Finito infinito , di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini

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Indice

Prefazione alla nuova edizione Prefazione alla prima edizione

XI

Introduzione. Heidegger e la calza di Hegel

3

Prima alternativa. Lo sguardo straniato

7

V

Blaise Pascal, p. 8 Giacomo Leopardi, p. 12

Seconda alternativa. Il gran rammendo

18

Bertrand Russell, p. 20 Ludwig Wittgenstein, p. 27 Charles Sanders Peirce, p. 28 Giordano Bruno, p. 31

Tertium datur?

36

Niccolò Cusano, p. 37

Accorgersi dell’infinito Immanuel Kant, p. 43 René Descartes, p. 50

42


Il finito capace dell’infinito

58

Tommaso d’Aquino, p. 59 Friedrich Nietzsche, p. 60

«Domandare tutto è tutto domandare» Dialogo con Enrico Berti

65

Profili

89

Bibliografia generale

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Prefazione alla nuova edizione

La nuova edizione ampliata delle Letture di filosofia su Finito infinito – quasi cinque anni dopo la prima – vuol essere a suo modo un segno della storia sorprendente che ha accompagnato questo libretto, con una diffusione capillare e una capacità di incontro che hanno certamente oltrepassato le intenzioni e le speranze degli autori. Per questo motivo vale forse la pena annotare qui alcune considerazioni emerse da questa vicenda, prima che essa continui il suo itinerario. Anzitutto ci ha colpito il fatto che il metodo scelto per questo lavoro di filosofia abbia per così dire “corrisposto” in maniera evidente a una domanda di ragioni e ad una capacità di giudizio che abbiamo trovato presenti – o che si sono lasciate ridestare – vive e appassionate in un larghissimo pubblico, a partire da quello scolastico e universitario, ma ben oltre rispetto ad esso. La nostra formula è stata quella di invitare ad un percorso dialogico, inteso come un ascolto e una verifica critica di alcune posizioni di pensiero paradigmatiche nella storia della nostra cultura, e risultate poi determinanti per la V


mentalità contemporanea, dunque per l’affronto di sé e del mondo da parte degli uomini del nostro tempo. Quando abbiamo iniziato a proporre, in diverse città italiane e straniere, in Facoltà universitarie, in scuole o in Centri culturali, le nostre letture pubbliche sul finito e l’infinito – e poi negli anni successivi altre letture sul tema della bellezza, della felicità e del desiderio, dell’errore e della libertà, anch’esse pubblicate o in via di pubblicazione in altrettanti libretti di questa stessa collana delle Edizioni di Pagina –, siamo partiti da un’idea semplice ma rischiosa: che una proposta filosofica certamente impegnativa come questa potesse raggiungere efficacemente un uditorio più vasto rispetto a quello dei soli specialisti e dei soliti “intenditori”, non tanto facendo leva sul desiderio (spesso velleitario e il più delle volte costruito artificialmente dai media) di essere ammessi ad un livello più elevato o elitario della discussione culturale, quanto piuttosto condividendo le domande più elementari che sempre emergono da un impegno cosciente dell’io con la realtà. Il più delle volte, e soprattutto laddove esse divengano decisive, tali domande non nascono infatti da una più scaltrita analisi della propria condizione o da un progetto di cambiamento di sé e del mondo in base a ciò che si dovrebbe essere, ma proprio dall’incontro con le persone, le cose, gli avvenimenti cui ciascuno di noi si imbatte e da cui, come contraccolpo, è inevitabilmente provocato a porre – esplicitamente e spesso implicitamente, ma non per questo in maniera meno impellente – l’interrogativo sul significato: il tentativo cioè di legare i particolari di cui è fatta la nostra esistenza con un orizzonte di totalità. Almeno tendenzialmente è questo il “desiderio estremo” della ragione umana, come una volta l’ha chiamato Descartes nel Discorso sul metodo (AT, vol. VI, p. 10), VI


