Un sogno, di August Strindberg, a cura di Franco Perrelli

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Indice

Introduzione di Franco Perrelli

VII

UN SOGNO

Nota

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Preludio a ÂŤUn sognoÂť (1906)

3

Sezione prima Sezione seconda Sezione terza

7 33 63

Appendice. Il dramma del corridoio (frammento)

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Introduzione di Franco Perrelli

1. Elaborando vari appunti e materiali drammaturgici1, August Strindberg stende Un sogno [Ett drömspel] all’incirca fra i mesi di agosto e novembre del 19012, anno del suo matrimonio con la giovane attrice Harriet Bosse, ma il repentino fallimento del terzo legame coniugale dell’autore trasfigura l’opera nel frutto di un sofferto travaglio emotivo, nel «figlio del dolore più grande»3: «Questa storia d’amore, per me così grande e straordinariamente bella che si è dissolta in una beffa» – scrive Strindberg nel Diario occulto [Ockulta dagboken] il 6 settembre 1901 –, «mi ha dato la convinzione piena che la vita sia un’illusione e che le storie più belle, che finiscono come le bolle d’acqua sporca del bucato, sono fatte per ispirarci il disgusto della vita. Noi non ci sentiamo a casa qui e siamo troppo buoni per questa miserabile esistenza»4. Tra cui il consistente frammento del Dramma del corridoio [Korridordramat], che proponiamo in Appendice. 2 La scena dei carbonai d’ambientazione mediterranea è comunque un’aggiunta successiva (forse di poco) e il Preludio al dramma (Förspel till Ett drömspel) è probabilmente del settembre 1906, pur risultando abbozzato come monodramma per Harriet Bosse dal 1905, cfr. A. STRINDBERG, Brev, a cura di T. Eklund e B. Meidal, Bonniers, Stockholm 1947-2001 [d’ora in poi B], vol. 15, pp. 174-5. 3 B 15, p. 361. 4 Citiamo qui dall’edizione facsimile: A. STRINDBERG, Ockulta dagboken, Gidlunds, Stockholm 19772. 1

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In una lettera al traduttore tedesco Emil Schering del 13 maggio 1902, Strindberg sintetizza Un sogno in questi termini: La Figlia [del dio] Indra è discesa sulla terra per rendersi conto di come vivono gli esseri umani e così scopre quanto duramente. E la cosa più dura è: fare del male agli altri, e si è costretti se si vuole vivere. La forma è motivata nella Nota: il guazzabuglio del sogno, nel quale tuttavia c’è una certa logica! Tutte le assurdità diventano verosimili. Gli uomini si materializzano e sono schizzati in vari punti, gli schizzi si confondono, lo stesso personaggio si scompone in parecchi che di nuovo confluiscono in uno. Tempo e spazio non esistono; un minuto è come molti anni, non ci sono stagioni; c’è neve nello scenario estivo, il tiglio ingiallisce e rinverdisce ecc.5.

Nello stesso anno, Strindberg si vantava che Un sogno fosse «una nuova forma di [sua] invenzione»6 e, in una Nota che precedeva il testo, aveva appunto posto il dramma in relazione a un genere che riteneva di avere inaugurato – dopo la sua crisi di fine secolo (l’Infernokris) – nel 1898, con un altro drömspel: Verso Damasco [Till Damaskus]7. A ben vedere, i nessi tra le due opere, sotto un certo punto di vista, sono piuttosto relativi: quanto corale e, a suo modo, universale appare la prima, tanto più chiusa e arrovellata in angosce assai private – quantunque degne d’un dostoevskiano emblematico uomo del sottosuolo – la seconda; in comune, tuttavia, presentano un peculiare approccio metafisico alla realtà che si esemplifica in una specie di strutturale allineamento con ripetizione [«Gentagelsen»] delle scene che le compongono, al fine di costituire un ritmo drammaturgico ciclico («un serpente che si morde la coB 14, p. 187. Ivi, p. 192. 7 A. STRINDBERG, Samlade verk, a cura di L. Dahlbäck, Almqvist & WiksellNorstedts, Stockholm, in fieri dal 1981 [d’ora in poi Sv], vol. 46, Ett drömspel, commentato da G. Ollén, p. 7. 5 6

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da»)8, nonché simbolico del fatale dipanarsi delle esperienze umane9. Strindberg dichiara immediatamente le fonti d’ispirazione di Un sogno in un’aggiunta (rintracciabile fra le carte del primo regista dell’opera, Victor Castegren) alla citata Nota: «Che la vita sia in sé un sogno ci poteva solo apparire un’immagine poetica di Calderón. Ma allorché Shakespeare, nella Tempesta, fa dire a Prospero che “siamo fatti della stessa stoffa di cui son fatti i sogni” e quando, un’altra volta, il saggio britannico attraverso Macbeth si esprime sulla vita come “una fiaba narrata da un folle”, allora si può proprio riflettere sul problema»10. Il drammaturgo aveva così tenuto presenti per il suo dramma onirico Calderón11 e soprattutto Shakespeare, nel quale riconosceva una coscienza teatrale affine – come è evidente nei Libri blu [Blå böckerna] della vecchiaia, nei quali indugia spesso a riflettere sull’autore inglese –, servendosi soggettivamente della sua maschera quasi per consegnarci una sorta d’autoritratto. Shakespeare – scriverà infatti – era uno scrittore essenzialmente metafisico, che nella Tempesta «dubitava, come i buddisti, della realtà della vita» e nel Timone s’avvicinava a Schopenhauer e a Eduard von Hartmann; il suo saggio pessimismo era però temperato da una prospettiva religiosa, perché B 12, p. 280. «Tutta la vita è solo ripetizioni [omtagningar]», proclama l’Avvocato in Un sogno [Sv 46, p. 78]. Il concetto è di generica derivazione kierkegaardiana. 10 Sv 46, p. 157. 11 Come dimostra la Nota bibliografica del saggio del 1890, Memorie ispanoportoghesi nella storia svedese [Spanska-portugisiska minnen ur svenska historien], Strindberg conosceva bene l’opera di Calderón [Sv 30, pp. 70-1]. Peraltro, fin dal catalogo della biblioteca strindberghiana del 1883, troviamo un’edizione tedesca, non identificata, della drammaturgia di Calderón e, in quello del 1912, la traduzione francese del 1898 dei suoi Drames religieux (cfr. H. LINDSTRÖM, Strindberg och böckerna II, Svenska Litteratursällskapet, Uppsala 1990, pp. 27, 133). Nelle Lettere aperte al Teatro Intimo [Öppna brev till Intima Teatern, 1908-9), Strindberg invita ancora a considerare «parecchie opere degne di allestimento» di Calderón, oltre alla più famosa Vita è sogno [Sv 64, p. 35]. 8 9

