Premessa
«I libri servono a catturare le farfalle». Un bambino mi ha detto un giorno queste parole. Le ha pronunciate a sorpresa, senza preavviso: come fanno i bambini, che seguono con coerenza straordinaria fantasie complesse, cui gli adulti fanno fatica a star dietro. Quel bambino, che non esito a definire la persona a me più cara al mondo, all’epoca aveva sei anni. Incuriosito e affascinato dalle sue parole, gli ho chiesto di spiegarle. Mi ha risposto che sui libri si trovano le fotografie dei fiori più belli: le farfalle, vedendo quelle immagini riprodotte, possono essere indotte a posarsi sulle pagine del libro aperto e – se questo accade – possono essere catturate con più facilità. Quel bambino catturava farfalle nei giardini, in verità: non nelle biblioteche. Ma la sua osservazione mi parve nascondere una misura di intuizione e di verità. In quel momento, credo, ho cominciato a elaborare i pensieri che prendono ora corpo in queste pagine. Il senso istintivamente individuato da un bambino in un oggetto – il libro – che riproduce e riferisce, richiama l’atten9
zione e racconta, corrisponde a un significato ancora possibile tra gli adulti? Ovviamente si parlerà qui non di libri in genere e senza distinzione. La pretesa è parlare di letteratura: cioè della disciplina in cui chi scrive presume di essere almeno un po’ competente. Il problema, occorre chiarirlo subito, non è affatto quello dell’utilità pratica della disciplina in questione: nessuno potrà mai ragionevolmente affermare che la conduttività dell’energia elettrica attraverso un filo di rame o la scoperta di una nuova cura in medicina è meno utile della lettura del V canto dell’Inferno. Né il problema si può eludere o rovesciare con l’ironia, che pure sarebbe facile da esprimere, sull’ignoranza assai grave che mediamente affligge – da tempo – le istituzioni preposte nel nostro paese alla tutela e alla diffusione della cultura: come possono, ci si potrebbe a buon diritto domandare, ministri e primi ministri non di rado incolti difendere l’istruzione? Il problema si pone in primo luogo, come crediamo di aver messo in luce attraverso le parole di Marc Bloch evocate in epigrafe, attraverso la questione della legittimità. Aggiungerei la questione della naturalità. Per millenni l’uomo si è dedicato allo scrivere, nelle varie forme possibili della scrittura, e ha dato vita a creazioni artistiche diverse (musica, arti figurative e così via). Da sempre la letteratura non è stata additata come utile (direi anzi che il problema non è mai stato posto in questi termini piuttosto grossolani), bensì come attività intellettualmente elevata e forse inevitabile, come uno dei tratti distintivi dell’essere umano rispetto agli altri esseri animati. Perché nel senso comune oggi questa attività – forse più di altre forme artistiche – non sembra più tanto affascinante come in passato, per non dire che appare addirittura superata e poco proponibile? Perché sono sempre meno 10
numerosi i lettori attratti da Omero, da Ovidio, da Ariosto, da Cervantes o da Victor Hugo? Un ruolo ha avuto anche l’evoluzione dei mezzi di comunicazione. Oggi siamo dominati dalla comunicazione istantanea, che presume di rendere tutto oggettivo, oltre che immediato. Si deve osservare che la novità imposta ai rapporti umani dalla tecnologia confligge paurosamente con le potenzialità della poesia. Questo è un fatto, comunque lo si giudichi. Non è detto che dobbiamo lodare sempre e comunque il tempo antico. Ma è certo – mi si perdoni il tono scherzoso – che Petrarca, se avesse potuto fare uso di un sms, non avrebbe avuto bisogno di esprimere quel senso di dubbio e di nostalgia reso celebre dai suoi versi per Laura lontana: Forse in quella parte / or di tua lontananza si sospira: / et in questo penser l’alma respira. L’esempio può apparire banale e prosaico: la sostanza del problema è incontestabile. Cade qui in taglio, del tutto incidentalmente, una precisazione ulteriore. Talvolta si cade nell’equivoco di considerare a tutti i costi la letteratura separata dalla vita. In realtà questa è una prospettiva semplificatoria e inesatta. Non che sia del tutto sbagliato distinguere la letteratura dalla vita vissuta. Ma questo non significa che la letteratura non abbia a che fare con la vita reale. L’equivoco non riguarda, beninteso, solo la poesia d’amore. Quando Machiavelli contrapponeva la verità effettuale descritta da lui – che era un uomo politico navigato, prestato alla scrittura – alle generiche e rasserenanti raffigurazioni di buoni principi proposte dalla tradizione, faceva riferimento appunto a questo. Nell’ambito della poesia d’amore, Leopardi ha saputo ironizzare con finezza su questo argomento, quando ha chiosato il canto Alla sua donna scrivendo che quei versi erano dedicati alla donna che non si trova. Ma l’ironia leopar11
