Indice
Capitolo 1. Un incontro
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Capitolo 2. Il primo dialogo
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Capitolo 3. Il matrimonio
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Capitolo 4. Da Mecenate
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Capitolo 5. Un viaggio a Rimini
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Capitolo 6. Un viaggio a Gerusalemme
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Capitolo 7. Ottavia
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Capitolo 8. Giulia
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Capitolo 9. Due lettere
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Capitolo 10. La morte di Augusto
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Capitolo 11. Gli anni di Tiberio
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Capitolo 12. La morte di Livia
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Bisognerà dunque che riesca a trovare ben più tempo di quanto avessi previsto per questo che di giorno in giorno si dimostra molto più che un semplice lavoro di ricopiatura e passatempo. Così è. Grazie e a presto.
Tre
La donna sorrise appena, il 15 ottobre, quando un efebo nudo e con il corpo rilucente d’olio si avvicinò a Livia stesa sul triclinio e le disse: «Perché stendi qui le tue membra, vicina a quest’uomo, e non sei piuttosto vicina a tuo marito che se la ride dall’altra parte del stanza?». Non altrettanto fece Ottaviano che, sbuffando all’udire le parole che quell’efebo impertinente rivolgeva a Livia, si girò a prendere un grappolo d’uva bianca e dolce che presto abbandonò per un fico verdognolo che lasciava intravvedere una polpa rosa come un tramonto di primavera. Tiberio Claudio, in effetti, se ne stava dall’altra parte della stanza e sembrava a suo agio in quel consesso di odiati nemici di un tempo non troppo lontano. Ottaviano aveva invitato alla sua festa di fidanzamento con Livia il fior fiore dei cesariani, qualche senatore a lui amico, ma anche antoniani ‘di transizione’ – come erano definiti negli ambienti politici –: Tiberio Claudio non era perciò il solo di quella parte politica ad essere presente nelle stanze quel giorno. La festa mostrava nei fatti che il clima politico a Roma stava in qualche modo rapidamente cambiando e nuovi equilibri si profilavano all’orizzonte. Ottaviano e Livia erano la coppia della nuova Roma. Davanti ai due novelli fidanzati una coppia di nani si esibiva in capriole e sconcezze varie, intralciando il viavai di schiavi che rifornivano con sempre nuovi vassoi la festa e si 39
premuravano di tenere i calici dei presenti (tranne quelli dei due festeggiati) sempre colmi di vino. Marco Flavio e Tito Pomponio erano giunti assieme al banchetto e, mentre dal foro salivano al Palatino per il clivo degli avvocati, poi girando a destra verso gli orti e passando fra le case di senatori, discorrevano del nuovo che la festa alla quale si stavano recando lasciava presagire, nella Roma ancora squassata dalla guerra civile che non accennava a voler terminare. «Dicono che fu Cicerone a fermare la mano dei congiurati prima che i loro pugnali colpissero anche Antonio. Anche questo ennesimo conflitto romano lo dobbiamo al signor Tentenna», diceva Marco Flavio ricordando il console e grande avvocato con il nomignolo che a quei tempi qualcuno usava, frutto anche di una morte infamante e non del tutto dimenticata prima che la storia innalzasse Marco Tullio Cicerone su quel piedistallo sul quale ancora si trova, piedistallo alzato soprattutto per la grandezza delle infinite sue opere, raccolte e lasciate in eredità a tutti noi, suoi posteri. Man mano che i due si inoltravano nelle viuzze che, raggiunta la sommità del colle, iniziavano a scendere verso il dirupo sul Velabro, i loro discorsi si addentravano nelle asperità della controversa situazione politica. «Ma guarda tu dove si è venuto a ficcare questo ansioso erede del divo Giulio», aggiunse Marco Flavio ansimando un po’ per gli effetti della salita. «Il giovane guarda e vede lontano, caro mio», gli fece da contrappunto Tito Pomponio. «Senatori, consoli e avvocati hanno cercato dimora sul lato del Palatino che domina i fori, il mercato e la tribuna dei comizi. Gli avvocati hanno cercato di dominare la basilica, le aule dei tribunali. I pontefici sono saliti quassù per dominare i templi... Lui no, lui non ha bisogno di dominare, il 40
