Storia di un’anima carnale. Charles Péguy a cento anni dalla morte

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Indice

Introduzione 7 Il Cammino di Chartres

Per la città armoniosa A Orléans Socialismo e Giovanna d’Arco Il matrimonio e l’affaire Dreyfus Per gli esclusi e i miseri Scena I «Sono un rivoluzionario»

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Oltre il mondo moderno L’obiettivo dei «Cahiers» Il lavoro del «gerente» Battaglia culturale Ateo ma non laicista La crisi del 1905 Scena II «Sono un contadino»

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Dal Getsemani «Siamo dei vinti» «Sono cattolico» Véronique Jeannette Mistica e politica Scena III «Sono cattolico»

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«La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza» Il popolo cristiano Le preferenze di Dio Lavoratore e padre In cammino Il Dio che morde Una cattedrale in versi Cristiano della specie comune In guerra Scena IV «Sono un pellegrino»

La Speranza non è una dea, non è un sentimento, è virtù di uomini liberi di Pierluigi Lia

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Intervista ad Alain Finkielkraut a cura di Flora Crescini

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Hanno detto di Péguy

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Repertorio biografico

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Bibliografia 109



Ritratto di Charles PĂŠguy disegnato da LĂŠon Deshairs nel luglio 1894.


«Noi abbiamo costantemente seguito, noi abbiamo costantemente tenuto la stessa via dritta, ed è questa stessa via dritta che ci ha condotti dove siamo adesso. Non è affatto un’evoluzione, è un approfondimento. Noi teniamo da vent’anni la stessa via dritta, la stessa via d’approfondimento. Essa ci ha condotto lontano. Grazie al cielo. È attraverso un approfondimento costante del nostro cuore nella stessa via, non è affatto per un’evoluzione, non è affatto per un ritorno indietro che noi abbiamo trovato la via della cristianità. Noi non l’abbiamo trovata ritornando. Noi l’abbiamo trovata alla fine. È per questo, bisogna che lo si sappia bene sia da parte degli uni che da parte degli altri, è per questo che noi non rinnegheremo mai un atomo del nostro passato. Abbiamo potuto essere peccatori. Ma non abbiamo mai smesso di essere sulla strada buona» [Un nuovo teologo, il signor Fernand Laudet, cahier del 24 settembre 1911]

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Introduzione Il punto focale Perché una mostra su Charles Péguy al Meeting di Rimini? A giustificarla non può bastare il fatto che lo scrittore francese sia morto nel 1914 e che quindi ci troviamo davanti a un anniversario tondo, di quelli che solitamente danno spunto a convegni, celebrazioni e pubblicazioni varie. Il nostro autore si sentirebbe stretto in gabbia se si decidesse di parlare di lui come di un monumento del passato, seppur venerato, e si ribellerebbe a veder trattate le sue parole come residui morti sui quali gli specialisti fanno le loro dotte analisi: sono parole nate vive – cioè frutto di una sofferta partecipazione esistenziale – e vive devono rimanere. Insufficiente è anche la constatazione che Péguy è un autore amato dal pubblico del Meeting ma forse non sufficientemente conosciuto e che, quindi, vale la pena offrire informazioni più precise e accurate sulla sua vita e sulla sua vasta opera. Certamente tutto questo è interessante, ma resta la domanda: in mezzo all’enorme mare degli scritti di Péguy, qual è il punto che riteniamo essenziale? Péguy ha lasciato pagine memorabili di sofferta partecipazione al dramma degli esclusi, di penetrante critica dell’uso ridotto della ragione tipico del «mondo moderno», di veemente ribellione di fronte alla «mistica» rimpicciolita in «politica», di partecipata immedesimazione con passi del Vangelo, di passione per la propria patria: che cosa privilegiare? Péguy ci ha inoltre parlato in modo indimenticabile della «pic-

cola speranza», della nobiltà del «lavoro ben fatto», della grazia che buca le corazze più dure ed è impotente di fronte alle «anime abituate», del padre che è «il più grande avventuriero della storia» e del bambino che è «l’innocenza» che non si recupererà mai più, di Dio quasi imbarazzato di fronte alla libertà umana; tutto questo dovrebbe entrare in mostra, ma attorno a quale punto focale? Attorno al punto infuocato riassunto dalla parola «avvenimento». Péguy, infatti, ci ha aiutato a ricordare che la dinamica dell’avvenimento è essenziale per ogni autentica conoscenza. Alain Finkielkraut lo aveva scritto anni fa e lo ha approfondito nell’intervista che ci ha concesso in occasione della mostra e che pubblichiamo integralmente in questo catalogo (cfr. infra, pp. 91 sgg.). Péguy ci ha anche ridetto, con splendore di parole taglienti, che il cristianesimo stesso è, supremamente, avvenimento e che ridurlo a qualsiasi altra cosa – discorso o morale, organizzazione o devozione, ricordo o utopia – significa immiserirlo fino al punto di soffocarlo. Ovviamente la mostra non intende tanto «parlare» dell’avvenimento, farne cioè un idolo teorico morto; vorrebbe lei stessa – tutte le scelte operative sono state fatte in questa logica – essere un avvenimento. Nella consapevolezza, insegnataci da Péguy, che l’avvenimento avviene quando avviene, è imprevisto ed imprevedibile, noi non possiamo produrlo; neanche il piccolo avvenimento del sincero incontro tra le parole di un grande scrittore ed il visitatore di una mostra.

