a cura di Anna Scannapieco
Prefazione e traduzione di Roberto Alonge
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Salvestro cartaio detto Il Fumoso Opere teatrali volume primo
Panechio • Tiranfallo
«Finora le commedie popolari senesi sono state lette nella prima edizione che capitava sotto mano. Ci si deve invece convincere che questi testi vanno trattati con lo stesso metodo filologico con cui trattiamo quelli di Cicerone e Petrarca, che la tradizione va censita e valutata come quella di qualsiasi altro testo», lamentava - venticinque anni or sono - uno studioso del calibro di Michele F eo; e, di fronte al rigoglio storico-critico che il tema poteva aver registrato almeno a partire dalla celebre monografia sul Teatro dei Rozzi di un esordiente Roberto Alonge (1967), ammoniva: «noi riteniamo che sia giunto il momento di non scrivere più saggi critici. I compiti veri sono quelli del nuovo catalogo scientifico, della costituzione e edizione dei testi nel loro complesso, accompagnati da commento linguistico, storico e folklorico». A tale esigenza risponde la presente edizione, dedicata all'opera teatrale del Fumoso, l'autore di punta della tradizione rusticale senese: un corpus di sei commedie- di cui questo volume presenta le prime due: Panechio e Tiranfallo - , la cui ricchezza culturale e la cui originalità artistica erano da tempo meritevoli di un ampio risarcimento filologico e critico. Roberto Alonge ha pubblicato numerosi libri su figure e momenti della drammaturgia e del teatro fra Cinque e Novecento, dedicando in particolare due volumi a Goldoni, tre ad Ibsen, tre a Pirandello. Ha diretto la grande Storia del teatro moderno e contemporaneo di Einaudi; ha fondato nel 1988 la rivista teatrale "Il castello di Elsinore" che dirige tuttora. Ha pubblicato altresì un pamphlet intitolato Asini calzati e vestiti. Lo sfascio della scuola e dell'Università dal '68 a oggi (Torino, Utet, 2005). Anna Scannapieco insegna Storia della drammaturgia e Filologia dei testi teatrali presso l'Università di Padova. I suoi interessi di ricerca sono prevalentemente legati alla tradizione dei testi drammatici, indagati in una prospettiva di filologia a tutto tondo, impegnata cioè nella rivisitazione e nel restauro critico dei testi anche sotto il profilo del loro legame con la storia materiale dello spettacolo. Ha al suo attivo circa un centinaio di pubblicazioni, molte delle quali relative al teatro settecentesco.
Indice
Prefazione di Roberto Alonge
7
Nota ai testi
13
Panechio
63
Tiranfallo
109
Bibliografia
159
Indice delle forme e delle parole annotate
169
Prefazione di Roberto Alonge
Il teatro popolare senese del primo Cinquecento è una realtà tanto affascinante quanto poco frequentata: artigiani di modesta cultura che scrivono e/o recitano testi teatrali al cui centro sta la figura del villano, presentato con tutti i segni dell’odio di classe: sporco ignorante ladro osceno laido, perennemente cornuto e possibilmente cornificatore. Qualcosa di paragonabile a Ruzante, sostanzialmente coevo, ma senza la certificazione d’arte che c’è in Ruzante. Ma anche qualcosa di più complicato, visto che, da un lato, abbiamo la vera e propria Congrega dei Rozzi di Siena, costituita nel 1531, ma anche, dall’altro lato, un retroterra di artigiani senesi che scrivono un po’ prima e un po’ dopo il 1531, ma sempre rigidamente al di fuori della Congrega (i cosiddetti Pre-Rozzi, che qualche studioso preferisce chiamare, chissà perché, comici artigiani senesi, come se i Rozzi della Congrega non fossero anche loro comici artigiani, o non fossero senesi). Mi riferisco ovviamente – con confessato gusto polemico – al libro di Cristina Valenti, fermamente convinta che, al di là dello Strascino, si possa parlare di una complessiva generazione di «comici artigiani senesi», cioè di attori-autori, espressione – per usare le sue stesse parole – di un «teatro artigianale, non accademico, e “professionale”» ben distinto dalla «produzione accademica e dilettantesca dei Rozzi»1. I dati filologici hanno però una loro convincente brutalità. Se il libro della Valenti elenca nove “comici artigiani”, in realtà per due di loro (il Fonsi e il Legacci) è lei stessa a riconoscere che non furono attori2. Per altri cinque (Alticozzi, Giovanni e Marcello Roncaglia, Bastiano, Mariano) manca qualunque documentazione che autorizzi a pensare a una loro effettiva funzione attorica, e qualche dubbio sollevano anche le testimonianze relati-
Cfr. Cristina Valenti, Comici artigiani. Mestiere e forme dello spettacolo a Siena nella prima metà del Cinquecento, Modena, Panini, 1992 (la citazione a p. 111). Cfr. ivi, rispettivamente pp. 71 e 74-75.