dominio l’ha già ricevuto in eredità dal padre adottivo. Lui è venuto quassù per cercare e trovare quelle radici di nobiltà e di storia che non ha. La sua casa, acquisita, sta fra la capanna di Romolo e il Lupercale, fra la Roma quadrata e il tempio della Grande Madre, la Magna Mater Cibele, la signora nera della Troade da dove se ne partì Enea per portare con il Palladio – salvato dalle fiamme – gloria imperitura a questo colle. Gli altri si prendono le urla e la polvere che salgono dal foro, la luce fioca del mattino e al meriggio hanno già l’ombra. Ottaviano si è cercato il sole del Mezzogiorno, il silenzio, l’aria, i tramonti rosati dell’inverno e quelli infuocati dell’estate, la vista dei colli verdi sulla riva destra del Tevere, la primizia delle notizie che arrivano dal mare, il dominio sull’Aventino, il dominio sul Circo e sul popolo. Ha le idee chiare, il ragazzo». E Marco di rimando: «L’erede... Il divo aveva reso tutti gli altri servi i quali, ministri e aiutanti per grazia e concessione sua, l’aiutarono a governare. Qua il nuovo principe è invece contornato dai nobili che non sono tali per concessione del principe ma per sangue antico». Nel frattempo i due amici stavano costeggiando la casa di Tiberio Claudio Nerone e, ancora prima di girare verso sinistra, lasciandola sulla destra, per scendere verso la casa di Ottaviano, Tito Pomponio aggiunse e finì così il suo sproloquio: «E chissà che non abbia scelto la casa quassù perché aveva già puntato gli occhi sulla giovane Livia, ancora prima di imbarcarsi su quella nave scuola di Scribonia e far sì che l’accompagnasse in mare aperto e gli insegnasse come affrontare marosi e bonacce». Una risatina perfida contrappuntò queste ultime maliziose parole. I due infilarono la porta di Ottaviano dove uno schiavo con un cerimonioso inchino li accompagnò giù per le scale e li fece 41
attraversare un peristilio sul quale si affacciava un tablinum ancora affollato e nel quale Ottaviano e Livia avevano fino a poco prima ricevuto i loro ospiti. La sala era un trionfo di colori nei dipinti alle pareti ma, soprattutto, aveva un incredibile gioco di prospettive che le donavano una profondità che sicuramente non aveva, visto che la quindicina di persone che ancora la affollavano quasi la riempivano. Furono poi accompagnati attraverso un altro peristilio fino al triclinium nel quale la festa era in pieno svolgimento. Marco e Tito erano abituati al lusso e alla sontuosità. Ma dipinti simili non ne avevano mai visti, nemmeno in Grecia. I pittori che lavoravano a Roma ormai avevano stabilito la superiorità della civiltà latina sul mondo intero, al pari dei suoi poeti. Le pareti erano dominate dal rosso – segno di potenza e ricchezza – e dall’ocra, ma erano le architetture dipinte a lasciare senza respiro, al pari della vivacità dei colori. Al centro di ogni parete dominava la scena il dipinto di un portico formato da quattro colonne sovrastate da leggiadri capitelli corinzi e da un timpano interrotto al centro per dare maggiore risalto al dominio della grande finestra – anch’essa dipinta – che si apriva al centro su paesaggi bucolici così come le altre due finestre per parete dipinte ai lati della fascia superiore. Le colonne proiettavano le loro ombre su un immaginario muro di fondo, rendendo il suo rosso più scuro, tendente all’amaranto: il rosso dominava così sugli azzurri e i tenui bianchi delle fasce. E faceva risaltare ancora di più il giallo ocra del basamento. Ad alleggerire il tutto in alto, fra le colonne e il timpano interrotto, una maschera. L’unica scena con figure umane aveva per protagonista una gran dama ammantata ed ornata con un ricco diadema e una lieve collana di corallo con cammeo. Un’unica signora, come una sola grande signora era protagonista di questa festa. 42
