Novelle di Ortensio Lando, a cura di Davide Canfora

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Indice

Introduzione Nota al testo

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Novella I Novella II Novella III Novella IV Novella V Novella VI Novella VII Novella VIII Novella IX Novella X Novella XI Novella XII Novella XIII Novella XIV

3 8 17 24 34 40 46 57 62 68 71 74 82 84

Cronologia di Ortensio Lando

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Introduzione

La vicenda intellettuale di Ortensio Lando – la cui biografia ci è nota in modo approssimativo: sappiamo che ebbe origini piacentine, nacque nei primi anni del Cinquecento a Milano e morì forse intorno al 1555 – fu segnata in modo decisivo da almeno due esperienze: i contatti con Pietro Aretino e la sua cerchia e, soprattutto, con la vivace Accademia piacentina degli Ortolani, ambiente attorno a cui gravitò anche il letterato Anton Francesco Doni e dove Lando apprese quelle «forti componenti giuocose» che attraversano gran parte della sua opera e «sembrano essere il lievito necessario per una più vasta e amara critica sociale»1; 1 RENZO BRAGANTINI, «Poligrafi» e umanisti volgari, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da ENRICO MALATO, vol. IV, Roma, Salerno, 1996, p. 697. Sulla biografia di Lando, cfr. CONOR FAHY, Per la vita di Ortensio Lando, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 142 (1965), pp. 243-258; e inoltre: SILVANA SEIDEL MENCHI, Spiritualismo radicale nelle opere di Ortensio Lando, «Archiv für Reformationsgeschichte», 65 (1974), pp. 210-276; EAD., Sulla fortuna di Erasmo in Italia: Ortensio Lando e altri eterodossi della prima metà del Cinquecento, «Schweizerische Zeitschrift für Geschichte», 24 (1974), pp. 537-634; EAD., Chi fu Ortensio Lando?, «Rivista Storica Italiana», 106 (1994), pp. 501-562 (dove la Seidel Menchi propone, con cautela, la suggestiva ipotesi che l’identità di Lando coincida con quella del propagandista eterodosso Giorgio Filalete, detto il «Turchetto»); SIMONETTA ADORNI-BRACCESI, SIMONE RAGAGLI, Ortensio Lando, in Dizio-

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inoltre, le incursioni in area riformata e la lettura dei grandi autori del primo Cinquecento europeo (Thomas More, Erasmo da Rotterdam, Lutero). Fattore, quest’ultimo, che fece di Lando un esponente di primo piano della «fase erasmiana della Riforma», o «Preriforma», che in Italia – ha scritto Silvana Seidel Menchi – «rimase sempre attuale» proprio «perché non fu mai realizzata»2. Il nome di Lando tende oggi a confondersi, sullo sfondo di pochi ‘grandi’, nel ricco sottobosco dei poligrafi vissuti nell’età matura del nostro Rinascimento, alcuni dei quali, come era d’altra parte usuale per gli intellettuali nel XVI secolo, scrissero in volgare e anche in latino: Doni, Nicolò Franco, Francesco Sansovino, Anton Francesco Grazzini, Giovan Battista Gelli. Alcuni titoli della nutrita produzione landiana, oltretutto colpiti da tempestiva proibizione, hanno comunque opposto un’efficace resistenza al tempo e all’oblio con cui le leggi della selezione storico-culturale colpiscono i libri anche pregevoli: è il caso dei Paradossi cioè sentenze fuor del comun parere, cui fece seguito a breve una Confutazione. I Paradossi sono un esito tipico della più vivace cultura umanistica: pubblicandoli recentemente, Antonio Corsaro li ha accostati alla più ‘alta’ tradizione cinquecentesca del paradosso – da Erasmo a More, da Agrippa a Montaigne – e ha sottolineato la «visione tormentata del reale» e il senso inquieto della realtà sotteso ad un’argomentazione che, smascherando il relativismo mondano, combatte la communis opinio e nario Biografico degli Italiani, vol. 63, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004, pp. 451-459. Sul rapporto con Doni, cfr. ALESSANDRO VALORI, Il gioco progettuale delle parole nell’opera di Ortensio Lando e Anton Francesco Doni, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 177 (2000), pp. 225-240. 2 SILVANA SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia. 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 89. Sul tema della Riforma mancata nell’Italia del Cinquecento, cfr. ora MASSIMO FIRPO, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2006. VIII


adopera la stessa menzogna come strumento di conoscenza della verità3. La prolificità di Lando generò un cospicuo numero di altri opuscoli, di vario interesse. Egli partecipò alla discussione tardoumanistica intorno al modello del buon latino con i dialoghi satirici Cicero relegatus et Cicero revocatus4: in quella discussione era stato una voce autorevole Erasmo da Rotterdam, che fu uno degli scrittori più imitati da Lando. Il coinvolgimento nella discussione teorica sulla questione del buon latino non escluse che Lando si impegnasse nei fatti a dimostrare prioritaria l’esigenza di ricorrere al volgare per realizzare una soddisfacente diffusione della cultura e delle idee: egli si pose così in continuità, sia detto incidentalmente, con la migliore tradizione dell’Umanesimo italiano, per esempio con l’impegno di un grande scrittore bilingue del Quattrocento, Leon Battista Alberti, il quale aveva appunto scritto importanti opere in latino e, al tempo stesso, precocemente dimostrato l’inattualità di quella lingua e la conseguente necessità di adoperare il volgare nell’epoca moderna. L’attenzione al problema della diffusione della cultura attraverso il volgare – si può aggiungere – è un motivo che, ereditato dal primo secolo dell’Umanesimo, richiamò l’attenzione di Lando anche perché risultava in sostanziale armonia con le istanze della Riforma, a cui egli non fu 3 ORTENSIO LANDO, Paradossi cioè sentenze fuori del comun parere, a cura di ANTONIO CORSARO, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, p. 9. Sui Paradossi, cfr. da ultimo: PAOLO PROCACCIOLI, Per Ortensio Lando a Venezia. In margine alla recente edizione dei ‘Paradossi’, «Filologia e Critica», 25 (2002), pp. 102123. 4 Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi, impressum Venetiis per Melchiorem Sessam, anno Domini MDXXXIIII. Con una situazione che sembra anticipare i Ragguagli del Boccalini, Cicerone viene dapprima mandato in esilio per la sua linguae imperitia (evidente l’allusione scherzosa all’esilio cui Cicerone fu realmente condannato nel 58 a.C.) e successivamente, nel secondo dialogo, richiamato per sedare i «magni in urbe ac foro toto inter studiosos excitati tumultus».