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Quattro sezioni Ogni evento è sempre storicamente determinato, avviene in uno spazio preciso e in un tempo identificabile. L’«avvenimento Péguy» deve, quindi, innanzitutto essere presentato nel suo concreto svolgersi. In tal senso la mostra è suddivisa in quattro «sezioni» cronologicamente successive. La prima si intitola «Per la città armoniosa» e copre il periodo che va dalla nascita a Orléans (1873) alla fondazione dei «Cahiers de la Quinzaine» (1900). La vicenda che vi si svolge è quella di un bambino nato in famiglia povera, resa monca dalla morte prematura del padre, educato contemporaneamente nella scuola laica e nella parrocchia, a cui si apre la prospettiva di studi superiori. Un giovane che abbandona la pratica religiosa, sentita come superflua, e che abbraccia il socialismo inteso come soluzione più accettabile per realizzare una giusta convivenza dalla quale nessuno sia escluso, la «città armoniosa», appunto. La seconda sezione (1900-1907) riguarda la fase iniziale dei «Cahiers», quella delle battaglie contro il socialismo anchilosato, per il mantenimento del dreyfusismo autentico, per andare «oltre il mondo moderno» che avvilisce ogni umanità nell’asfittico meccanismo dei sistemi intellettuali. Anni di lavoro estenuante, di amicizie annodate o sciolte, di polemiche e di esaltanti scoperte, di scrittura sovrabbondante. Ma anche di progressivo isolamento, quasi che il mondo politico e culturale abbia voluto espellere Péguy così come ci si sbarazza di un corpo estraneo. «Dal Getsemani» è il titolo della terza sezione (1907-1910). Il giardino in cui Gesù ha vissuto la sua agonia (sulla quale Péguy ha scritto pagine immortali) può essere preso a simbolo degli anni in cui lo scrittore ha vissuto su di sé la profonda crisi del mondo che

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lo circondava: crisi di ideali alti, di pensiero autentico, di solidarietà vissuta, di giustizia praticata, di politica utile. Crisi esterna accompagnata da gravi difficoltà personali: malattia, povertà, solitudine, sbandamento affettivo. Ma come nel giardino degli ulivi Cristo ha posto – «Fiat voluntas tua» – il seme della resurrezione, così, da quel periodo di acuta sofferenza, Péguy ha tratto lo slancio del rinnovamento: attraverso la riscoperta della fede «di quando eravamo bambini». Non una «conversione» intesa come rinnegamento del passato, ma una rifioritura come di un albero che trova più profonde sorgenti di linfa; così che, scrive Pierluigi Lia nel saggio che pubblichiamo, «l’opera di Péguy coniuga indissolubilmente la passione per l’uomo e la passione per il Vangelo cristiano» (cfr. infra, p. 81). È dall’avvenimento di questa rinascita che sgorgano le grandi opere dell’ultimo periodo della vita di Péguy (1911-1914), quelle più famose e citate: i Misteri, il Laudet, Il denaro, gli Arazzi, Eva e le due Note. La mostra le raccoglie sotto l’emblema del «Cammino di Chartres», perché il pellegrinaggio del giugno 1912 alla celebre cattedrale ha segnato – per ammissione dello stesso Péguy: «Sono un uomo nuovo» – una svolta decisiva nella sua esistenza, una profonda pacificazione – «Ecco, mi abbandono» –, che durerà fino ai giorni della guerra e della morte sul campo di battaglia. Una parola non abituata Su tutto questo itinerario Péguy ha continuamente riflettuto e scritto, e per noi oggi l’unica possibilità per partecipare alla sua esperienza è quella di leggere le sue parole. Perciò in mostra è lasciato il più ampio spazio ai testi dello scrittore. In proposito sono necessarie due annotazioni. La prima è che le opere di Péguy sono


Charles PĂŠguy in una foto del 1897.

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un fiume in piena; proprio per essere fedele alla logica dell’avvenimento, il nostro autore non seguiva schemi predefiniti: si lasciava andare alla sollecitazione che un fatto, un incontro, una lettura gli suscitavano e li inseriva nel flusso della sua scrittura, sempre aggiungendo; Péguy non cancellava mai nulla e tantomeno rifiniva i suoi testi per pura preoccupazione stilistica. Le sue stesse famose ripetizioni non sono altro che un’ultima obbedienza alla constatazione che la parola è insufficiente a descrivere la ricchezza del fatto e che quindi occorre ritornarci sempre, chiarirlo da nuovi punti di vista, illuminarlo con successivi tocchi di approssimazione. Si comprende subito quanto un autore che scrive così sia difficile da citare. I testi esposti in mostra sono come tasselli di un puzzle ricomposto da un contesto più lungo e variegato. Un limite, senz’altro; ma anche il suggerimento al visitatore di immergersi direttamente lui nel fiume della poesia e della prosa dello scrittore orleanese. La seconda annotazione è più sostanziale e coinvolge direttamente l’atteggiamento del visitatore. La lettura di un testo, infatti, può essere un avvenimento, ma può anche non esserlo. E non lo sarà di certo se il lettore non ha l’apertura disponibile che non si ferma al già saputo. L’ha scritto Péguy in Clio: «Leggere è entrare in; nella contemplazione di una vita, con amicizia, con fedeltà, anche con un certo compiacimento indispensabile, non soltanto con simpatia, ma con amore». Solo a queste condizioni lo scritto rimane «vivo» e solo da qualcosa di vivo può scaturire l’avvenimento. «È un destino meraviglioso, quasi formidabile, che tante grandi opere possano ricevere ancora un compimento, una conclusione, un coronamento da parte nostra, dalla nostra lettura. La più grande opera del genio è ri-

