Teatro. Solitudine, mestiere e rivolta, di Eugenio Barba

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Indice

Nota di presentazione di Lluís Masgrau

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Introduzione Vascelli di pietra e isole galleggianti

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I. Origine: vocazione

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Un teatro di frattura, p. 25 - Lettera all’attore D., p. 31 - Teatro e rivoluzione, p. 34 - Il discepolo che camminava sul fiume, p. 37 - Il silenzio scritto, p. 40 - Il teatro della polis e il santuario nella metropoli, p. 50

II. Laboratorio: il teatro-scuola

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Il training, p. 63 - Due lettere, p. 70 - Parole o presenza, p. 72 - Il paradosso pedagogico: apprendere ad apprendere, p. 78 - La trasmissione dell’eredità, p. 85

III. Viaggio: baratto

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Due tribù, p. 101 - Lettera dal Sud Italia, p. 104 - Radici e foglie, p. 115 - Dialogo con Brecht, p. 125 - Il popolo del rituale, p. 135

IV. La via del rifiuto: Terzo Teatro

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Terzo Teatro, p. 153 - La mutazione, p. 156 - Teatro-Cultura, p. 161 La terza sponda del fiume, p. 179 - La casa con due porte, p. 188 L’eredità di noi a noi stessi, p. 202

V. Identità: eredità L’ombra di Antigone, p. 221 - Quella parte di noi che vive in esilio, p. 225 - Teatro Eurasiano, p. 231 - La scala sulla riva del fiume, p. 237

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Postfazione Piantare conigli sognando leoni Appendice La “leggenda nera”. Catalogo degli spettacoli dell’Odin Teatret a cura di Ferdinando Taviani

Indice

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Eugenio Barba durante una dimostrazione di lavoro nel corso dell’Università del Teatro Eurasiano, Fara in Sabina, 1993.


Lluís Masgrau

Nota di presentazione

Questo libro raccoglie 28 testi di Eugenio Barba fra il 1964 e il 1995, anni che configurano la sua traiettoria come regista dell’Odin Teatret. Si tratta, quindi, di testi composti in periodi lontani e che mettono a fuoco inquietudini e soggetti diversi. Nonostante la loro apparente diversità, tutti i testi si rifanno a un nocciolo essenziale: il senso della pratica teatrale. Da questo punto di vista, Teatro. Solitudine, mestiere e rivolta assume un valore complementare a La canoa di carta. Questi due libri mi paiono come un’eredità che rivela le due facce di una stessa vita professionale: La canoa di carta rifonde nel suo discorso tutti gli scritti di Eugenio Barba sul lavoro dell’attore; Teatro. Solitudine, mestiere e rivolta, invece, raduna quelli che evocano la sua visione del teatro. La canoa di carta formula il “come”, la tecnica; Teatro. Solitudine, mestiere e rivolta mette-in-visione il “perché”, il senso. La canoa di carta è un trattato di Antropologia teatrale; Teatro. Solitudine, mestiere e rivolta una zigzagante autobiografia professionale. Questo libro è la conseguenza e la trasformazione di Aldilà delle isole galleggianti (1985). È diviso in cinque capitoli che definiscono altrettante zone da esplorare: le origini, la ricerca tecnica, i viaggi, il rifiuto e l’identità. La prima parte del titolo di ciascun capitolo individua il tema; la seconda definisce la maniera in cui esso si manifesta nel pensiero di Eugenio Barba. Il libro prende spunto dalle origini per tuffarsi in un percorso in cui il laboratorio, i viaggi nello spazio e il rifiuto diventano le tappe necessarie di un lungo iter nel tempo dove la ricerca diventa consapevole difesa dell’identità. I capitoli cominciano, in genere, con un testo breve, di carattere diretto (una intervista, il testo di un film didattico, un discorso), che costituisce il primo tentativo di formulare in termini personali un determinato tema. Così appaiono, di volta in volta, la vocazione (Un teatro di frattura e Lettera all’attore D.), il training, il baratto (Due tribù), il Terzo Teatro (il manifesto), l’identità come eredità (L’ombra di Antigone). Poi, gli scritti successivi di ciascun capitolo ricostrui-