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insensibile. Lutero ‘sconcertò’ la cultura occidentale traducendo la Bibbia dal latino: Lando – agostiniano spretato e inquieto – tradusse in volgare alcuni scritti di Erasmo e dello stesso Lutero, nonché Utopia di Thomas More5, e ragionò in volgare intorno all’utilità che si ricava dalla lettura diretta dei testi sacri. Alla critica letteraria si può ricondurre la Sferza de’ scrittori antichi e moderni. Non siamo però di fronte ad un tentativo di storia letteraria universale né ad un precoce annuncio della grande erudizione illuministica. La Sferza rappresenta piuttosto, dal punto di vista formale, un segno di continuità con l’Umanesimo: con testi come il De hominibus doctis di Paolo Cortesi, che era per l’appunto un repertorio critico di scrittori antichi e moderni; e un catalogo di autori, buoni e meno buoni, si leggeva anche nell’erasmiano Ciceronianus. Quanto all’ispirazione profonda che anima la Sferza, essa – ha osservato Paolo Procaccioli – «ha struttura, lessico e animo di pamphlet»6: messo all’indice nel 1559 e non più ristampato fino ai nostri tempi, quest’opuscolo dà prova nel modo più rappresentativo della natura intimamente polemica della scrittura landiana. Le novelle di Lando, che qui proponiamo in edizione integrale7, furono pubblicate nel 1552 all’interno di una più ampia 5 Cfr. LUIGI FIRPO, Tommaso Moro e la sua fortuna in Italia, «Occidente», 8 (1952), pp. 225-241; RICCARDO SCRIVANO, La norma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Roma, Bonacci, 1980, pp. 139-149. 6 ANONIMO DI UTOPIA (ORTENSIO LANDO), La sferza de’ scrittori antichi et moderni, a cura di PAOLO PROCACCIOLI, Roma, Beniamino Vignola Editore, 1995, p. 9. 7 Le novelle, comprese in una raccolta intitolata Vari componimenti, apparvero a Venezia presso Giolito de’ Ferrari nel 1552 (successivamente ristampate nel 1554 e nel 1555). Le sole novelle furono ripubblicate a Lucca nel 1851 (presso Giovanni Baccelli) e di nuovo nel 1916 (a cura di Guido Battelli, Lanciano, Carabba): segnalo che l’edizione Baccelli, preceduta da una biografia di Lando, aggiunge alla raccolta delle novelle la parziale trascrizione di una lettera dell’autore a Giovan Pietro Brachi, contenente il racconto della cuffia magica che faceva dimenticare a chi la indossava le persone dell’altro sesso (confezionata da Circe

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miscellanea di vari componimenti, che comprendeva anche una raccolta di questioni amorose (ispirate al modello cortese delle questioni d’amore incluse nel Filocolo di Boccaccio), due vivaci dialoghi (il primo tra un cavaliere errante e un uomo solitario, il secondo intitolato a Ulisse)8 e infine una breve silloge di favole (sull’esempio di Esopo, ovviamente; ma anche degli Apologi albertiani). Le novelle – e più in generale la raccolta di vari componimenti – si situano a margine della produzione di Lando che a noi oggi appare più ‘impegnata’: esse non sembrano direttamente toccare questioni religiose, né affrontano problemi di ordine teorico e letterario; si presentano, piuttosto, come uno dei numerosi frutti della novellistica italiana del Cinquecento, lontanamente riconducibili al grande esempio boccacciano e di fatto disperse nel mare magnum di una produzione che fu, in alcuni casi, pletorica e ripetitiva. La vocazione narrativa di Lando, peraltro, non rimase circoscritta alle novelle: egli ci ha lasciato anche il Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e altri luoghi, «viaggio immaginario attraverso la società italiana» del tempo, critica del costume «che accoglie al suo interno, per Giunone e destinata al capo di Giove, «dio molto amoroso e lascivo», la cuffia era poi passata di mano in mano, era stata tra l’altro posta da Ulisse sul capo di Penelope prima che l’eroe partisse per Troia ed era infine giunta nelle mani di Lando). In seguito si sono avute edizioni parziali, in cui le novelle landiane sono comprese all’interno di antologie di testi di altri novellieri di epoca rinascimentale: Novelle del Cinquecento, a cura di GIAMBATTISTA SALINARI, vol. I, Torino, Utet, 1955, pp. 511-527 (le novelle di Ugo da Santa Sofia, Leandro de’ Traversari, Piero Corsini, Ricardo Caponi e don Artado di Cardona); Novellieri del Cinquecento, a cura di MARZIANO GUGLIELMINETTI, vol. I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1972, pp. 431-447 (le novelle di Leandro de’ Traversari, Andrea di Filippo de’ Bardi, Ugo da Santa Sofia e Piero Corsini). 8 Il dialogo tra il cavaliere errante e l’uomo solitario, di cui intendo prossimamente fornire l’edizione, è chiaramente ispirato – a parte l’evidente evocazione petrarchesca – al Theogenius albertiano. XI


in rapidi ma inequivocabili innesti, le radicate convinzioni religiose dell’autore»9. Le novelle di Lando non debbono in ogni caso apparire un semplice svago letterario, bensì sono, per l’intento didascalico che le ispira e ancor più per i motivi trattati, il segno tangibile del tentativo – che Landò esercitò in gran parte dei propri scritti – di divulgare i temi morali e le posizioni più audaci della riflessione umanistica: di qui la scelta di un genere affermato e reso ‘popolare’ da Boccaccio, accessibile dunque ad un pubblico non strettamente elitario, ma anche la vicinanza a modelli ‘alti’ (anzitutto Erasmo, come vedremo), che sono un costante punto di riferimento della scrittura landiana. L’intento di Lando è scrivere in modo denso e istruttivo, ma in lingua volgare e all’indirizzo di un uditorio relativamente vasto: intento in cui, si è detto, si era cimentato anche Alberti; e che, a ben guardare, aveva impegnato, ben prima dell’età umanistica propriamente detta, già Dante Alighieri e, naturalmente, lo stesso novelliere di Certaldo. Non è forse fuori luogo ricordare che anche quest’ultimo aveva dato prova di una duplice vocazione: umanistica ed aulica nell’ammirazione e nell’imitazione di Petrarca; borghese e ‘divulgativa’ nella produzione volgare e nella venerazione e nella pubblica diffusione di Dante. Il modello del Decameron è in effetti, rispetto alle novelle di Lando, meno distante e ha un’incidenza meno vaga di quanto possa a prima vista pensarsi. In Lando manca senza dubbio la complessità della struttura boccacciana. La raccolta, oltretutto, è piuttosto esigua (appena 14 testi, che Lando raccoglie sotto un umile titolo: Alcune novelle) e non può dunque essere messa a confronto con la straordinaria architettura del Decameron. Per non dire dell’assenza di cornice, che accomuna le novelle lan9

