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PRESENTAZIONE DELLA COLLANA

di Michele dall’Ongaro

Presidente-Sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

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Fino a non molto tempo fa nel nostro Paese era normale che persone di cultura, anche media, intrecciassero nelle loro conversazioni su cinema, arte o letteratura argomenti relativi alla musica cosiddetta classica intesa come parte integrante del comune sentire, della collettività. Ne troviamo plastico riscontro sbirciando i palinsesti della televisione “monocanale” italiana degli anni Sessanta con una settimana dove tra il cinema (d’autore), la trasmissione scientifica, quella letteraria, l’opera, il concerto e il teatro non mancava nulla nel bouquet formativo dei baby boomers. Poi le cose sono cambiate un po’ ovunque e abbiamo assistito a una progressiva deriva dei continenti del pensiero, una smagliatura nell’ordito dei saperi. A farne le spese maggiormente è stata forse la musica, custodita in un atollo lontano dal tessuto più vivo della società. Non a caso Harold

Bloom ne La chiusura della mente americana (1987) poteva scrivere: «Tra i giovani la musica classica è morta. Questa affermazione sarà energicamente contestata, lo so, dai molti che, non volendo ammettere i cambiamenti di corrente, possono segnalare la proliferazione nei campus di corsi di preparazione e pratica della musica e di gruppi di esecutori di tutti i tipi. La loro presenza è innegabile ma coinvolgono non più del 5-10 per cento della popolazione studentesca. Oggi la musica classica è un’inclinazione speciale come il greco e l’archeologia precolombiana, non una cultura comune di comunicazione reciproca e stenografia psicologica».

Questa collana editoriale, però, testimonia un forte cambiamento che emerge anche da altri segnali: dall’incremento della presenza di musicisti italiani nel mercato internazionale al diffondersi di scuole e accademie pubbliche e private, dal proliferare di formazioni amatoriali alla presenza costante della musica classica in trasmissioni e serie televisive (si veda il successo di una serie come Mozart in the Jungle, gettonatissima tra i millennials), dal lusinghiero incremento di pubblico (secondo l’Istat) nelle sale da concerto fino alla maggiore consapevolezza del potere inclusivo e socialmente essenziale della pratica musicale, nato (anche) sulla scia delle esperienze maturate all’interno del Sistema Abreu che ha consentito, prima in Venezuela e poi in moltissimi altri Paesi, di recuperare migliaia di bambini e giovani provenienti dai quartieri più disagiati o di portare la musica in luoghi particolari come gli ospedali o gli istituti penitenziari. In questo quadro, l’Accade- mia Nazionale di Santa Cecilia, forse la più antica del mondo occidentale, fa la sua parte con la sua orchestra, il suo coro, il suo direttore musicale M° Antonio Pappano, con i suoi complessi infantili e giovanili, con i corsi di alto perfezionamento e l’attività scientifica e editoriale. Questa serie di pubblicazioni, alle quali siamo orgogliosi di aver dato un contributo essenziale, rientra in un progetto di sviluppo del dialogo tra musica e società. Agili ma aggiornatissime monografie dedicate agli autori più rappresentativi e affidate alla scrittura fresca di giovani studiose e studiosi che, oltre ad analizzare la vita e l’opera dei grandi compositori, ne contestualizzano l’esperienza nel quadro culturale e sociale del loro tempo. Licenziando quindi questa piccola ma preziosa avventura editoriale, colgo l’occasione per ringraziare a nome dell’Accademia tutti coloro che hanno reso possibile la sua realizzazione. Buona lettura e buona musica a tutti.

IL GRANDE SEDUTTORE di Angelo Foletto

Trale molte ragioni che rendono speciali le sue opere e i giorni, scegliamo la cronaca. Pochi artisti – nessun musicista – sono stati così celebr(at)i in vita da poter vedere l’inaugurazione del proprio monumento. Non nella città natale, non nella nazione di formazione (tedesca) né in quella di maggiore attrazione/influenza stilistica e prima affermazione pubblica (italiana) ma in quella di adozione. Da cui deriva l’eterno dilemma filologico sulla scrittura del cognome: Georg Friedrich Händel (Haendel) secondo l’atto di nascita o George Frideric (o Frederick) Handel secondo quello di morte?

La statua fu inaugurata nel 1738 nei Vauxhall Gardens di Londra: il compositore aveva cinquantatré anni. Dal 1711, dopo il successo di Rinaldo pochi mesi dopo il suo arrivo nella capitale, a Londra era una star (non amato da tutti come si conviene alle celebrità autentiche). Tant’è che già l’anno successivo alla morte, l’amico e reverendo John Mainwaring fece stampare Memoirs of the late George Frideric Handel, storicamente la prima biografia di un compositore di musica. La pubblicazione seguì la cerimonia funebre nell’abbazia di Westminster dove il “Compositore di musica per la Cappella Reale di Sua Maestà” è sepolto sotto un altro scenografico monumento di marmo. Ancor più che un dettaglio, statue e biografia sono un indizio, anzi una prova d’una popolarità senza precedenti.

Il nazionalismo britannico, un po’ rettificato in quei decenni dalla presenza di un Hannover sul trono, fece la sua parte: non c’è dubbio che la porzione londinese di biografia artistica riassuma Händel più di quanto dica l’aneddotica. Al punto che parrebbe frutto di un originale calcolo (auto)imprenditoriale. Ma il musicista, che fu anche organizzatore capace, dell’avventuriero non aveva le malizie. Solo istinto e formazione professionale ideale a interpretare il ruolo di musicista moderno. Artigiano e industrializzato, personale ma compiacente nei confronti dei committenti (e, spesso, il diletto del pubblico fu anteposto alle richieste della Corona), compositore esemplare nell’uso degli strumenti ma ancor più stupefacente in quello della voce, “strumento” per antonomasia del teatro del tempo.

Artista internazionale e al di sopra delle mode, Händel fu tra i pochi a non rimanere schiacciato dalla macchina della storia che cannibalizzò per decenni quasi tutti i colleghi del primo

Settecento: continuò a essere eseguito, stampato e onorato.

E oggi, in virtù della moderna riscoperta esecutiva dell’opera barocca, suona fresco come un adolescente. Affascina il pubblico, fa proseliti e “istruisce” nello stile generazioni di cantanti, induce registi e scenografi a letture sceniche effervescenti. Testimonia l’attualità del teatro-voce che aveva appreso con passione in Italia, perfezionato e personalizzato a Londra e reso procace sentimentalmente e virtuosisticamente ingaggiando e allenando – da inventore dello show operistico – i migliori cantanti del tempo e probabilmente della storia dell’opera (non solo barocca), con abili campagne acquisti sul Continente. Con Händel il mestiere del musicista diventa globale e, diremmo oggi, multitasking. Eclettico e spettacolare, senza pregiudizi né limitazioni. Quando, decenni prima di meritarsi la statua pubblica a Londra, aveva gareggiato alle tastiere con Domenico Scarlatti a Palazzo della Cancelleria di Roma, ospite del cardinale Ottoboni, il “suonatore di cembalo e compositore di musica” disceso dalla Sassonia – non fidiamoci della cerimoniale bardatura imparruccata dei ritratti ufficiali; le cronache ne parlarono come di un giovane avvenente – conquistando le nobili dame e l’aristocrazia romana che l’avrebbe voluto subito al loro servizio, il ventitreenne aveva già capito che la vocazione a sedurre e farsi ammirare per l’abilità con la musica sarebbe stato il suo destino. Ancor più, la sua professione.

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