Prefazione
ve al Mescolino3. Resta il nono, Niccolò Campani detto Strascino, indubitabilmente un comico, ma al tempo stesso, indubitabilmente, dal punto di vista del profilo lavorativo, un professionista della scena, ma non già un artigiano (come d’altronde artigiano per certo non era Alticozzi, «docto & industrioso Messer», o «Maestro»4, cioè doctor e magister, forse in medicina, per certo cultore di astrologia, astronomia e alchimia). La dimensione artigiana – di campanaio, cioè di fonditore di campane – dello Strascino è nella sua famiglia, ma viene meno nel momento in cui egli lascia Siena per andare in giro per le corti italiane a guadagnarsi la vita come performer. Insomma, è ben buffo che un libro tutto teso a inseguire il mito dei magnifici nove comici artigiani finisca per accertare che per otto dei nove non c’è certezza filologica che davvero fossero comici, e che per il nono c’è certezza che non fosse artigiano – a tacere di chi, nella brigata, non era né comico né artigiano... Devo aggiungere, per completezza, che la Valenti utilizza talvolta le fonti iconografiche per sostenere la propria tesi, ma mi sembra una metodologia francamente avventurosa, se non applicata con cautela, a semplice supporto di documentazione di altro genere. I testi figurativi rispondono a una loro sintassi e non sono utilizzabili per dare informazioni (che non abbiamo per altra via) sulla concreta realtà del modo di fare spettacolo. Osservata ad esempio nel verso del frontespizio di un’edizione del Villano e Zingana di Bastiano una figura di vecchia il cui volto «è decisamente mascolino, e incorniciato da una fitta barba appuntita», e osservate altresì sembianze analoghe in due frontespizi della Fantesca (sempre di Bastiano), così infatti audacemente conclude la nostra studiosa: «L’ipotesi più naturale che vien fatto di
La Valenti (ivi, p. 83) adduce infatti la testimonianza di Scipione Bargagli, il cui Turamino vede però la luce nel 1602, e dunque è fonte abbastanza tarda. Ancora più tarda la testimonianza, ugualmente allegata, di Fabio Chigi, che peraltro si limita a parlare di «Mescolino poeta», senza mettere in gioco una sua esplicita presenza attorica. In realtà, forse l’unica documentazione in tal senso potrebbe essere individuata nella titolazione della princeps del Trionfo di Pan Dio de’ Pastori, «opera rusticale composto [sic] a beneplacito di alquanti scolari per Lionardo detto Mescolino, & da lui recitato in Siena nelle feste del carnouale in su vna treggia»: ma tale edizione, per quanto prima, è in realtà molto tardiva, risalendo infatti al 1546, cioè a qualche decennio dopo la presumibile prima “esecuzione” del monologo in ottave, e per certo a un quindicennio dalla morte dell’autore. Sul profilo artistico del Mescolino, si veda ora Marzia Pieri, Mescolino maggiaolo: fra il contado di Siena e la Farnesina, in L’attore del Parnaso. Profili di attori-musici e drammaturgie d’occasione, a cura di Francesca Bortoletti, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 381-417. Sono i titoli conferiti all’autore nei frontespizi delle opere a stampa.
Prefazione
formulare è che le silografie rappresentassero la figura artistica di Bastiano: linaiuolo di professione e comico esperto nell’interpretazione di figure femminili, e di vecchie in particolare, che avrà caratterizzato con immaginabili qualità di resa comico-grottesca»5. Un po’ poco, francamente, e quel poco tutto fondato sul potere evocativo di una narrazione che esalta la terminologia del possibile, dell’eventuale e del probabile6, e che è brillante, sì, ma a suggerire definizioni critiche tanto suggestive quanto evanescenti7. S’intende che polemizzo (forse troppo passionalmente) con quelle che mi sembrano fisime da ideologia teatrologica, ma per rivendicare la maggior fertilità di un intervento di sana e dura filologia, capace di restituirci in modo sistematico e accurato – dopo cinque secoli di attesa – qualche exemplum della drammaturgia senese del primo Cinquecento. E spero, naturalmente, che in questa mia invocazione settaria non faccia velo la dolcezza della mia memoria personale di studioso. Il mio antico e sempre amato maestro Giovanni Getto mi impose infatti, come penso (o forse per mettermi alla prova, tanto per verificare se davvero io avessi stoffa per la carriera universitaria), proprio una tesi di laurea sul teatro dei Rozzi di Siena. Gli avevo chiesto una tesi su Pirandello, ma mi disse di no, argomento troppo inflazionato, a suo parere, per consentirmi di scrivere qualcosa di originale (il Maestro non doveva nutrire troppa fiducia nelle mie qualità, evidentemente ), e rilanciò con questi Rozzi, di cui io non sapevo nulla (ma, in verità, nemmeno lui aveva l’aria di sapere molto). Interpretai tutto in chiave sociologica, furiosa-
Valentini, Comici artigiani cit., p. 31. E per analogo procedimento, riferito a Mariano Trinci, detto Maniscalco, cfr. ivi, p. 97. Non solo in questa citazione («immaginabili [...] avrà caratterizzato»), ma un po’ sempre il racconto della Valenti ha cadenze di questo tipo: «è dato immaginare [...] sembra che [...] gli derivava forse » (p. 27), «saranno state [...] sembra inoltre suggerito [...] è possibile immaginare che» (p. 31), «spinto forse a cercare fortuna [...]» (p. 36), «forse di carattere rusticale [...]» (p. 42), «sembra improbabile che [...]» (p. 47), «fu probabilmente fra i senesi che [...]» (p. 83), «con tutta verosimiglianza [...]» (p. 90), «forse più che essere impiegato come maniscalco [...] probabilmente presso la “corte” [...] doveva far parte della clientela dei Petrucci [...] dovette forse mancare il tramite di Agostino Chigi [...]» (p. 91), «se ne sarà dovuto partire da Siena [...]» (p. 92), «oppure sarà stata realmente una donna [...]» (pp. 92-93), «avrà allestito i suoi spettacoli [...] sarà stato anche organizzatore degli allestimenti [...]» (p. 95), «sembra piuttosto ritrarre il suo autore [...]» (p. 97). E così via. Si vedano le dichiarazioni programmatiche formulate ivi, pp. 11-12; sullo studio della Valenti, pur meritevole sotto alcuni rispetti, si tengano inoltre presenti le riserve già espresse, vent’anni or sono, da Michele Feo e ricordate di séguito, Nota ai testi, p. 13, n. 1.