BRAGANTINI, «Poligrafi» cit., p. 698.

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diane ad altre raccolte ‘disorganiche’, tutt’altro che spregevoli, della narrativa rinascimentale. Eppure i punti di contatto tra il libro di Boccaccio e la silloge di Lando non mancano. Anzitutto, com’è naturale, nella struttura o nella trama di alcuni racconti: la novella dell’ingannatore ingannato, che vorrebbe approfittare di una giovane donna all’insaputa della moglie e invece inconsapevolmente giace con lei e per di più la offre ai piaceri dei suoi amici, rappresenta – oltre che un tópos novellistico e in particolare, come vedremo, un punto di contatto con Bandello – un malizioso ribaltamento di Decameron III, 2 (il re Agilulfo taglia nottetempo un ciuffo di capelli al palafreniere che ha dormito con la moglie per smascherarlo l’indomani; ma l’uomo taglia allo stesso modo i capelli ad altri servitori del re, costringendo quest’ultimo «a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna»)10; così pure, nella novella di Piero Corsini, l’esplicito riferimento alla natura «tragica» dell’amore è certo un’allusione alla IV giornata della raccolta boccacciana, che più di altre aveva suscitato l’imitazione umanistica. Più in generale, si può osservare che molte novelle di Lando richiamano un motivo-chiave del Decameron. La donna virtuosa che schiva le importune insistenze di un amante con una «leggiadra beffa», dando prova di arguzia e di saggezza, richiama la virtù della marchesana di Monferrato, che «con alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di Francia» (Decameron I, 5), nonché più genericamente – per il motivo della donna che ‘educa’ l’uomo con un’arguta prova di buon senso – anche i personaggi di madonna Oretta e di monna Nonna de’ Pulci. Il tema della vendetta contro la donna malvagia, unito al tópos misogino della polemica contro i belletti delle donne, fa pensare a Decameron VIII, 7 (lo 10 Il tópos comico dello scambio di compagna nel buio della notte è variamente attestato nel Decameron (VII, 8; VIII, 8, ecc.); un caso simile era narrato anche da Masuccio Salernitano (novella XXXVIII).

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scolare ama una vedova, che lo maltratta; l’uomo ripaga l’odio con una beffa atroce). Il motivo della donna che accoglie un amante e impedisce al marito di rientrare in casa è anche tipicamente boccacciano: si pensi a Decameron VII, 1 e VII, 4. La novella che mette in ridicolo l’uomo di scienza e, al tempo stesso, descrive un improvviso temporale estivo ricorda Decameron IV, 5, dove Boccaccio mette in scena l’acquazzone che coglie di sorpresa Giotto e messer Forese da Rabatta, uomo – quest’ultimo – «di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu reputato», e però reso irriconoscibile dalla pioggia cadutagli sul capo: in questo caso Lando arricchisce il motivo originario con una variante rinascimentale, l’ironia sulla scienza astrologica. Il biasimo per l’amore senile, presente in due differenti racconti, è a sua volta un tópos, non solo novellistico, che Boccaccio aveva toccato, per esempio, in Decameron X, 6. Le novelle di Lucina e di Lippa, che spiegano i travagli e gli effetti benefici dell’amore, sono genericamente accostabili alle novelle boccacciane sugli amori a lieto fine: quanto in particolare al personaggio di Lodovico Gambacurti, che si ritrova a vivere da corsaro in modo del tutto casuale, è evidente l’eco del boccacciano Landolfo Rufolo (Decameron II, 4), il quale «impoverito divien corsale». Infine, la novella della «memorabil cortesia» usata da don Artado di Cardona verso una bella giovane, di cui egli si era invaghito, ricorda ad un tempo Decameron X, 6 (per il già citato motivo dell’uomo di rango e attempato che si innamora di una giovane e, riconosciuta la follia del proprio amore, la lascia libera e le procura un buon matrimonio) e Decameron X, 10 (per il motivo della generosa magnanimità). In quest’ultimo caso, si può aggiungere, il richiamo al Decameron è evidente anche perché la novella di don Artado, che narra appunto la cortesia usata da questo cavaliere nei confronti di una donna virtuosa, chiude la raccolta di Lando esattamente come la novella di Gualtieri, marchese di Saluzzo, e di Griselda, doXIV


