Strindberg l’italiano. 130 anni di storia scenica, di Franco Perrelli

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Indice

Nota editoriale

vii

I.

1884-1892: preludi

3

II.

1893: fiasco solenne

22

III.

1893-1895: l’Italia aperta al barbaro

38

IV.

1895-1896: una profonda impressione

54

V.

1897-1900: Reconnaissance

70

VI.

1901-1925: Strindberg avanguardista

90

VII.

1925-1975: una parabola ascendente

116

VIII. 1976-1999: una complicata grandezza

139

IX.

2000-2014: Strindberg nel XXI secolo

167

Appendice Italia-Svezia: un confronto su Strindberg

187

Bibliografia

193

Indice dei nomi

203


Appendice

Italia-Svezia: un confronto su Strindberg

Il 16-17 ottobre 1992 – per conto di Teatroinaria/Stanzeluminose, con la collaborazione dell’Ambasciata di Svezia – organizzammo a Roma un convegno su Strindberg e il teatro, che, piuttosto che investigare in astratto il tema della drammaturgia strindberghiana, si proponeva in primo luogo di mettere a confronto le tradizioni svedese e italiana d’interpretazione. Fu in questa circostanza che avemmo modo d’invitare e cono­ scere personalmente l’attore Erland Josephson, che si ritrovò al centro di un interessante dibattito, nel quale i suoi punti di vista vennero a incrociarsi con quelli di personaggi di spicco della nostra scena e importanti interpreti strindberghiani. Ricostruiremo per grandi linee quel notevole scambio di opinioni, fra diverse civiltà teatrali, che a distanza di tempo risulta forse utile per co­gliere anche talune peculiarità di fondo del teatro italiano. 16 ottobre, Teatro delle Arti, Roma Erland Josephson catturò subito l’attenzione di tutti, fraseggiando con voce morbida, una battuta dal Temporale di Strindberg: «Il tempo è breve quando è trascorso, ma lun­ ghissimo mentre si svolge». La citazione, in svedese, spiegò l’attore, aveva una straordinaria musicalità1, che in fondo 1 «Ja tiden går fort, när den väl har gått, men medan den pågår är den dryg...»

(SV 58: 17).

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nessuna traduzione poteva rendere e che sa­rebbe stata subito riconosciuta da qualsiasi attore scandinavo come «caratteristica» di Strindberg. Insomma, se si voleva parlare della tradizione degli interpreti nordici, si doveva partire appunto dalla lingua, della quale Strindberg era stato un grande innova­tore, avendo avvicinato la lingua scritta a quella parlata: «Linguaggio parlato e lin­guaggio scritto non sono e non dovrebbero mai essere la stessa cosa, ma la scrittura di Strindberg risulta assolutamente naturale, quando viene recitata». Josephson sottolineò infatti che, «nei testi di Strindberg, la punteggiatura non è logica o grammaticale, ma l’attore può facilmente scegliere in essa i punti sui quali fermarsi, respirare, enfatizzare una parola». La battuta pare scritta insomma ai fini della recitazione. Prima che, anche nell’Europa del Nord, si affermasse l’influsso di Stanislavskij e Mejerchol’d, gli attori svedesi avevano già «un maestro» di teatro, che s’imponeva attraverso uno straordinario trattamento scenico della loro lingua e «attraverso una varietà di approcci drammaturgici che coinvolgeva tutti i generi e gli stili, in stretto rapporto con le più avanzate correnti continentali». L’influsso profondo che Strindberg aveva avuto, in termini di svecchiamento della recitazione svedese, era insomma proprio nella letteralità dei suoi testi, che spingevano gli attori a compiere «dei salti tutt’altro che logici» nell’interpretazione: «In Ibsen, l’attore si trova di fronte a un’equazione da risolvere, mentre in Strindberg nulla è or­ganizzato, tutto va orchestrato sulla musicalità e sul ritmo. Le stesse trame non sem­brano strutturate e, in esse, i personaggi presentano cambiamenti bruschi e i loro comportamenti non sempre hanno una spiegazione razionale». Attorno al dramma strindberghiano, nel teatro svedese, si era presto creata una forte tradizione che gli attori ancora oggi avvertono, continuando a confrontarsi – tal­volta rischiando addirittura il plagio – con certi carismatici interpreti del pas­sato 188


