Le colonne della società, di Henrik Ibsen

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Indice

Introduzione di Franco Perrelli

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LE COLONNE DELLA SOCIETĂ€

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Introduzione

di Franco Perrelli

1. Le colonne della società [Samfundets støtter] marcano, nel 1877, il ritorno di Henrik Ibsen alla scrittura drammaturgica a quattro anni dal dittico storico-filosofico Cesare e Galileo, nonché l’avvio di una serie di opere teatrali in prosa di rigorosa ambientazione borghese, in precedenza preannunciate solo dalla Lega dei giovani del 1869. Le colonne della società affonderebbero peraltro le loro più remote radici in questo periodo, in cui Ibsen, dal dicembre 1869, rientrando dal suo viaggio in Egitto per l’inaugurazione del Canale di Suez, ipotizza, in diverse occasioni, con l’editore Frederik Hegel, un «nuovo dramma serio contemporaneo in tre atti» [HIS 12: 363; 376; ma anche 365]1, che stentava però a lievitare: «Il mio nuovo dramma non ha ancora superato il livello dell’abbozzo...», leggiamo l’11 aprile 1870 [HIS 12: 396]. Del resto, il 25 maggio, Ibsen ammetteva: «In mente ho molti piani e abbozzi letterari, ma non sono ancora arrivato a nulla di decisivo» [HIS 12: 404]. Nonostante l’assicurazione nel mese di ottobre: «Ora ne ho tanto elaborato l’idea che dovrei metter-

1 Le opere di Henrik Ibsen saranno citate nel testo con degli acronimi, seguiti dai numeri di volume e pagine, dalle seguenti edizioni: HIS, Skrifter, 17 voll., dir. V. Ystad et al., Aschehoug, Oslo 2005-10; ISV, Samlede Verker, 21 voll., a cura di F. Bull, H. Koht, D. Arup Seip, Gyldendal, Oslo 1928-58.

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ci mano nei prossimi giorni» [HIS 12: 425], il lavoro sembra accantonato verosimilmente sotto la forte impressione degli sviluppi della guerra franco-prussiana, che il drammaturgo segue a Dresda [cfr. HIS 12: 432-3] e che lo spinge a impegnarsi nella monumentale riflessione sul senso della storia e della civilizzazione occidentale costituita da Cesare e Galileo. Risalenti al 1870 restano comunque degli abbozzi per una «commedia» [ms. 8° 1469; cfr. anche ISV 8: 154-6], in cui, fin dalle prime righe, appare in nuce quantomeno uno dei grandi temi delle future Colonne della società ovvero la subordinazione femminile nel mondo patriarcale e capitalistico: «il tono di fondo» dell’opera – leggiamo in questi appunti – sarà infatti quello delle «donne quasi in soggezione nell’affannarsi degli uomini con i loro piccoli fini, che s’impongono con una sicumera che nello stesso tempo irrita e impressiona». In una costellazione di sei personaggi principali, già si può intravedere la rete di relazioni, ipocrisie e menzogne, nella dimensione dei sentimenti come in quella degli affari, che, nelle Colonne della società, verrà a costituirsi attorno allo spregiudicato affarista Karsten Bernick. In questa fase preliminare, troviamo un’affascinante figura di madre «dai capelli bianchi», che possiede «chiarezza, serenità e la forte esperienza della lotta per la vita». Costei ha due figli: il primo è un ufficiale di marina (una prefigurazione di Johan), che è stato anni in navigazione per il «terrore di legare la propria esistenza ai doveri» e che ora torna a casa, «ansioso solo di riposo»; il secondo è invece «l’armatore e grande uomo d’affari, che siede in molti consigli e ha molte cariche», un personaggio che richiama il futuro Bernick, cinico e in conflitto con una moglie, donna «dalle grandi pretese», «piena di poesia», ma «amareggiata e insoddisfatta» (una sorta di Hedda Gabler ante litteram?). Sua sorella sembra invece «cresciuta nella silenziosa ammirazione» dell’ufficiale di marina «assente» e, infine, c’è il loro genitore, un mercante «di limitate vedute, ma di spirito». Attorno a queste figure si agita una varia società di «giovinetvi


te, con il piacere per la vita e degli aneliti, ma tutto è oppresso o smorzato da rapporti meschini e stretti», nonché di giovanotti «insicuri» e «divisi fra vita e affari». Si capisce che ci saranno conflitti e rivalità attorno alla sorella fra un suo fidanzato e l’ufficiale di marina, ma anche tra i due fratelli, «l’uno contro l’altro», e che in gioco c’è la liberazione della donna dai pregiudizi. Torna, in varie versioni, una battuta della madre: «Oh, figlia cara, c’è solo una vittoria piena a questo mondo –, la vittoria su se stessi!», che sembra commentare forse l’abbandono del campo da parte dell’inquieto ufficiale. Il suo ritorno aveva comunque portato «vita ed eccitazione nella piccola città», soprattutto fra i giovani, ma aveva anche suscitato ostilità fra i «cittadini rispettabili», perché, con le sue cavalcate, le gite in barca a vela, le feste notturne, «con uomini e donne in costume da marinai», aveva dischiuso la prospettiva di «un’emancipazione da tutte le strette convenzioni; una vita nuova, libera e bella». «Attorno a ciò» – quindi, attorno a quest’ansia di liberazione dell’esistenza dalle forme, qualcosa che l’autore intende come «simbolico e con sotto un significato» –, in definitiva, «ruota il dramma». In un’ulteriore nota, datata 13 ottobre 1870, si sottolinea che c’è «un tratto di calma demoniaca nel carattere» del rispettabile armatore, disturbato dalle chiacchiere sollevate dal comportamento del fratello «avventuriero». In più, Ibsen allude a un misterioso «segreto fedelmente mantenuto» dalla sorella della, ora, «incredibilmente impaziente» moglie dell’armatore e, per concludere, introduce colei che, nelle Colonne della società, diventerà Dina Dorf: una «figlia adottiva di 16 anni, nutrita di fantasticherie e di speranze». L’indecisione a rompere definitivamente con sentite forme di espressione poetica, con le quali Ibsen aveva in precedenza sfiorato, con differente sensibilità, anche tematiche contemporanee – per esempio, nella Commedia dell’amore (1862) o in Peer Gynt (1867) –, può aver giocato in maniera consistente nella vana gestazione della nuova commedia, ma si coglie quasi una conquistata determinazione almeno nell’asserzione che il drammavii


