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Il nuovo numero di MR disponibile anche su ISSU
Editoriale
Decarbonizzare ora
di Emanuele Bompan
L’economia non può essere circolare se non saprà essere un fondamento per la decarbonizzazione del pianeta. Il 2018 è stato uno degli anni più caldi di sempre. L’Osservatorio di Mauna Loa alle Hawaii ha rilevato una concentrazione media di biossido di carbonio atmosferico, il principale gas serra, superiore a 410 parti per milione (ppm), il valore più elevato degli ultimi 800.000 anni. I report scientifici dell’Ipcc continuano a ribadire una e una sola cosa: fermare il riscaldamento climatico è sempre più urgente e la finestra di opportunità continua a restringersi. Materia Rinnovabile ritiene che il clima è in assoluto la più grande sfida per l’umanità mai affrontata. Che richiede uno sforzo più imponente di trasformazione industriale di quello messo in moto per la Seconda guerra mondiale, che sappia mettere in campo visione politica, audacia, partecipazione e ingegno tecnologico.
Abbiamo visto come in Francia alzare le accise sulla benzina abbia scatenato una rivolta della classe media che non è disposta a nessun
compromesso per difendere il proprio benessere. In Italia una misura di bonus e malus per le auto, strutturata in base alle emissioni, ha fatto insorgere il paese che ha criticato in blocco una delle prime azioni sull’ambiente del governo in carica. In Usa Trump ha cancellato gran parte delle misure prese da Obama sulla decarbonizzazione.
Le emissioni salgono, +2,7%, nel 2018. Eppure non si assistono a variazioni significative di comportamenti, nonostante l’Eurobarometro riporti che l’85% dei cittadini concordi sul fatto che la lotta al cambiamento climatico sia una priorità. Il cambiamento climatico è un nemico oscuro e complesso. Le cause dell’inazione nel fermare le emissioni simultaneamente dovute a governi conservatori ignavi, grandi corporation con interessi particolari e piccole aziende mal informate, cittadini maleducati e cittadini beninformati ma vittime della propria pigrizia (incluso l’autore). L’inazione è soprattutto culturale e psicologica, ancora prima di essere politica.
Il concetto di economia circolare sta esplodendo nel mondo, dall’Europa alla Cina, dagli Usa al Cile. Serve, però, lavorare su un concetto esteso di circular economy che includa una visione centrale sulla circolarità dell’energia e su un’economia circolare zero carbon, o meglio ancora carbon-smart (vedi l’intervista a Jennifer Holmgren).
Che fare? Da un lato bisogna fomentare la ricerca e l’ecodesign per creare batterie elettriche, pannelli fotovoltaici, pale eoliche, apparecchi elettrici ed elettronici completamente circular. Sostenere l’energia rinnovabile e il risparmio energetico sono un assunto chiave della CE per cui si necessitano loop il più chiusi possibile per la gestione di tutte le materie coinvolte (cobalto, litio, terre rare, rame ecc.) che impieghino ogni componente a fine vita del prodotto. Dall’altro i processi industriali circolari devono tenere come stella polare il principio della lowest carbon solution, ovvero scegliere sempre l’opzione meno carbonintensive. Infine serve sostenere quelle tecnologie che ci aiuteranno nella CCU, Carbon Capture and Usage della CO 2 , siano esse grandi bioraffinerie per la produzione di biopolimeri o etanolo per biocarburanti derivati dalla CO 2 catturata oppure grandi piani di afforestazione per alimentare la silvi-bioeconomia, usando gli alberi e la legna come carbon sink duraturi su una scala minima di 300 anni (quindi spazio al retrofit degli edifici prefabbricati in legno). Il nuovo numero di Materia Rinnovabile pone le prime basi per questa lunga riflessione, che riprenderemo nei prossimi numeri. La guerra per fermare il climate change è appena iniziata.