ve è messo in scena il trionfo della magnanimità, sigilla il Decameron: entrambe le raccolte, dunque, terminano all’insegna dell’elogio di grandi virtù femminili. Speculare rispetto al Decameron è inoltre il modo in cui le novelle di Lando si aprono: Boccaccio cominciava il libro con le gesta di Ciappelletto (uomo in apparenza del tutto malvagio e però a ben vedere capace – in punto di morte – di compiere un’impensabile opera di bene nei confronti dei due fiorentini che lo avevano ospitato in Borgogna, conquistando in tal modo e per vie traverse una santità al di là di ogni aspettativa) e lo chiudeva, si è detto, con un grande esempio di magnanimità11; Lando, a sua volta, apre la raccolta con un raro, e non controverso, esempio di onestà femminile e lo chiude con un ulteriore modello di donna virtuosa. Questa boccacciana ricerca di ‘simmetria’12 trova riscontro anche in altri luoghi all’interno della raccolta di Lando. La novella del figlio che si salva grazie ai precetti paterni e serba di lui grata memoria è per esempio ‘equilibrata’ dalla novella di Ricardo Caponi, che cerca di sbarazzarsi dell’anziano genitore quando questi non è più utile all’economia domestica e desiste per merito del figlioletto, il quale lascia intravedere al padre il rischio di ricevere a sua volta un eguale trattamento negli anni della vecchiaia: dove non è difficile scorgere una critica della mentalità utilitaristica e uno specifico richiamo all’Alberti dei libri Della famiglia13. 11 Per una lettura articolata dei molteplici livelli della novella di apertura del Decameron, cfr. GIOVANNI BOCCACCIO, La novella di ser Ciappelletto (Decameron I, 1), introduzione di GUIDO ALMANSI, commento di LUCIA NADIN, Venezia, Marsilio, 1992. 12 Sulle corrispondenze all’interno del Decameron, cfr. FRANCESCO TATEO, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 1998, in particolare pp. 111-217. E inoltre: LUCIA BATTAGLIA RICCI, Il «Decameron»: struttura dell’opera. Elementi tradizionali e innovativi nella ‘cornice’, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da ENRICO MALATO, vol. II, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 795-804; LUIGI SURDICH, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 194-262. 13 Nel I libro Della famiglia Alberti tratta per l’appunto il tema de officio se-

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La novella dell’ingannatore ingannato è simmetrica rispetto a quella del bugiardo sbugiardato, così come l’ironia sull’amore senile si ripete ben tre volte all’interno della raccolta, con una cadenza regolare (novelle terza, settima e decima). Dunque, ancorché breve, Lando ha costruito una silloge tutt’altro che disorganizzata: essa è tenuta insieme dal denominatore comune dell’intento didascalico, che l’autore apertamente proclama in apertura di quasi ogni racconto («in questa novella s’impara», «nella seguente novella si dimostra», «nella seguente novella s’impara e chiaramente si vede», ecc.) e che a sua volta trova riscontro in Boccaccio. La finalità di insegnamento del libro di quest’ultimo è più garbatamente sfumata e sapientemente artefatta, ma ugualmente chiarita nel proemio del Decameron, dove si legge che lo scopo della raccolta di novelle è offrire alle donne «parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio», in quanto si mostrerà «quello che sia da fuggire e quello che sia similmente da seguitare». Boccaccio non è ovviamente il solo modello presente al Lando novelliere. Lando pesca talvolta anche nell’aneddotica ‘minonum erga iuvenes et minorum erga maiores. Egli sottolinea tra l’altro l’importanza della virtù che si eredita dai padri, maggiore rispetto alle ricchezze che essi possono lasciare ai discendenti, e insiste sulla necessità – fondamento della stabilità sociale – che questi ultimi siano rispettosi e riverenti verso i vecchi: «Debbano adunque e’ giovani riverire e’ vecchi, ma molto più i propri padri, e’ quali e per età e per ogni rispetto troppo da’ figliuoli meritano. Tu dal padre avesti l’essere e molti principii ad acquistare virtù. El padre con suo sudore, sollecitudine e industria t’ha condutto ad essere uomo in quella età, quella fortuna, e a quello stato ove ti truovi [...]. Se dell’avere, del bene, delle ricchezze tue, gli amici e conoscenti tuoi debbono in buona parte goderne, molto più il padre, dal quale tu hai avuto se non la roba la vita, non la vita solo ma il nutrimento tanto tempo, se non il nutrimento l’essere e il nome [...]. Né siano e’ giovani pigri ad aiutare ogni maggiore nella vecchiezza e debolezze loro; sperino in sé da’ suoi minori quella umanità e officio quale essi a’ suoi maggiori aranno conferita» (LEON BATTISTA ALBERTI, I libri della famiglia, a cura di RUGGIERO ROMANO e ALBERTO TENENTI, nuova edizione a cura di FRANCESCO FURLAN, Torino, Einaudi, 1994, p. 26). XVI


re’. Alle Facezie di Poggio Bracciolini sembra riconducibile il tema dei morti che resuscitano: tema la cui variante scherzosa (il vivo creduto morto) era ben attestata nella tradizione novellistica – tra l’altro in Boccaccio (III, 8 e IV, 10) e in Masuccio Salernitano (novella I) – e ricorre nello stesso Lando (nella novella di Marino Viniziano). Nella facezia 229 di Poggio si narra, al contrario, il caso di un Romanus civis seppellito da diciotto giorni e per breve tempo risorto: tanto in Poggio quanto in Lando il redivivo è preda del demonio, il che contribuisce ad accrescere l’atmosfera infernale del racconto14. Sempre nelle Facezie poggiane ricorrono anche altri motivi che, più o meno variati, sono presenti nella raccolta di Lando: la presenza di spirito della donna che si trova di notte in compagnia dell’amante e, al ritorno imprevisto del marito, gli impedisce di rientrare, facendogli credere che una guardia del podestà è venuto ad arrestarlo (facezia 10); la risposta arguta con cui un Fiorentino zittisce un conoscente bugiardo, «talmente abituato a mentire, che dalla sua bocca non era mai uscita la verità» (facezia 224); il tema dell’ingannatore ingannato, che, nell’intento di approfittare di una giovane donna, si congiunge inconsapevolmente con la moglie e per di più la mette a disposizione degli amici (facezie 238 e 270)15. Il modello di Lando che appare al lettore moderno di maggiore significato è in ogni caso – insieme con Boccaccio – Erasmo da 14 POGGIO BRACCIOLINI, Facezie, introduzione, traduzione e note di STEFANO PITTALUGA, Milano, Garzanti, 1995, pp. 242-243. Cfr. ora: LE POGGE, Facéties. Confabulationes, texte latin, note philologique et notes de STEFANO PITTALUGA, traduction française et introduction de ÉTIENNE WOLFF, Paris, Les Belles Lettres, 2005, pp. 133-134; Lorenzo Poliziano Sannazaro, nonché Poggio e Pontano, introduzione e cura di FRANCESCO TATEO, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2004, pp. 163-164. 15 POGGIO, Facezie cit., pp. 20-23, 238-239, 254-255 e 290-293 (LE POGGE, Facéties cit., pp. 10-11, 132, 139-140 e 159-160; Lorenzo Poliziano Sannazaro, nonché Poggio e Pontano cit., pp. 98, 162, 167 e 177). Nella facezia 270, si noti, l’ingannatore ingannato è – come in Lando – un mugnaio.