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messa nelle nostre deboli mani». Anche in una mostra. Per facilitare l’immedesimazione con la vicenda umana di Péguy e dunque con la sua opera, sono presenti in mostra alcune brevi drammaturgie. Si tratta – in parallelo con le quattro sezioni dei pannelli – di quattro snodi cruciali della vita di Péguy: il suo rapporto col socialismo, il lavoro dei «Cahiers», il ritorno alla fede, il pellegrinaggio a Chartres. La situazione scenica è del tutto inventata (salvo quella parte del dialogo con l’amico Joseph Lotte in cui Péguy gli comunica il suo ritrovato cattolicesimo), ma i personaggi sono quasi tutti storici (tranne lo studente della seconda scena e il vecchio sacerdote della quarta) e, soprattutto, le parole pronunciate da Péguy (e qualche volta quelle di altri) sono autentiche, cioè tratte da suoi scritti. Il titolo L’«anima carnale» di cui in mostra si cerca di fare la «storia» è, ovviamente, quella di Péguy stesso. Ma lo è proprio in quanto lo scrittore ci ha fatto capire che ogni avvenimento è un dato concreto, carnale, portatore però di un’anima, di una tensione al significato che eccede l’apparenza. Inoltre «anima carnale» per eccellenza è stato Cristo: nell’avvenimento della sua incarnazione, della sua vita privata e pubblica, della sua morte e risurrezione Egli ha reso presente il sublime «incastro» dell’eterno nel temporale e, reciprocamente, del temporale nell’eterno. «Il destino non ha lasciato solo l’uomo» proprio perché ha superato l’infinita distanza tra questi due poli e da allora nulla più è periferico al suo cuore: «Un Dio, amico mio, Dio si è scomodato, Dio si è sacrificato per me. Ecco qua del cristianesimo».


Intervista ad Alain Finkielkraut a cura di Flora Crescini

Alain Finkielkraut (classe 1949) è uno dei pensatori di punta del panorama culturale francese ed europeo; di recente è stato ammesso tra gli «immortali» dell’Académie française. Péguy è uno dei suoi autori di riferimento; in una celebre intervista di oltre vent’anni fa aveva promesso di «tirare fuori dal ghetto» lo scrittore orleanese, ed in effetti la sua sottolineatura della centralità della categoria di avvenimento in Péguy ha aperto importanti spazi di riflessione. Lo incontriamo nella sua casa parigina (è il 4 giugno 2014) per proseguire il dialogo iniziato allora.

In Italia è stato tradotto finalmente il libro in cui definisce Péguy un «in-contemporaneo»1: cosa intende dire? Dopo più di dieci anni dalla pubblicazione, ritiene ancora che Péguy sia un incontemporaneo? In che senso? La parola non l’ho inventata io; mi sarebbe piaciuto, ma è Péguy stesso che scrive che avrebbe voluto fondare il partito degli incontemporanei. “Contemporaneo”-“scontento”: è da questa fusione che è nato il termine «incontemporaneo»2. Péguy non è contento del suo tempo. È dunque un antimoderno, ma non è per que-

sto un reazionario. Non ha, come Maurras e tutti gli intellettuali dell’Action française3, nostalgia dell’ancien régime. Non vuole un ritorno alla monarchia, è repubblicano e, nella temperie dell’affaire Dreyfus4, difende la Repubblica contro i suoi nemici. Incontemporaneo per lui vuol dire «inclassificabile», nel senso che non solo non ama il suo tempo, ma non fa nemmeno parte di alcuno dei partiti, dei movimenti del suo tempo, né sul versante progressista, né su quello di chi, a tutti i costi, vuole ritornare al passato. Non è a casa sua da nessuna parte, è «intempestivo». I socialisti lo rifiutano e deridono quello che Péguy dice al loro riguardo: che cioè essi fustigano come borghese il proprio tempo ma lo acclamano come «moderno». C’è quindi una contraddizione che Péguy denuncia con grande pertinenza. È inclassificabile e, a mio avviso, meglio di tutti gli altri sa scorgere ciò che il suo tempo ha di moderno, sa pensare che cos’è la modernità stessa. Ecco perché ci parla ancora. La sua reputazione si è però aggravata nel XX secolo. Il 17 giugno 1940, il giorno prima dell’appello di De Gaulle5, Edmond Movimento guidato da L. Daudet, C. Maurras, M. Pujo e J. Bainville, dal carattere nazionalista, antiparlamentare e antidemocratico, che raccoglieva le istanze dell’estrema destra monarchica. 4 Cfr. supra, pp. 19-21. 5 Il 18 giugno 1940 il generale Charles De Gaulle lanciò 3