Prefazione
mente proto-sessantottesca, come era fatale in quegli anni di ardori e furori. E quando non trovavo quello che cercavo, mi arrabbiavo anche. Parlando, ad esempio, di un testo del Fumoso, Tiranfallo, incentrato sulla tematica grassoccia del collettivismo sessuale villanesco, lamentavo che mancasse «una caratterizzazione sociologica dei contadini colti nella loro condizione di miseria»8. Cercavo quello che non c’era, e non vedevo quello che c’era. Un contadino chiede al protagonista Tiranfallo se è riuscito a portarsi a letto la tale villanella, e Tiranfallo risponde: «Mi lavorò un tratto un bel cappello [...] Mi venga ’l cancar, ma’ viddi el più bello! / Ma non vuol niente adosso». Non capii e passai oltre. Soltanto trent’anni più tardi, leggendo le note a piè di pagina dell’edizione moderna del testo, approntata da Menotti Stanghellini, bibliotecario della ancora attiva Accademia dei Rozzi (nobilitatasi nel corso dei secoli, passata da Congrega ad Accademia), mi resi conto che il «cappello» (nella presente trascrizione di Anna Scannapieco, propriamente «capello», forma scempia) che gli aveva fatto la contadinella era un servizietto sessuale (cui proprio non avevo minimamente pensato, nel mio militante candore proto-sessantottesco), e che l’espressione «non vuol niente addosso» – per me ancora più enigmatica – significava il rifiuto di un rapporto sessuale completo, cioè con penetrazione. Mi affrettai comunque, appena possibile, a chiedere venia della mia insipienza e a ringraziare lo Stanghellini, illustratore esperto della saporosa lingua senese9. Però, si sa, la fine (della vita, della carriera professionale, di tutto) porta sempre a ripensare e a ritornare sui segni e sulle tracce dell’inizio. È dal 2007 che medito di promuovere l’edizione completa dei testi del Fumoso, certamente il più significativo dei Rozzi. Per un po’ ho sperato che la persona giusta potesse essere proprio Menotti Stanghellini, fecondo promotore di edizioni moderne di pièces dei Rozzi e dei Pre-Rozzi, che alla data del 2007 aveva già pubblicato tre dei sei testi teatrali del Fumoso (Tiranfallo, 1997; Panecchio, 1998; Batecchio, 1999). Ma il valoroso cultore di storia patria senese, con rara onestà intellettuale, ha sempre ammesso i limiti della sua strumentazione, e – tanto per esemplificare – proprio introducendo la sua edizione del Tiranfallo, ha riconosciuto che «a una edizione critica più ampia
Roberto Alonge, Il teatro dei Rozzi di Siena, Firenze, Olschki, 1967, p. 80. Cfr. Idem, La riscoperta rinascimentale del teatro, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, vol. i, Torino, Einaudi, 2000, p. 47, n. 62.
Prefazione
penserà qualche filologo più preparato e dotato di strumenti di lavoro meno artigianali». E così, alla fine, la mia quête ha finito per individuare in Anna Scannapieco la persona suscettibile di guidare l’impresa di una piccola Opera omnia del Fumoso, che qui propriamente si inaugura, con la pubblicazione dei primi due testi dell’autore. La Scannapieco, allieva del validissimo e compianto Giorgio Padoan, viene dalla filologia applicata soprattutto a testi teatrali settecenteschi (di Goldoni e Gozzi), e ai relativi contesti spettacolari, ma si è appassionata prontamente alla materia, con generosa disponibilità ad ampliare l’orizzonte delle proprie ricerche, diventando anzi rapidamente una specialista di prima grandezza dell’universo della Siena cinquecentesca, come mostrano le ricchissime note del suo dotto commento a piè di pagina. Di lei avevo scritto – quando ancora non la conoscevo, e non sapevo nemmeno che faccia avesse – in termini fortemente elogiativi, definendola «la implacabile e ferratissima Anna Scannapieco»10. E tale si è riconfermata, in questa ultima occasione. I pregi del suo lavoro sono percepibili a occhio nudo, e stanno in prima istanza nella novità di edizioni fondate ogni volta sulla princeps. A cominciare da quella del Panechio, esordio drammaturgico del Fumoso, che la pur lodevole Bianca Persiani – nella sua recente edizione di alcune rusticali senesi – dava per irreperibile, e che invece, puntualmente, la Scannapieco ha ritrovato, preziosa anche per una lettera dedicatoria, poi caduta nelle edizioni successive. E a finire – almeno per quanto riguarda questo volume – con la princeps del Tiranfallo, che, tra le altre cose, rivela l’esistenza di un finale sinora ignoto, e tale da consentire una rilettura in profondità del disegno drammaturgico complessivo della seconda prova – la prima propriamente “rusticale” – del Fumoso. E dire che quando la Scannapieco vinse la sua brava associazione a Storia del Teatro, alti si levarono i lài nella corporazione, perché si trattava di una italianista, e non già di una storica del teatro, e perché mai non se la chiamavano gli spocchiosi italianisti, che sono millanta, che tutta notte canta, anziché venire a pescare nel nostro piccolo laghetto? Ma di che stupirsi? L’Italia è fatta così, ogni corporazione e lobby sempre pronte a difendere i propri interessi particulari, mentre non cale a nessuno dell’interesse generale (del paese o degli studi). Tanto più singolari, i lài in questione, a considerare Idem, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Milano, Garzanti, 2004, p. 14, n. 1.
Prefazione
come proprio la storia del teatro – lo dico con parole spese in tempi lontani, e in cui credo ancora, a maggior ragione – è «per definizione disciplina di frontiera, itinerario trasversale entro territori diversi», geneticamente animata da quella polarità di fondo – storia del testo e storia dello spettacolo – che precisamente costituisce la sua ricchezza11. Un’ultima annotazione minuta. Forse non c’era bisogno di tradurre i versi del Fumoso, perché nel commento di Anna Scannapieco c’è tutto, e dunque anche la traduzione dei punti più complessi, ma l’Editore ha osservato giustamente che il lettore comune può essere esitante a immergersi nel mare magnum dell’amplissimo commento. La mia è dunque una semplice traduzione di servizio, che opera un montaggio sintetico delle raffinate ed esaurienti spiegazioni della curatrice. Alle quali però anche il lettore non addetto ai lavori dovrà necessariamente ricorrere, per comprendere chi fossero frate Sisto, i Giovanelli, che l’Osservanza era il convento dell’Osservanza, che “potta” è una bestemmia, e così via. Ho lasciato in bocca ai villani le consuete storpiature dei nomi di pastori e ninfe (e dello stesso Potestà) ma anche certi termini saporosi, come manza e sdama (o dama) per indicare l’innamorata, e gustose imprecazioni (canchero baiocco, cacasangue, ecc.).