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Nota di presentazione

scono sulla carta le peripezie attraverso le quali i concetti proposti da Eugenio Barba viaggiano nel tempo. I capitoli seguono una dinamica cronologica: ogni nuovo articolo si rifà a un periodo preciso, proponendo la prospettiva degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e, infine, quella degli anni Novanta. Ciascun capitolo si chiude con un lungo testo di carattere riflessivo; quelli che all’inizio erano piccoli spunti, quasi spontanei, alla fine si aprono su un orizzonte dove la riflessione su una esperienza cerca di trasmutarsi in eredità. In questo modo, ogni singolo capitolo ha una sua dinamica interna e mostra come si è sviluppato il concetto proposto all’inizio; a volte si è approfondito, a volte è diventato qualcosa di diverso, a volte viene perfino negato. I grandi soggetti in cui si articola il libro non vengono sviluppati in una maniera analitica, ma dinamica. Questa è la caratteristica del libro: il suo discorso si svolge attraverso un processo costante di trasformazioni, assumendo linguaggi, prospettive, immagini, argomenti diversi, che non escludono la contraddizione. Credo che la chiave di tutta la biografia professionale di Eugenio Barba (e anche della durata dell’Odin Teatret) sia una singolare capacità di mutare. È una capacità “strana” perché nell’universo di Barba la mutazione non appare mai collegata al fatto di cambiare, ma alla volontà di rimanere se stessi. Le costanti svolte del discorso di Barba non sono cambiamenti, ma una maniera di dialogare con il tempo per proteggere la propria identità, una strategia per interrogare la Storia e non lasciarsi spogliare di quello che si reputa essenziale. Barba dialoga con il proprio tempo solo per rifiutarne lo spirito. Rivelatore in questo libro non è quel che dicono i singoli testi di cui esso è composto, ma quello che le svolte tra un testo e l’altro fanno baluginare.


La trasmissione dell’eredità

In questo testo Eugenio Barba riflette sull’apprendistato articolando in maniera complementare i due aspetti che lo fondano: da una parte quello tecnico costituito dagli esercizi del training, dall’altro l’aspetto etico costituito da quelle esigenze che determinano un contesto di lavoro preciso. La pedagogia diventa una dialettica tra questi due poli, orientata non solo alla formazione di attori, ma alla trasmissione di un’eredità. Nel riflettere sull’apprendistato Barba finisce evocando quello che l’Odin, dopo trent’anni di lavoro professionale, protegge attraverso la qualifica di “teatro-laboratorio”: la realtà di un teatro-scuola. Questo testo, qui pubblicato per la prima volta, proviene in parte da Exister avant de répresenter, riflessioni raccolte da Brunella Eruli in “Puck”, 7, Les Ardennes 1994, e in parte dalla prefazione a La scuola degli attori, a cura di Franco Ruffini, La casa Usher, Firenze 1981. Come si forma un attore? In tutte le culture l’arte dell’attore poggia su elementi variabili, quali la sua personalità individuale e il genere performativo scelto. Vi è, però, anche una costante fondamentale: la materialità del suo corpo-mente, quella “presenza” scenica che determina la relazione con gli spettatori. Quali processi, tecniche o principi l’attore deve adoperare per rendere efficace la sua azione nei confronti dello spettatore? Si possono apprendere? E come?

Un amuleto fatto di memoria Queste domande hanno accompagnato la formazione dell’attore in Europa sin dal tempo in cui Stanislavskij, Mejerchol’d e i loro collaboratori inventarono gli “esercizi”. I loro “esercizi” erano qualcosa di molto diverso dalle esercitazioni che si facevano nelle scuole di teatro. Tradizionalmente gli attori si esercitavano nella scherma, nel balletto, nel canto, e soprattutto nella recitazione di frammenti esemplari del repertorio teatrale. Gli esercizi non apportavano granché