diana nulla toglie al fatto che il sentimento narrato dal poeta nasce dalla realtà dei rapporti personali. Ciò che conta dei versi di Petrarca non è se fossero indirizzati tutti omogeneamente a Laura o dove fosse Laura mentre Petrarca scriveva. Questo rientra nella sfera personale della vita del poeta e potremmo anche decidere che si tratta di un aspetto per noi poco interessante. Potremmo anche disinteressarci della questione di chi fosse realmente Laura. Conta invece che quei versi avevano un destinatario non presente in quel momento: l’assenza del qui e ora rende possibile la riflessione, il ricordo, la letteratura. Non l’assenza di esperienza, di vita, di conoscenza. Semmai è vero il contrario: la letteratura è capacità di rielaborare (in modo più o meno denso dal punto di vista dei simboli) le conoscenze acquisite. Le conoscenze oggettive confluiranno in direzione di discipline difficilmente classificabili sotto la voce letteratura: eppure val la pena di ricordare che per gli antichi, in una logica fondata sulla possibilità che il sapere fosse unitario o tendesse verso l’unità, il poema didascalico o filosofico era una realtà anche letteraria. Ma certo nel mondo moderno è difficilmente recuperabile lo scarto tra le conoscenze, per l’appunto, oggettive e quelle soggettive: queste ultime traducono quel groviglio unico di emozioni, sensibilità, riflessioni, meditazioni, intuizioni in cui affonda le proprie radici l’animo umano. Un groviglio cui appunto, comunemente, si dà il nome di poesia o di letteratura. Quanto all’immediatezza apparente della comunicazione, di cui si diceva poco fa, essa porta con sé un altro svantaggio, oltre alla perdita – inevitabile – di poesia: l’immediatezza impone di fatto di rinunciare allo sforzo immaginativo. Il che, si badi, nuoce non solo quando ci si figura il volto lontano della persona amata. Nuoce anche quando si legge un testo 12
scientifico e quando, in generale, ci si sforza di apprendere qualunque cosa. Manca la capacità di concentrarsi, nel nostro presente, e la capacità di dare corpo a ciò che si legge: che sia una poesia d’amore, una ricostruzione dei fatti della guerra in Vandea ovvero uno studio di entomologia, poco importa. Non siamo più capaci di accettare l’idea che l’acquisizione delle informazioni richiede tempo di elaborazione nel nostro cervello. Ci aspettiamo che l’informazione arrivi pronta e già elaborata. Questo vale per il messaggio elettronico che sostituisce la nostalgia per la donna lontana, ma vale anche per ogni genere di informazione tecnica e oggettiva. C’è internet che ci informa: non abbiamo bisogno di ricercare, capire, elaborare, ritenere. Si potrebbe obiettare che avremo guadagnato molto tempo, grazie all’immediatezza delle informazioni: tempo nel quale possiamo mettere a frutto l’informazione ottenuta ovvero, del tutto diversamente, divertirci e dedicarci ad altro. Sennonché, anche a voler trascurare l’aspetto del controllo e della qualità delle informazioni che si ricevono, che non sono tutte indistintamente esatte e sempre precise, ci si chiede a cosa possa condurre uno stile di vita senza sospensioni. Perché la lettura e l’uso del libro (di cui gli aspetti letterari sono l’emergenza più evidente, come la punta di un iceberg) comportano per l’appunto questo: sospensione, riflessione, attesa. Cioè rappresentano l’antidoto più efficace alla fretta e alla superficialità. E comunque rimane sullo sfondo quel problema di cui si è detto un attimo fa: l’immediatezza e la velocità, che sostituiscono la ricerca con l’aiuto della tecnologia, causano assenza di controllo nelle informazioni che si ricevono (e, cosa anche più inquietante, si ripetono). Questo difficilmente rappresenterà un guadagno per la qualità del nostro stile di vita. Rischiamo di trasformarci strutturalmente e irrimediabilmen13
te in dilettanti, in giornalisti senza scrupoli, in esecutori senza criterio. Rischiamo, insomma, di trasformarci in individui incapaci di discernimento e di critica. L’attività intellettuale dovrebbe servire anche, se non soprattutto, a questo: a esercitare la capacità di distinguere e decidere in proprio. Se dovessi, ancora nel XXI secolo, proporre un’immagine simbolica della funzione che possono avere le lettere nella nostra esistenza, continuerebbe a venirmi in mente l’immagine – che piacque a Italo Calvino – di Guido Cavalcanti descritto da Boccaccio nel Decameron. Uomo di cultura solitario e di poche parole, schivo e raffinato, Cavalcanti evitava di prendere parte alla vita sociale delle brigate