parlando del nostro rapporto con la verità: ed è proprio su questa ragione desiderante che è accaduto l’incontro e la corrispondenza con coloro che si sono accostati alla nostra proposta, non necessariamente e non tanto condividendo le stesse “soluzioni”, ma accompagnandosi in un condiviso domandare. A partire sempre dai dati a nostra disposizione, cioè quelle “risposte” da cui soltanto – paradossalmente – possono nascere i nostri interrogativi, i quali appunto chiedono sempre di qualcosa e a qualcuno. Da questo punto di vista, potremmo anche dire che se questo itinerario è in fondo nato dall’amicizia dei quattro autori, è altrettanto vero che proprio la scoperta di avere in comune con altri alcune inevitabili domande – come l’attesa e la tensione rispetto ad un comune fuoco problematico – ha inaspettatamente allargato questa amicizia, che è divenuta così a poco a poco non semplicemente un esito, ma un nuovo volto dello stesso metodo del lavoro. Come scriveva Alberto Magno, individuando a nostro avviso una delle più pregnanti definizioni di una comunità di ricerca: «in dulcedine societatis quaerere veritatem» (In Libr. VIII Politicorum, cap. 6; ed. Borgnet vol. 8, p. 804). L’idea di partenza, dicevamo, era semplice (benché tutt’altro che scontata), dal momento che in definitiva coincideva con l’apertura originaria della nostra ragione, facendo quindi appello ad una competenza di giudizio che è propria di ciascuno, e che i filosofi possono aiutare a vedere e a precisare, ma che possono anche impedire o addirittura inibire. Ma proprio per questo tale idea si è da subito rivelata anche rischiosa, perché non ci si poteva accontentare di risposte predefinite, né trincerarsi dietro esclusioni preconcette, ma bisognava riaprire le domande che stanno dietro, e anzi che permangono VII


– vive o soffocate che siano – dentro ogni risposta che il pensiero degli uomini ha tentato o ha riconosciuto. È stato comunque un rischio che è sempre valsa la pena correre, e che è stato ogni volta messo alla prova attraverso l’incontro con le migliaia di persone che sono venute ad ascoltarci e a “lavorare” con noi, o che hanno utilizzato il nostro percorso come la traccia iniziale di un lavoro più ampio e più partecipato, ad esempio nei curricula scolastici e universitari o anche solo in una riflessione sulla ragionevolezza e sull’argomentabilità delle questioni poste dall’esperienza. Il che per noi, molto più che una realizzazione conclusiva, ha avuto piuttosto il significato di una sfida più stringente al nostro consueto e più accademico impegno di ricerca, di interpretazione e di comunicazione della filosofia. Da questo carattere propriamente “sperimentale” delle nostre letture derivano le due nuove parti che sono state aggiunte nella nuova edizione di questo libretto. La prima consiste nella trascrizione rielaborata di un dialogo pubblico svoltosi a Rimini nell’agosto del 2006 tra gli autori ed Enrico Berti, uno dei massimi antichisti italiani e tra i più accreditati studiosi di Aristotele a livello mondiale, oltre che interprete sensibile delle vicende storiche della metafisica. Nell’incontro con Berti, come il lettore potrà verificare, sono state riaperte o approfondite alcune delle questioni per noi centrali sul tema del rapporto finito-infinito, e questo ha permesso non solo una più precisa verifica storica dei problemi e del linguaggio attraverso il quale essi si sono via via determinati, ma anche una più acuta chiarificazione della posta in gioco che la coscienza di quel rapporto oggi implica per noi. Cogliamo l’occasione per ringraziare in maniera particolarmente sentita Enrico Berti, non solo per aver accolto VIII


con grande simpatia la nostra proposta di discussione, ma per averci veramente accompagnati e sostenuti con la sua competenza così precisa e insieme chiara nelle motivazioni e nelle formulazioni – come càpita solo a chi abbia una familiarità con la “cosa” del pensiero, e a chi abbia colto la nascita delle idee filosofiche dalla concretezza della vita (e che nella coscienza dell’esperienza trova anche i criteri per ogni seria confutazione critica degli argomenti filosofici). Il secondo contributo è maturato anch’esso da un incontro e da un lavoro comune, questa volta con lo storico dell’arte Alessandro Rovetta, ed è costituito da un percorso, breve ma assai intenso, attraverso alcuni dei capolavori di Michelangelo Buonarroti (seguendo un prezioso suggerimento iniziale di Alessandro Fornero). Quello che ci ha interessato soprattutto è stato il rapporto che nell’opera del sommo artista si evidenzia tra il finito, il non-finito e l’infinito, come un percorso dello sguardo che coglie, e staremmo per dire “tocca” il movimento della forma nello spazio. E la forma, attraverso la percezione visiva, permette alla ragione umana di cogliere nella carne, nella materia, il senso ideale da cui il finito è abitato e che al tempo stesso lo trascende. A noi è parso che questo itinerario dello sguardo potesse inserirsi in maniera pertinente ed efficace nel percorso filosofico di Finito infinito, facendo vedere in maniera affascinante la realtà finita come segno dell’infinito. Anche ad Alessandro Rovetta va dunque un cordialissimo ringraziamento, per aver voluto condividere con la sua traccia di bellezza il nostro tentativo. Gli autori Aprile 2007