Erano passati appena pochi giorni da quando Ottaviano, nella stanza accanto a quella della festa, aveva alzato al cielo la figlia Giulia che il suo segretario gli aveva posto ai piedi. Il riconoscimento della figlia era stato l’ultimo atto che aveva riservato alla moglie Scribonia, prima di licenziarla per essere pronto ad accogliere in casa Livia. Con l’arrivo della donna della famiglia dei Livii e dei Claudii sotto il tetto del Cesare erede dei Giulii, la casa di Ottaviano iniziava a prendere forma così come lui l’aveva sognata da principio. Dopo esserci nato, nel luogo cosiddetto del Capo di Bove alle pendici del colle, era tornato sul Palatino acquistando, in cima alla scala degli Orafi, la casa di Gaio Licinio Calvo, poeta morto al momento giusto per lasciare la casa al fanciullo che aveva appena conquistato il cuore di Giulio Cesare. Licinio Calvo, poeta d’amore e di elegie appassionate alla moglie Quintilia, era noto soprattutto per l’amicizia con Catullo e l’odio per Cicerone, altro esimio abitante del Palatino. L’avvocato non era salito quassù per scelta personale ma, soprattutto, per insistito pungolo in cerca di un più adeguato decoro da parte della di lui moglie Terenzia. Le parole di Catullo per Licinio ce lo rendono ancora caro: «Se qualcosa di gradito ed accetto può giungere ai muti sepolcri, Calvo, dal nostro dolore, da quella nostalgia con cui rinnoviamo gli antichi amori e piangiamo le amicizie già partite, certo la morte immatura di Quintilia non è di tanto dolore, in quanto gode dell’amore tuo». Quella casa aveva dunque vissuto sentimenti intensi, passioni smodate. Ma non era sufficiente questa potente tradizione di affetti per chi non si accontentava di governare la reggia dei cuori ma puntava a ben altre sovranità. Dopo la battaglia di Filippi quella casa era divenuta troppo stretta per le aspirazioni di Ottaviano e per poter raccogliere 43
l’eredità lasciatagli dal padre adottivo, il divo Giulio. Ottaviano così decise di acquistare in blocco le abitazioni fra la casa di Romolo e la sommità della Roma quadrata, alle spalle del tempio della Vittoria e di quello della Grande Madre, che una fortuita coincidenza permetteva di acquisire globalmente. In ogni caso, in tempo di confische e guerra civile, non sarebbe stato difficile trovare per ciascuno dei proprietari un buon motivo per poterlo sloggiare. A cosa servisse quel dispendio di energie, che aveva in un colpo solo fatto piazza pulita di cinque fra le abitazioni più prestigiose di Roma unendole in un’unica dimora, apparve chiaro a chi era presente a quella festa alle idi di ottobre. La particolarità di quelle case era che tutte sul retro terminavano sul ciglio della massa tufacea del Palatino a strapiombo – il salto era di circa una trentina di piedi – sulla parte inferiore del clivo che scendeva fino alla conca del Circo Massimo. La prima casa era quella che era stata di Ortensio e la seconda fu di Lutazio Catulo. Le altre tre erano nell’ordine appartenute a Quinto Cecilio Metello Celere (la casa, per intenderci, tanto cara a Catullo per via di quella Claudia che il poeta cantò come Lesbia, e dove aveva visto la luce la sciagurata Cecilia Metella), poi quella che fu del senatore Publio Cornelio Lentulo Sura e infine quella del tribuno, poi pretore, Tito Annio Milone. Furono dimore che conobbe molto bene Marco Tullio Cicerone, non solo perché si trattava di vicini di casa, ma perché in qualche modo tutte o di colleghi o di clienti dell’avvocato. Fosse stato ancora in vita, probabilmente, Cicerone avrebbe frequentato la casa anche con il nuovo padrone. Ondivago come sempre, era stato alla morte di Cesare il più grande sostenitore dell’ascesa di Ottaviano, per poi tentennare, se non forse cambiare idea, non appena vide l’astro nascente del giovane Cesare 44