Idem, Getto e il teatro: storia del teatro o storia dello spettacolo?, in Il magistero di Giovanni Getto. Lo statuto degli studi sul teatro. Dalla storia del testo alla storia dello spettacolo, Atti dei Convegni Internazionali (Torino, 22 marzo 1991; Alba, 8-10 novembre 1991), Genova, Costa & Nolan, 1993, pp. 11-21: 14 e 17.
Nota ai testi
Finora le commedie popolari senesi sono state lette nella prima edizione che capitava sotto mano. Ci si deve invece convincere che questi testi vanno trattati con lo stesso metodo filologico con cui trattiamo quelli di Cicerone e Petrarca, che la tradizione va censita e valutata come quella di qualsiasi altro testo. Tutto il teatro cinquecentesco senese, disperso in edizioni introvabili, inedito o leggibile soltanto in stampe d’epoca, meriterebbe d’essere rimesso in circolazione e offerto a lettori e registi contemporanei, per farlo rivivere in tutta la sua ricchezza culturale e originalità artistica.
A - Panechio Introduzione Anche dal punto di vista della tradizione dei testi la personalità artistica di Salvestro cartaio sembra rivestire un valore emblematico per il teatro dei Rozzi: il nome del Fumoso, infatti, apre e chiude – almeno dal punto di vista editoriale – l’attività della Congrega nel suo periodo di maggior fulgore e slancio, tra il 1544 e il 1552. Era già nota la circostanza per cui la pubblicazioFeo, p. 114. Cfr. anche ivi, p. 119: «Dal Mazzi in poi sono stati compiuti studi e analisi critiche anche pregevoli della nostra commedia [popolare senese]. Ma noi riteniamo che sia giunto il momento di non scrivere più saggi critici. I compiti veri sono quelli del nuovo catalogo scientifico, della costituzione e edizione dei testi nel loro complesso, accompagnati da commento linguistico, storico e folklorico» (fa séguito un gustoso florilegio di spropositi interpretativi conseguenti a mancata padronanza di un pertinente approccio filologico e critico; in sede di postilla, p. 135, vengono espresse riserve anche sul catalogo allestito da Valenti). Pieri 2009, p. 32.
Nota ai testi
ne del Travaglio – momento apicale, per unanime riconoscimento, della produzione del nostro e di tutto il teatro dei Rozzi – avesse rappresentato anche l’ultimo atto di un’avventura che non avrebbe avuto séguito; siamo oggi in grado di appurare che non diverso valore simbolico ebbe l’esordio teatrale del Fumoso, che per l’appunto “battezzò” – e forse non solo da un punto di vista editoriale – la ripresa dell’attività della Congrega nel 1544, dopo la pausa quasi decennale conseguente al moto repressivo che con i “sovversivi” Bardotti (non alieni da parentele con i Rozzi) aveva tacitato tutto il ricco associazionismo senese. Si era infatti sinora riconosciuto al Pelagrilli dello Strafalcione la patente di apripista della nuova stagione rozzesca, in virtù della sua data di edizione (25 novembre 1544), di pochi mesi successiva alla ripresa delle adunanze (15 maggio). La valutazione, che si effettua oggi per la prima volta, della princeps del Panechio, realizzata dalla stessa “ditta” Landi-Mazzocchi che allestisce Pellagrilli, consente – fra le altre cose, di cui si dirà – di aggiustare invece significativamente il tiro, e di anticipare quel “battesimo” al 5 luglio 1544, nel nome, appunto dell’esordio teatrale di Salvestro cartaio. Un esordio che faceva immediatamente séguito al suo ingresso nella Congrega (23 giugno), di cui pare fosse stato proprio il primo ammesso dopo la riapertura del ’44. Si potrà facilmente obiettare che tale concatenazione cronologica non è in grado di illuminare l’effettiva data di composizione e di prima rappresentazione della «breve Comedietta» (come la definì il suo autore): ma nella Del tutto diversa, et pour cause, la ripresa delle attività tra il 1561 e il 1568, in pieno vigore controriformistico e tramontato definitivamente il sogno repubblicano: cfr. Catoni, pp. 45-50, Chierichini2, De Gregorio 2001, pp. 65-66. Com’è noto, la cesura coprì il periodo 1535-1544, scattando ad appena due anni dalla costituzione della Congrega dei Rozzi. Per il movimento dei Bardotti, si veda la nota al v. 177 del Panechio. Cfr. Alonge, p. 54n, poi seguito da molti altri, tra cui, per ultimi, Catoni, p. 23, e Chieri1 chini , p. 81. Già nota potenzialmente a tutti dal novembre 1997 (data in cui viene censita da Edit16), ma da nessuno mai presa in considerazione (sorprende anzi la qualifica di irreperibilità della princeps formulata da Persiani 2004, p. 8, nella sua edizione delle rusticali senesi). Cfr. Mazzi 1882, i, p. 443, n. 2. Così nell’Epistola dedicatoria, per cui cfr. pp. 64-65; solo a partire dalla seconda edizione, Panechio (progressivamente divenuto Panecchio e Pannecchio) verrà insignito del titolo di «Commedia nuova di Maggio». È interessante osservare che «commedietta alla villana» il Fumoso avrebbe definito anche il suo capolavoro, Il Travaglio (nel Prologo rusticale che correda la prima edizione della commedia, 1552).