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Rotterdam. La centralità di questo autore nella formazione di Lando fu, si è detto, importantissima ed è all’origine – come ha dimostrato Silvana Seidel Menchi – della eterodossia che affiora da molte pagine del poligrafo milanese16. Nel caso delle novelle, peraltro, le questioni di ordine teologico e dottrinale sono per lo più lontane: ad eccezione di alcuni riferimenti alla credulità popolare (la matrigna non esita a credere che, nella beffa ordita dal figliastro a suo danno, debba vedersi un diretto intervento divino), che appaiono a metà strada tra lo spirito ‘iconoclasta’ della Riforma e il razionalismo umanistico (sul tema della credulità popolare era intervenuto pochi anni prima, fra gli altri, Niccolò Machiavelli)17. 16 Sul riuso del modello erasmiano da parte di Lando negli Oracoli e nelle Lettere di molte valorose donne, cfr. da ultimo: DIETER STELAND, Nota su alcune fonti degli ‘Oracoli de’ moderni ingegni’ di Ortensio Lando. Con una scelta di cinquanta oracoli, «Esperienze Letterarie», 2 (2006), pp. 51-62. 17 Machiavelli, nel noto capitolo XI del I libro dei Discorsi, ironizza pesantemente – nell’ambito di un ragionamento profondamente razionalistico – sulla credulità dei Fiorentini del suo tempo. Egli dapprima spiega che i Romani antichi dovevano più a Numa Pompilio che a Romolo la felicità e saldezza del proprio Stato, avendo Romolo fondato militarmente la res publica e invece Numa consolidato il regno con l’istituzione delle leggi e della religione. Numa, in particolare, aveva potuto persuadere quel popolo di rozzi e primitivi guerrieri ad accettare un sistema di leggi e di «buoni ordini» servendosi di una sana simulazione: aveva raccontato che le leggi di Roma gli erano state dettate nottetempo dalla ninfa Egeria. Questa simulazione, così benefica per lo Stato romano, era stata efficace proprio in quanto i sudditi di Roma erano ancora del tutto incivili, sicché l’ammirazione per il soprannaturale attecchì facilmente presso di loro: «senza dubbio – soggiunge Machiavelli svelando a pieno e non senza malizia la propria mentalità laica – chi volesse ne’ presenti tempi fare una republica, più facilità troverrebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna civiltà, che in quegli che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la civiltà è corrotta». Eppure, osserva il segretario fiorentino nel seguito del ragionamento, anche nelle moderne città, dove l’incivilimento dovrebbe aver sostituito la rozzezza, accade che inaspettatamente la simulazione di Numa Pompilio possa ancora ottenere successo. Il che era accaduto a fine Quattrocento a Firenze, dove Savonarola aveva di fatto istituito uno Stato teocratico appoggiandosi per l’appunto – spiega Machiavelli, infastidito nel proprio razionalismo e però anche ammirato per la disinvoltura del frate – sulla creduli-

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Ciò che – abbiamo visto – a Lando anzitutto sta a cuore, nelle novelle, sono le questioni di ordine morale: cioè quella filosofia ‘pratica’ che è uno dei lasciti più duraturi della cultura umanistica e della mentalità laica del Rinascimento. Il ricordo di Erasmo nelle novelle di Lando si osserva in primo luogo nella struttura dei singoli racconti, che si presentano sovente come proverbi rovesciati: Erasmo aveva costruito la raccolta degli Adagia muovendo dal motto proverbiale e dilungandosi in brevi o ampi commenti e, talvolta, in vere e proprie narrazioni (e già Boccaccio, giova ricordarlo, aveva aperto il proemio del Decameron con un proverbio: «umana cosa è aver compassione degli afflitti»); Lando, al contrario, espone dapprima l’intreccio e da qui ricava la spiegazione conclusiva del proverbio, compensando tra l’altro – con questa impostazione quasi ‘scolastica’ – l’assenza di cornice. Sembra anche qui potersi cogliere quella mescolanza, cui precedentemente si è fatto riferimento, tra il livello colto della scrittura e l’intento divulgativo, che culmina appunto nella spiegazione del motto popolare e ‘umile’. In alcuni casi l’accostamento a Erasmo è ancora più stringente, come nella novella che narra le vicende del bugiardo sbugiardato da un servitore ‘formatosi’ presso di lui e divenuto persino più abile del ‘maestro’: siamo probabilmente di fronte ad una variante dell’erasmiano Mali corvi malum ovum, dove un abità popolare: «E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine o una oppinione nuova, non è però per questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili, e che presummono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante, né rozo: nondimeno, da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s’egli era vero o no, perché d’uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza; ma io dico bene che infiniti lo credevano, senza avere visto cosa nessuna straordinaria da farlo loro credere, perché la vita sua, la dottrina, e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede» (NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di FRANCESCO BAUSI, tomo I, Roma, Salerno, 2001, pp. 80-83). XIX


le retore istruisce un allievo con tale astuzia, che quest’ultimo trova infine un argomento utile a respingere la richiesta da parte del maestro di corrispondergli il costo delle lezioni ricevute18. Discorso a parte merita il caso di Matteo Bandello. L’editio princeps delle sue novelle apparve a Lucca nel 1554 (l’edizione completa fu pubblicata postuma vent’anni più tardi): dunque due anni dopo la stampa veneziana delle novelle di Lando. Nel 1554, peraltro, Bandello consegnò (parzialmente) ai torchi la propria raccolta di novelle dopo averla lungamente rimaneggiata e limata, quando egli era un rinomato e rispettato intellettuale settantenne. Alcune evidenti coincidenze tra i temi toccati da Lando e quelli presenti nella raccolta di Bandello potrebbero essere dunque non tanto casuali e non necessariamente dovuti alla lettura da parte di quest’ultimo della silloge landiana: appare lecito domandarsi se – a parte gli ovvi motivi topici, che consentono di individuare veri e propri filoni narrativi ‘trasversali’, riconoscibili in molti autori e attraverso i secoli – Lando possa aver conosciuto le novelle di Bandello prima che esse fossero stampate. Alla luce di ciò sarebbe possibile spiegare le affinità di cui si diceva: la novella III, 57 di Bandello, per esempio, racconta di un dottore vecchio che sposa una donna giovane, la quale gli preferisce la compagnia di un giovane allievo: è il tema della comicità dell’amore senile, ben presente in Lando, e in particolare è di immediata evidenza l’accostamento con la novella di Ambruogio Fighino19. La novella dell’uomo che giace con la propria moglie «non conosciuto da lei ed inse18 DESIDERII ERASMI ROTERODAMI Adagiorum chilias prima, pars altera, ediderunt MIEKSKE L. VAN POLL - VAN DE LISDONK, MARIA CYTOWSKA, Amsterdam-Lausanne-New York-Oxford-Shannon-Tokyo, Elsevier, 1998, pp. 348-350. 19 Ricordo qui che il tema della delazione inconsapevole con cui il fanciullo danneggia la madre adultera è presente anche nell’Orbecche di Giraldi Cinzio, dove il motivo dell’adulterio si intreccia tragicamente con quello dell’incesto: «Orbecche – si legge nell’argomento del dramma – figliuola di Sulmone Re di Persia, essendo fanciulla, fanciullescamente diede indizio al padre che Selina sua mo-