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«era un cristiano credente e devoto, con fasi di profondo dubbio e di disperazione, quando Iddio gli si nascondeva»12. Anche Strindberg, dopo la grande crisi spirituale di fine secolo, aveva voluto presentarsi kierkegaardianamente come una specie di scrittore mistico, proponendosi di mettere «il dono drammatico che [aveva] ricevuto [...] al servizio della religione, costruendo e piantando sui terreni che [aveva in precedenza] devastato e sgombrato»13. Nel corso del suo rivolgimento esistenziale, superando la stagione delle utopie (quella anarco-socialista prima e del superuomo nietzscheano poi), aveva fatto ritorno al punto di vista metafisico-cristiano, e quindi essenzialmente platonico, delle sue origini spirituali pietistiche. Un sogno, in quest’ottica, appare quasi un’opera didascalica, che ripercorre ed espone le varie (ma tutt’altro che pacificanti) concezioni che Strindberg aveva maturato all’insegna dell’Infernokris, una fase che aveva comunque dato «una forma alla grande sostanza della [sua] esistenza»14. Soffermiamoci sul titolo, Ett drömspel, che andrebbe letteralmente tradotto Una rappresentazione onirica o di sogno. Il dramma è cioè una rappresentazione teatrale [spel], fittizia, di un sogno autentico e «penoso», sul momento, più «penoso» della realtà stessa al risveglio15, che però in sé non è poi meno onirica e fittizia del sogno e dello spettacolo. Infatti, in un saggio del 1898 dedicato al mistico barocco Emanuel Swedenborg, Strindberg aveva scritto: «La recita terrena altro non sarebbe che una messinscena teatrale, indispensabile al fine di animare l’esistenza e le nostre esperienze spirituali; di conseguenza i differenti ruoli sono necessari, come l’ombra per la luce o almeno per la sua percezione»16. Sv 66, pp. 1005 sgg. B 16, p. 81. 14 B 14, p. 217. 15 Sv 46, p. 7. 16 A. STRINDBERG, Samlade skrifter, a cura di J. Landquist, Bonniers, Stockholm 1912-20, vol. 27, p. 675. 12 13

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Insomma, anche per lo Strindberg che esce dalla crisi di fine secolo «tutta la vita» essenzialmente «è un sogno», «una frenesia [...]. Un’illusione, un’ombra, una finzione, e piccolo è il più gran bene»17, o – come dice Prospero nell’atto IV della Tempesta – in sintonia con il grande monologo di Segismundo nel II atto del dramma calderoniano: «we are such stuff as dreams are made of, and our little life is rounded with a sleep». Nell’integrazione alla Nota per Un sogno, Strindberg enfatizza peraltro che «lo spettatore che seguirà l’autore nel suo cammino di Sonnambulo troverà forse una certa analogia fra l’apparente garbuglio del sogno e la variopinta tela della vita irregolare, tessuta dalla “tessitrice universale”, che imposta l’“ordito” dei destini umani e poi li “intreccia” con i nostri interessi che s’incrociano e le mutevoli passioni»18. Questa concezione per la quale tutti si recita «nella vasta piazza del gran teatro nel mondo» (per citare ancora Calderón)19, nel quale il sogno o l’illusione degli scenari sono perfettamente coincidenti con la vita e i suoi destini, era, per Strindberg, una specie di dato obiettivo, positivo. Per questo, a partire dal 1896, il drammaturgo aveva trovato in Swedenborg il suo Virgilio e le sue «visioni» mistiche gli erano sembrate «vrais documents humains»20, e anche Un sogno, in una nota del Diario occulto del 18 novembre 1901, è definito senza problemi, naturalisticamente, «un quadro della vita» [«en bild av livet»]21, sebbene sia subito motivato con il supporto del misticismo indiano: CALDERÓN DE LA BARCA, Teatro scelto, Bietti, Milano 1971, p. 200. Sv 46, p. 157. 19 Ivi, p. 198. 20 Sv 37, pp. 210-1. In Leggende [Legender], Strindberg si era del resto significativamente chiesto se non spettasse a lui «lanciare una passerella fra naturalismo e supernaturalismo, dimostrando come quest’ultimo fosse solo uno sviluppo del precedente» [Sv 38, p. 161]. 21 È difficile peraltro che un particolare di Un sogno (ma anche di Verso Damasco) non corrisponda a qualche elemento di esperienza dell’autore: i critici po17 18

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Il mondo è soltanto un’apparenza (= Inganno o relativa nullità). Le primigenie Forze divine (Maham-Atma, Tad, Aum, Grama) si lasciano sedurre da Maja ovvero dall’Istinto della riproduzione. In tal modo la Divina Materia primigenia peccò contro se stessa. (L’amore è peccato; per questo le pene d’amore sono il più grande inferno che esista.) Il mondo così esiste solo attraverso una colpa, se anch’esso esiste – perché è solo un’immagine di sogno, [...] un fantasma, il cui annientamento è compito dell’Ascesi. Ma questo compito entra in conflitto con l’impulso erotico, e la conclusione è un’oscillazione incessante fra il tumulto della lussuria e l’angoscia della penitenza. Questa sembra essere la soluzione dell’enigma del mondo!22