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II. Laboratorio: il teatro-scuola

all’interpretazione di un testo o alla creazione di un personaggio, erano invece delle elaborate partiture codificate fin nei minimi dettagli, e fini a se stesse. Pochi comprendevano il senso di questi esercizi cosí lontani dai compiti che un attore doveva affrontare sulla scena. I riformatori del nostro secolo attribuirono una nuova finalità sociale all’attore. Mejerchol’d, Copeau, Brecht o Artaud si interrogavano sulla funzione o sul senso del teatro nella società. Per realizzare la loro visione, erano necessari altri presupposti tecnici. Da qui il loro interesse per la pedagogia. Gli esercizi che loro inventarono sono pura forma, intrecci di sviluppi dinamici senza trama, senza storia. Gli esercizi sono piccoli labirinti che il corpo-mente dell’attore può percorrere e ripercorrere per incorporare un paradossale modo di pensare, per distanziarsi dal proprio agire quotidiano e spostarsi nel campo dell’agire extraquotidiano della scena. Gli esercizi sono simili ad amuleti che l’attore porta con sé non per esibirli, ma per trarne determinate qualità di energia da cui lentamente si sviluppa un secondo sistema nervoso. Un esercizio è fatto di memoria – memoria soprattutto del corpo. Un esercizio diventa memoria che agisce attraverso l’intero corpo. È quanto riscontriamo nei più antichi esercizi che ci siano giunti, quelli che Mejerchol’d ideò chiamandoli “biomeccanica”, dove il suo scopo era insegnare “l’essenza del movimento scenico”. Eseguendo un esercizio, l’attore non può recitare. Si deve concentrare su un compito umile e faticoso che coniuga precisione e capacità di ripetere, e dove la replica, lottando contro l’automatismo, si trasforma in espressione personale. Apprende a comporre e dirigere una “vita scenica” generica, che è la ragione d’essere della sua tecnica. Non stabilisce come interpretare un personaggio, ma come essere al comando della forza di persuasione sensoriale di qualsivoglia personaggio. Come dice appropriatamente Decroux: prima bisogna esistere in quanto attore, e poi rappresentare. Gli esercizi determinano l’aspetto tecnico dell’apprendistato. Ma nella formazione di un attore bisogna anche prendere in considerazione l’aspetto complementare a quello tecnico.

Lo spettatore invisibile Il giovane che decide oggi di fare teatro deve essere consapevole che deve pagare di persona questa scelta. L’abnegazione è indispensabile per dedicarsi a una professione necessaria soprattutto a chi l’ha eletta. Il sistema ufficiale tratta il teatro come se avesse un valore di per sé. Un giovane ammesso a una scuola ufficiale di teatro ha successivamente la possibilità


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di lavorare nel teatro ufficiale. Abracadabra: fa teatro ed eccolo trasformato nel Guardiano della Tradizione. L’attore dovrebbe essere riconosciuto come tale solo se è capace di giustificare in pratica la sua ricerca costante di senso e di un nuovo valore della sua arte. Il sistema ufficiale, espressione di tutta una cultura, ha favorito la tendenza all’impazienza. Sin dall’inizio si aspetta di essere scoperti, di arrivare, di essere riconosciuti. Si è persa, così, la tempra di un apprendistato che dura anni e anni. Solo il balletto classico ci ricorda quanto tempo sia necessario per incorporare un esteso patrimonio tecnico e metterlo in pratica personalizzandolo. Nel mondo del teatro la propensione a fidarsi dell’intuizione e dell’ispirazione provoca una smania di riuscita immediata, poco compatibile con la lunga e laboriosa preparazione di cui ha bisogno un attore. Esigo da un aspirante attore che faccia prova di ostinazione e accanimento. Deve buttar via l’orologio e sottomettersi a ritmi forsennati di lavoro fino a morire al mondo che l’aveva acculturato e rinascere attore. Deve possedere visioni e valori suoi, e la capacità di dominare i principi tecnici per realizzarli. Dovrebbe vivere la sua giornata come se fosse l’ultima e, al tempo stesso, come se avesse di fronte a sé tutta l’eternità. È questa la tensione che guida l’apprendistato; è l’inesorabilità di un lavoro che rinuncia alla tentazione della facilità e aspira all’essenziale, al dettaglio che può diventare in qualsiasi momento l’ultima parola, un testamento. Ma è anche l’ebbrezza per il tempo infinito a disposizione per perfezionare, approfondire, sorprendere se stesso, scoprirsi. Una scuola di teatro dovrebbe formare attori che padroneggiano l’“arte dell’incanto”, il come saper cattivare i sensi e pungolare la riflessione dello spettatore. Dovrebbe anche convincere l’allievo che una simile maestria si ottiene solo attraverso una preparazione esasperatamente lunga che non si preoccupa, prioritariamente, di soddisfare i gusti degli spettatori. Dall’inizio del suo apprendistato l’aspirante attore dovrebbe dirigersi a uno spettatore, invisibile, ideale e prediletto. Può essere una persona che non ha mai incontrato, morta da tempo, che dialoga con lui, anche se distante nel passato, come un totem benevolo. Può essere un viso, una voce, uno sguardo che appartiene a una generazione futura. L’attore allora si trasforma nel grande provocatore. Incarna il paradosso: agisce nel presente rivolgendosi a spettatori che furono o che saranno, e non ascolta gli applausi del suo tempo. L’Odin Teatret ha resistito trent’anni perché è stato fondato su questo atteggiamento. Lavorammo a lungo nel clima ostile o indifferente di una cittadina di provincia, sommersi dai problemi economici e con un numero di spettatori che, a volte, si contavano sulle dita di una sola mano. Mai dubitammo che il nostro teatro avesse un senso qualora un solo spettatore sentisse la necessità di vedere un nostro spettacolo. Così abbiamo costruito un mondo con relazioni e valori nostri, senza lasciarci sopraffare dai valori e dalle relazioni del mondo intorno a noi.