Nota ai testi
serie di dettagliati riferimenti al contesto coevo che la animano ne figura uno che fissa indubitalmente il post quem alla fine del marzo 1541. Il che non è poco, di per sé e in considerazione dell’evanescente cronologia che segna tutte le produzioni dei Rozzi; ma è un dato altresì significativo perché legittima come altamente verosimile l’ipotesi di una stretta contiguità – se non addirittura una piena sovrapposizione – tra l’ingresso nella Congrega, l’esordio come autore teatrale e il parallelo battesimo editoriale. A riprova, fra l’altro, di quanto abbiano prodotto distanze temporali (venti-trent’anni) e diversità geoculturali rispetto a quello iato tra scena e libro che aveva connotato il panorama primocinquecentesco (da Ariosto a Bibbiena a Ruzante, allo Strascino stesso), e con conseguenze risolutive – come vedremo – per quanto attiene al piano delle scelte ecdotiche. Un altro aspetto interessante della vicenda editoriale del Panechio è costituito dal suo rigoglio: almeno 6 edizioni nell’arco di un settantennio (15441614). Tra le composizioni del Fumoso, solo il Capotondo ne può vantare di più, e nessuna comunque per un così esteso arco temporale: singolare destino di un’esile – ma per niente innocua – pastorale, quello di esser tutt’altro che surclassata dalle più impegnative prove in cui si cimenterà poi il suo autore. Con tutte le altre pièces, invece, condivide il medesimo destino di una produzione rigorosamente intra moenia: sono solo senesi le stampe del Panechio, come d’altronde quelle di pressoché tutta la produzione teatrale del Rozzi propriamente detti, a differenza di quanto era capitato in sorte ai “colleghi” di inizio secolo, con cui i nostri vengono ancora – almeno dal punto di vista della circolazione degli spettacoli e dei testi – confusi.
Cfr. v. 306 e nota 222. Si è fra l’altro di recente affermato che «le commedie erano rappresentate e fatte circolare manoscritte e, se riscuotevano un certo successo e suscitavano una grande richiesta da parte del pubblico, erano date alle stampe dagli abili e intelligenti maestri stampatori» (Bazzotti, p. 151; la tacita fonte documentaria e critica è Valenti, in part. p. 12, che perimetra però la propria indagine ai «comici artigiani» d’inizio secolo). Infatti solo «al culmine della sua fama, [il Campani] deciderà a un certo punto di occuparsi in prima persona della propria fortuna editoriale, già cospicua ma al di fuori del suo controllo» (Pieri 2013, p. 41; cfr. anche Pieri 2010 e soprattutto Valenti, pp. 64-69). Si veda anche di séguito la nota 12. A Roberto Alonge, com’è noto, si deve il conio storiografico e critico di pre-Rozzi, ad indicare la categoria di quegli autori del primo Cinquecento (lo Strascino in primis) che, pur attingendo ad una medesima tematica pastorale-villereccia-rusticale, si distinguono dai successivi “congregati” per un suo ben diverso trattamento “rappresentativo”. La categoria in que
Nota ai testi
Nonostante il carattere rigorosamente indigeno della fortuna editoriale del Panechio, il vaglio filologico consente di escludere che l’evoluzione redazionale (molto sensibile, sotto diversi profili), documentata dalle stampe successive alla princeps, sia ascrivibile a paternità d’autore e nemmeno a nuove occasioni di “testualità spettacolare” (di cui le nuove edizioni costituissero documento: e poco importa se “preventivo” o “consuntivo”). Il che rende ancora più vincolante la testimonianza della prima edizione: se – in materia di filologia dei testi teatrali, specie del primo Cinquecento – la princeps può vantare sicure risorse, nel nostro caso specifico ne esibisce di ulteriori, particolarmente per quanto attiene la fisionomia redazionale e linguistica, che – come vedremo – sembra documentare una sostanziale latitanza delle consuete intermediazioni tipografiche e una stretta aderenza all’antigrafo manoscritto (molto verosimilmente autografo). Contrariamente al destino di quasi tutte le altre commedie del Fumoso, stione è stata ormai definitivamente acquisita dal dibattito critico, ma tende ad essere rimossa proprio sul piano della valutazione del viaggio extra muros del teatro senese: ad esempio, per contrastare l’idea che la produzione dei Rozzi «sarebbe rimasta limitata ad un ambito sostanzialmente municipale», Chierichini (pp. 83-84, n. 62), chiama in causa «la varietà dei luoghi di stampa delle opere dei primi Rozzi [che] mette in discussione questo assunto: nel corso del Cinquecento queste si distribuiscono fra Siena, Roma, Venezia, Firenze, assieme a Perugia e Ancona, disponendosi dunque lungo buona parte dell’asse teatrale della penisola» (sulla stessa lunghezza d’onda, cfr. anche Riccò 2008, pp. 98-99). Ma il dato, inconfutabile, riguarda appunto i pre-Rozzi, la cui vicenda artistica, anche sotto questo profilo, si differenzia nettamente da quello dei Rozzi: per quello che si può arguire da un rapido spoglio catalografico, furono pochissime le edizioni dei “congregati” realizzate fuori Siena; e quelle più significative (le principes del Cieco amore e del Farfalla dello Stecchito, rispettivamente Venezia 1535 e Roma 1536) risalgono oltretutto al primo periodo di chiusura dell’associazione (1535-1544). Ciò che meriterebbe riflessione è piuttosto la scarsa plausibilità di una vigorosa produzione editoriale locale destinata alla sola area cittadina, e mi sembrano ineccepibili al riguardo le considerazioni di Valenti, p. 76: «l’editoria teatrale senese era commercialmente aperta a tutta l’Italia fino a Roma [...]. È indubbio che i torchi senesi lavorarono per un mercato ben più ampio di quello locale, e molto favorevole ad accoglierne l’offerta». Anche sotto questo profilo, appare dunque decisamente difforme il destino dei Rozzi – o almeno del Fumoso – da quello che era stato proprio dei “confratelli” di inizio secolo, i cui talenti sono sfruttati dai «librai/tipografi [che] fanno e disfanno a modo loro, si rincorrono e si copiano, smontano e rimontano i testi per ragioni di convenienza, li ristampano magari a distanza ravvicinata ‘accresciuti e corretti’ assemblandoli in modo diverso sulla scorta di presumibili diverse esecuzioni» (Pieri 2013, p. 39). Sulla problematica in questione, cfr. soprattutto Paccagnella 2005; sulla tematica dell’editoria teatrale cinquecentesca è ora obbligato punto di riferimento Riccò 2008 (con ampi riferimenti al contesto senese, anche se per lo più di interesse intronatico).