Un sogno presenta un «fondo di realtà» invero meno «insignificante» di quanto si possa supporre, configurandosi come una ghirlanda di appena sfuocati microdrammi di vita quotidiana – coins di realtà e di natura, se si vuole: tranches-de-vie – di varia tonalità, tagliati o dissolti nella scrittura da asterischi, comunque caratterizzati da un dialogo aggregante di un tono di norma piuttosto comune23. Anche se l’autore ha potuto occasionalmente parlare di «vacillante racconto» sostenuto dalla «coscienza del sognatore», per la quale «non ci sono segreti, sitivisti potevano elaborare interi trattati sulla ricostruzione di queste corrispondenze e, sulla loro pista, si sono mossi anche registi geniali come Olof Molander (cfr. § 5). 22 Qui Strindberg parafrasa un brano della popolare Storia universale della letteratura, vol. I, 1875, di Arvid Ahnfelt, che viene poi ripreso in alcune battute della Figlia di Indra verso la conclusione del dramma. L’attenzione di Strindberg per le filosofie e le religioni orientali derivava da Schopenhauer e da altre fonti evidentemente secondarie e divulgative. Gunnar Ollén richiama comunque l’attenzione anche sulla circostanza che all’epoca la cultura e il dramma indiano erano di moda negli ambienti simbolisti (G. OLLÉN, Strindbergs dramatik, Sveriges Radio Förlag, Kristianstad 19824, pp. 435-6). 23 Tutt’altro che sublime, persino nell’enunciazione del Leitmotiv dell’opera: «Det är synd om människorna!» («Che peccato gli uomini!»), che i traduttori tendono in effetti sempre un po’ ad elevare (si vedano in merito le osservazioni di M. LAMM, August Strindberg, Hammarström & Åberg, Johanneshov 19864, p. 302).

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nessuna incongruenza, nessuno scrupolo, niente leggi»24, o di «dramma che rappresenta un Sogno ingarbugliato»25, l’opera non è del tutto aleatoria, ma – come viene precisato nell’integrazione alla Nota – il suo garbuglio è giusto apparente o di mera superficie. Un sogno anzi, con i suoi tre atti facilmente distinguibili, è, pressoché musicalmente, «piuttosto costruito», addirittura come «una sinfonia, polifonica, fugata qua e là con il Leitmotiv che ritorna in continuazione ripetuto e variato da più di trenta voci in tutti i toni» e con i temi ricapitolati nella coda26. Anche questa costruzione sinfonica si modella principalmente sulla metafisica dell’esistenza caratterizzata dalla ripetizione, per la quale il destino umano è intessuto di motivi, ricorrenze e fatali simmetrie. In stretta relazione con quest’idea si pone il concetto swedenborghiano della «rassegna della vita», cioè della ricapitolazione che ogni uomo fa «quando l’esistenza s’avvicina alla fine» e – leggiamo in Un sogno – «tutto e tutti ci scorrono davanti in un unico defilé»27. Proprio il defilé, più che l’apparente dialettica sonno/veglia, è la struttura portante del dramma, perché – ha giustamente osservato Martin Lamm –, anche nella citata Nota di Strindberg, «ciò che non è detto, ma resta sottinteso, è che la morte è il risveglio finale, che ci libera dall’angoscia sia del sogno sia della realtà illusoria che ci avvolge: “Il dolore infatti è redenzione e la morte liberazione”, afferma il Poeta nella scena conclusiva»28. Nell’aggiunta alla Nota, peraltro, Strindberg chiarisce definitivamente: «Non c’è nessun assolo con accompagnamento: niente ruoli, niente caratte24 Sv 46, p. 7. Secondo Martin Lamm, sarebbe «improprio arguire da ciò che il dramma sia un sogno individuale e indicare uno specifico personaggio come il sognatore», anche se la Figlia di Indra dà indubbiamente continuità al flusso onirico e drammatico (LAMM, August Strindberg, cit., p. 291). 25 B 18, p. 257. 26 Sv 46, p. 158. 27 Ivi, p. 119. 28 LAMM, August Strindberg, cit., p. 291

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ri o caricature di sorta, nessun intrigo, nessuna fine d’atto predisposta per gli applausi. La direzione dei toni è rigorosamente designata e nella scena del sacrificio del Finale scorre tutto il passato, i motivi sono riassunti una volta ancora, come accade per la vita con tutti i suoi dettagli nel momento della morte – ancora un’analogia!»29. Se l’esistenza è irreale, il calderoniano «sueño de la muerte»30 assume, in Strindberg, un carattere di rivelazione: in esso «ci si risveglia alla realtà», aveva scritto in Leggende, «e si diventa coscienti che la vita è una semirealtà, un brutto sogno, che ci viene comminato come una pena», ch’essa «è solo un sogno e che il male fatto è semplicemente un sogno»31. La morte così non è affatto una cesura e la vita appare anzi immediatamente aperta all’Aldilà o «Jenseits», come lo denomina Strindberg, il quale concepisce il morire come «il riposo dopo lo strazio dell’esistenza», ma – molto influenzato da Swedenborg – anche come il momento supremo di una chiarificazione quasi psicanalitica: defunti, saremo guidati da un «maestro» e sarà possibile riconoscere finalmente «il senso dei nostri trascorsi terreni [...]. Tutta la bizzarra tessitura della vita verrà dipanata e si distingueranno i fili del destino» e «i vari chiarimenti allenteranno la morsa dell’amarezza, mentre si spanderà un sereno raggio di luce e di riconciliazione sul tremendo passato»32. Nel dualismo fra realtà e Jenseits si rivela tutta l’essenza metafisica di marca platonica e schopenhaueriana della teologia di Strindberg: il mondo è rappresentazione; spazio e tempo – leggiamo in un saggio del 1896 – si rivelano «giusto un fenomeno Sv 46, p. 158. il monologo di Segismundo nel II atto della Vita è sogno, nel quale si dichiara che le glorie e le miserie terrene sono ineluttabilmente costrette a «svegliarsi nel sonno della morte» (CALDERÓN DE LA BARCA, Teatro scelto, cit., p. 200). 31 Sv 38, p. 235. Cfr. anche la lettera a C. Larsson del 2 novembre 1901 (coeva a Un sogno): «La vita diventa per me sempre più simile a un sogno e inspiegabile – è possibile che la morte sia davvero il risveglio!» [B 14, p. 150]. 32 Sv 67, pp. 1451 sgg. 29