rifulgere sempre più alto nel cielo sopra Roma. Ma questa fu caratteristica perenne di Cicerone. Marco Flavio, uscito dalla stanza della festa e fermatosi nel peristilio con Tito Pomponio, ne parlava a bassa voce: «Grande facitore di potentati e sostenitore nell’ombra di nuove storie, si ritrasse sempre quando vide che i suoi preferiti diventavano troppo forti. Cicerone, pur senza mai teorizzarlo o – almeno che ne sappia io – scriverlo, fu il più grande propugnatore della necessità di equilibrio fra i vari poteri per salvare Roma, evitando che alcuno di essi fosse mai in grado di conquistare una supremazia perpetua o troppo marcata sugli altri». «Fosse ancora qui e partecipasse alla festa, sicuramente si invaghirebbe di Livia: la compostezza e il polso fermo di questa ragazza sono l’incarnazione di ciò che Cicerone aveva sempre sognato in una persona, uomo o donna che fosse. Ma se fosse stato ancora vivo sicuramente non avrebbe mai potuto esprimere un sentimento simile: Terenzia l’avrebbe ammazzato senza nemmeno battere ciglia. Una stilettata e via, senza attendere i minuti di azione di nessun potente veleno. Non avrebbe mai subìto l’onta di vederlo andare via per una donna di tale portata, mica come quella sciacquetta per la quale l’aveva lasciata prima di togliere il disturbo a Roma e alla vita», aggiunse ridendo Tito Pomponio. «Chissà se qualcuna di queste statue greche è, come la sfinge d’avorio, di quelle che Verre portò ad Ortensio, sicuro di sconfiggere in tribunale Cicerone? O Cicerone riuscì poi a requisirle tutte e a portarle in dono a Terenzia per spegnere le sue bramosie di grandezza? Dicono che Cicerone non accettasse mai compensi né doni di sorta per le sue prestazioni... chissà...», aggiunse Marco Flavio guardandosi intorno mentre il sole di ottobre, ormai obliquo nel cielo, illuminava quei marmi così ricchi di storia e di storie. 45
«Certo è che Cicerone fu il teorico del quieto conservatorismo politico in un’epoca come la nostra che di moderato non ha nulla, se non talvolta il contenuto e calcolato pesare con mano leggera sui vinti da parte dei vincitori dopo una sanguinosa battaglia civile. Degli oratori che usano spesso gridare soleva dire scherzosamente che ricorrono agli strepiti perché sono deboli, come gli zoppi montano sui cavalli perché non sanno camminare. Del resto lui era l’esatto contrario: non urlava, scriveva e spesso non riusciva e poteva nemmeno leggere tutto quello che era riuscito a scrivere. La scenetta di Ottaviano e Tiberio Claudio sdraiati a pasteggiare alla stessa festa mentre la moglie del secondo passa senza colpo ferire fra le braccia del primo sarebbe certamente piaciuta a Marco Tullio. Ci avrebbe deliziato sicuramente con una delle sue orazioni, avrebbe evoluto quella sua battuta su Antonio e Ottaviano: non si sa a chi dei due appigliarsi. Ora saprebbe a chi appigliarsi anche lui. Ah, non fosse fuggito a farsi ammazzare in quel di Formia, schifato da una Roma riarsa dalle lotte che lui stesso aveva alimentato! Eppure sapeva bene che nulla v’è che sia sempre in fiore e le generazioni si succedono alle generazioni», disse Tito Pomponio guardandosi poi subito attorno, sospettoso, nel timore che qualche orecchio indiscreto avesse potuto udirlo. «La cosa più divertente di tutte ce la sta per scodellare Livia. Hai notato come si rigonfia la stola sopra il ventre? Quella che fino a ieri era una voce ormai è una certezza tant’è che mi hanno detto che Ottaviano, prima di decidere di prendersi in casa la signora, ha chiesto ben due pareri legali sullo stato di Livia e se tale stato non fosse per caso capace di stendere un’ombra sull’onore della donna. Il parere che ha ricevuto all’unisono da entrambi gli avvocati pare sia stato che la gravidanza della donna è ineccepibile, assolutamente compatibile con la situazione 46