IX


Prefazione alla prima edizione

Questo libro costituisce una conclusione e insieme rappresenta un inizio. Il momento conclusivo si riferisce al lavoro svolto da quattro (più o meno) giovani studiosi di filosofia, i quali, trovatisi insieme un po’ per caso e un po’ per interessi comuni di ricerca e di lavoro, hanno visto a poco poco aprirsi la possibilità di dare una forma precisa e pubblica alle loro discussioni e ai loro confronti, fino ad inventare questa modalità, a dire il vero non molto usuale, di «letture di filosofia». Come si vedrà, non si tratta del tradizionale confronto a più voci su di un tema determinato, né della classica indagine collettiva, in cui a ciascuno tocchi la parte specialistica che gli compete, ma di un percorso unitario in cui si rileggono insieme alcuni momenti salienti del pensiero filosofico e leggendoli si tenta di guadagnare, verificare e sviluppare un’ipotesi critica e insieme ricostruttiva del problema che si sta affrontando. Si trattava dunque di incontrare alcuni autori della nostra tradizione, per andare più a fondo nei termini della questione messa a tema, così come questi termini si mostrano (o si XI


nascondono) nella nostra esperienza presente; e viceversa si trattava di mettere in chiaro i fattori emergenti da un’osservazione spassionata dell’esperienza, scoprendo in che modo essi permettano una più acuta comprensione e un più avvertito giudizio sulla storia del nostro pensiero, fino a quella forma di tacita sedimentazione che è la mentalità spesso irriflessa di un’epoca. L’esperienza impone e formula delle domande; ma l’affronto che queste domande hanno avuto, e le risposte che di volta in volta sono state date, suggeriscono e arrivano a determinare il modo di intendere, e spesso lo stesso modo di compiere, l’esperienza presente – e naturalmente ciò può rappresentare sia un aiuto sia un impedimento: tale è il campo della verifica. Da questo punto di vista le «letture di filosofia» possono essere anche intese come indagini sull’esperienza (quella di chi viene letto e quella di chi legge), e proprio l’unità o la corrispondenza di questi due fattori è ciò che ha dettato – almeno come ipotesi – il metodo della ricerca. Ma si è detto che questo libro è anche un inizio. Anzitutto perché, dando forma di scrittura a un tentativo di lavoro comune, esso richiede, per la sua stessa genesi e per il suo intento, che tale lavoro continui poi in chi ci leggerà (usiamo volutamente questo termine, «lavoro», dato che la lettura sempre richiede un’implicazione avvertita e critica di sé). Quello che segue è un percorso fatto di tentativi, di suggerimenti, di ipotesi poco più che prospettate, e di verifiche poco più che abbozzate, e quindi va inteso solo come l’avvio di una ricerca, che chiede – non certo come presunzione, ma a motivo dello stesso metodo che l’ha guidata – di essere ripresa e a sua volta verificata. Si vedrà infatti che la scelta degli autori, oltre ad essere necessariamente limitata rispetto ad un tema di enorme portata, è anche evidentemente «preferenziale», nel senso XII


