Lupi e cani randagi, di Maurice Bignami

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Quando cominciò ad aspirare l’eroina, Bona smise di sorridere e rabbrividì. Notai che le labbra erano scosse da un lieve tremore. Allora pensai: “Ha freddo o sta già in astinenza” e questo mi eccitò, anche se non ne capii subito il motivo. Rimasi a guardarla mentre si conficcava l’ago nella vena del braccio sinistro, il laccio emostatico stretto tra i denti. «Dài, fallo anche te... seguimi!» Se la sparò tutta, l’eroina, quando le dissi di no. «Perché non vuoi? È bello!» «Può essere, ma non mi prende.» Usavo saltuariamente le droghe leggere. Quelle in apparenza poco invasive. Qualche volta prendevo un acido in compagnia. Ero un fruitore occasionale e, a dire il vero, la droga non mi piaceva. Mi facevo come fumavano le ragazze di una volta: quattro tiri senza mandare giù il fumo. Nessun merito, però. Semplicemente uno scarso interesse per la roba e molta passione per certi mestieri. La politica, per esempio. Il potere. La guerra. E poi il sesso e l’alcol. Ognuno ha i suoi percorsi privilegiati per la dannazione. E tutto sommato la via chimica spesso risulta socialmente meno rovinosa delle altre. Tuttavia, in quella stanza, in quel momento, avevamo a che fare con ben altro. Quando si lasciò cadere sulla branda e si abbandonò, mi resi finalmente conto, e con assoluta precisione, di ciò che mi aveva fin dall’inizio attratto in lei, a dispetto di lei. La malìa che mi incantava. Non era solo un gioco, una modalità particolarmente cerebrale di fare sesso. La peculiare qualità dello sguardo, il luccichio che d’improvviso si attenuava, sfumava, virava nel vuoto e dava a Bona una forza d’attrazione che mi eccitava fuori misura era l’accettazione consapevole e premeditata, ora del tutto manifesta, del venir meno di sé. E la droga non faceva altro che evidenziare un commercio fino ad allora implicito. Andava oltre la resa, oltre la deliberata rinuncia. C’entrava con la sua propria essenza. Non ne parlammo mai,

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palese e con essa, per quanto in apparenza innocua, anche l’evidente accettazione della menzogna, che mi piombava addosso un senso di radicale mestizia. Ridevano, le povere! Evidenziavano lo scherzo, la burla, l’autoironia, ma sotto sotto mettevano in scena l’assurdità delle loro pretese, la potenza infinita dell’autoinganno, la pochezza delle loro illusioni. Riducevano il destino a una disperata, chimerica immagine di sé e, non potendola concretizzare, la parodiavano, la buttavano in vacca. Percepivo quanto si possa in generale preferire una idea erronea, una rappresentazione fittizia della propria personalità, anche grottesca, piuttosto che mettere davvero in discussione uno standard acquisito. Subito a sinistra, appena entrati, occultata nel buio di una cappella, a Sant’Agostino c’è una straordinaria Madonna del Caravaggio. È la Madonna di Loreto, detta dei Pellegrini per il committente raffigurato in primo piano, in ginocchio assieme alla vecchia madre. Lerci e bisognosi come si conviene a due viandanti, a due cristiani in cammino. La Vergine è in piedi, invece, sulla soglia della Santa Casa. Stupenda, è modellata secondo i canoni della statuaria antica e, come la madre e il figlio in pellegrinaggio, è scalza e forse anche un po’ affaticata. Ha il Bambino in braccio. Un bambino grande e grosso, la mano protesa in segno di benedizione. La modella che ha dato le sembianze a Maria è, per alcuni critici, la Lena, una nota prostituta che avrebbe posato anche per la Madonna dei Palafrenieri, oggi alla Galleria Borghese. Se così fosse, una puttana ha dato corpo alla Madre di Dio. Una puttana bellissima, però; l’elogio singolare della Incarnazione e della proporzionata, luminosa e assolutamente unica bellezza di Maria, paradossale traduzione iconografica della sua totale purezza. È il contrario del gioco degli specchi e della vita. Là, il falso inconfutabile è accettato come vero, per un istante radicalmente effimero e menzognero. Qua, il vero, l’autentico destino che sottostà a tutte le vite infami è messo in piena luce, oltre ogni apparenza, per tutti i secoli dei secoli. E con Paolo possiamo dire che, a dispetto della bel-