Nota ai testi
riesumate nella temperie culturale di fine Ottocento, il Panechio è rimasto editorialmente silente per circa quattro secoli: solo nel 1998, infatti, la “primogenita” di Salvestro cartaio ha rivisto luce, nell’ambito di un progetto editoriale – come vedremo – tanto generoso nelle intenzioni culturali quanto ingenuo sul piano della competenza filologica. Questo, in sintesi, il quadro dei rapporti stemmatici:
O A 1544 B 1545 C 1571-1581 D 1581 E ≤ 1614 E1 1614 F 1998
a.i.
le edizioni
1. Siena, Antonio Mazzocchi-Giovanni Landi, 1 [A] 1.1. Descrizione Fumoso de’ Rozzi. | Comedia di Panechio. [in gotico] | INTERLOCVTORI. | Coridio Pastore. | Panechio Villano. | Falcaccio Villano. | Brizia Nimfa. | Laertio Pastore. | Persia Nimfa. | 1 Colofone: In Siena per Ant. Mazochi Cre.<monese> Adi | V di Luglio 1 . | Ad istantia Maestro Giouanni d’Ale | xandro Libraro.
Nota ai testi
v. 33: socorso] B C D soccorso v. 336: *puo che] B C D poi che] E poiche – pazia] pazzia v. 33: ch’el perdonar su ’n ciel prende ristoro (B C D: su in)] E che ’l perdonar altrui torna in ristoro v. 3: sel nostro pregar di grazia *sdegno] B sel nostro pregar di grazia degno C D E sel nostro pregar di grazia è degno (E: s’el) vv. 31-3: non far più vendetta / di vostra gentilezza fate segno] E non fate vendetta / di vostra gentilezza hor fate segno v. 3: vogliam] voglian v. 36: Come le potre’ mai ristorare (B: potren]] C D Come *la potren noi mai ristorare E Come mai vi potremo ristorare v. 3: li] gli – *prugnuo] B prugnioli C prugnuoli D prugnol E prugnoi v. 3 : i’] io – li] gli v. 3: Da poi co pace havian (B C D: con)] E Da poi che in pace habbiam v. 3: sieme] C D E insieme – cantiano] C D E cantiamo – laudiam] B C D laudian E lodiam – Magio] Maggio v. 3: po] poi – viagio] viaggio Canzona: v. : laudiam] C laudian – v. 3: con piacere] C D E *con piaceri – alegri] allegri – v. : ralegra] C D E rallegra – li] gli – v. 6: canteren vie per (C D: via)] E canterem per il – vv. , 1, 1: magio] Maggio – vv. e 16: redutti] B C D ridutti E ridotti – v. 11: alegra] allegra – vv. 1 e 13: facian] C faccian D E facciam – v. 13: sogiorno] C D E soggiorno – v. 1: cantar] D E cantare
B - Tiranfallo Introduzione Di un paio d’anni successiva all’esordio teatrale dell’autore, e ad appena un anno dalla prima ristampa del Panechio, è la princeps del Tiranfallo (giugno 16), che precede d’altronde di appena un mese quella del Batechio (luglio 16). Nonostante la significativa carica d’innovatività del suo disegno drammaturgico, la nuova «commedia carnovalesca» non conobbe affatto – almeno sotto il profilo della fortuna editoriale – il riscontro ottenuto dalla “primo-
Nota ai testi
genita” del Fumoso: al punto che, dopo Discordia d’amore (1), può essere considerata, di tutta la produzione teatrale dell’autore, l’opera che rimase più appartata. Solo due infatti sono le edizioni conosciute, del 16 e del 1; una terza, del 1, sempre senese e di non identificato editore, era segnalata da Allacci e Mazzi, ma non è stata in alcun modo reperibile. Inoltre, quand’anche fosse stata effettivamente realizzata, l’edizione del 1 non ebbe influenza alcuna sulla tradizione del testo, dal momento che quella del 1 – come vedremo – appare chiaramente esemplata sulla princeps, di cui riproduce fedelmente la stessa composizione tipografica, e anche le lezioni erronee, non mancando di introdurne di nuove (e una, in particolare, di natura tale da pregiudicare la comprensione del finale, e dunque di tanta parte dell’intero disegno drammaturgico della commedia): sarebbe stata solo quest’edizione ad essere letta e illustrata dagli studiosi, da Alonge a Glénisson-Delannée, e ad essere utilizzata come testo base per la moderna edizione della commedia, dovuta alle solerti cure di Menotti Stanghellini (1).
b.i.
le edizioni
1. Siena, Congrega dei Rozzi-Giovanni Landi, 16 [A] 1.1. Descrizione TIRANFALLO | COMMEDIA | NVOVA CARNO | VALESCHA | DEL FVMOSO DE | LA CONGREGA | DE ROZZI. | [fregio] | IN SIENA. | M.D.XVLVI. Colofone: In Siena per LA CONGREGA DE ROZZI. | Adistantia Di Giouanni d:Alisan- | andro Libraro. Il di .i. del Me | se di Giugno, l’Anno | M.D.XLVI. Formula collazionale: °; A-B (segnatura del fascicolo a cc. [r] A ii, [3r] A Cfr. allaCCi col. 6, mazzi 1, ii, p. 1. Le fonti di quest’ultimo, che basava la sua descrizione dell’opera su un esemplare mutilo dell’edizione 1 (per cui si veda di séguito a testo), conservato alla Biblioteca Comunale di Siena, erano, per l’edizione 1, oltre all’Allac-ci, PeCCi 1 e il catalogo apposto in calce a Fabiani (1), che sembrano dipendere l’uno dall’altro ed entrambi dall’Allacci.