che rispecchia gli interessi, i gusti, le prospettive di lavoro dei quattro lettori. Ma ci si renderà anche conto che gli stessi autori scelti vengono fatti entrare in scena solo con alcune «battute», e che quindi non se ne darà conto secondo tutta l’ampiezza del loro pensiero. Questi cenni però, se da un lato escludono chiaramente una completezza di approccio, dall’altro possono forse valere come indicatori di direzioni storico-critiche, e quindi servire come un invito ad una più ampia e personale lettura diretta. Ciò che più conta, ad ogni modo, è che essi emergano in un orizzonte delineato, al cui interno possano assolvere alla funzione che rivestono in questa sede, quella cioè di essere la verifica e ancor più il segno di un problema reale della nostra ragione (vale a dire, ancora una volta, della nostra esperienza cosciente). Questo canovaccio di testi e commenti su finito e infinito è stato pensato e «montato» per due letture pubbliche: la prima svoltasi a Rimini nell’agosto 2001, la seconda tenutasi a Milano nel novembre dello stesso anno. Forse questa origine parlata resta ancora nello stile sicuramente più stringato e quasi sincopato della scrittura, rispetto ad un saggio accademico. Di ciò potrà giovarsi probabilmente un pubblico più ampio rispetto a quello abituale degli specialisti di filosofia; ma a questi ultimi potrà forse interessare rimettere a tema – condividendone o contestandone le ragioni – i motivi fondamentali per cui certe questioni che potrebbero sembrare acquisite o chiuse tornano ad imporsi con una sorprendente stringenza. Com’è appunto il problema di «finito infinito»: e questa volta lo scriviamo, come nel titolo del libro, senza trattini e senza congiunzioni, giacché il punto focale di tutto il percorso sarà proprio quello di provare a considerarli non più come due termini da poter (o non poter) connettere, ma come un unico fenomeno, come una sorta di XIII


endiadi del pensiero, così come si fa conoscere e riconoscere nell’esperienza. Di queste parole fondamentali ci sembra si stia progressivamente impoverendo lo spessore semantico: se dal nostro piccolo tentativo tornerà a farsi udire, presente, un’eco della loro significanza essenziale per l’umana coscienza, queste letture avranno raggiunto il loro scopo – e cioè, appunto, il loro vero inizio. Tutti i testi di autori non italiani riportati in queste letture sono stati verificati, e in diversi casi modificati o ritradotti dall’originale, per assicurare un più diretto ed efficace ascolto delle loro ragioni. Le note a piè di pagina sono secche: riportano semplicemente l’indicazione delle edizioni di riferimento, dei titoli in lingua originale e delle traduzioni italiane. Per facilitare la lettura e per invitare a ulteriori approfondimenti abbiamo scritto però – nella seconda parte del volume – una serie di Profili degli autori dei brani letti, accennando alla loro biografia intellettuale, sottolineando i temi più rilevanti che essi hanno affrontato (soprattutto in riferimento al rapporto finito/infinito), segnalando altre loro opere non citate nelle letture e rinviando infine ad alcuni studi critici. Completa il volume una sintetica Bibliografia sul tema generale delle letture. Desideriamo ringraziare la dottoressa Giovanna D’Aniello per la cura con cui ha collaborato alla redazione finale del testo.

C.E.


Fig. 1. Battaglia dei Centauri; Firenze, Casa Buonarroti. L’opera prima di Michelangelo è già un non-finito. L’artista ha solo diciassette anni e sono le circostanze – la morte improvvisa di Lorenzo il Magnifico e la partenza dell’artista per Roma – a lasciare indeterminata la compiutezza del rilievo. Ispirato alla mitologia e alla scultura dell’età classica, tutto il groviglio di temperamenti e corporeità, caratteristico di ogni rapporto umano, relega all’indispensabile narrativo la mostruosa commistione con la natura

bestiale: tranne la figura sdraiata sul limite inferiore, sono tutti uomini, potentemente protesi all’affermazione della propria soggettività. Il rilievo segue questo moto drammatico e progressivamente si distacca dall’informe materia immedesimandosi nella zuffa, quasi una via obbligata per alzare lo sguardo e intravedere una prospettiva di significato. È quello che accade alla figura centrale, che finalmente sembra liberarsi, preannunciando nel gesto, in controparte, la venuta di Cristo del Giudizio Universale.


Fig. 2. Pietà Vaticana, particolare; Roma, Basilica di San Pietro. La Pietà Vaticana rappresenta la più sorprendente attestazione della capacità di Michelangelo di rendere compiute le sue figure. L’ideale di bellezza, che anima tutto il cammino formativo del giovane artista, sembra

raggiunto e conquistato con impensabile naturalezza. Ma è solo un passaggio. Raggiunta la consapevolezza di attingere una perfezione formale assoluta nella sua ‘politezza’, Michelangelo comprende subito che questa non soddisfa la sua inesauribile esigenza conoscitiva e affettiva, drammaticamente tesa oltre il finito.