A. Fienkielkraut, L’incontemporaneo. Péguy, lettore del mondo moderno, trad. di S. Levi, Lindau, Torino 2012. 2 In francese mécontemporaine, fusione di mécontent e contemporaine; «scontemporaneo» sarebbe traduzione italiana più efficace del nuovo termine. 1

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Michelet6, molto giovane all’epoca, distribuì dei volantini nelle cassette postali della sua città, Brive, e questi volantini incitavano alla resistenza con delle frasi tratte dal libro Il denaro di Charles Péguy. Ma sappiamo anche che il regime di Pétain, che si insedia nello stesso frangente, vuole fare di Péguy uno dei suoi punti di riferimento; questo è il motivo per cui nel 1945 le ceneri di Péguy non verranno trasferite al Pantheon, a dispetto di un movimento di opinione che si era pronunciato a favore. Purtroppo l’antifascismo ossessivo che si è prodotto in Francia dopo la caduta del fascismo e la morte di Hitler contribuirà alla cattiva reputazione di Péguy. Questa ostilità raggiunge il suo apice, negli anni Ottanta, con L’ideologie française di Bernard-Henri Levy7. Ho voluto col mio libro, in qualche modo, rispondere a questa distorsione, e spero di aver contribuito a che Péguy venga meglio letto e meglio compreso; ciò nondimeno resta un incontemporaneo, perché propone una critica estremamente acuta della modernità. In un’intervista del giugno del 1992 8 affermava che «Péguy pone al centro della sua riflessione l’avvenimento. Un avvenimento è qualcosa che irrompe dall’esterno. Qualcosa di imprevisto. Ed è questo il metodo supremo della conoscenza. [...] Bisogna ridare all’avvenimento la sua dimensione

da Londra un appello ai francesi per incitarli a combattere a fianco degli alleati contro i nazisti. 6 Uomo politico cattolico vicino a De Gaulle, più volte ministro, fine studioso di Péguy. 7 Nel suo libro, pubblicato nel 1980, Lévy accusò Péguy di parlare la lingua «ignobile» della razza e di essere insieme a Barrès il fondatore del «nazionalismo alla fancese». 8 Tirerò Péguy fuori dal ghetto, a cura di Stefano Paci, in «30Giorni, n. 6, giugno 1992.

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ontologica di nuovo inizio. È una irruzione del nuovo, che rompe gli ingranaggi, che mette in moto un processo». E durante una conferenza a Milano nell’ottobre dello stesso anno9 ribadiva che Péguy «è un pensatore dell’evento. Gli eventi sono sempre eccedenti a ciò che noi possiamo conoscere». «Avvenimento» o «evento» costituisce dunque una categoria centrale nel pensiero di Péguy. La cultura contemporanea sta facendo i conti con essa o no? Non vorrei che gli avvenimenti diventassero una specie di «valore». Per Péguy l’evento non è un valore: si oppone a questo. Ha avuto, come sappiamo, un duro conflitto con Jaurès10 che l’ha portato a lanciare contro di lui accuse molto violente. Ciò nondimeno, dietro la collera c’era dell’altro: vale a dire l’ostilità di Péguy a ogni filosofia della storia, a tutte le idee per le quali, con la filosofia, si potevano dominare, controllare gli eventi. L’avvenimento è l’irriducibilità dell’essere al concetto, è il fatto che la storia non si lascia condurre a colpi di bastone. Péguy, lo dice molto spesso, era costretto a seguire gli eventi e questo lo distingue dagli intellettuali. L’intellettuale è colui che crede che l’evento lo possa seguire, colui che crede di avere l’ultima parola sulla storia. Péguy non rientra in questa categoria e tutta la sua opera è nata da questa differenza. Lavora, come egli stesso scrive, nelle «miserie del presente»: scrive sulla sua rivista, i «Cahiers de la Quinzaine», lui – il poeta, il filosofo, lo scrittore – diventa per ragioni ontologiche giornalista e si espone agli eventi, proprio perché sa di non avere il potere di inglobarli Al Centro Culturale di Milano, il 22 ottobre 1992. Cfr. http://www.centroculturaledimilano.it/charles-peguy-lincontemporaneo-moderatore-luca-doninelli/ 10 Cfr. supra, p. 16. Jaurès guidava il fronte pacifista prima dello scoppio della guerra. 9


in una totalità di cui farsi padrone. È questo l’avvenimento per Péguy, e mi sembra che la sua lezione non sia ancora stata compresa; una delle caratteristiche dell’epoca in cui viviamo è proprio l’incapacità del presente ad essere in qualche modo presente a se stesso. Il presente continua a raccontarsi delle favole. Siamo a tal punto imbevuti del dovere della memoria che continuiamo a proiettare nel presente le categorie di ieri. Voglio dirlo in maniera brutale: nel momento in cui si installa in Francia – e forse, presto, nel resto d’Europa – un jihaidismo diffuso, noi persistiamo, soprattutto la dòxa mediatico-intellettuale persiste, nell’antifascismo. C’è una sorta di sfasatura tra la realtà e la visione che ne abbiamo. È questo, in ultima analisi, il political correct, e gli avvertimenti di Péguy non sono affatto stati ascoltati.