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parrocchiali, quelle d’essai e le arene estive. Potevi seguire un film per anni, rivederlo decine di volte, ed era impossibile perderne uno, anche se era stato girato prima della tua nascita. Il cinema era la forma universale di rappresentazione – il linguaggio comune, la lingua franca – con la quale l’umanità comunicava i propri bisogni, esibiva le proprie voglie, dava corpo alla sua dimensione onirica. Era prima che il cinema si riducesse a sit-com, a videogioco o a documentario con relativa didascalia. Prima che Duchamp sconfiggesse definitivamente Picasso, che la decostruzione delle basi stesse della percezione facesse piazza pulita di ogni immagine capace di prendere corpo nella sostanza fisica della rappresentazione. Avevamo parcheggiato a due passi e quando uscimmo dal cinema, e i titoli di coda scorrevano ancora sulla desolazione seguita all’ultima immane sparatoria, risalimmo sul mezzo mantenendo la medesima configurazione socio-spaziale con la quale eravamo giunti: i maschi sui sedili anteriori, le femmine su quelli posteriori. Poi, dopo avere curvato un po’ a sinistra e a destra, lasciammo quella macchina nel parcheggio di una casa popolare, attraversammo il cortile, girammo l’angolo e salimmo su un’altra. Un veicolo rubato al volo un’ora prima, quando il proprietario era andato ad acquistare le sigarette lasciando incautamente il motore acceso, e Pike Bishop e compari stavano ancora chiacchierando in una bettola messicana con il generale Mapache. Una copia di “Rinascita”, il settimanale del Partito comunista, appoggiata sul cruscotto segnalava l’avvenuto passaggio di proprietà. La chiave di accensione, come al solito, era riposta dietro al parasole. Questa volta Giovanni si mise al volante, con Stella a fianco. Io mi infilai dietro assieme a Elisabetta, afferrai la borsa conficcata sotto il sedile e cominciai a distribuire le armi, i passamontagna neri e i guanti di gomma. Quando scendemmo davanti alla caserma dei carabinieri, lasciando l’auto in mezzo alla strada, eravamo soltanto un tizio con un fucile a pompa, un altro che armeggiava nel cofano e forse due donne con i mitra.

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Agguantai con delicatezza la grossa pentola a pressione, nella quale avevo collocato una carica cava, la piazzai davanti al portoncino blindato e accesi la miccia lenta. Un trio di ragazzotti si avvicinò vociando, ed Elisabetta disse loro: «Ragazzi, fuori dalle balle!». Più che i guanti furono il passamontagna e il mitra che li convinsero a invertire la rotta e a non polemizzare. Prima che l’ordigno scoppiasse, per chiarire l’antifona alle guardie affinché non si facessero troppo male, sparammo su tutti i pertugi che davano luce al fortino. Poi gridai: «Giù la testa, coglioni!» e risalimmo in macchina e partimmo sgommando. Avevamo appena imboccato la prima curva quando avvertimmo il botto. Subito raccolsi i guanti, i passamontagna e le armi. Dopo di che, nel cortile di un’altra casa popolare, abbandonammo la macchina e raggiungemmo il compagno che l’aveva rubata. Gli passammo la borsa e lo guardammo allontanarsi su un motorino senza targa. Quando salimmo sulla nostra auto, eravamo di nuovo due coppiette. Gli uomini davanti, le donne dietro. E c’era venuta una fame da lupi. «Stai attento, con la ragazzina...» mi disse Elisabetta. Avevamo divorato un piatto caldo in un pub e trangugiato un paio di birre. Eravamo relativamente sazi. «Chi, Stella?» risposi. Stella se n’era andata assieme a Giovanni un attimo prima, con una luce negli occhi che dava adito, e stavo accompagnando Elisabetta a casa. Camminavamo sotto i portici mano nella mano. «Cazzo vuoi che me ne freghi, di Stella!» replicò di botto Elisabetta, mollandomi la mano e allontanandosi di un passo. «T’ho snasato, prima, che la raggiungevi alle toilette... Non ne ha mai abbastanza, la zoccola... eh?!» «Chi, allora?» insistetti, lasciando cadere l’ultima questione. «Bona.»

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facesse l’eroe; poi aggiunsi: «Fai subito il segnale, ché non c’è tempo da perdere!». Un compagno stava aspettando alla stazione intermedia di Sezze Romano che il treno sfrecciasse sul primo binario. Come le mucche della mia infanzia, quando le ferrovie erano ancora all’apice della modernità. Se avesse visto alcuni finestrini della prima carrozza dipinti di rosso con una bomboletta spray, avrebbe avvisato per telefono il secondo gruppo di fuoco. L’operazione aveva avuto inizio e anche loro dovevano darsi una mossa. In caso contrario, se non avesse visto un accidenti, li avrebbe bloccati. Voleva dire che, per qualche motivo, l’operazione era stata annullata. «Fatti dare i documenti» dissi ancora. «Dopo, metti i magistrati tutti insieme da una parte.» E dall’espressione rasserenata di alcuni già si capiva chi non c’entrava un cazzo. Rimisi la pistola nella fondina, aprii la porta della vettura, attraversai rapidamente la zona di collegamento, controllando che non ci fosse nessuno nelle toilette, e passai alla carrozza successiva, quella con il probabile quarto uomo armato. Il Coala, intanto, si era alzato, aveva aperto la ventiquattrore ed era pronto a intervenire. Mi avvicinai al tizio sospetto, estrassi la pistola e gli piazzai la canna in mezzo alla fronte. «Occhio! Tocca la baiaffa e ti stendo!» Lo acchiappai per i capelli, lo tirai in piedi di forza e lo costrinsi a stendersi in mezzo al corridoio. «Allarga le braccia e le gambe!» Anche lui portava una fondina ascellare con dentro una Beretta 92 uguale alla mia. Gli presi la pistola e me la ficcai nei pantaloni, dietro la schiena. «Vediamo un po’ chi sei...» Gli sfilai il portafogli. Polizia di Stato. Il Coala mi allungò un paio di stringicavo e gli bloccai le mani dietro la schiena.

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