e figurarsi se per i due pareri sarebbe potuto essere altrimenti. Avrebbero potuto anche cambiare la storia di Roma pur di rendere la situazione compatibile con le loro esigenze del momento, questi signori e potenti», aggiunse Marco Flavio. «Mi sembri più pazzo di quell’efebo che ha voluto provocare Ottaviano per vedere se avrebbe fatto rotolare la sua testa nel bel mezzo della festa. Sei più pazzo di un ubriaco nella strada degli osti. Impara piuttosto dalla compostezza della nuova padrona di casa. Tutte le altre donne cercano di dare a Roma un dominus e fanno di tutto per generarlo. Livia cerca invece di dotare Roma di una domina, e fa di tutto per esserlo», gli rispose Tito Pomponio e si avviò a rientrare nel triclinio per mettere fine a quella discussione che stava diventando troppo pericolosa fatta alla presenza di orecchie tanto indiscrete e tanto potenti. Anche quella festa, come tutte le feste, finì. Invece non passò l’aria nuova che Livia aveva portato nella sua nuova casa. Vi trasferì i suoi sette liberti e schiavi e ricevette, fra i doni di fidanzamento da parte del suo novello uomo, di poterli raddoppiare da subito. Nella vecchia casa lasciò invece la liberta Iole e due schiave che accudivano Tiberio, ma non le pesò mai – e non pesò troppo neppure al figlio – la distanza esigua che il suo nuovo status frapponeva fra lui e lei: in fondo si trattava di circa sette pertiche e per pochi mesi; sembrava solo che la loro casa si fosse ingrandita, diventando persino più grande della villa nel verde sulla Flaminia. A dicembre Livia si trasferì nella casa materna di Formia perché nella villa sulla Flaminia Ottaviano aveva chiesto che si facessero alcuni lavori per renderla più bella e abitabile anche da lui e per permettere di accogliere un seguito che si allargava, ospiti che arrivavano... ma dopo neppure tre settimane arrivò un gran gelo dal Nord e sui monti era scesa copiosa la neve. Una 47
notte era comparsa anche in città, ma se ne accorsero davvero solo pochi nottambuli. Alla prima mezza giornata di tempo meno ventoso e freddo, Livia tornò sul Palatino, a bordo di un carro coperto, perché si avvicinava per lei il periodo del parto e meglio per tutti sarebbe stato che ciò avvenisse in un posto sicuro e a due passi da Tiberio Claudio, che doveva presto riconoscere il figlio. La notte successiva alle idi di gennaio, quando il cielo cominciava a schiarirsi lasciando vedere una bella luna piena, Livia Drusilla diede alla luce il suo secondo figlio maschio. Le doglie iniziarono che era già notte fonda e il travaglio fu piuttosto rapido. Il bimbo, nelle prime ore del giorno, fu portato nella casa del padre e deposto ai suoi piedi. Tiberio Claudio Nerone, incanutitosi rapidamente e – almeno così pareva anche a sentire quello che i servi di casa dicevano – ancor più celermente dopo che Livia lo aveva lasciato, raccolse il pargolo che guardò con un sorriso dolce e lontano, lo levò al cielo e rimase un attimo così, finché la forza delle braccia glielo permise, chiamandolo Nerone Claudio Druso, prima di affidarlo all’ancella e farlo riportare alla madre. Druso aveva da poco tentato la sua prima poppata che Ottaviano aveva già ufficializzato la data delle nozze con Livia per il giorno sedicesimo prima delle calende di febbraio. Del resto la madre sembrava avere superato il parto senza segni o affaticamenti particolari e una bella dormita l’avrebbe sicuramente subito rimessa in sesto, rendendola capace anche di appoggiare i piedi a terra. Così fu e dopo tre giorni il matrimonio fu festoso come il suo numero (erano le terze nozze dell’uomo e le seconde della donna) non avrebbe fatto pensare, ma il lignaggio sì: quello non poteva permettere in nessun caso che l’avvenimento passasse come una secchiata d’acqua sul selciato della dimora. 48