La responsabilità che abbiamo, dunque, è rispetto al presente. Sì, è esattamente questo, abbiamo questa responsabilità: innanzi tutto di pensare, di provare a pensare a questo presente. Hegel diceva che la nottola di Minerva si alza al crepuscolo, ma noi viviamo un periodo terribile, da molti punti di vista, e non possiamo permetterci il lusso di attendere non si sa quale crepuscolo per provare a fare una diagnosi.

Péguy in Véronique parla dei «chierici chierici» e dei «chierici laici»: due tipologie di persone che non riconoscono l’avvenimento. A suo avviso esistono ancora? Penso che oggi il riconoscimento dell’avvenimento sia la cosa più difficile ma mi sembra il compito intellettuale per eccellenza. Péguy nel suo ultimo testo, La nota congiunta su Cartesio e la filosofia cartesiana, scrive questa frase magnifica: «Essere in anticipo, essere in ritardo, che inesattezza! È la puntualità la sola esattezza». Vorrei io stesso essere capace di espormi al presente, in ciò che ha di singolare, e pubblicare un libro che chiamerei La sola esattezza. Sarebbe credo la vera fedeltà a Péguy. Può essere che io stesso possa incappare in controsensi, essere accecato, ma mi sembra, semplicemente, che sia il compito essenziale della nostra epoca. Péguy ci dà il coraggio di resistere all’ideologia, provando a seguire il suo esempio. Ma resterà sempre tra lui e me, in ogni caso, la differenza del genio.

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Ne L’incontemporaneo c’è un capitolo molto interessante sull’analisi che Péguy fa della materia. Per l’uomo pre-moderno essa è un dato che, nella sua «durezza» – come il marmo per uno scultore –, impone il rispetto per chi la usa. Per l’uomo moderno invece la materia è sempre malleabile e si può sempre ricostruire – come il metallo – secondo i nostri desideri del momento. È un giudizio pertinente, oggi, perché viviamo in un contesto in cui cose che credevamo immutabili come l’amore, la morte, la malattia, il corpo, il sesso sono diventate «malleabili». Il processo indicato da Péguy troverà degli argini? Nelle sue analisi, nelle sue riflessioni, nelle sue descrizioni del lavoro Péguy anticipa Heidegger. Era Valéry che diceva: «Mi servirebbe un tedesco per prolungare il mio pensiero». Péguy non cessava di contrapporre la Francia alla Germania e c’era perfino un fondamento metafisico, secondo lui, in questa opposizione tra i due popoli. Ma l’ironia della storia è che è proprio grazie a un certo numero di pensatori tedeschi che possiamo leggere Péguy e ricollocarlo nella sua giusta dimensione filosofica. In effetti Heidegger ci re-insegna, dopo Péguy, che «il mondo moderno è quello dell’intercambiabilità totale». Péguy lo dice espressamente: il nostro mondo non è «prostituzionale» per lussuria, la prostituzione è l’intercambiabilità di tutte le cose, vale a dire tutto diventa malleabile, tutto diventa pertanto disponibile. Il pericolo di tutto ciò è che questa «messa a disposizione» ha qualcosa di molto gratificante, procura molto piacere, è voluttuosa, è eccitante e allo stesso tempo soddisfa in noi il desiderio di uguaglianza; non ci sono più differenze e dunque non c’è più gerarchia. Entriamo nel mondo dell’indifferenziato e l’uguaglianza suprema è il regno del simile. Posso citare,

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come eco di Péguy, questa frase di un filosofo francese contemporaneo, Jean-Claude Milner: «Il nocciolo duro dell’impossibilità a trasformare si sgretola ogni giorno». Ecco la realtà, e ne abbiamo prove quotidiane, perché ora è la differenza dei sessi che è messa in causa, abolita. L’ultimo esempio è il concorso in eurovisione con un cantante transessuale, con la barba e avvolto in un vestito dorato; abbiamo visto i giornali detti progressisti infiammarsi per questa vittoria della tolleranza o, tutti hanno detto, della differenza. Non è stata una vittoria della differenza ma «sulla» differenza; perché la differenza è quello che io non posso essere, ciò che è irriducibile, ciò di cui non posso impadronirmi. Con il venir meno di tutte le resistenze, invece, io posso impadronirmi di ciò che voglio, posso diventare ciò che voglio. Questo mondo Péguy l’aveva preconizzato: la parte «data» tende a sparire a vantaggio dell’artificio umano. E noi continuiamo a ragionare, in virtù di ciò, in termini di progresso. Oggi ci sforziamo di porre dei limiti, ma è possibile e probabile che non ce la faremo, perché questa «messa a disposizione» generalizzata ha la pretesa di riempire l’attesa e colmare aspirazioni molto forti; solo se ci porterà a catastrofi sensibili riusciremo a porre dei limiti efficaci. C’è il desiderio dietro tutto ciò. Perché secondo lei una persona vuol diventare quello che non è? Per quello che diceva Hannah Arendt: di fronte al dato, a quello che siamo e che non abbiamo scelto, ci sono due possibilità principali, la gratitudine o il risentimento. La modernità, dice Hannah Arendt, è la vittoria del risentimento contro il dato. Prima della Arendt, Péguy è, di contro, un filosofo della gratitudine.