fiorentine del suo tempo: gruppi di nobili che si raccoglievano per stare in compagnia, per mangiare insieme, per vestirsi insieme almeno una volta l’anno. A Cavalcanti non piaceva quella promiscuità, quell’esposizione e quella omologazione: perciò se ne stava per i fatti suoi. Una delle brigate, quella di Betto Brunelleschi, ci teneva però ad averlo con sé, perché Cavalcanti era un gran nome, rispettato e ammirato. Un giorno dunque Betto e i suoi decisero di provare ancora una volta ad attirare Cavalcanti nel proprio gruppo: andiamo a dargli briga, dicono per l’appunto i componenti della brigata. Sublime la sfumatura linguistica scelta da Boccaccio: la brigata, cioè il branco, va a dare briga, cioè fastidio, all’uomo di lettere. Lo raggiunsero a cavallo nella piazza su cui si affacciano il duomo di Firenze e il battistero di san Giovanni. All’epoca quella piazza era un cimitero. Lo chiusero con un semicerchio e gli domandarono se davvero valeva la pena di trascorrere il tempo a provare a dimostrare che Dio non esiste, anziché divertirsi insieme con loro. Cavalcanti – che aveva letto Averroè e nutriva simpatie per il pensiero di Epicuro; il 14
cui padre era stato collocato da Dante tra gli eretici epicurei insieme con Farinata nel X dell’Inferno – aveva appunto fama di filosofo ateo: il che, nella Firenze del Duecento, deve anzitutto intendersi come segno di forte autonomia intellettuale. Chiuso dal semicerchio dei cavalieri e, alle spalle, dai sarcofagi, Cavalcanti rispose alla brigata che quei signori, a casa loro, potevano in effetti dirgli ciò che volevano; poi spiccò un agile salto oltre una delle tombe, come colui che leggerissimo era, e se ne andò. Al Calvino delle Lezioni americane piacque a ragion veduta quest’immagine dell’uomo di lettere leggero, che si solleva sulla pesantezza della morte. Ebbene, c’è anche un altro aspetto importante nel racconto di Boccaccio. Cavalcanti rifiuta lo spirito imposto dal gruppo. Pensa con la sua testa, anche perché ne sa più degli altri. Agli altri egli appare uno smemorato, un pazzo. I cavalieri ridono della sua risposta, che non comprendono. Occorre che il capo della brigata, Betto, il più intendente del gruppo, spieghi ai compagni in che modo Cavalcanti li aveva elegantemente villaneggiati: dire loro che erano a casa propria in un cimitero equivaleva a dire che, chi non si dedica allo studio, è come se fosse morto. La consapevolezza delle conoscenze aveva dato a Cavalcanti la forza di sottrarsi con orgoglio all’imposizione di una affrettata maggioranza. L’intento di queste pagine non è di proporre una chiamata alle armi in nome dei libri e contro la tecnologia, né chi scrive ha fiducia nelle risorse del luddismo. D’altra parte un fenomeno globale non lo si frena, ammesso che abbia senso frenarlo, con una perorazione. L’intento di queste pagine è semplicemente di provare a spiegare perché alle nostre spalle ci sono secoli e secoli di letteratura già scritta e di affrontare questo interrogativo: quei secoli sono stati solo un’illusione 15
destinata a sprofondare e a svanire, come la città di Atlantide nel fondo dell’oceano, ovvero possono ancora – finché esisterà una civiltà umana – suggerirci ricordi, riflessioni, imprese? La domanda è in fondo banalmente questa: il vecchio libro può sperare di sopravvivere, non come un semplice soprammobile, nella nostra società? Una postilla, probabilmente superflua. Queste pagine non sono animate da alcuna pretesa di completezza (ancor meno di configurare un canone), che sarebbe irragionevole e fuori luogo. Una pretesa del genere potrebbe aver senso, forse, da parte di chi volesse scrivere una storia letteraria. Questo libro trae invece origine da riflessioni circostanziate, cerca di esporle e prova a farlo gettando luce su alcuni temi e attraverso l’esempio concreto di alcuni autori. Se mai ci sarà chi leggerà queste pagine, il lettore sarà libero di condividerne il contenuto e di estenderlo o di correggerne i termini sulla base di altri autori. Anche i temi individuati rappresentano una scelta di voci: si sarebbe potuta aggiungere una voce dedicata al riso, che è uno dei modi più incisivi e dissacranti in cui la letteratura può manifestarsi, e un’altra voce ancora dedicata alla musicalità della parola, che rappresenta una delle sfumature più importanti del linguaggio poetico, il modo in cui tenacemente la parola scritta – ancora oggi, al di fuori degli schemi metrici tradizionali – cerca di gareggiare con l’armonia della musica. Come un uomo da solo non può valere molto, secondo l’antico proverbio, così un semplice libro non può mai essere un traguardo: un libro rappresenta una delle tante pietre poste a guado del fiume.