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Le virtù della fatica Le scuole di teatro mi hanno sempre messo a disagio, forse per quella reazione di difesa che trasforma un complesso di inferiorità in un atteggiamento di superiorità. Ma pur essendo passato un tempo sufficiente a rendere inutili queste reazioni di difesa e di inferiorità, le scuole teatrali continuano a crearmi un disagio. Esse sono organizzate proprio come delle scuole, mettono alcuni allievi in contatto con diversi insegnanti che possono essere molto abili ed efficaci, che desiderano trasmettere il meglio della loro esperienza, ma che il contesto trasforma in professori di questa o quella materia. Credo che l’apprendistato teatrale non possa farsi con dei professori. Credo che abbia bisogno di maestri. Dato che il teatro è innegabilmente un’arte del presente, l’aspirante attore deve apprendere a proteggersi contro il rischio dell’effimero. Questo apprendistato non avviene in una scuola teatrale, ma con un maestro. Distinguo immediatamente un attore o un regista che ha lavorato con Decroux: l’atteggiamento di solennità e di humour che permea la straordinaria competenza tecnica, fa riconoscere l’artista che ha un totem. Simili maestri sono rari e la loro inclinazione a esigere sempre di più e a forzare le difese dell’allievo è riprovata dallo spirito del nostro tempo. Fortunati coloro che riescono a trovare e farsi accettare da un maestro e scoprire l’immensità delle proprie ricchezze attraverso le sue pretese. La maggior parte non sente il bisogno di questa esperienza. Per altri, invece, è così necessaria che si inventano la figura di un maestro e lo evocano attraverso le parole dei suoi scritti. Per alcuni, il maestro è il super-ego. Per altri, il pubblico. Il mio maestro fu Grotowski. Anche se abbiamo quasi la stessa età, devo molto al tempo trascorso con lui a Opole. Grotowski era, allora, uno sconosciuto, la sua posizione era precaria perché le autorità comuniste polacche non apprezzavano i suoi spettacoli. L’energia e l’astuzia che mobilitava per continuare a far teatro in quel contesto avverso – e farlo come voleva lui – sono per me esemplari. Da un lato devi avere un totem, un artista che hai conosciuto o è lontano nel tempo, il cui esempio ti incita a continuare la scalata con le tue unghie e i tuoi denti. Dall’altro lato devi secondare un processo organico, scoprire il cammino in base a quello che tu sei e sai, avere l’audacia di tagliare il cordone ombelicale che ti nutriva e respirare con i tuoi polmoni. Anche se Grotowski è stato il mio maestro e ha avuto un enorme significato per me, la mia formazione professionale è quella di un autodidatta. Quando ero giovane leggevo tutti i libri che mi cadevano tra le mani alla ricerca di una frase o di un consiglio che mi dessero sicurezza. Mai mi è venuta meno questa venerazione per il libro. Ho bisogno delle esperienze trasmesse attraverso la parola, e della tensione che sorge dal mio tentativo di decifrarle. Tutti i grandi maestri