Questa rivendicazione di diritti è una sorta di dittatura del desiderio? Sì, forse; riempie certe aspirazioni, in ogni caso. Preferiamo essere in una posizione di credito, piuttosto che di debito. Se siamo grati c’è una perdita, un debito, e non siamo più in una situazione di credito. Lei è membro dell’Académie française. Péguy è stato rifiutato dall’Académie a causa dell’ostilità del partito degli intellettuali... No, Péguy ha perso la possibilità di entrare all’Académie française, tra le altre cose, perché ha pubblicato La nostra giovinezza. Negli anni 1910-11 Péguy sembrava

rientrato dalle sue illusioni giovanili e tutti si attendevano un ripudio del suo dreyfusismo. Certo Dreyfus aveva ottenuto la grazia, ma ci siamo dimenticati che a quel tempo l’antidreyfusismo restava dominante tra gli scrittori; e avendo Péguy pubblicato Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, Edouard Drumont, i seguaci di Maurras, lo stesso Barrès si sfregavano le mani dicendo: «Eccolo, viene verso di noi, ritorna all’ovile; è patriota, è cattolico, non resta nulla del suo socialismo di gioventù». Nel luglio 1910 pubblica quel testo [La nostra giovinezza], in cui dice: «Siamo stati eroi, non rinnego nulla, mi assumo completamente la responsabilità di tutto quello che ho scritto». È stato molto coraggioso, perché permaneva

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così facendo nella sua solitudine; infatti da una parte c’erano i nazionalisti, delusi da questa fedeltà al dreyfusismo, dall’altra i dreyfusisti ufficiali che non riconoscevano in Péguy uno dei loro. Per la maggior parte dei dreyfusisti l’affaire si riassumeva in un confronto fra illuminismo, di cui questi si ritenevano i rappresentanti, e anti-illuminismo, di coloro che mettevano la patria, l’esercito, al di sopra dei diritti dell’individuo. Péguy non ragiona in questi termini. Péguy dice: no, noi abbiamo degli antenati, e siamo responsabili di e davanti a loro; ecco perché non possiamo lasciar commettere un’ingiustizia. E che cosa fa? Cita Corneille: «Renderò il mio sangue puro come l’ho ricevuto» – è una battuta di Rodrigo nel Cid –; ne va dell’onore della razza, scrive Péguy, ed è questo che ha difeso al momento dell’affaire Dreyfus. Ancora una volta, ritroviamo l’«incontemporaneo»; in quel frangente, in quanto autore de La nostra giovinezza, egli è in una posizione precaria con tutti, con i maurrassiani da un lato e con i progressisti dall’altro. Ed è incompreso ancora oggi, in un momento in cui la parola razza spaventa tutti e, in nome di quell’antifascismo di cui ho detto poco fa, si arriva a confondere, come se fossero un’unica cosa, l’impeto corneilliano, a cui Péguy si rifaceva, e la pulsione hitleriana. Péguy ha vissuto in maniera drammatica il problema dell’esclusione: l’affaire Dreyfus, la povertà. La nostra società invece parla in continuazione degli esclusi. Perché secondo lei? Diciamo che preferiamo una società che si occupa dei suoi esclusi ad una società che non se ne sente coinvolta o che pratica deliberatamente una politica d’esclusione. Semplicemente, l’inferno può essere

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lastricato dalle migliori intenzioni e oggi, in nome della lotta contro l’esclusione o contro la discriminazione, sono proprio le gerarchie fondanti della stessa Repubblica ad essere oscurate e che rischiano anche di sparire. «Non bisogna escludere nessuno, non si può lasciare nessuno ai margini della strada»; di conseguenza, oggi, nella scuola primaria e secondaria si fanno i corsi in funzione dei cattivi allievi, annullando la bocciatura, e tutto ciò lo si fa a danno degli altri perché contribuisce al crollo del livello della classe. Ma questa politica si rivolta contro chi la mette in atto, perché produce un disastro educativo da cui possono sfuggire solo i figli dei privilegiati che vanno in altre scuole, o hanno dei sostegni, dei precettori, esterni alla scuola. È una disuguaglianza assai grave, e siccome ci troviamo in un circolo vizioso, chi vuole lottare contro l’esclusione si scandalizza di un tale risultato e accentua ancora le riforme che sono state così negative: chiedono che si facciano ancora più corsi in funzione di chi rischia di essere escluso e quindi il livello non cessa di abbassarsi. Péguy diceva tutt’altro. Faceva una differenza capitale tra la miseria e la povertà. Diceva che nella miseria la vita è ridotta ai suoi processi di base, si vive per vivere, non si ha accesso al mondo. La povertà è tutt’altra cosa. La solidarietà fraterna si dà da fare per non lasciare nessuno nella miseria, il resto non è importante. Ci possono essere delle differenze, soprattutto dislivelli di fortuna, ma ciò non è grave, e penso che chi vive diseguaglianze di talento sia pronto a riconoscerle. Oggi la lotta contro l’esclusione non ammette alcuna diseguaglianza, almeno in apparenza, perché alla fin dei conti la favorisce. Ma è uno stato d’animo molto diverso da quello che animava Péguy.