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Conclusione
Sarebbe fin troppo facile concludere con pessimismo e rassegnazione dicendo che, nell’era del selfie, non c’è più spazio per i libri. Che ruolo può infatti rivendicare la letteratura nel nostro mondo dell’immagine a poco prezzo, in cui galleggiamo come anime smarrite? Chiunque sia entrato in un centro commerciale – quel luogo in cui prende corpo in modo singolarmente chiaro ed esemplare il dispotismo dell’omologazione e in cui più che altrove l’autonomia di pensiero soffre e si ripiega su se stessa, come ha denunciato con acume Saramago nel romanzo La caverna – sa che la calma, la riflessione e la capacità di giudizio, cioè i compagni di viaggio più naturali del libro e della lettura, non sono più un’abitudine della nostra civiltà. Le possibili conseguenze negative di ciò sono state adombrate nelle pagine introduttive. Non è comunque detto che la progressiva estinzione cui i libri sembrano destinati rappresenti necessariamente la premessa della fine del mondo. Nel mondo intero non solo la società umana, ma globalmente il nostro piccolo pianeta compreso nell’universo, è pro81
babilmente un punto poco distinguibile dagli altri. Non sempre ce ne ricordiamo. L’economia complessiva della vita della materia non sarà certo turbata dalla fine dei libri. Ciò che ne risentirà è semmai la nostra capacità – o il nostro sforzo – di comprensione rispetto a quel che si trova fuori e dentro di noi, rispetto a ciò che c’è oggi e che c’era nel passato. La nostra speranza di penetrare i segreti della natura, di acquisire conoscenza, passa obiettivamente attraverso i libri: allo stesso modo la possibilità di ricordare, di conoscere noi stessi e di gettare luce sui nostri sentimenti è data dai libri. I libri non sono la risposta: l’idea che le conoscenze, così come la storia, abbiano un traguardo è un retaggio – si potrebbe dire un po’ semplicisticamente – ‘hegeliano’ da cui l’animo umano, legittimamente, fa fatica a liberarsi. Ciascuno di noi prospetta a se stesso con certezza una fine, e dunque pensa anche tutto il resto – le idee, la storia, la natura – come circoscrivibile. In realtà i pensieri e la natura sono come i numeri: infiniti. E tuttavia solo attraverso i libri esiste una possibilità di conoscenza, ancorché parziale. Questa possibilità, in un mondo senza libri, è preclusa. I più recenti vertiginosi sviluppi tecnologici stanno probabilmente rivelando che non tutto si addice a tutti. Non tutti abbiamo il medesimo desiderio di comprensione, non da tutti è avvertita la stessa esigenza di riflessione e di capacità critica. Può sembrare una posizione retriva o snobistica. In realtà non c’è alcuna implicazione sociologica in questa affermazione. Non ci sono categorie sociali meno sensibili intellettualmente rispetto ad altre. Come scrisse Boccaccio nelle ultime righe del Decameron, anche nelle case reali possono trovarsi spiriti che meriterebbero di guardar porci e non di comandare, così come nelle case più umili possono cadere 82
dal cielo gli spiriti più elevati. Il problema è che la fruizione del libro – e in genere dei termini più alti della cultura – non è come un i-phone: non è divulgabile in modo altrettanto facile e immediato. Questo fa semplicemente parte delle peculiarità umane. Ci sono – in ogni ceto: in alto e in basso, high and low, direbbe il Conrad di Chance – spiriti predisposti al ripiego e al silenzio e spiriti più pratici. Parafrasando una celebre immagine evangelica, potremmo dire che, accanto a Marta, c’è anche Maria. Il libro – e in generale le forme artistiche – soddisfano esigenze di conoscenza e di spiritualità. La conoscenza è destinata a rimanere comunque illimitata, come si diceva: a loro volta, le esigenze di spiritualità non possono essere soddisfatte in modo automatico. L’arte da sola non basta, non spiega, non consola dal dolore: però aiuta, suggerisce, accompagna. Per cercare di spiegare meglio questo pensiero ricorderò il finale del dramma giocoso Così fan tutte (II xviii). Le parole raffinate di Da Ponte dovrebbero essere a rigore ascoltate insieme con la musica di Mozart, affinché