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del nostro secolo hanno condensato la propria saggezza in paradossi e immagini poetiche che celano preziose indicazioni tecniche. Il lavoro con i miei attori, la necessità di risolvere i particolari problemi del singolo, ma anche di creare dei “problemi” per sfidare le loro forze, giorno dopo giorno, per anni e anni – ecco il filo rosso della mia biografia professionale. Incutere fiducia quando io stesso ero incerto, soppesare le parole e calcolare i silenzi, cercare con determinazione l’ambiguità che dischiude la porta all’imprevisto, indicare la strada che deve diventare cammino personale – questo era il mio sforzo di regista autodidatta. La giovane età e l’inesperienza mi facevano credere che si potesse insegnare qualcosa che valeva per tutti. Il tempo, e soprattutto gli attori che sono rimasti con me decine di anni, mi hanno rivelato che ogni individuo possiede una sua “giungla” e vi si inoltra orientandosi con una bussola fatta con le proprie mani. Le teorie e i metodi, specialmente quelli coerenti e suggestivi, aiutano a discutere, fare confronti e scrivere libri. L’esperienza dell’“andare a scuola”, spostare un piede dopo l’altro, senza scivolare, e soprattutto senza segnare il passo, è la scoperta di una capacità, di un cammino che è solo tuo. All’Odin sappiamo che la fatica e la durata sono i due segreti dell’apprendistato. I miei attori e io siamo abituati a lavorare stanchi, a forzare i nostri limiti. Le difficoltà economiche e il desiderio di rimanere in vita come gruppo, ci hanno marcato. Il clima di silenzio e concentrazione dei nostri primi tempi è rimasto la cornice abituale del nostro lavoro. Allora, come oggi, l’autodisciplina ci ricorda che un solo passo falso può disintegrare il gruppo. Quando preparo uno spettacolo, ho la sensazione di appartenere a una cordata di alpinisti. Ognuno mette alla prova le proprie forze, ma legato agli altri. La caduta di uno trascina l’intero gruppo. Tutto questo si decide durante il primo giorno di apprendistato.

Un teatro-scuola La storia dell’Odin è caratterizzata dalla continuità delle relazioni tra me e quelle poche persone che lo fondarono trent’anni fa, e che io stesso formai. Sono ancora con me e formano oggi, a loro volta, attori. Seguono cammini differenti dai miei. Eppure li sento vicini. Alcuni dei veterani vogliono lavorare solo con uno stesso gruppo e lo riuniscono annualmente per 3-4 settimane. È costituito da attori e registi di paesi e tendenze diversi. Abitano nel nostro teatro o nei villaggi intorno a Holstebro. Organizzano il loro lavoro artistico alternandolo con quello pratico – la pulizia del teatro, la preparazione dei pasti, la costruzione degli accessori. Alla fine del loro incontro presentano i risultati sotto forma di spettacolo pubblico. A volte lo usano per organizzare un baratto nei villaggi o nelle case che li hanno