30 Cfr.

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cerebrale»33. In Sale gotiche [Götiska rummen, 1904], la realtà è denunciata come «una caricatura delle nostre idee sulle cose», perché «tutto è degradato e distorto»34. Anche in Un sogno, il Maestro chiede scettico all’Ufficiale: «Tu credi che tempo e spazio esistano?...»35, e, quando si apre la porta dietro la quale potrebbe esserci «la soluzione dell’enigma del mondo», si rinviene il nulla36. In chiusura del dramma, la Figlia del dio Indra sintetizza ancora che «il mondo, la vita e gli uomini sono così solo un fantasma, un riflesso, un’immagine di sogno»37. Sono i sogni, al limite, a detenere la sostanzialità dell’esistenza, insieme alle disvelanti fantasie poetiche, poiché siamo essenzialmente tutti dei «sonnambuli», dichiara, romanticamente, Strindberg in Leggende38, sviluppando poi il medesimo concetto proprio in Un sogno: LA FIGLIA. Allora tu sai cos’è la poesia... IL POETA. Allora io so cos’è il sogno... – – – Cos’è la poesia? LA FIGLIA. Non la realtà ma più della realtà... non sogno ma sogni a occhi aperti... IL POETA. E i figli dell’uomo credono che noi poeti giochiamo solamente... inventiamo e immaginiamo!39 Sv 35, p. 104. Sv 53, p. 147. 35 Sv 46, p. 70. 36 Ivi, pp. 100, 107. 37 Ivi, p. 115. Si confronti in merito anche un brano di una lettera di Strindberg alla Bosse del 4 ottobre 1905: «Anelo alle altezze, ma precipito in basso; voglio il giusto, ma mi comporto ingiustamente; il mio vecchio io è in conflitto con il nuovo; voglio vedere la vita bella, ma non è bella, solo la natura lo è; ho compassione degli uomini, ma non posso stimarli, amarli, perché li percepisco attraverso di me. La mia sola consolazione ora è riposta in Budda che mi dice chiaramente che la vita è un fantasma, Trugbild [miraggio], che vedremo raddrizzato in un’altra esistenza. La mia speranza e il mio avvenire stanno dall’altra parte, per questo mi è così difficile vivere; tutto è carente ed è caricatura; tutto dovrebbe essere visto a distanza» [B 15, p. 181]. 38 Sv 38, p. 209. 39 Sv 46, p. 91. 33 34

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Se la vita è un sogno «penoso», gli uomini sono ristretti in «a penal colony», per citare lo Schopenhauer di Parerga, e, nel loro inferno40, «non si può muovere un passo senza ferire l’altrui felicità»41, sicché, in Un sogno, l’Avvocato ribadisce: «Il godimento dell’uno è la tortura dell’altro», un concetto che viene ripreso anche dalla Figlia del dio Indra («Ogni gioia di cui godi, / Porta agli altri afflizione, / Ma la tua afflizione nessuna gioia / Per cui è afflizione più afflizione!»)42. La dea conclude: «Ecco i miei figli! Presi uno per uno sono gentili, ma appena li metti insieme attaccano a litigare e diventano demoni!»43. Così Strindberg ha addirittura difficoltà a concepire Cristo come redentore, come liberatore, di fronte allo scandaloso ed eclatante persistere del male e della menzogna nell’esistenza, ma ogni essere – ritiene – può almeno considerarsi un «capro espiatorio», soffrire incarnando una specie di Cristo nell’uomo. Gesù, in Un sogno, appare addirittura procedente sulle acque, ma viene indicato in definitiva come un liberatore generoso che ha fallito la sua missione, che si è quasi svilita nell’infernale caos dell’esistenza, dove di un redentore si ha addirittura paura44. «Capri espiatori» sono di contro molti personaggi di spicco del dramma, a cominciare dalla stessa protagonista, la Figlia del dio Indra, e in particolare l’Avvocato, il cui «volto rispecchia ogni sorta di delitti e di vizi» di cui è costretto a occuparsi a causa della sua professione. «È uno strazio essere uomini!» – commenta – e la Figlia gli risponde con il proverbiale Leitmotiv del dramma: «Che peccato gli uomini!»45. 40 Cfr. anche la lettera di Strindberg a L. Littmansson del 25 settembre 1902: «“Se la vita non è un Inferno, è un Purgatorio, o non si spiega”. Conclusione: “Non invidiare nessuno, perché nessuno è invidiabile”. [...] Un sogno è il mio ultimatum nella speculazione sull’enigma del mondo» [B 14, p. 215]. 41 Sv 37, pp. 204-5. 42 Sv 46, pp. 48, 94. 43 Ivi, p. 113. 44 Ivi, pp. 97-8. 45 Ivi, pp. 34-5. In questo contesto pessimistico, la religiosità strindberghiana