Fig. 3. Studio preparatorio per la Sibilla Libica; New York, Metropolitan Museum (Corpus 156r). Nel disegno preparatorio per la Sibilla Libica, la più bella figura della volta della Cappella Sistina, Michelangelo studia insistentemente il punto di appoggio, il piede sinistro, e il punto di massima tensione verso l’alto, la mano sinistra.Tra i due poli si svolge la torsione e l’elevazione della figura, che evidenzia insieme la fatica e la grazia

dello slancio della ragione verso l’orizzonte ultimo della conoscenza: il libro viene chiuso perché non è più necessario interrogare segni misteriosi, sta per accadere qualcosa o qualcuno che chiarirà tutto. Un dinamismo, quello dell’esigenza di verità, che non può non essere ‘da terra’ e non può non attraversare tutta la persona umana nella sua carnalità e nella sua spiritualità: si osservi la potenza della muscolatura e la leggerezza del profilo del volto.



Fig. 4 (a fronte). Schiavo che si ridesta; Firenze, Galleria dell’Accademia. Pensati per la Tomba di Giulio II come elementi di una riflessione sul destino dell’uomo e dell’umanità, i Prigioni sono da sempre il manifesto del non-finito michelangiolesco, anche se la loro condizione dipende in gran parte da una fase di lavoro incompiuta. Il senso di

Fig. 5 (in alto). Il giorno, particolare; Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova. Anche nella potente figura del Giorno della Cappella Medicea sorprende il particolare del braccio girato e appoggiato alla base per consentire la difficile posizione del corpo. La mano emerge dalla materia colta nuovamente nel suo prendere forma, proprio nel punto che consente la

queste figure è comunque il drammatico svilupparsi della condizione umana dalla grezza e informe materialità alla coscienza di un principio spirituale che, risvegliato da un fattore esterno, non rinnega la materia ma la plasma. L’interesse di Michelangelo è tutto nel farsi della forma più che nel suo compiersi; l’opera coincide con l’esperienza della sua invenzione.

stabilità della figura. Qui non c’è motivo di pensare a un’incompiutezza esecutiva, tanto più che anche nel disegno preparatorio la mano risulta indeterminata nello stesso punto. Michelangelo ha ‘scelto’ questo particolare, dove scaturisce il muoversi della figura, il suo disporsi nel compito affidatogli nell’ordine cosmico e provvidenziale: un esserci che è movimento.


Fig. 6. Sagrestia Nuova, particolare dell’edicola sovrapporta; Firenze, San Lorenzo. Nella Cappella Medicea, Michelangelo intensifica l’articolazione dell’ordine e dei dettagli verso le estremità delle pareti connotando gli sviluppi angolari dell’invaso con un’inedita intensità formale. In tale contesto ogni elemento acquista una organicità espressiva che lo assimila ad una figura vivente. È il caso delle grandi nicchie sopra le porte che dilatano il loro profilo fino a colpire il telaio architettonico che a fatica le

contiene. All’interno cornici e volumi interagiscono muovendosi in un drammatico rapporto di profondità e superficie, di ombre e di luci, di pieni e di vuoti: tutti esposti con una nettezza quasi metafisica. A questo livello ‘riempire’ la nicchia con una figura è superfluo; basta un accenno, la ghirlanda, sconcertante nella sua forza mimetica.Tutto il dramma del prendere forma e identità in una realtà precostituita e insufficiente al cuore dell’uomo è interpretato dalla lotta architettonica come nello sforzo di liberazione di un Prigione.


Fig. 7. Studio di volto per la Leda; Firenze, Casa Buonarroti (Corpus 301r). La bellezza come traguardo di luminosità e di purezza trova in questo volto, che è uno studio dal vero (il modello è un garzone, riconoscibile dal copricapo usato per riparare i capelli dalla polvere del marmo), un

vertice assoluto. La fisicità e l’incarnato del volto emergono in palpabile lucentezza dai tocchi leggeri della sanguigna, conferendo un’espressività intensissima che non ci appare ripiegata su se stessa, ma intenta a cogliere la misteriosa iniziativa di un altro su di sé, come se un nuovo principio ridestasse l’io.