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ospitati. Di notte mostrano gli spettacoli che ciascuno di loro ha creato nei propri paesi di origine. Altri dei veterani mi sembrano dei monaci erranti. Viaggiano e visitano gruppi o persone in villaggi sperduti o in grandi città, lavorano con loro, realizzano progetti insieme. Anche qui, è la periodicità irregolare che caratterizza il legame e la relazione di scambio. Gli attori più giovani si allenano ognuno per conto suo. A volte si riuniscono sotto la guida di un veterano. Fondono il lavoro individuale in scene di clown e spettacoli di strada. Li vedo partire per asili infantili, piazze, campi di profughi, piccole isole lungo la costa. Insegnano a gruppi di dilettanti e nelle scuole. Tutti gli attori dell’Odin si spostano per abitare la “casa volante” dell’Ista tra maestri di altre tradizioni e con loro dar vita al Theatrum Mundi. Due volte l’anno, uno dei veterani organizza la “settimana dell’Odin”, che accoglie una cinquantina di persone per introdurle nel nostro mondo: spettacoli, dimostrazioni di lavoro, proiezioni di film, partecipazione al training, incontri con i singoli attori o con me. Ogni due-tre anni ci buttiamo tutti a capofitto nella “settimana festiva” di Holstebro, un festival dove facciamo incontrare e collaborare più di cento organizzazioni della città: i soldati con i pacifisti, le chiese luterane con altri gruppi religiosi, le associazioni di sport con il conservatorio di musica. È un’orgia di baratti; la spettacolarità che si annida nelle attività quotidiane è messa in visione senza rispettare le cadenze abituali del giorno e della notte. Nella casa dell’Odin vi sono molte stanze. In tutte l’apprendistato è perenne. Non abbiamo un organico fisso di professori, programmi o materie di studio; non facciamo selezioni né esami di ammissione. Il Ministero della Cultura danese ci considera come uno dei principali centri pedagogici. Contemplo questa diversità e penso a quei cinque giovani che ebbero la tracotanza di autodenominarsi “laboratorio”. Davanti ai miei occhi si erge l’immagine di un teatro-scuola. Esattamente l’opposto di una scuola di teatro. Se l’Odin ha un posto nella storia del teatro contemporaneo è perché un gruppo di persone ha incarnato una pratica e, così facendo, ha fatto scuola. L’Odin dura da trent’anni. Tutto il senso del nostro lavoro è là. * Come si forma un attore? A volte, leggendo un libro, improvvisamente ho l’impressione che l’autore abbia scritto quelle pagine proprio per me, nascondendo dietro le parole un messaggio che solo più tardi sarei stato in grado di scoprire. La domanda che oggi guida il mio lavoro non è: come si forma un attore? Ma: come si trasmette un’eredità?



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II. Laboratorio: il teatro-scuola

«Gli esercizi sono simili ad amuleti fatti di memoria che l’attore porta con sé non per esibirli, ma per trarne determinate qualità di energia da cui lentamente si sviluppa un secondo sistema nervoso».

(Iben Nagel Rasmussen guida il training dei giovani attori dell’Odin. Da destra a sinistra: Isabel Ubeda, Kai Bredholt e Tina Nielsen. Holstebro, 1996).


Il training 93

ÂŤSignore, ti prego, dammi la forza di scegliere sempre il cammino piĂš difficileÂť. (Torgeir Wethal traininig, 1966).


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«L’aspirante attore dovrebbe vivere la sua giornata come se fosse l’ultima e, al tempo stesso, come se avesse di fronte a sé tutta l’eternità». (Tage Larsen, training, 1971).


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ÂŤQuello che devi fare, devi farlo. E non domandare, non domandareÂť. (Iben Nagel Rasmussen, training, 1986).


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«Il training è un incontro con la realtà che si è scelta: qualunque cosa si faccia, falla con tutto te stesso». (Il training all’Odin Teatret nel 1983. Sopra, da sinistra a destra: Silvia Ricciardelli, Roberta Carreri, Julia Varley e Francis Pardeilhan; in basso: Julia Varley).


Il training 97

«La domanda che oggi guida il mio lavoro pedagogico non è: come si forma un attore? Ma: come si trasmette un’eredità?» (Sopra: Eugenio Barba con Torgeir Wethal e Else Marie Laukvik nel 1972 durante le prove di Min Fars Hus. In basso: Eugenio Barba con l’attore/danzatore brasiliano Augusto Omolù durante una dimostrazione di lavoro all’Ista di Londrina, 1994).


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«Nel mondo del teatro si cerca sempre di far mostra della propria originalità, si vuole sempre rinnegare le origini, cioè la tradizione da cui proveniamo. È un atteggiamento che non condivido e che mi è estraneo. Se c’è un uomo che considero come mio maestro, questo è Grotowski».

II. Laboratorio: il teatro-scuola

(Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba a Holstebro, nel 1994, in occasione del trentesimo aniversario dell’Odin Teatret).


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