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Ancora una volta, era stato soprattutto Swedenborg a svelare a Strindberg una sorta di trasparenza e di fluidità fra realtà e aldilà, fra terra, inferno e paradiso. Il carattere di «transito» della morte alla verità dell’essere era stato continuamente ribadito nella teologia swedenborghiana, dove la fine dell’esistenza è il momento nel quale appunto essere e apparire si ricompongono nella conciliazione rivelatrice dei sensi esterno e interno. Lars Bergquist ha osservato che, in Un sogno, «Strindberg fa procedere le scene secondo il flusso dei pensieri, mentre i personaggi si radunano in gruppi all’incirca come gli spiriti nei cieli e negli inferni di Swedenborg. Ognuno vede come vuol vedere, i posti assumono colore e carattere dalle idee e dagli stati d’animo di chi ci abita»46. Nelle opere di Swedenborg, Strindberg non trovò un sistema normativo, verso il quale era per indole insofferente, ma spunti fondamentali per l’invenzione di una drammaturgia dinamicamente fantastica, nel senso barocco dell’espressione. Ci ricorda infatti Emilio Orozco Díaz che, con il dinamismo impetuoso del movimento impresso alle forme e alle figure, con i suoi abbacinanti effetti di luci e di colori, con tutta la sua ricchezza sensoriale, con le sue prospettive travolgenti, l’opera barocca si sforza di esprimere il fluire incessante del tempo – oltre la visione di un mondo seduttore che ci proietta verso uno spazio continuo e infinito. [Tuttavia, tale opera] lo rappresenta con si rivela tutt’altro che priva d’incrinature. In Un sogno, s’invoca «compassione per i mortali», ma si chiede anche all’Eterno perché sia lontano [Sv 46, p. 40]. In un’altra scena, il Poeta osserva: «I profeti sono stati sempre malintesi; come mai? – E “Se Dio ha parlato, perché allora gli uomini non gli credono?”. Il suo convincente potere dovrebbe essere irresistibile!»; «Hai sempre dubitato tu?», gli chiede la Figlia; «No!», risponde il Poeta, «Molte volte ho avuto la certezza; ma dopo un po’ se ne andava! come un sogno quando ci si sveglia!»; «Non è facile essere uomini!», è la desolata conclusione della dea [ivi, p. 114]. 46 Cfr. il capitolo «Subjektivitet och sanning: Swedenborg och Strindberg», in L. BERGQUIST, Biblioteket i lusthuset. Tio uppsatser om Swedenborg, Natur och Kultur, Stockholm 1996, p. 213.

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l’angosciosa consapevolezza del fatto che la nostra vita è qualcosa di tanto instabile, di tanto ingannevole, che tutti i piaceri che essa procura equivalgono a quelli che dà uno spettacolo teatrale, in cui siamo costretti a recitare come personaggi, intuendo che le bellezze della realtà circostante sono come un palcoscenico altrettanto mutevole: l’unico punto fisso è il tempo che tutto divora. Ciò che si cela dunque nel fondo della grande opera barocca è la grande verità della fugacità del vivere47.

Esattamente come in Un sogno. 2. La critica ha parlato per Un sogno di un testo dalla sensibilità filmica; inoltre, ha enfatizzato la circostanza che sia stato scritto più o meno nello stesso periodo della freudiana Interpretazione dei sogni e sottolineato che Antonin Artaud lo considerasse «parte del [suo] repertorio di un teatro ideale»48. Tutto ciò ha portato a un’interpretazione diffusamente modernistica, in chiave psicanalitica e surrealistica, del dramma, considerato «fonte diretta» di «the Theatre of the Absurd», tesi autorevolmente avallata da Martin Esslin49. Come pure avremo modo di verificare, analizzando la fortuna scenica del dramma, è indubbio che Un sogno sia stato percepito come una delle fonti del modernismo scenico e che – per tale ampia e consolidata percezione – a tutti gli effetti lo sia, e, senz’altro, c’è poco del contemporaneo teatro postmoderno che, direttamente o indirettamente, non appaia in debito con questo cruciale testo strindberghiano (come con Ubu roi di Jarry). Ciò detto, si può certo godere Beethoven interpretato da Furtwängler, che lo dirige con un occhio a Wagner, facendoci cogliere l’inoppugnabile verità che c’è Beethoven in Wagner, ma si può cercare di capire le sue sinfonie anche attraverso la le47 E.

OROZCO DÍAZ, Teatro e teatralità del barocco, Ibis, Como-Pavia 1995, pp.

28-9. 48 A. 49 M.

ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 45-6. ESSLIN, Il teatro dell’Assurdo, Abete, Roma 1975, pp. 342 sgg.

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zione di Karl Böhm, che le immerge in una congrua tradizione classicistica, oppure di forse meno carismatici, ma assai apprezzabili, direttori-filologi come Hogwood o Brüggen, i quali tentano, per quanto possibile, di ricondurre gli spartiti alla concretezza tecnica dell’esecuzione della loro epoca. Senza troppo divagare, insomma, c’è senza dubbio Strindberg in Freud, Artaud, Beckett o Adamov (come in tutto il nostro teatro contemporaneo, più aperto alla ricerca, la cui scrittura drammaturgica e scenica è intessuta di repentine dissolvenze e costituita sovente da una partitura ritmica di azioni, suoni, luci, pulsazioni semantiche), ma tutto questo non è Strindberg. Meglio: è anche Strindberg, cioè per l’appunto la sua cospicua eredità, ma – per capire Strindberg – dobbiamo, a nostro avviso, prima interrogarci su come il drammaturgo si poneva di fronte alla realtà del teatro che gli era contemporaneo, come la pensava e come eventualmente la forzava. Richard Bark, per esempio, sostiene che Strindberg non scriveva affatto, come si potrebbe credere, «per una scena che ancora non esisteva», bensì faceva tesoro delle sue giovanili esperienze (attorno al 1869) di allievo attore al Teatro Reale di Stoccolma, affidandosi quindi a quelle categorie sceniche del secondo Ottocento che «continuavano a fondarsi principalmente sul teatro barocco, la cui scena era stata ereditata dai romantici, anche se erano ormai venute meno le sue fantastiche macchine per le mutazioni». Affrontando i suoi grandi «sogni scenici», Strindberg terrebbe così principalmente presenti «il teatro barocco e la scena della féerie romantica» (che da esso non poco deriva) e pertanto «la sua drammaturgia onirica avrebbe potuto essere allestita con buon effetto su questo genere di palcoscenici»50. Se esaminiamo gli appunti per Un sogno, sul versante del romanticismo, troviamo in effetti il richiamo alla dimensione fa50 R.

BARK, Strindbergs drömspelsteknik – i drama och teater, Studentlitteratur, Lund 1981, p. 33.