Fig. 8.Crocefissione; Londra, Windsor Castle (Corpus 418r). Fig. 9 (a fronte). Crocefissione; Londra, British Museum (Corpus 419r). In una stretta sequenza di disegni autonomi Michelangelo, attorno al 1550, riprende il tema della Crocefissione. È possibile guardare e accettare il fatto più drammatico e

incomprensibile della storia umana: Dio, cioè il significato ultimo e totale, incarnato, muore sulla croce affinché i nostri limiti non siano più l’ultima parola sulla vita. Nel primo disegno, come in altri della serie, i personaggi ai piedi della croce – ovvero lo stesso Michelangelo – si piegano sotto il peso della consapevolezza delle loro colpe. Ripiegati sui limiti,


ragione e cuore non reggono quella sconvolgente gratuità. Nel secondo disegno è intuita l’unica strada per comprendere: attaccarsi e implorare quella presenza che spacca ogni misura. La Madre abbraccia con struggente tenerezza e rispetto il corpo che ha generato. Anche Giovanni abbraccia la croce, fino

a toccare Maria, trovando così la forza di tornare a guardare il suo Maestro. Il corpo di Cristo, prima raffigurato nello spasimo estremo, si distende luminoso e vibrante nella pace che anticipa la consistenza gloriosa. Su tutto domina l’unità ritrovata in una misteriosa reciprocità tra il finito e l’infinito.


Fig. 10. Studi per la scala del ricetto della Biblioteca Laurenziana; Firenze, Casa Buonarroti (Corpus 525r). Nei progetti architettonici Michelangelo svela in modo suggestivo il suo metodo di lavoro, come in questo foglio dove studia la scala che nella Biblioteca Laurenziana andava a collegare l’atrio (il ricetto) al piano della sala di lettura. Il primo schizzo è contenuto nel disegno di una base di colonna, quasi a verificare con un procedimento inverso la corrispondenza tra il particolare e l’insieme. La prima idea potrebbe già

bastare, ma la ragione chiede di più e rischia: le due rampe si divaricano acquistando un valore organico e vitale ignoto alla prima ipotesi. Non basta ancora: entro quella dilatazione Michelangelo ‘vede’ la possibilità di far dilagare ad onde ritmiche una forma inusitata di rampa di scale, ben espressiva della dinamica della trasmissione del sapere, centro simbolico della biblioteca. In un percorso tutto formale, la ragione interloquisce col dato reale cercando un significato che corrisponda il più possibile al desiderio di una verità che abbia la sostanza della vita.


Fig. 11. Pietà Rondanini, visione di lato; Milano, Castello Sforzesco. La visione laterale dell’incompiuta Pietà Rondanini evidenzia come l’articolazione formale del gruppo tenda a esprimere da un lato l’intensità

affettiva della Madre, che cerca di sollevare il Figlio morto, quasi per rimetterlo in piedi e rigenerarlo, dall’altro la misteriosa attrattiva dall’alto, che rende tutt’uno quel rapporto e lo trascina a sé nella promessa della Resurrezione.


Fig. 12. Studio per la cupola di San Pietro; Lille, Musée des Beaux Arts, Collection Wicar (Corpus 595r). Per la cupola di San Pietro il percorso progettuale di Michelangelo fonda il momento creativo e sperimentale sulla coscienza storica della tradizione. Come mostra questo disegno, per definire la copertura del monumentale capocroce della basilica, Michelangelo rivisita criticamente la cupola fiorentina di Santa Maria del Fiore del Brunelleschi, il punto sorgivo dell’architettura del suo tempo e della sua vita, e la volta

gradonata del Pantheon romano, vertice del percorso monumentale del mondo classico. Entro le sponde di queste due auctoritates scorre l’esperienza creativa dell’artista, tesa tra libertà inventiva e ricerca razionale, nella piena consapevolezza che si va a costruire la dimora e il segno monumentale della cattolicità. L’apparente incertezza nella curvatura della calotta tra il pieno centro e il sesto rialzato descrive l’incessante lavoro della ragione tesa al significato ultimo, senza trascurare nessun suggerimento della realtà e della storia.


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