XX


gna altrui a far il medesimo assai scioccamente» (Bandello, II, 57) è vicina alla landiana novella del mugnaio (oltre a richiamare, si è visto, modelli trecenteschi e quattrocenteschi). La novella di Nicolò Lione, a sua volta, è accostabile a Bandello, II, 41, di cui sembra costituire una variante: in Bandello è il marito legittimo che salva la moglie dalla sepoltura e la guarisce; in Lando (come già in Decameron X, 4) l’amante sottrae al marito la moglie, creduta morta, e quest’ultima infine prova, con un’arguzia retorica suggeritale dalla suocera, il proprio diritto a rimanere, dopo morta, con il nuovo marito. Più genericamente – dal momento che il tema, si è detto, era già in Boccaccio – la novella bandelliana di Ottone imperatore (I, 18) può accostarsi a quella di don Artado: entrambi gli uomini amano senza successo una donna e, rifiutati, scelgono magnanimamente di procurare all’amata un buon matrimonio. Comune a Bandello e Lando, ma non solo a loro, è infine il disordine tematico (almeno apparente) secondo cui le novelle sono disposte: esse non sono raccolte per temi, sicché novelle tragiche e cupe sono immediatamente seguite da novelle licenziose e comiche, senza soluzione di continuità. Lando – possiamo aggiungere – attinge anche a motivi teatrali, confermando una vera e propria ‘osmosi’ tra novella e teatro che interessa tutta la tradizione italiana e che, nel primo Cinquecento, gliera e madre di lei si giacea col suo primogenito». La bambina, in tal modo, «cagion fu sola – spiega l’ombra di Selina nella scena II dell’atto I – che Sulmon mi trovasse col mio figlio / e desse ad ambo noi morte crudele» (Teatro del Cinquecento. La tragedia, tomo I, a cura di RENZO CREMANTE, Milano-Napoli, Ricciardi, 19972, pp. 287 e 308). L’Orbecche fu stampata nel 1543 a Venezia, presso gli eredi di Manuzio: dunque dieci anni prima che le novelle di Lando fossero pubblicate. Segnalo che lo stesso tema dell’adulterio incestuoso di Selina, involontariamente svelato dalla figlia al padre, è accennato, ma in modo più sfumato, nella novella degli Hecatommithi giraldiani (II, 2) che narra la medesima fabula di Orbecche. Gli Hecatommithi – presentati da Giraldi come opera giovanile, a lungo lasciata inedita – furono stampati dall’autore nel 1563. XXI


ebbe un illustre esempio nella Mandragola di Machiavelli20. Nel caso di Lando, si noti, la novella non solo suggerisce pretesti e situazioni sceniche, ma accoglie in sé un’ambientazione tipicamente teatrale: l’attempato e svagato sire innamorato, che – non curandosi delle beffe ordite a suo danno – corteggia la giovane donna fino al casto lieto fine, è modellato sulla figura del vecchio innamorato della commedia dell’arte. Il motivo del vecchio innamorato confluirà poi dai comici dell’arte nella commedia ‘virtuosa’ della Controriforma e anche in Giordano Bruno21. Una conclusiva osservazione a proposito dell’atmosfera che aleggia su molte novelle di Lando. Quando la narrazione si sposta dal contesto cittadino, ovviamente più realistico, l’ambientazione diviene non di rado del tutto fantastica: è il caso della già citata no20 Sul rapporto tra novella e teatro, cfr. tra l’altro MARIO BARATTO, Realtà e stile nel «Decameron», Vicenza, Neri Pozza, 1970; NINO BORSELLINO, Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal «Decameron» al «Candelaio», Roma, Bulzoni, 19762 (su Machiavelli, in particolare, pp. 121-160); Letteratura e teatro, a cura di RICCARDO SCRIVANO, Bologna, Zanichelli, 1983; NINO BORSELLINO, Novella e commedia nel Cinquecento, in La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola, 19-24 settembre 1988, tomo I, Roma, Salerno, 1989, pp. 469-482; GRAZIA DISTASO, Generi a confonto e memoria dei poeti, Bari, B.A. Graphis, 1998; ANGELA GUIDOTTI, Novellistica e teatro del Cinquecento, in Favole parabole istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di Pisa, 26-28 ottobre 1998, a cura di GABRIELLA ALBANESE, LUCIA BATTAGLIA RICCI e ROSSELLA BESSI, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 395-418. 21 Così, nella commedia Le meraviglie d’Amore del romano Alessandro Guarnelli (atto II, scena IX), il pedante mastro Hippocrate, esplicitamente assimilato al Pantalone della commedia dell’arte, indugia sotto la finestra dell’amata non curandosi delle beffe di chi gli è intorno, proprio come il sire innamorato della novella landiana (Teatri farnesiani e maschere del Riso. Le meraviglie d’Amore. Comedia nuova di Alessandro Guarnelli, a cura di STELLA CASTELLANETA, prefazione di GRAZIA DISTASO, Bari, Palomar, 2003, pp. 199-203); analoga umiliante situazione sperimenta Manfurio nel Candelaio di Giordano Bruno. Sul tema della comicità ‘virtuosa’ nell’età della Controriforma, cfr. STELLA CASTELLANETA, L’idea della commedia e l’arte del riso nell’età della Controriforma. Riflessioni sul ms. Magliabechi VII, 400, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bari», 47 (2004), pp. 317-346.