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volistica di Hans Christian Andersen; tradizionalmente, inoltre, si riconoscono come antecedenti della drammaturgia onirica di Strindberg alcune sue (non eccelse) féeries – precedenti la crisi spirituale – come Il viaggio di Per Fortunato [Lycko-Pers resa] del 1882 e Le chiavi del cielo [Himmelrikets nycklar] d’un decennio più tardi, dove in particolare sono sviluppati l’animazione degli oggetti, i mutamenti scenici a vista (changement à vue), una fluidità fantastica e favolistica del tempo e dello spazio drammaturgici. Sul versante del teatro barocco, Bark ha ancora evidenziato «la dipendenza di Strindberg», proprio nella didascalia iniziale di Un sogno («Le quinte laterali presenti per tutto il dramma stilizzano insieme pitture di stanze, di architetture e di paesaggi»)51, da consuetudini scenografiche sei-settecentesche e Gösta M. Bergman ha potuto individuare, come probabile modello del Preludio del dramma, una scena d’opera italiana illustrata nella Storia del teatro di Herman Ring (1898), di cui Strindberg era attento lettore52. Anche nella didascalia del Preludio, la Figlia di Indra «sta in piedi sulla nuvola più in alto» che calerà verso il basso, mentre sullo sfondo appaiono le costellazioni e, con vago richiamo al primo quadro della Vita è sogno, «una cappa di nubi che assomigliano a franati monti d’ardesia con castelli e rovine di fortezze»53. Bark ha polemizzato con Göran Stockenström perché, in una prospettiva filosofico-religiosa, ma non teatrale, avrebbe 51 Ivi,

p. 46. G.M. BERGMAN, Den moderna teaterns genombrott. 1890-1925, Bonniers, Stockholm 1966, pp. 303-4. 53 Sv 46, p. 161. L’inizio della Vita è sogno presenta, da un lato, un monte scosceso, da cui scendono Rosaura e Clarín, e, dall’altro, la torre della tenebrosa prigione di Segismundo; quasi parallelamente, in Strindberg, la discesa della Figlia di Indra avviene dal cielo in direzione di una terra-carcere-inferno: infatti, castelli e rocche in rovina rimandano alle visioni di Swedenborg, che, nel suo Del cielo e dell’inferno (1758), descrive gli inferni come caverne e antri di miniera, disseminati di abitazioni dirute e incendiate, che talora si agglomerano in città, nelle quali i dannati si tormentano a vicenda (cfr. in particolare il § 586). 52

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indicato – per l’introduzione del concetto spirituale delle corrispondenze – in Swedenborg l’origine delle scene di trasformazione strindberghiane54, piuttosto che nella struttura scenica del teatro barocco e romantico. È una polemica che ci pare abbia relative ragioni di sussistere: non è eventualmente solo Un sogno a poter essere rappresentato senza problemi – come vuole Bark – su una scena barocca, ma tutti gli Arcana Coelestia di Swedenborg. La teologia swedenborghiana, i suoi audita et visa dell’Aldilà, sono ineluttabilmente pregni, a loro volta, di spirito e di autentica teatralità barocchi. In quell’imponente teatro metafisico che sono gli Arcana Coelestia, si assiste infatti a una continua situazione di metamorfosi, che lo stesso Strindberg rileva in Inferno: «Così Swedenborg dipinge un inferno. Il dannato è alloggiato in un palazzo magnifico, vi trova dolce la vita e crede di essere un eletto. A poco a poco le delizie cominciano a svaporare, spariscono e l’infelice si ritrova isolato in una misera bicocca attorniato di escrementi»55. Negli Arcana Coelestia, all’apice di scene del genere, si può trovare una sorta di didascalia: «scena mutatur», teatralissima, come del resto teatrale è la «vastatio», cioè quella «devastazione» dell’anima che motiva la metamorfosi scenica e che Strindberg richiama così insistentemente nella sua drammaturgia quasi a volerla sostituire alla peripezia, al rovesciamento come aristotelico «volgere delle cose fatte nel loro contrario» (Poetica, 11): «Le scene della vita andata scorrono come in un panorama, poste in una nuova luce, cose dimenticate sono rivangate, tutto viene in chiaro fin nel minimo dettaglio»56; nella «vastatio» – spiega Strindberg nei Libri blu – «si è spogliati dei paramenti che si era costretti a esibire in società» e scoperti per quel che davvero si è57. 54 BARK,

Strindbergs drömspelsteknik, cit., pp. 29-30, 34. Sv 37, pp. 216-7. 56 Sv 65, p. 38. 57 Ivi, p. 56. «Centrale per la scena di mutamento è pertanto il motivo dello 55

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In precedenza, non solo nelle féeries, ma anche nei drammi naturalistici, la drammaturgia di Strindberg era stata caratterizzata da una dinamica metamorfica e d’implacabile animazione della materia scenica, ma ciò si era manifestato soprattutto in termini di ritmo, di metafore linguistiche e comunque nell’ambito di una unitaria cornice classicistica, nella quale il naturalismo tendeva a inscriversi58. È in virtù della crisi spirituale e dell’incontro con Swedenborg che in Strindberg si ha una sorta di mutazione da scrittore naturalista-classicista in, per così dire, naturalista-barocco. Il teatro per lui – in quanto metafisica rappresentazione della vita instabile e ingannevole – sulla barriera dell’arco scenico, trova ora il suo essenziale emblema nella caverna di Platone, un pensatore che Strindberg definirà «divino», perché la sua «saggezza è ritenuta precristiana ovvero filosofia rivelata anche dai padri della chiesa»59. Com’è noto, per Platone (Repubblica, VII, 514-7)60, gli uomini sono prigionieri in una caverna con gli occhi esclusivamente rivolti al suo fondo. Il sole che risplende al di fuori diventa nell’antro un vago chiarore che fa sì che, dalla via ascendente (dentro la caverna), contornata da «un muricciuolo simile a quella specie di steccato che i burattinai interpongono tra loro e gli spettatori, e dall’alto del quale fanno mostra delle loro marionette», si proiettino ombre di statue e risuonino echi di voci della gente di passaggio, sino a far ritenere ai prigionieri queste proiezioni come «l’unica realtà esistente»: «Il mondo visibile somiglia a quel carcere e la luce di quel fuosmascheramento, dove il cambiamento esterno rappresenta direttamente la realtà interna» (G. STOCKENSTRÖM, Ismael i öknen. Strindberg som mystiker, Almqvist & Wiksell, Uppsala 1972, p. 74). 58 Interessante in tal senso il libro di B.G. MADSEN, Strindberg’s Naturalistic Theatre. Its Relation to French Naturalism, Munksgaard-University of Washington Press, Copenaghen-Seattle 19732. 59 Sv 67, p. 1262. 60 PLATONE, Tutte le opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, pp. 1018 sgg.