Tempo fa a Milano ha dichiarato: «Trovo che il pensiero dell’evento in Péguy sia legato al suo cristianesimo, ma qui è il punto dove io mi fermo». Péguy mi sembra accordare un posto centrale all’incarnazione: è un pensiero dell’incarnazione in cui si incrociano il temporale e lo spirituale, ed è questo che trovo molto forte in lui. In più Péguy è anche un cristiano che posso leggere fino in fondo, perché non è un cristiano che parla della resurrezione, che parla dell’aldilà: mi parla dell’incarnazione in un modo tale che la possa ben comprendere. E lungi dal consolarmi della morte e dal levarle il suo peso, è un pensatore che mi dice – di nuovo citando Corneille, non più dal Cid ma dal Poliuto –: «Dio stesso ha avuto paura della morte». In effetti c’è nel cristianesimo questa cosa assolutamente incredibile: «Padre mio, Padre mio, perché mi hai abbandonato?»; è una frase che non si trova in nessun’altra religione. E poi la grande pittura cristiana ci mostra delle raffigurazioni di deposizione dalla croce e di sepolture... C’è anche un quadro di Holbein il Giovane dove Cristo è dentro il suo sepolcro che è quasi impossibile da vedere. Dunque, il paradosso del cristianesimo, sia pittorico che filosofico, è che si tratta tanto di un pensiero della morte in quello che ha di più materiale, quanto di un pensiero della resurrezione. E sono ovviamente molto sensibile, sono affascinato da questo grande paradosso nel cristianesimo, «scandalo per i Giudei, follia per i pagani»11. «Il più grande avventuriero è il padre di famiglia» dice Péguy. Nella crisi attuale siamo destinati ad avere una civiltà senza avventurieri? 11

1 Cor 1, 23.

Questa è una frase molto bella ma che non si può esaltare più di tanto nel contesto della mentalità dominante. Amo questa frase, perché polverizza il cliché del padre di famiglia incarnazione del borghese tranquillo. È invece un’altra cosa, perché il padre di famiglia è impegnato nel mondo, non è più padrone di se stesso, non può nemmeno disinteressarsi delle cose della città, né del suo futuro. Non ha diritto né al dilettantismo, né al dandismo. Invece per molto tempo abbiamo visto l’avventuriero come una specie di dandy, un egoista che poteva fare ciò che voleva. Péguy rovescia completamente la prospettiva; amo quest’idea, perché fa riflettere. È vero che quando si è padre di famiglia non ci si può prendere il lusso del catastrofismo, della malinconia, dell’estetismo. Se il mondo va male sappiamo che vi lasciamo qualcuno che ci appartiene. Non si può essere meri spettatori, bisogna agire; ecco in che senso intendo la definizione di Péguy del padre come «avventuriero del mondo moderno». Oggi, però, la figura del padre tende a scomparire perché, per intenderci, la democrazia si è introdotta addirittura nelle famiglie; meglio, da un certo punto di vista – perché il pater familias poteva essere una figura estremamente oppressiva –, ma da qui a rimanere estasiati dall’interscambiabilità dei ruoli o a considerare prive di effetti negativi le famiglie ricomposte... Credo che si debba fare attenzione a non oltrepassare certi limiti. L’autorità, diceva Hannah Arendt, è la forma che assume la responsabilità verso il mondo. In effetti, meno padri o maestri vi sono a esercitare l’autorità, meno ci si sente responsabili di questo mondo; e così si rischia di moltiplicare il numero degli pseudo-avventurieri, nel senso che Péguy implicitamente denunciava nella sua formula.

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«La fede che preferisco è la speranza». Che ne pensa di questa frase? Mi piacerebbe che questa fede mi venisse donata. Cerco di non disperarmi, la sola speranza di cui sono capace è lo sforzo costante di non disperarmi. Qual è il testo di Péguy che ama di più? Quello che rileggo sempre è La nostra giovinezza; ma Péguy, avendo sempre lavorato di quindici giorni in quindici giorni, non ha mai scritto – a parte i testi poetici – delle vere opere concluse. Péguy è una sorta di continuum. Però, in effetti, isolo La nostra giovinezza – ma anche, e subito dopo, La nota congiunta, che amo sempre più. Soprattutto direi che l’opera di Péguy tocca in me una parte dell’anima – un fatto forse dovuto all’estrema musicalità dei suoi pensieri – che nessun altro scrittore ha mai sollecitato. Provo un’emozione quando lo leggo che non posso paragonare a nient’altro. Péguy ha lottato contro la menzogna della sua epoca. Può raccontarci l’empasse che lei stesso ha vissuto ultimamente? Anche lei ha combattuto; perché è stato attaccato in maniera così dura? Bisogna chiederlo ai miei critici. Mi si accusa di scrivere dei libri polemici, ma non è vero. Scrivo libri che suscitano la polemica, ed è un’altra cosa. L’identité malheureuse12 non è un libro polemico: è un libro meditato, originariamente corto, il tono non è da pamphlet. Non accuso nessuno, non derido nessuno, rifletto su una situazione che trovo molto grave e cerco di guardare in faccia la realtà. Ma viviamo in un’epoca molto ideologica, e da quando dico, per esempio, che l’Europa 12