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vella dei morti che rinvengono per opera del demonio. Ma anche se il soprannaturale non interferisce con le vicende narrate, il racconto – anche più di quanto lo statuto della novella per sua natura non richieda – assume toni fortemente romanzeschi e si colloca fuori dal tempo. La tradizione novellistica fu in effetti il fertile humus su cui attecchì la ricca fioritura del romanzo di amore e di avventura che ingombrerà le tipografie di area italiana nel Seicento: una novella come quella boccacciana di Alatiel rende efficacemente questa idea di una narrazione di assoluta fantasia e distante da ogni pretesa di storicità. È in ogni caso un’ambientazione, quella tratteggiata da Lando in alcuni racconti, che potrebbe avere affascinato la grande cultura europea di primo Seicento: della novella del naufragio di Vitrio – dove, sia detto per inciso, sembra di cogliere la memoria dell’Ulisse omerico approdato sulla spiaggia dell’isola dei Feaci – si ricordò forse, come certo di altri naufragi fantastici tramandati dalla letteratura e dalla scena, William Shakespeare, raffinato conoscitore della tradizione novellistica italiana e della cultura rinascimentale, quando immaginò le scene oniriche e ‘surreali’ di The Tempest22. Il racconto landiano si può, credo, aggiungere alla vasta e imprecisa «molteplicità di fonti, che fonti non sono» di questo romance, che – ha osservato Giorgio Melchiori – si presenta come la «più schietta e originale ‘invenzione’ shakesperiana»23. 22 Il dialogo tra l’uomo solitario e il cavaliere errante, ricco di reminiscenze umanistiche, potrebbe a sua volta essere stato presente a Miguel de Cervantes. Meno impegnativa culturalmente, ma ugualmente importante e molto circostanziata, appare la ripresa di motivi landiani da parte di Cesare Rao, su cui cfr. da ultimo: MARIA CRISTINA FIGORILLI, «L’argute et facete lettere» di Cesare Rao: paradossi e plagi (tra Doni, Lando, Agrippa e Pedro Mexía), «Lettere Italiane», 56 (2004), pp. 410-441. 23 WILLIAM SHAKESPEARE, I drammi romanzeschi, a cura di GIORGIO MELCHIORI, Milano, Mondadori, 19985, p. 784. Su Shakespeare e la novellistica italiana, cfr. tra l’altro DONATELLA RIPOSIO, Fra novella e tragedia. Giraldi Cinzio e Shakespeare, in Metamorfosi della novella: teoria e storia dei generi letterari, a cura di GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, Foggia, Bastogi, 1985, pp. 109-143.

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Novella VI

Nella seguente novella narransi alcune mostruose bugie e quanto brutto vizio sia l’esser bugiardo, poi che elle dispiacciono infino a quelli che alle volte vaghi se ne mostrano. Parlasi ancora della natura delle scimie. Messer Leandro de’ Traversari, canonico di Ravenna, dal dì ch’ei nacque finché terminò gli anni suoi fu sempre capital nemico della verità, né vide mai il sole uomo più bugiardo di lui. Se per caso diceva alcuna fiata la verità, ne stava sì malinconoso, come se egli avesse peccato in Ispirito Santo; et era di bisogno che et amici e servidori confermassero quelle sue menzogne, altrimenti diveniva loro fiero nemico. Advenne che un suo servidore, di nazione Fiorentino, il qual di nuovo s’era posto a’ suoi servigi, maravigliatosi di cotal natura, si pose in core non solo di confermare le bugie del padrone, ma di dirne sempre un’altra non meno stupenda per fargli cosa grata. Adunque una mattina, essendo l’arcivescovo della città, messer Leandro et il Fiorentino nell’orto dell’arcivescovado, veggendosi che l’ortolano piantava cavoli, disse l’arcivescovo: «Cotesti cavoli divengon sì grandi, che egli è una maraviglia a vederli, né credo che al mondo ritrovar si potessero i più belli». Ri40


spose allora messer Leandro: «Se vengono sì grandi e belli come quei di Cocagna1, ben direi che grandi e belli divenissero». «E come possono esser grandi?», disse l’arcivescovo. Rispose messer Leandro: «Essi sono di tal grandezza, che venti cavalieri co’ cavalli bardati vi stanno sotto l’ombra molto agiatamente senza toccarsi l’un l’altro». Gran maraviglia mostrò aver di questo l’arcivescovo. Allora il Fiorentino bugiardo tosto soggiunse: «Non è, Monsignore, da maravigliarsene punto, perciò che ho veduto in que’ paesi, dove sì fatti cavoli nascono, farsi le caldaie per cuocergli sì ampie e sì ben capaci, che cento maestri dentro vi capono, quando si lavorano co’ martelli, né si sentono picchiare l’un l’altro». Stupiva il buon uomo udendo cotai cose e: «Per certo – disse – doverebbe bastare uno di cotesti calderoni per riporvi tutta la salsa che si potrebbe apprestare al popol che dimora nel Cairo». Mentre de’ cavoli e de’ calderoni si favella, eccoti uno che nell’orto viene con una scimia in su le spalle per donarla all’arcivescovo, il quale, a messer Leandro rivolto, disse: «Oh, che strana bestia è questa e come si rassimiglia ella alla figura umana! Certo, se intelletto avessero, come non ne han punto, sarebbon poco dissimili dagli uomini». Rispose il canonico: «Non dite già questo, che senza intelletto sieno le scimie, et udite (vi prego) di ciò chiaro et espresso indizio. Monsignore Almerico, facendo un nobile convito al vescovo di Vicenza, molte dilicate vi1 Cocagna: il paese di Cuccagna, dove – secondo il motto riportato su un’incisione settecentesca dei Remondini (Milano, Civiche Raccolte d’Arte Applicata ed Incisioni, Raccolta Bertarelli) – «chi manco lavora, più guadagna» (cfr. La città e la parola scritta, a cura di GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI, Milano, Libri Scheiwiller, 1997, p. 264, tav. 145). L’evocazione di luoghi fantastici e inesistenti rinvia al modello implicito di questa novella, il racconto del grande bugiardo frate Cipolla (Decameron VI, 10), il quale spiegò ai Certaldesi di aver girato il mondo intero nel tentativo di recuperare la penna dell’angelo Gabriele, spingendosi tra l’altro fino «in Truffia e in Buffia» e «in terra di Menzogna».