come Lars Hanson (grande protagonista delle regie di Olof Molander), che pure appartiene a una generazione addirittura «estinta». Molto pesano, nella costitu­zione di questa tradizione, i più autorevoli registi strindberghiani: Ingmar Bergman senz’altro e, prima di lui, Alf Sjöberg e il citato Molander. Molander anzi forse più di ogni altro, perché aveva decisamente messo in discussione una consoli­data interpretazione espressionistica di Strindberg, concentrandosi sui dettagli concreti delle sue opere, persino nella memorabile edizione della metà degli anni Trenta di un dramma fantasmagorico come Un sogno. Dalle sue regie derivò comunque un’altra peculiarità della tradizione svedese, quella di «fare un po’ assomigliare tutti i protagonisti ma­schili allo stesso Strindberg». Così, nel dramma da camera Il temporale, in Svezia, è capitato che si conferi­sse all’anziano protagonista le riconoscibili fattezze dell’autore, mentre, per Josephson, «era stata davvero illuminante l’interpretazione del personaggio offerta da Tino Carraro», che sfuggiva ad ogni cliché, anche se «Strindberg è un autore di cui è facile cogliere le esagera­zioni e, all’estero, molto spesso, si suole esagerare le sue stesse esagerazioni». Strehler e Carraro, nel 1980, erano stati invece una felice eccezione, giacché sovente Josephson aveva visto, fuori della Svezia, uno Strindberg caricato, addirittura «buffo», interpretato come se le sue opere fossero state scritte «in un momento di eu­foria»: «In particolare in Italia, quando odia tutto e tutti, sembra che si stia divertendo e sia felicissimo, sicché anche il pubblico ride e si diverte». Era un problema di mi­sura, sebbene Josephson in linea di principio non fosse contrario alla possibilità che si evidenziasse il lato umoristico della scrittura strindberghiana, «in Svezia, di norma alquanto trascurato». Si aprì il dibattito e apparve subito evidente che gli uomini di teatro italiani erano molto sensibili al problema dell’individuazione e della discussione di una via originale per affrontare Strindberg. Mario Missiroli intervenne per primo, rilevando 189


che, in Italia, non esisteva in fondo un approccio né frequente né naturale a Strindberg. Per quanto riguardava le sue regie strindberghiane, nella Signorina Giulia del 1973, si era sforzato di affrontare il copione «con una semplicità e una libertà che sono probabilmente anche tipiche della tradizione scandinava», mentre per Verso Damasco (l’intera trilogia sintetizzata in una sola serata) del 1978, aveva cercato di leggere il testo «sul livello di una grande metafora». Anche Walter Pagliaro fu d’accordo che, in Italia, «c’era una sorta di timor panico nel­l’affrontare Strindberg, avvertito per molti versi come lontano dalla nostra cultura». L’atteggiamento che si aveva di fronte a questo autore era così «cauto o aggressivo», proprio per lo sforzo di superare tale difficoltà d’approccio. Pagliaro, che si era formato e aveva lavorato al Piccolo di Milano, portò la sua testimonianza sulla regia strehleriana del Temporale: «Strehler, che nella sua carriera ha allestito Strindberg una sola volta, lo affrontò dopo una lunghissima riflessione. Con Carraro lavorò con ac­canimento e, soltanto quando decisero di liberarsi delle imposizioni di una certa tradi­zione europea, lo spettacolo divenne personale» e lievitò. Pagliaro rievocò quindi qualche messinscena svedese che aveva visto in Italia, Sonata di spettri e La signorina Giulia, per la regia di Bergman: Quello che mi ha colpito in questi allestimenti è una sintesi che definirei di corpo e di testa, che gli attori italiani riescono difficilmente a realiz­zare, affrontando Strindberg. È facile dire che gli attori italiani vanno un po’ sopra le righe quando recitano Strindberg, ma non dimentichiamo che c’è davvero il problema della lingua come difficoltà e sforzo di recupero di quella musicalità di cui ha parlato Josephson.