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co alla potenza del sole; e se supponi che la salita verso l’alto e la contemplazione delle cose di lassù rappresentino l’ascesa dell’anima al mondo intelligibile; non t’ingannerai...». Tutta la grande tradizione metafisica e cristiana dell’Occidente e, ovviamente, lo stesso Swedenborg sono inscritti in questa icona che, non a caso, ritorna come riferimento scenografico anche nel teatro barocco e, tra l’altro, nell’indicazione degli apparati scenici della Vita è sogno come autosacramentale (1673)61 e, più genericamente, nell’antro – the Cell – di Prospero nella Tempesta. Già ai bordi della sua crisi spirituale (almeno dal 1894), Strindberg è affascinato dal motivo della caverna che, soprattutto nella sua produzione pittorica, viene a variarsi in una sorta di arco scenico contornato di verzura. Il tema assume nei quadri – come in quello denominato Inferno-tavlan del 1901 – tratti ora fantastici ora latamente naturalistici ora esplicitamente platonizzanti62. Anche il cosmo di Un sogno, dove pure si materializza la Grotta di Fingal, come cassa di risonanza del dolore del mondo, è squisitamente platonico («Il pensiero», si dichiara, «è più dell’azione – più alto della cosa...»): il mondo è stato rovesciato e lo è stato «quando ne hanno fatto la copia», anzi è una copia sbagliata e, via via che si ricordano gli «archetipi», si prova insoddisfazione63. Noteremo, infine, che, per un irrealizzato progetto di allestimento del dramma fratello, Verso Damasco, nel 1909, Strindberg proponeva d’incastonare esplicitamente le varie scene nella cornice di una caverna64. 61 Anche nel dramma omonimo, l’idea della caverna è implicita nella prigione che serra Segismundo, localizzata in una torre che a Rosaura pare «un masso rotolato» dalle cime dei monti, il cui ingresso è una «funesta boca» dal cui «fondo nasce la notte che genera nel suo seno» (CALDERÓN DE LA BARCA, Teatro scelto, cit., p. 166). 62 Cfr. T. MÅTTE SCHMIDT (a cura di), Strindbergs måleri, Ahlems Förlag, Malmö 1972, pp. 239 sgg. 63 Sv 46, pp. 28, 38-9. 64 Vedi G. SÖDERSTRÖM, To Damascus (I): A Dream Play?, in G. STOCKENSTRÖM

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3. Se questi erano i presupposti speculativi, Strindberg aveva senza dubbio la necessità di dare una chiave di concreta rappresentazione alla sua drammaturgia mistica e neobarocca nel contesto storico d’una scena che o viveva delle approssimazioni di certo teatro ottocentesco di convenzione e d’attore o, da poco e precariamente, aveva recepito la rivoluzione naturalistica e ibseniana. La difficoltà del problema è bene espressa in una lettera che il drammaturgo scrive a Schering nell’aprile del 1907 e non a caso a proposito dell’allestimento di Un sogno: «Queste immagini aeree non possono essere materializzate – così penso io, l’autore! E non sono il giudice più giusto!?»65. Strindberg era consapevole (e protagonista) della metamorfosi del gusto teatrale a cavallo fra Ottocento e Novecento, nel quale progressivamente s’imponeva una necessità di «semplificazione». Nelle Lettere aperte al Teatro Intimo, scrive infatti: Sul finire del secolo, si verificò una trasformazione degli animi: si risvegliò la fantasia e la spiritualità prese il sopravvento sulla materia, la parola recitata divenne sul palcoscenico la cosa fondamentale [...], in Francia [...], le tragedie di Josephin Péladan cominciarono a essere rappresentate negli antichi anfiteatri romani, all’aria aperta e senza scenografie. Questo teatro all’aperto, passato in Germania (Darmstadt, Harz) e in Inghilterra, diede impulso alla semplificazione delle scene, che ora si va attuando da noi. La scena shakespeariana di Monaco aveva spianato la strada, ma era nata troppo presto e s’inabissò nell’ondata naturalistica; il risveglio di Oberammergau aiutò. Ora, in una fase di artificiosità, si aveva diritto ancora una volta alla semplificazione66.

Qui Strindberg indica in stretta sintesi le stelle di riferimento della sua rotta di innovatore della scena: la suggestione d’un teatro all’aperto, essenzialmente «di celebrazione» (come lo de(a cura di), Strindberg’s Dramaturgy, Almqvist & Wiksell Int., Stockholm 1988, pp. 213 sgg. 65 B 15, p. 361. 66 Sv 64, p. 230.