Fumoso deâ&#x20AC;&#x2122; Rozzi Comedia di Panechio
1544
Salvestro cartaio detto Il Fumoso
Interlocutori Coridio Pastore Panechio Villano Falcaccio Villano Brizia Ninfa Laerzio Pastore Persia Ninfa
Epistola 1. Sono stati molti, onestissima Camilla, i quali avendo i loro scritti a mandare in luce, si sono elette persone a chi l’hanno indrizate, o nobili di sangue, o ricche di possessioni, credo sperandone trare guadagno; ma io nel farvi presente di questa mia breve Comedietta ho avuto l’occhio solamente alli belli, e ricchi costumi, che risplendono in voi, perché quella è vera nobiltà, che discende da virtù.
Della produzione teatrale del Fumoso era sinora nota solo la dedica del Travaglio (al cardinale di Ferrara Ippolito d’Este): con cui la presente – individuata grazie al vaglio della princeps, l’unico testimone che la tramanda – forma un suggestivo dittico entro cui appare racchiusa la breve ma intensa avventura teatrale dell’autore. Va peraltro sottolineato che la prassi dedicatoria era rarissima nei Rozzi “congregati” (mentre, et pour cause, diventerà diffusa tra i Rozzi accademici): se non vado errata, alle due di Salvestro cartaio si può aggiungere solo quella con cui Ascanio Cacciaconti corredò il suo Pelagrilli (edito anch’esso nel 1544, ma qualche mese dopo il Panechio: cfr. Nota ai testi, p. 14). Mentre però lo Strafalcione dedicava la propria commedia alla «Valorosa Madonna Lucina Castrucci, patritia luchese», moglie del suo protettore, la dedicataria del Panechio – pur rimanendo incognita nella sua identità anagrafica – rinvia a tutt’altre coordinate ideali: il Fumoso infatti, in perfetta sintonia con lo spirito dei Capitoli istitutivi della Congrega (in particolare del proemio e del prologo), riprende qui, secondo un’angolatura squisitamente stilnovistica, elementi topici del secolare dibattito intorno alla natura della nobiltà, che, com’è stato osservato, «nella Siena del tempo avevano acquisito forti implicazioni politiche» (Chierichini1, p. 72; cfr. anche ivi, p. 79: «in questo periodo di estrema instabilità politica interna a Siena è molto acuta la consapevolezza dei pregiudizi attorno a questioni di nobiltà che portavano con sé gli ufficiali e i soldati francesi e spagnoli», pregiudizi che i senesi – “popolari” e aristocratici – combattono in supporto alle proprie istanze repubblicane). Sul pronunciato fenomeno dello scempiamento che connota la veste redazionale della princeps, si veda la Nota ai testi, p. 20.
Panechio
2. Accettatela dunque con quello animo che vi si manda, e si vile, abietta, e rozza la vedete, riguardate all’estrema bellezza vostra: donde ciò che le s’apressa, gentile, e alta, e pulita diviene, e insieme ricordatevi che Artaxerse grandissimo Re de’ Persi, graziosamente accettò in dono l’acqua d’un povero lavoratore, né possendoli altro dare, con le palme de le mani gliela portò inanti. 3. Vale.
‘Con cui’. Il che con valore invariabile, oltre che nell’italiano antico, è tuttora diffuso, e non solo nella lingua popolare. Tipico senesismo per se, che ancora nel 1882 era «vivo nella plebe» (Mazzi 1882, i, p. 47). ‘Ciò che si avvicina alla vostra bellezza da vile abietta rozza diviene gentile alta pulita’. Possére per potere (e dunque possendo per potendo) è tipico senesismo (cfr. Rohlfs, § 617). Si noti l’anacoluto nella coordinata negativa, che rende soggetto Artaserse invece del «povero lavoratore». Il celeberrimo apologo, tramandato da Cornelio Nepote, era divenuto argomento principe nella topica del dono e della gratitudine.
Salvestro cartaio detto Il Fumoso
Prologo i
E’ gli è mequà certi rozzi villani, Pastori, e ninfe, e vogliam cantar Magio
Qui siamo davanti a voi, Rozzi villani, pastori e ninfe, e vogliam cantar Maggio, e ‘Ci sono in mezzo qua, davanti a voi’. E’ (nell’originale senza apostrofo, qui introdotto per differenziarlo da e articolo, vedi nota 25) è nel toscano antico la forma proclitica del pronome personale soggetto 3a persona sing. e plur. (cfr. Rohlfs, §§ 446 e 448): ha qui valore prolettico e pleonastico rispetto al soggetto espresso esplicitamente di seguito. «D’uso larghissimo [...], con valore pressoché prefissale [...] costituisce una delle caratteristiche sintattiche del fiorentino parlato più pronunziate» in un’opera come i Motti e facezie del Piovano Arlotto (Folena, p. 369). Gli è in questo caso avverbio locativo, ‘ci, vi’, usato come elemento atono unito a verbo, simile nella funzione e nella derivazione (< illi[c]), ad analoghe forme soggettive proclitiche molto diffuse nei dialetti settentrionali (cfr. Rohlfs, § 902); talora si presenta anche nella variante, tipicamente senese, li (cfr. vv. 29, 108, 146, 147; e si consideri la nota 45). Dato il contesto, escluderei l’ipotesi – in astratto possibile – che si tratti di una reduplicazione del soggetto (in effetti gli può avere anche il valore di pronome proclitico soggetto: cfr. infra, nota 9), molto diffusa nel fiorentino parlato antico (cfr. Folena, p. 369). Mequà invece è espressione tipica del senese, come attestato dal Turamino, cap. vii, § 97, in cui se ne indica l’ineleganza e però, ad un tempo, l’icasticità (cfr. infra, nota 69); è peraltro da ricordare che «gli avverbi locativi rafforzati con me (< [in] medio) sono molto comuni nelle parlate italiane mediane» (Serianni, p. 153). Il cantar maggio o calendimaggio è un rito propiziatore di antichissima origine con cui si celebrava l’arrivo della primavera, vivo ancora oggi in diverse regioni italiane (della Toscana sono celebri il Festival del Maggio itinerante della Montagna pistoiese, la Maggiolata di Castiglion d’Orcia in provincia di Siena, e naturalmente il Maggio fiorentino). Circa la sua assunzione letteraria in area toscana, ricorderemo con il Mazzi che «le Egloghe e Commedie di maggio, contemporanee alle rusticali fin dal principio del secolo xvi, che in buon numero scrissero i Senesi [Pre-Rozzi], sono manifestamente un’imitazione dell’antico uso campagnolo del cantar maggio. Il qual uso come dalla campagna venne in altre città della Toscana, così anche in Siena: questo modificando i Senesi, che lo fecero uso cittadinesco; che, cioè, dove prima, e in campagna, erano solamente canzoni festive per celebrare la stagione novella, essi v’aggiunsero e introdussero una qualche azione e forma drammatica; per lo più amori di Ninfe e Pastori, a’ quali durante lo svolgimento o il lieto fine facevan cantare una o più Canzoni di maggio: ancora in queste, per avventura, alla sola antecedente forma lirica accoppiando così la drammatica. [...] E da queste nelle quali, tolti i canti, l’azione drammatica riman niente, si va al Batecchio e al Pannecchio commedie di maggio del Fumoso, che hanno qualche breve accenno ai canti maggiaioli in mezzo a un lungo svolgimento» (Mazzi 1882, i, pp. 312-313). Sullo sviluppo del genere nei “pre-Rozzi” e per una bibliografia di riferimento sulle antiche maggiolate senesi, cfr. Braghieri, pp. 65 sgg.