Di prima mattina Livia uscì di casa su una lettiga – aveva superato brillantemente il parto, ma non poteva certo ancora strapazzarsi come la giornata lasciava presupporre – scortata da una processione di parenti, musicanti, amici e ancelle. Il cielo era terso e i raggi del sole già accecavano prendendo bassi, d’infilata, le scale di Caco e puntando verso il Campidoglio. Il corteo scese rapido dal Palatino, lungo quella strada che assomiglia alla strada che è in alto nel cielo, che si vede quand’è sereno: si chiama via Lattea ed è nota proprio per il suo candore. Di qui passano gli dèi per andare alla dimora del grande Giove tonante, alla reggia. A destra e a sinistra, con gli stipiti aperti, sono gli atri affollati dalla nobiltà divina; la plebe abita sparsa da altre parti. Gli dèi più illustri e potenti hanno invece stabilito qui il loro domicilio. Se l’espressione non sembrasse irriverente, diremmo che è il Palatino del cielo infinito. La nostra processione, giunta alla via Sacra, costeggiò la parte meridionale della Velia e le sue mura fino al tempio di Tellus. Qui la sposa offrì il primo sacrificio alla Madre Terra alla quale era particolarmente devota, entrando nella cella dopo essere passata davanti alla statua di Cerere. Livia indossava la tunica bianca lunga fino a coprire i sandali rossi, il capo era coperto dal flammeum arancione delle nozze che nascondeva l’acconciatura che raccoglieva in sei ciocche i suoi lunghi capelli, il velo scendeva sulle spalle che cingeva come una stola. Petali di rosa – conservati dalle sue ancelle dagli ultimi fiori di novembre, quando si attendevano e preparavano già le nozze imminenti – le furono lanciati all’uscita dal tempio. Il corteo riprese la strada dalla quale era venuto, ma passato il bivio del clivo che sale al Palatino proseguì lungo la via Sacra verso il foro. La processione vociante giunse davanti alla basilica Emilia, passò davanti ai primi tre sacelli e si fermò di fianco al 49
disco in travertino che fungeva da base al recinto con le due statue di Cloacina, dea della purificazione. Livia scese nuovamente dalla lettiga, salì i gradini, appese un ramoscello di mirto alla mano della dea e sulla piccola ara immolò tre candide colombe, trafitta da un raggio di sole. Quel giorno i lavori di rifacimento della basilica erano sospesi, ma restavano i palchi di legno e, sotto il primo portico, le taverne degli argentieri erano chiuse poiché Ottaviano aveva offerto loro montagne di denaro e fatto sospendere le attività di cambiavalute in omaggio al giorno di festa. Dalla tribuna del sacello si potevano ammirare, dietro la grata della parete laterale del piccolo tempio, i due profili di Giano Quirino rivolti uno al foro e l’altro alla basilica. Mentre guardava il sangue delle colombe rigare il pianolo concavo dell’ara per sparire nel foro nero, Livia udiva il vociare giungere dal macello retrostante e nitide le parole del litigio sulla compravendita di una triglia da tre libbre. Il viavai operoso dei mercanti le fece pensare che l’uomo temperante affida a un immediato sonno le membra ristorate; poi s’alza, pieno d’energie, incontro ai compiti previsti. Malgrado tutto quel darsi da fare il pensiero del riposo era prevalente ed era legato al peso della stanchezza che già gravava il giorno, pensiero accompagnato a quello delle energie che ancora bisognava riservare alla cerimonia, ai cibi e ai festeggiamenti. Risalì sulla lettiga che tornò con la sua processione sonora in cima al Palatino. Lei socchiuse gli occhi: Discendi dal cielo e modula un lungo canto, Calliope regina, sul flauto, o se vuoi con la tua voce squillante o sulle corde della cetra di Fedro. La udite? O mi illude una dolce follia? A me sembra di udirla
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e di errare per sacri boschi percorsi da amene acque e brezze.