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vande fece al suo cuoco apprestare. Aveva il cuoco una scimia per guardia della cucina sì dottamente ammaestrata, che ognuno aveva riguardo di furar cosa che dentro alla cucina fusse. Era similmente nella casa un fante da Savignano goloso più d’uno birro, il quale s’imaginò di voler con bel modo ingannare la scimia et incomminciò a scherzar con essa, e dopo molti scherzi si bendò gli occhi con un moccichino2 e poco appresso si levò la benda e la diede alla scimia, la quale, sì come è di lor natura, fece il simigliante. Fra tanto il ladroncello furò un grasso cappone, dil che mostrò la scimia grave cordoglio e ne fu dal cuoco aspramente battuta. Non si stette guari, che monsignore fece un altro solenne convito et il giottone entrò di nuovo nella cucina et incomminciò a giucar con la scimia; e volendole porgere il moccichino, non solamente ricusò di volerlo accettare, ma con ammendue le branche3 s’aperse gli occhi mirandogli alle mani, perché un altro furto non facesse. Fu egli finalmente astretto di partirsene con i denti asciutti, veggendo che i suoi inganni non gli valevano nulla». Disse allora l’arcivescovo: «Se cotesto è vero, fu per certo mirabil cosa!». Saltò di mezzo il Fiorentino per aiutare il padrone e disse: «Se Iddio mi guardi da male, Monsignore, la cosa sta come il mio padrone v’ha raccontato. Ma poi che io vi veggio pigliar piacer delle cose maravigliose, ve ne dirò ora ora una di non minor maraviglia. Io era la vendemia passata a Ferrara con un gen2 moccichino: fazzoletto. Per questo termine, di uso rusticano e ‘comico’, cfr. Boccaccio, Decameron VIII, 2, 9: «tra l’altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna Belcolore, moglie d’un lavoratore che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo; la qual nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata e atta a meglio saper macinar che alcuna altra; e oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e cantare L’acqua corre la borrana e menar la ridda e il ballonchio, quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con bel moccichino e gente in mano». 3 branche: zampe.

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Pieter Brueghel, Il paese di Cuccagna, 1567 (Monaco, Alte Pinakothek).

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tiluomo chiamato il Libanoro, che molto si dilettava di pescagioni e spesse fiate andava nella valle di santo Apollinare. Aveva questo mio padrone una scimia alquanto maggiore della vostra e, in contado essendo, ne m’impose che io n’andassi a Ferrara e vi traessi la scimia, un barile d’albana et un grasso porco, il quale intendeva di voler donare ad un suo roffiano. Presi io un sandalo4 e, dati de’ remi in acqua, velocemente navigava. Come io dava una spinta al sandalo, il porco, ch’era grasso, tutto si scuoteva e tirava correggie, che parevano tanti verrettoni. La scimia, che presso il porco era, mostrava che fieramente le putisse e turavasi il naso quanto più poteva. Non si stette molto che il porco per le molte scosse comminciò a smaltire. Allora la scimia, piena di sottile avedimento, temendo che le budella non gli uscissero del corpo, prese la spina5 del barile, ch’era di sorgo6, e posegliele in quella parte del corpo donde n’usciva la smaltitura, non rimanendo però di turarsi il naso. Io attesi a chiudere il barile e, per le smodate risa, non potei sì tosto fare che buona parte non ne uscisse, sì che, Signore, il mio padrone dice il vero, che queste scimie hanno fior d’intelletto». Ritornato a casa il reverendo canonico disse al servidore: «Io mi pensava che uomo al mondo non sapesse dir bugie meglio di me: ma, per quanto ho finor compreso, tu mi pari il re de’ bugiardi». Rispose il Fiorentino: «Non ve ne maravigliate, perciò che ho lungamente conversato co’ sarti, co’ mugnai e co’ barcaroli, padri delle menzogne. Ma se pur volete che io perseveri in confermar le bugie che dite, voglio mi diate buona provisione; altramente non farei sì abominevole essercizio». «Orsù – disse il padrone – così come ti dirò voglio facciamo. Se la mattina mi versandalo: piccola imbarcazione a remi. spina: la cannella che si inserisce nel foro della botte per spillare il vino. 6 sorgo: genericamente, di legno. Il sorgo è propriamente una pianta della famiglia delle graminacee. 4 5

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rà voglia di dire alcuna notabile bugia, la sera avanti ti farò tal dono, che non lo riputerai degno d’esser rifiutato. Se la vorrò dire appresso ’l desinare, avanti che suoni terza7 ti farò grazioso dono». Di questo contentossi il Fiorentino, con patto però che le bugie avessero faccia e sembianza di verità; et a questo si convenne il canonico, aggiungendogli che, se le dette bugie non fossero ornate di verisimiglianza, egli fosse tenuto di restituirgli il dono che avesse ricevuto. Già molti gliene aveva fatti e molte bugie s’erano state confermate. Non dopo molto, sendo il canonico per gire al letto et avendo voglia di dire la matina una bugia, trassesi un paio di brache rotte e piene di succidume e donolle al Fiorentino, perché gli confermasse una bugia. Venuta poi la mattina, udì che nella chiesa il padrone raccontava a’ canonici come nella isola Pastinaca8 le gaze si maritano e fanno l’uova e, covate che le hanno per ispazio di un mese, muiono le gaze e di quelle uova nascono uomini sì piccioli, che paiono formiche, ma gagliardi a maraviglia. Il Fiorentino, ch’era persona assai onesta (quando dormiva), udendo raccontare sì fatte menzogne, gridò ad alta voce: «Padrone, padrone, queste bugie non si possono confermare: toglietevi9 le vostre brache!». Tutti gli astanti si misero a ridere e le brache, con grande scorno del canonico, in terra rimasono.

avanti che suoni terza: entro le nove del mattino. isola Pastinaca: altra allusione alla novella di frate Cipolla, il quale per l’appunto volle far credere di aver visitato, tra l’altro, l’«India Pastinaca». 9 toglietevi: tenetevi. 7 8

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