare alla vicepresidenza del Milan. Meani passa dai cinque anni chiesti dal procuratore Palazzi ai tre anni e mezzo della Caf, ai due anni e cinque mesi dell’appello, ai due anni e due mesi dell’arbitrato Coni. Lotito, che per l’accusa doveva restar fuori da tutto cinque anni, per la Caf tre e mezzo, per l’appello trenta mesi, con l’arbitrato Coni se la cava con quattro mesi appena e a novembre 2006 è di nuovo presidente della Lazio. Così, alla fine, i più penalizzati restano Moggi e Giraudo (confermati cinque anni per ciascuno) e De Santis (quattro anni). In attesa dei processi penali di Roma e di Napoli, Lucianone 21

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– imputato per associazione per delinquere – diventa editorialista fisso del quotidiano Libero di Vittorio Feltri, nonché opinionista di Antenna 3 Lombardia, mentre Rai e Mediaset se lo contendono per le consuete interviste in ginocchio. Anche dopo che la Commissione Disciplinare della Federcalcio lo radierà nel 2011, insieme con Giraudo e con l’ex vicepresidente della Figc Innocenzo Mazzini, perchè i loro comportamenti furono di «intrinseca gravità» ed ebbero «conseguenze aberranti» suscitando «un rilevante allarme sociale», e in particolare Moggi aveva l’attitudine di «falsare la classifica attraverso una continua opera di condizionamento del settore arbitrale» con una condotta «altamente inquinante» connotata da «sistematicità e stabilità organizzativa». Nel processo Gea, celebrato a Roma, Moggi viene condannato in primo grado nel 2009 per violenza privata a 1 anno e 6 mesi di reclusione insieme al figlio Alessandro. In appello la pena viene ridotta a 1 anno per la prescrizione di alcuni episodi delittuosi. Moggi ha fatto ricorso in Cassazione, ma intanto è stato di nuovo condannato in tribunale a 4 mesi per minacce nei confronti del testimone Franco Baldini. Nel processo Calciopoli, celebrato a Napoli, Moggi è stato condannato in primo grado nel 2011 a 5 anni e 4 mesi di carcere per associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. Condannati anche Giraudo (nel 2009, con rito abbreviato, a 3 anni), Bergamo (3 anni e 8 mesi), Mazzini (2 anni e 2 mesi), Pairetto (1 anno e 11 mesi), De Santis (1 anno e 11 mesi), Lotito (1 anno e 3 mesi), Andrea e Diego Della Valle (1 anno e 3 mesi ciascuno), Meani (1 anno) e molti altri fra dirigenti e arbitri. Dopo il Purgatorio della serie B e la pronta risalita in serie A, la “nuova” Juventus del giovane presidente della Fiat John Elkann, grazie a dirigenti estranei all’Ancien Regime come Giovanni Cobolli Gigli e Jean-Claude Blanc, sembra avere archiviato il suo indecente passato per guardare al futuro. Ma nel 2010 John cede il comando della società al cugino Andrea Agnelli, figlio di Umberto, tuttora vicinissimo a Moggi e Giraudo. Il quale, vellicando gli istinti più bassi della parte più becera della 22

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tifoseria, riapre la ferita di Calciopoli rivendicando i due ultimi scudetti, quelli revocati per lo scandalo, soprattutto il secondo, quello del 2005-2006 assegnato a tavolino all’Inter. E chiedendo addirittura alla Federcalcio i danni in sede civile. Il tutto tirando la volata a Moggi, che si difende disperatamente nel processo di Napoli secondo la linea craxiana del “così facevan tutti”, accusando la Procura di Napoli e i carabinieri del Ros di aver dolosamente occultato alcune intercettazioni in cui anche i vertici dell’Inter di Massimo Moratti, e più precisamente il direttore generale Giacinto Facchetti, si occupavano di arbitri parlando al telefono con i designatori abitrali. Poco importa se le parole di Facchetti captate dalle microspie non sono neppure lontanamente paragonabili a quelle della Cupola moggiana e dai suoi satelliti e possono al massimo interessare la giustizia sportiva (che per anni s’è ben guardata dall’esaminare l’intero faldone delle intercettazioni di Calciopoli, dalle quali gli inquirenti penali avevano scremato soltanto quelle contenenti notizie di reato). E poco importa se quelle telefonate non fruttarono all’Inter alcun trattamento di favore, anzi tutto il contrario (tant’è che appaiono più che altro maldestri tentativi, border line finchè si vuole, di difendersi da un sistema che privilegiava sempre i soliti noti). Alla fine il procuratore federale Stefano Palazzi, a proposito delle conversazioni citate dalla difesa Moggi, sostiene che, telefonando ai designatori arbitrali, l’Inter di Moratti e Facchetti violò l’art.1 (“slealtà sportiva”) e l’art.6 (“illecito sportivo”), ma non può essere punita perchè ormai le eventuali irregolarità sono cadute in prescrizione. A meno che, si capisce, l’Inter non vi rinunci. Palazzi equipara l’Inter agli altri club puniti per Calciopoli: Fiorentina, Lazio e Milan. Tutti tranne uno: la Juventus di Moggi e Giraudo, protagonista di fatti «di differente gravità, protrazione e invasività», dunque fuori concorso. Però il Pm sportivo ricorda che la sua tesi accusatoria contro Milan, Fiorentina, Lazio e ora Inter è già stata sconfessata dalla Corte federale, secondo cui non basta telefonare ai designatori per commettere illecito: occorre che le pressioni arrivino agli arbitri 23

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e li condizionino. La qual cosa Palazzi non è riuscito a provare per nessun club, eccetto la Juve. Dunque è verosimile che, anche se l’Inter rinunciasse alla prescrizione, verrebbe assolta o privata di qualche punto. E, siccome le presunte pressioni interiste non sortirono effetti e ai tempi della Triade bianconera l’Inter perdeva campionati truccati, nessuno scudetto deve passare di mano. Ciò detto, sarebbe stato un bel gesto da parte di Moratti rinunciare alla prescrizione per farsi giudicare nel merito. Così l’Inter avrebbe finalmente potuto difendersi nel processo sportivo (penalmente, gli inquirenti napoletani hanno già ritenuto che non c’è nulla di rilevante). Il fatto paradossale è che, a invitare l’Inter a rinunciare alla prescrizione, non è stato solo Palazzi, ma anche la Juventus attraverso i suoi massimi rappresentanti. Peccato che la stessa Juventus, quand’era ancora nelle mani di Moggi e Giraudo, si sia salvata in Cassazione nel processo del doping a carico del dottor Agricola e dello stesso Giraudo proprio grazie alla prescrizione. E non pensò neppure per un istante di rinunciarvi. Anche perchè, negli anni del doping e dell’abuso di farmaci, aveva vinto tre scudetti, una Champions, due Supercoppe italiane, una Supercoppa europea e un’Intercontinentale. E, se si fosse fatta giudicare oltre i termini di prescrizione e fosse stata condannata, avrebbe rischiato di dover restituire tutti quei trofei. Meglio chiudere definitivamente quelle vecchie ferite e voltare pagina, con altri comportamenti e altro stile. Per questo inorridisco all’idea di rivendicare l’ultimo scudetto come numero 30, reclamando il diritto di appuntarsi sul petto la terza stella. Da juventino ritrovato, mi auguro vivamente che le autorità sportive si oppongano e facciano rispettare le sentenze. Proprio ora che abbiamo ricominciato a vincere sul campo, confondere le vittorie meritate con quelle taroccate sarebbe peggio che un errore: sarebbe un delitto. L’ennesimo.

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