La porta di casa era stata addobbata con un festone di mirti e alloro e gli stipiti cinti da bende colorate. Ottaviano l’attendeva sulla porta, gettò due generose manciate di noci ai bambini, si scambiarono le frasi di rito, la sollevò e la portò oltre la soglia di casa in un tripudio di petali, di flauti, di evviva. Ottaviano ebbe, nell’atto di varcare la soglia, un pensiero che per la prima volta gli affiorò in mente: si rivide bambino, quando a quattro anni fuggiva dentro casa mentre il corteo muoveva verso la pira del padre morto. E, portando quel corpo di donna, del quale con la mano sinistra stringeva il seno e con la destra affondava le dita sotto l’anca sinistra, si rivide quando, a dodici anni, pronunciò davanti a un’assemblea compita l’orazione funebre della nonna Giulia. Ma oggi era un giorno di festa. Gli uomini brindarono con il miglior Falerno. Si parlò a lungo in quel giorno di festa della guerra che era ormai certa di Ottaviano contro Sesto Pompeo per via del modo in cui Meno aveva gestito le provviste del frumento in Sardegna consegnandole, insieme con la sua flotta, ad Ottaviano. Agrippa raccontava, nei crocchi che gli si formavano attorno come di mosche sul miele a ondate successive, di come stava predisponendo la flotta nei mari e delle navi ancora nei cantieri e che non sarebbero state pronte prima della fine dell’inverno. Livia avrebbe voluto seguire quei discorsi, soprattutto voleva capire meglio che animo avesse questo Agrippa, che sapeva così vicino al cuore e alla mente del suo nuovo marito. Ma la stanchezza sopraggiunse e planò su di lei come un’aquila che improvvisamente oscura il cielo con le sue larghe ali. Salutò e prese congedo. Ma non volle coricarsi nel suo letto nuziale prima che le venissero portati Tiberio e Druso. Tiberio rimase a 51
lungo avvinghiato a lei con la testa posata sul seno mentre Livia accarezzava i riccioli neri e guardava Druso dormire beato, disturbato solo da qualche improvviso fremito. La madre sognava già per i suoi due virgulti seggi dorati nella casa di Ottaviano. *** Come avrai notato, caro Marcello, lo scritto è fitto di citazioni. Mai sono virgolettate e facili da individuare e ne ho trovate frequenti dall’Eneide di Virgilio. Sono infilate qua e là nel testo senza alcuna indicazione. Non so quindi quante ve ne siano. Io ne ho anche trovata una dalle Vite parallele di Plutarco (quindi sicuramente il nostro testo è posteriore a questo, ammesso che sia un testo antico). È facile poi individuare versi di Orazio che nella covata di Mecenate era forse il poeta più vicino a Livia, almeno quanto Virgilio lo era a Ottaviano. Non mi pare che ci sia molto da aggiungere a questo o che non ti abbia già detto. Vorrei segnalarti solo che a questo punto della nostra storia per la prima volta ho trovato un cambio di pagina. Cosa che succede soltanto altre due volte in tutto il dattiloscritto. Penso che anche la sua struttura possa essere utile alla tua indagine, se avrai voglia di aiutarmi a scoprire i segreti di questo testo. Non so dirti se il cambio di pagina sia dovuto a un fatto voluto o casuale, se mio padre l’abbia inserito di volontà sua oppure no. Ma l’impressione mia è che il racconto, oltre che nei dodici capitoli indicati dalla numerazione, sia a sua volta suddiviso in quattro blocchi principali, quasi ad indicarci che sono quattro le parti della nostra storia.
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