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Qualche

anno fa, la simulazione al computer impostata sul calco del cranio ricostruì, come in un cold case musicale, il “vero” volto di Johann Sebastian Bach. Senza la pomposa parrucca dei dipinti ufficiali, il viso campeggia più pieno che nelle incisioni d’epoca e rafforza l’espressione da uomo coscienzioso e saggio. Padre patriarca comprensivo ma non indulgente. Compositore «S.D.G., Soli Deo Gloria», ma anche severamente soddisfatto di sé stesso; consapevole del valore dell’artigianato e della dedizione totale alla missione delle note e delle architetture sonore. Nulla, nell’espressione, fa trapelare superbia o vaticina l’impronta capitale che la sua musica avrebbe lasciato nella storia della nostra cultura. Eppure, se si raccontano gli ultimi secoli di musica occidentale usando criteri solo evolutivi il nome del più insigne rappresentante della più cospicua genealogia di musicanti registrata all’anagrafe storica (una novantina i Bach, spalmati su nove generazioni) è stato eluso più di una volta. A parte la devozione dei figli, il ricordo tenue di sporadici musicisti a loro vicini, e il riservato ma aristocratico culto fatto germogliare nei circoli culturali viennesi dal barone Gottfried van Swieten – prefetto della biblioteca di corte, che fomentò la passione haendel-bachiana di Haydn, Mozart e Beethoven –, negli ottant’anni successivi alla morte la produzione (e quindi la figura) di Bach-padre fu accantonata. Del resto, la tecnica compositiva dei pochi altri lavori noti risultava enigmatica, barocca e “antica”. Oppure troppo sperimentale agli occhi dei musicisti e alle orecchie degli ascoltatori sedotti dal nascente stile galante-preclassico, da melodie lusinganti e semplici, da accompagnamenti scheletrici e accordali; senza astruserie contrappuntistiche. Ancor meno attenzione suscitò la monumentale produzione destinata/ispirata alla liturgia: un’attività eccentrica da giudicare in base alla congruenza col calendario delle festività luterane; sostanza devozionale, non arte. Fuori moda rispetto alle aspettative degli spettatori che, se amavano il canto, andavano a teatro.

Anche su tale inattualità di linguaggio ha preso slancio l’eminente mito romantico successivo e la progressiva individuazione del carattere eccezionale dell’esperienza artistica di Bach. La sua impermeabilità a qualsiasi prontuario storico-stilistico ne ha incrementato la considerazione estetica e spirituale fino a ottenerle lo status di metafora-testimonianza di valori poetici e artistici assoluti. Quando nel 1829 Mendelssohn diresse la Passione secondo Matteo, gli spettatori berlinesi ebbero l’occasione per conoscere Bach “dal vivo” ma per gli intellettuali fu un’epifania: riconobbero in lui il padre della musica tedesca, quindi di buona parte della civiltà artistica e spirituale germanica. Bach non ha esercitato influssi diretti, prontamente visibili sul linguaggio della musica e il gusto del suo tempo. Non ha conquistato platee e benemerenze internazionali come il coetaneo Georg Friedrich Händel, non ha inventato forme nuove. Ma ha riassaporato quelle antiche unendo con capacità sincretica unica diversi stilemi compositivi, celebrandone la virtualità infinita e il loro superamento. Consegnando quei linguaggi al futuro s’è fatto garante della loro attualità perenne influenzando l’universo della musica a venire, non solo classica, e l’idea stessa di cultura del proprio tempo. Così la storia della musica può prendere le distanze con le opere di Johann Sebastian Bach ma le stesse sono necessarie per spiegare l’evoluzione del pensiero occidentale, sono una parte della filosofia e della storia dell’uomo. Sempre restando, come disse il filosofo Emil Cioran, l’unica prova certa dell’esistenza di Dio.

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