Panechio
e perché gli è usanza intra Cristiani darsi piacer, e cantar per viagio aviamo una facezia intra le mani, che se vi piace ve ne farem sagio ché siam desiderosi, e tutti noi pigliam piacer di dar piacere a voi.
ii
Donne, sapete pur che gli è usanza darsi piacer, e far qualche pazia e questi rozzi zeppi di speranza scaciano l’ozio, e la maninconia e v’adimandan tutti perdonanza, se lor faran qualche stramanciaria. Aviamo una Comedia e mal composta e siàn venuti a farla a bella posta.
poiché fra gli uomini civili è usanza darsi piacere e cantare andando in giro, abbiamo fra le mani una facezia, di cui vi daremo prova, se vi garba, perché ne abbiamo desiderio, e tutti noi prendiam piacere di dar piacere a voi. / Donne, sapete pur che è consuetudine darsi piacere e far qualche pazzia, e questi Rozzi, pieni di speranza, scacciano l’ozio e la malinconia, e tutti quanti vi chiedono perdono se faranno qualche sconsideratezza; abbiamo una commedia, e sebbene mal composta, siam venuti a bella posta a recitarla. In questo caso, gli è la forma tipica del pronome proclitico soggetto davanti a vocale, qui con valore di pronome neutro (ancora oggi in uso presso le parlate popolari toscane in frasi del tipo gli è piovuto tanto: cfr. Rohlfs, § 446). Cristiano ha il valore di un iperonimo per indicare antonomasticamente ‘uomini’, ‘uomini civili’; ciò nondimeno, sull’espressione cadde la solerzia censoria dell’edizione E (cfr. Nota ai testi, p. 40). Evidente l’allusività oscena: la facezia-comedia, che i Rozzi hanno tra le mani, è il fallo che dà e prende piacere alle/dalle donne, le destinatarie della rappresentazione evocate nell’ottava successiva. Forma concorrente di malinconia, attestata ancora nella terza edizione della Crusca (1691). Voce senese per «scherzo grave e sconsiderato» (Politi, p. 663). La desinenza di 1a persona plurale in -no vanta antichissime attestazioni toscane, e nel senese ricorre dalla prima metà del Trecento (nel fiorentino fu invece percepita a lungo come propria di un livello linguistico più colloquiale e incolto, e si affermò nell’uso medio verso l’inizio del sec. xv: cfr. Manni, pp. 161-162); la sua presenza, generalizzata nelle ristampe della commedia, è invece nella princeps concorrenziale in misura minoritaria rispetto alla forma con mantenimento della m tematica (-mo). Va tuttavia precisato che, nello specifico del verbo
iii
Salvestro cartaio detto Il Fumoso
Or, per più a cardel non vi tenere, e’ sarà buon che la facci venire e forse bello; voresti sapere di quel che la contien? non ve ’l vò dire, ma no’ voremo da tutti un piacere che con silenzio la stesse a udire; a occhi spalancati vo’ starete, e se non séte sordi l’udirete.
Ora, per non tenervi più sulla corda, sarà buono e forse anche bello far iniziare la commedia; vorreste sapere quel che contiene? Non ve lo voglio dire, ma noi vorremmo da tutti voi un piacere, che la steste a udire in silenzio; voi starete a occhi spalancati, e se non siete sordi l’udirete. essere, la forma senese in -no è particolarmente duratura (cfr. Gigli, p. lxxviii); si veda comunque il ricorrere della forma in -mo immediatamente sopra, al v. i.7. Cagliaritano spiega la locuzione a cardello come ‘in flagrante, sul più bello’. Qui è da intendersi ‘per non farvi stare sulla corda’. Cardello è forma dialettale per ‘cardellino’, e continua l’allusività oscena delle precedenti ottave. Vale a dire, ‘la commedia’ (‘sarà bene che dia spazio agli attori e inizio alla rappresentazione’). «Si suol’errare ancora da molti in questo Tempo [futuro], i quali cambiano la seconda persona del plurale colla seconda del singolare» (Gigli, p. 161): cioè, appunto, vor[r]esti per vorreste. Condizionale: la forma in -m- anziché in -mm-, parallela al perfetto di tipo sentimo, è tipica del senese (cfr. Serianni, p. 93). Forma modellata analogicamente sulla 2a sing. del cong. imperf., che nel senese suona appunto stesse (invece che stessi), secondo un uso ancora registrato, e criticato, da Gigli (pp. 159-160). Per ‘siete’, tipico idiotismo senese (cfr. Gigli, p. lxxviii), nonché del sangimignanese e del volterrano. Si pronunciava e si pronuncia con la tonica chiusa (a differenza del corrispettivo fiorentino sète, che sostituisce il più antico siete a partire da metà Trecento: cfr. Manni, p. 139).