non si perdano le più autentiche sfumature di quell’epilogo più pensoso che festoso: quando, per esempio, in quei versi si parla di pianto e di riso, i colori musicali e le note esprimono meravigliosamente quei due diversi moti dell’animo, molto meglio di come potrebbero riuscirvi le parole da sole. La vita, spiegano i due artisti libertini nel finale di Così fan tutte, è piena di turbamenti, di dolore, di conflitti, di passioni. Una felicità (il termine fortunato indica appunto questo: la felicità) è possibile forse per il saggio, per chi compensa gli accadimenti della condizione umana con la forza della filosofia. Non dunque con la sola musica, non con la parola letteraria: con la filosofia. Che, nel tardo Settecento, sarà ovviamente la Ragione: 83
Fortunato l’uom che prende ogni cosa pel buon verso e tra i casi e le vicende da Ragion guidar si fa. Quel che suole altrui far piangere fia per lui cagion di riso e del mondo in mezzo ai turbini bella calma troverà.
Questo trionfo dell’Illuminismo, in cui il male del mondo viene attenuato dal ricorso alla più alta delle capacità umane, risente in modo evidente e vivo della lezione di Lucrezio. L’immagine che Da Ponte ha soprattutto in mente è quella di apertura del II libro del De rerum natura (vv. 1-10): È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare, guardare da terra il grande travaglio di altri; non perché l’altrui tormento procuri giocondo diletto, bensì perché t’allieta vedere da quali affanni sei immune. [...] Ma nulla è più dolce che abitare là in alto i templi sereni del cielo saldamente fondati sulla dottrina dei sapienti, da dove tu possa abbassare lo sguardo sugli altri e vederli errare smarriti cercando qua e là il sentiero della vita. (traduzione italiana di Luca Canali)
La tempesta non scuote il saggio, che è colui il quale sa astenersi dai casi e dalle vicende ed è consapevole della propria autonomia. Solo così prenderà corpo, anche in mezzo ai turbini, una bella calma, la voluptas epicurea: il piacere catastematico, che dovrebbe almeno favorire la più piena e proficua osservazione del mondo, della vita, di noi stessi.
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volumi pubblicati 1 Finito Infinito Letture di filosofia
di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini
2 Vincent a Theo Van Gogh in parole e colori a cura di A. Rovetta
3 Bellezza e Realtà Letture di filosofia
di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini
4 Bari bizantina Capitale mediterranea di N. Lavermicocca
5 Cézanne estremo
1899-1906: opere, lettere, testimonianze a cura di G. Frangi
6 Dante Petrarca Giotto Simone
Il cammino obliquo: la svolta del moderno di V. Capasa, E. Triggiani
7 Felicità e Desiderio Letture di filosofia
di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini
8 Gli spettacoli di Odino
La storia di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret
di F. Perrelli
9 Errare è umano Letture di filosofia
di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini
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10 Henrik Ibsen Un profilo di F. Perrelli
11 La parola accesa Una mappa di letture di D. Rondoni
12 Bari bizantina 1071-1156: il declino di N. Lavermicocca
13 Novelle di Ortensio Lando a cura di D. Canfora
14 La terra della sera Scritti di Pär Lagerkvist a cura di F. Perrelli
15 L’umana avventura
Ritratti di scrittori, teologi e artisti di P. Colognesi
16 Un’esigenza permanente
Poesia e romanzo in Cesare Pavese di V. Capasa
17 Il potere della libertà Letture di filosofia di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini
18 Viaggio in Inghilterra L’Occidente al crocevia
del nichilismo: Virginia Woolf, Chesterton, Tolkien di T. Liuzzi
19 Santi sociali tra Ottocento e Novecento di P. Bergamini
20 Bari bizantina 1156-1261: Bisanzio dopo Bisanzio di N. Lavermicocca
21 Una ragione inquieta
Interventi e riflessioni nelle pieghe del nostro tempo di C. Esposito
22 Al fondo del nulla, il soffio della vita
Tolstoj, Pasternak, Grossman di T. Liuzzi
23 I fili della storia
Incontri, letture, avvenimenti di D. Zardin
24 Breve difesa delle lettere di D. Canfora