Il futuro chiede ambizione
di Manuel Pulgar-Vidal
Quest’anno ha portato molti motivi per essere pessimisti in tema di cambiamenti climatici. Richiami sempre più allarmanti dai climatologi. Incendi in California. E il 2018 è destinato a piazzarsi al quarto posto nella classifica degli anni più caldi. Ma, dopo l’ultimo round di colloqui sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite di Katowice, in Polonia, vale la pena di ricordare che abbiamo già, nell’Accordo di Parigi del 2015, l’intelaiatura su cui costruire una risposta comune a questa sfida globale.
Parigi ha creato il contesto
L’Accordo siglato a Parigi era basato su quattro elementi importanti: una solida base scientifica, ovvero il Quinto Rapporto di Valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), pubblicato nel 2013; un’ampia coalizione di attori non statali, tra cui il mondo del business, amministrazioni locali e organizzazioni no-profit, mobilitati mediante la Lima-Paris Action Agenda; un supporto finanziario adeguato derivante principalmente ma non esclusivamente dal Green Climate Fund; piani dal basso all’alto proposti sia dai governi dei paesi sviluppati che da quelli dei paesi in via di sviluppo.
I Nationally Determined Contributions, NDC, questo è il loro nome, hanno dato ai governi la fiducia per proporre obiettivi di riduzione delle emissioni e piani di azione senza assumere impegni vincolanti. Ciò ha permesso di mettere a fuoco linee di pensiero, nuove opportunità, e ha avviato un processo per traslare gli obiettivi globali di Parigi a livello nazionale. Però questi primi NDC non sono, complessivamente, all’altezza della situazione: se venissero implementati come scritto, porterebbero a 3,4 °C di riscaldamento entro la fine del secolo, più del doppio del limite di 1,5 °C contro il cui superamento le Parti hanno convenuto di battersi nell’Accordo di Parigi, e anche molto più alto del limite estremo del “ben al di sotto di 2 °C”.
Perché il processo negoziale abbia successo è vitale stabilire un solido pacchetto normativo che regoli l’aggiornamento degli NDC, che furono fissati nel 2014-15. Servono regole sulla trasparenza perché
i governi si assumano la responsabilità riguardo agli NDC e, fondamentalmente, serve capire come renderli più ambiziosi basandosi sulla scienza del clima. Ripeto, il terreno è stato preparato. Il Talanoa Dialogue ha permesso alle parti di condividere esperienze e, si spera, darà loro la fiducia per adeguare i loro obiettivi. Il rapporto su 1,5 °C di riscaldamento dell’Ipcc ha dato un’immagine nitida della scala del problema fornendo le basi scientifiche per un’azione decisiva.
La finanza, come sempre gioca un ruolo importante. I paesi climaticamente più vulnerabili sono anche i più poveri: devono ricevere solidarietà e supporto finanziario mentre lavoreranno per adattarsi ai cambiamenti climatici cercando di svilupparsi attraverso processi a basse emissioni di carbonio. L’Accordo di Parigi racchiude l’obiettivo, fissato nel 2009, di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno nella finanza climatica entro il 2020, e mantenersi almeno a questo livello fino al 2025. Però non è chiaro cosa dovrà succedere dopo.
Serve maggiore ambizione
Sarà anche fondamentale elevare le ambizioni riguardo alla riduzione delle emissioni prima del 2020, quando gli NDC entreranno in vigore accelerando ulteriormente le trasformazioni necessarie nei nostri sistemi energetici, di trasporto e industriali, e proteggere e ripristinare foreste e altri sistemi naturali. I paesi che non l’hanno ancora fatto devono ratificare l’Emendamento di Doha al Protocollo di Kyoto, che fissava una seconda fase di impegni (dal 2013 al 2020); mentre 120 parti l’hanno sottoscritto, ne mancano 24 all’appello. A prescindere dai risultati di Katowice non va dimenticato che c’è un quinto elemento alla base dell’Accordo di Parigi: un forte sostegno popolare all’azione per tagliare le emissioni di gas serra.
Davanti a un’evidenza scientifica così preoccupante, e malgrado gli sforzi di coloro che cercano di trarre profitto dallo status quo, sarà necessario mobilitare un crescente supporto dell’opinione pubblica all’azione dei negoziatori in tutti i colloqui sul clima, affinché abbiano un mandato chiaro per un’azione climatica aggressiva e ambiziosa.