Venendo alla sua unica regia strindberghiana, Il padre (che aveva debuttato quello stesso anno; vedi n. 27 dell’VIII cap.), Pagliaro spiegò che aveva tentato di realizzare uno Strindberg 190


non espressionista e, nello stesso tempo, di rom­pere con la tradizione italiana che vedeva in questo testo solo un demoniaco duello uomo-donna: Ho cercato di superare il naturalismo e di creare un dramma forte­ mente soggettivo, una drammaturgia dell’io, come se il Capitano protagonista vivesse il dramma in un sogno, il sogno di un uomo che ritorna nel grembo materno. Avendo rivissuto il testo in questa chiave, come un percorso onirico, ho ritrovato, insieme agli at­tori, quella tensione che Strindberg indubbiamente possiede, cercando di evitare i cli­ché che si sono stratificati nella rappresentazione della lotta fra i sessi.

Intervenne quindi Paolo Bonacelli, che, nel 1968 («l’epoca delle cantine romane»), era stato protagonista di un pionieristico Creditori (vedi n. 32 del VII cap.), ma che si dichiarò interessato a Strindberg sin dai tempi di formazione all’Accademia d’Arte Drammatica. Proprio partendo da Creditori, «che è una tragicommedia», Bonacelli individuava quello che, a suo avviso, era il principale problema di Strindberg in Italia: «la nostra difficoltà a cogliere gli elementi di autentica leggerezza dei suoi testi», al di là della ri­cerca della più andante comicità. L’attore Alberto Di Stasio (che in quei giorni recitava in Pasqua, con la regia di Alessandro Berdini; vedi n. 27 dell’VIII cap.) osservò allora che Strindberg aveva sempre difficoltà ad affermarsi nel repertorio italiano perché impediva un’interpretazione «comoda». A suo parere, era infatti molto più «comodo» rappresentare Ibsen: «L’attore italiano tende sempre a non svelarsi, tende a difendersi, a nascondersi dietro una maschera, mentre Strindberg costringe a parlare di se stessi, a confessarsi, altrimenti lo si tradisce. Strindberg può essere una medicina salutare per il teatro italiano: con lui, siamo in perpetuo equilibrismo». Chiamato più o meno velatamente in causa come il più tipico interprete italiano di uno Strindberg tenuto «sopra le righe» (soprattutto per il suo Pellicano del 1981), Gabriele 191


Lavia – che, tra l’altro, all’epoca, rappresentava con grande successo a Roma, in coppia con Monica Guerritore, La signorina Giulia2 – fece un intervento appassionato: La messinscena è un’arte autonoma, di cui il testo – per me – è un elemento indispen­sabile, sebbene abbia visto altri autori (e, per me, il regista è un autore a tutti gli ef­fetti) che nei rapporti col testo sono più disinvolti e per i quali il testo non aveva parti­colari priorità. Se sia, personalmente, nel mio lavoro, sopra o sotto le righe non so, vorrei che mi dicessero una buona volta dove sono le righe. Trovo che Strindberg sia un autore molto ironico e persino comico, ma questo comico non è, a mio avviso, assoluta­mente uguale a divertente. Per La signorina Giulia, come regista, ho spiegato agli attori: ricordia­moci che c’è una festa; ricordiamoci che la festa di San Giovanni è un saturnale e non possiamo quindi impostare subito il testo in chiave di tragedia. Perché mai Jean do­vrebbe essere antipatico, visto che piace tanto alle ragazze? I personaggi hanno dentro di loro il dramma, ma non sanno come va a finire. Noi dobbiamo sempre fingere che il pubblico assista al testo per la prima volta.

Si era discusso intensamente per tre ore e all’ospite svedese spettò tirare le fila del dibattito. Erland Josephson – attraverso August Strindberg – consegnò ancora una conclusiva lezione di teatro: Strindberg consigliava spesso gli attori di «non an­dare troppo in profondità» nell’interpretazione. È un monito cui tutti dovremmo ob­bedire, perché scavando troppo nei copioni rischiamo di perdere la struttura e la vi­sione generale. Sono d’accordo che il testo non sia l’elemento più importante della messinscena, come pure sono convinto che non è importante solo per l’attore essere ispirato dall’autore, ma anche viceversa. È proprio questo duplice scambio che fa sì che nel teatro sorgano visioni nuove. 2 Possiamo testimoniare, tra l’altro, che lo spettacolo fu particolarmente apprezzato da Erland Josephson, che poté assistervi proprio nel corso di quel soggiorno romano.

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