Uscito nell’ottobre 2013 (Editions Stock, Paris).

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non ha solo dei propri demoni da scongiurare, ma anche al suo interno dei nemici che la combattono, sono indelicato con l’antirazzismo e con la lezione che si è voluto trarre dalla seconda guerra mondiale e vengo di fatto accusato di razzismo. Ecco tutto. Molti fanno un passo indietro di fronte al rischio di una simile accusa; io ho deciso di non farlo e di continuare a dire quello che mi appare essere la verità del presente. Ed è vero che ne pago il prezzo; non è nemmeno un prezzo esorbitante, sono degli attacchi. Tutto il problema per me è di continuare nella direzione che mi son data, senza cadere io stesso nella polemica, dove non vorrei entrare. Alla fine del suo ultimo libro dice che è necessario tornare ad una morale borghese, una morale che abbia chiaro il «rispetto» dell’altro. Ma esiste ancora una morale borghese? Non dico «morale borghese», non uso questo termine; oggi basta usare questo termine per essere del tutto incompresi. Penso piuttosto che il rispetto abbia cambiato senso; esso è inteso, ad esempio nella banlieue, come il professore che manca di rispetto all’allievo quando gli mette un voto negativo. Bisogna ancora rispettare certe forme? Sì certo, rispettare le forme; è quello che d’altronde diceva Tocqueville: c’è nella democrazia una certa ribellione contro le forme, e questa rivolta l’inquietava molto. Oggi bisognerebbe poter riabilitare le forme. Non sono il solo a riflettere su questa questione. Quando delle realtà vengono assalite, diventano preziose. La civiltà che ci è data l’abbiamo trovata anche un po’ convenzionale, e adesso che ci abbandona ci sembra preziosa e cerchiamo almeno di riabilitarla, senza molta speranza.


Ultima domanda sull’attualità. Péguy può darci una speranza per l’Europa dopo le ultime elezioni? Per me la catastrofe non è che in Europa ci siano forze nazionaliste. Bisogna distinguere; ci sono dei popoli, c’è una sorta di frustrazione dei popoli, la democrazia è autoreferenziale. L’Europa è una burocrazia, non è una democrazia, e se questa burocrazia si rivela inefficace e non usa il suo potere contro la deindustrializzazione, contro la delocalizzazione, contro la mancanza di sicurezza i cittadini europei sono di cattivo umore, è assolutamente normale. La vera catastrofe è l’attentato antisemita al museo ebraico di Bruxelles, capitale eu-

ropea, dove ci sono stati quattro morti. L’itinerario dell’attentatore ci colpisce per la sua banalità. È cresciuto nell’odio per la Francia e per l’Europa. E quando dico nell’odio per la Francia parlo dei sentimenti personali di questo individuo. Ha vissuto nelle prigioni, dove sembra sia diventato radicale, e dopo è stato in Siria, dove ha imparato come passare all’azione. È una traiettoria banale; ci sono molte persone in Francia, e forse all’estero e nello stesso Belgio, che vorrebbero fare come lui, che sognano, che sono addirittura affascinati per quello che ha fatto. Dunque si ripete da 20, 30, 50, 60 anni che l’Europa è la pace, che l’Europa si è costruita sulla base, sulle fondamenta del «mai più», ma oggi in Europa gli ebrei non

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sono più tranquilli. Non vuol dire che c’è un programma di sterminio, no, non è questo; voglio semplicemente dire che se oggi andate in un’istituzione ebraica – in un liceo, in un museo o in una sinagoga – c’è la polizia all’entrata, c’è molta sicurezza, siete perquisiti, perché si è a rischio. È una situazione veramente intollerabile. Questa è l’Europa della pace: un’Europa che ha un jihaidismo diffuso. Ecco il problema, ecco lo scisma. E quando dico di riflettere sul proprio tempo

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è questo che voglio dire: di non sbagliare epoca, di non sbagliare secolo. Rimaniamo là a dirci «Ah, ma l’Europa così, l’Europa cosà...». L’Europa è incapace di mantenere la sua promessa fondamentale: la pace e «mai più». Ciò non vuol dire che ci sarà una guerra, significa che il terrorismo o la minaccia terrorista non si fermerà e che gli ebrei ne saranno le prime vittime. Lo stesso antifascismo, obbligatorio, non se ne accorge, perché il nemico non ha il volto che vorrebbe.


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