turgo fa in una lettera del gennaio 1874, relativa a Cesare e Galileo, un’opera che rivendica orgogliosamente «impostata nella forma più realistica», perché «non viviamo più ai tempi di Shakespeare» e la «tragedia, nell’antico senso del termine», deve cedere il passo alla descrizione di uomini che non parlano «“il linguaggio degli dèi”» [HIS 13: 174]. 2. Le colonne della società, come strutturata opera realistica, cominceranno tuttavia a concretizzarsi in un anno per molti versi cruciale per Ibsen, quel 1875 che, non a caso, vede la riedizione del suo primo dramma, Catilina, consistentemente riscritto, tanto da costituire forse, per l’autore, il segnale di un vero e proprio riavvio della sua creatività. Fatto sta che, nel febbraio 1875, Ibsen annuncia nuovi piani del dramma che aveva «a lungo occupato i [suoi] pensieri e che finalmente era maturato». In agosto, assicura che gli abbozzi sono stati «completamente elaborati» e che l’opera sarà stesa in inverno, «a meno d’imprevisti» [HIS 13: 228; 269]. Quindi, nel mese di ottobre, a Monaco, Ibsen – come aveva già annunciato a Georg Brandes [HIS 13: 273] – sembra mettere più decisamente mano alle Colonne. Il 23, scrive infatti a Frederik Hegel: Il mio nuovo lavoro procede rapidamente; in due o tre giorni avrò completato il primo atto, che per me è sempre la parte più difficile di un dramma. Il titolo dell’opera sarà: Le colonne della società, dramma in cinque atti. Questo lavoro può essere considerato, in un certo modo, una controparte della Lega dei giovani e viene a riconsiderare alcune tra le più significative questioni dell’epoca. Per il momento, la prego di tenere la cosa tra di noi; un po’ più in là la faremo filtrare volentieri perché credo che qualche indiscrezione per il pubblico possa spingere le vendite [HIS 13: 276].

Sempre nel 1875, Ibsen pubblicò sulla rivista di Georg Brandes, «Det nittende Aarhundrede» (e quindi nella riedizione dello stesso anno delle sue poesie), uno dei suoi ultimi componimenti in versi, Lettera in rima [Et rimbrev], che parla, nei viii


termini un po’ obliqui propri della lirica del nostro autore, della solida, magnifica nave Europa, a bordo della quale però equipaggio e passeggeri sono attanagliati da «un’oscura angoscia» e da un inerte fatalismo, perché c’è un enigmatico «cadavere nella stiva» [HIS 11: 447 sgg.]. Nella monografia ibseniana del 1888 di Henrik Jæger (e qui precisiamo che si tratta di un saggio piuttosto particolare, in quanto scritto a strettissimo contatto con il drammaturgo norvegese), leggiamo: Con la percezione che “la nave europea”, sebbene in rotta verso nuovi lidi, aveva a bordo il corpo del passato – che a lungo sarebbe rimasto lì, essendo il viaggio lontano dalla meta –, Ibsen abbandonava il suo atteggiamento di attesa e cominciava a diagnosticare la malattia della società moderna, a cominciare dalle Colonne della società2.

Tutto Cesare e Galileo aveva ruotato problematicamente attorno all’attesa dell’avvento del «Terzo Regno», la grande visione utopica ibseniana, che avrebbe dovuto conciliare il sensualismo pagano di Pan con lo spiritualismo cristiano del Logos, ma, per il drammaturgo, a questa altezza temporale, non sembra possibile una facile conciliazione dialettica, se prima non si elabora la consapevolezza che la vita è ammorbata dal «cadavere» ovvero dagli «spettri» di un passato che non intende passare. Importante, in tal senso, anche un’altra poesia dello stesso periodo, In lontananza [Langt borte], nella quale Ibsen rivendica la propria solitudine critica e non esita a denunciare, al fianco dei giovani scandinavi, incapaci di realizzare un’idea di sintesi ideale e risorgimentale (com’era avvenuto in Italia e in Germania), la presenza di «apparizioni di tempi e uomini morti» e la materializzazione del «fantasma [spøgelse] della storia universale» [HIS 11: 444 sgg.].

2 H. Jæger, Henrik Ibsen 1828-1888. A Critical Biography, Blom, New York 1972, pp. 234-5.

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