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finirebbe Léon Chancerel), mutuato dal simbolismo e dal wagnerismo di un autore come Péladan e dalla Passione (di ascendenza barocca) di Oberammergau; il modello della scena shakespeariana, rielaborato a Monaco nel 188967, che viene richiamato ancora nelle Lettere aperte con due illustrazioni relative a Re Lear (tratte da uno scritto dell’istruttore Jocza Savits) e così commentato: si tratta di «una cornice architettonica astratta fissa che può essere stanza, ma anche strada o piazza, quando la tenda è tirata; quando è raccolta ai lati si è invece all’aperto [...]. Se servissero mobili, sedie e tavoli, qui» – continua Strindberg – «li si potrebbe inserire, se si usassero elementi scenici, non ci sarebbero problemi; altrimenti: niente. La parola recitata è, del resto, la cosa essenziale e se i più raffinati contemporanei di Shakespeare potevano fare a meno delle scene, anche noi possiamo bene immaginarci costruzioni, mura e alberi»68. La scena shakespeariana – nell’interpretazione di Strindberg – aveva strette analogie con l’impianto scenico della Passione di Oberammergau: in ambedue i casi ci troviamo di fronte a «cornici architettoniche» in qualche modo «astratte», in grado di creare la mutazione degli ambienti o la dialettica di internoesterno attraverso il semplice uso di sipari. La tendenza neobarocca della drammaturgia strindberghiana non porta così l’autore a immaginare, immediatamente, una dilatazione della macchina scenotecnica, ma a risolverla se mai quasi in termini concettuali. È vero che Strindberg in Un sogno chiede quinte fisse e fondali che si avvicendano, ma poi, soprattutto affidandosi alla pura forza della situazione drammaturgica, ipotizza oggetti e caratteri che slittano di senso, metamorfosandosi e assumendo 67 La scena shakespeariana di Monaco sorse, con l’appoggio dell’intendente Perfall, dal progetto dei tecnici Jocza Savits e Karl Lautenschläger in collaborazione con il letterato Genée, su un modello di Schinkel e Tieck. 68 Sv 64, pp. 59-60.

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un significato differente nelle varie sequenze sceniche69. Un ruolo importante è inoltre affidato ai suoni (e alle musiche) e soprattutto alla dialettica di buio e di luce, sia perché agevola la metamorfosi degli elementi scenografici («L’organo si trasforma con il mutare delle luci nella Grotta di Fingal») sia perché interagisce organicamente con la recitazione, come nella sequenza in cui la scena viene illuminata a intermittenza e l’Ufficiale scandisce le sue battute «secondo il taglio della luce»70. Fin dal 1889, Strindberg aveva parlato di scenografie realizzate con proiezioni71 e, in un’intervista del 1899, per il giornale «Svenska Dagbladet», aveva associato quest’idea alla scena shakespeariana72. Quando al Dramaten, nel 1900, si cominciò a provare Verso Damasco, diretto da Emil Grandinson, si cercò coerentemente una «semplificazione» dell’allestimento. Dapprima si tentò la via di una messinscena con proiezioni di lanterna magica73, ma i risultati non furono soddisfacenti. Strindberg allora sollecitò Grandinson a riflettere sul modello della Passione di Oberammergau (simile, sappiamo, nella sua logica scenica a quello del teatro shakespeariano di Monaco) e, seguendo questa via, l’allestimento della I parte di Verso Damasco del 19 novembre 1900 al Teatro Reale di Stoccolma è stato considerato dalla critica una pietra miliare, quantunque piuttosto isolata, nella storia scenica svedese. Al di là degli esperimenti dell’Intima Teatern, guidato dallo stesso Strindberg fra il 1907 e il 1910, i primi anni del teatro del Novecento, in Svezia, furoPer esempio: «La scena si trasforma nell’ufficio dell’Avvocato, a sipario aperto, quindi: il cancello rimane e funge da cancello della sbarra dell’ufficio che attraversa orizzontalmente la scena. La stanza della Portinaia resta come studiolo dell’Avvocato ma aperta davanti; il tiglio, senza foglie è un attaccapanni per abiti e cappelli; il quadro delle affissioni è ricoperto di decreti e verdetti dei processi; la porta con il quadrifoglio appartiene adesso a un armadio per i documenti» [Sv 46, p. 34]. 70 Ivi, pp. 40, 27. 71 Cfr. B 7, pp. 304, 308. 72 Cfr. BERGMAN, Den moderna teaterns genombrott, cit., p. 272. 73 Sv 64, pp. 232-3. 69

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no dominati infatti dal convenzionale laboratorio scenografico di Grabow; per il resto, si «pasticciava con gli stili storici, soprattutto con quello rinascimentale alla moda, mentre si lasciavano infuriare i sentimenti sulle onde della declamazione», anche se gl’influssi simbolisti cominciavano a farsi sentire74. Le soluzioni sceniche stilizzate del riuscito allestimento di Verso Damasco diventano per Strindberg un’idea guida e ritornano, l’8 luglio 1903, quando l’autore tratta con Hjalmar Selander una messinscena di Un sogno al Folkets Hus Teater di Stoccolma: «Riconsiderando Un sogno ritengo che siano necessari solo 12 fondali da proiezione e alcuni normali paraventi da séparé da eliminare mentre si fa buio in scena a sipario aperto (così accadeva in Verso D. al Teatro [Reale] Drammatico). L’arco per tutta la rappresentazione è costituito da una selva di papaveri giganteschi. Un fondale fisso con papaveri con su un’apertura di 3 cubiti nella quale si collocano o delle maschere trasparenti o un paravento bianco sul quale proiettare diapositive. I costumi sono niente!»75. Strindberg ritorna sull’idea con Richard Bergh, nell’agosto 1904, nell’ottimistica previsione che l’opera potesse essere presentata dalla modesta scuola di recitazione di Elin Svensson: Due anni fa quando stavo per fondare con [l’attore Emil] Hillberg una Freie Bühne ho adattato per la messinscena Un sogno in modo pratico ed economico così che potesse essere rappresentato alla Folkets Hus, poiché l’infame concorrenza del privilegio Reale ci minacciava ovunque, se operavamo con più di una scena. Per evitare questo dipinsi (?) 1° una cornice fissa per l’intero dramma: una selva di papaveri. Quindi, un fondale fisso di fiori, sul quale praticai un’apertura di 1 metro e 80, e dietro collocai dei cosiddetti schermi (autorizzati dalla regalità). Lo schermo consisteva di un’ampia tela dipinta di 2 metri e 40. E con questo la scenografia era sbrigata76. 74 BERGMAN,

Den moderna teaterns genombrott, cit., pp. 267-8. in B 22, pp. 152-3. 76 B 15, pp. 51-2. 75 Cit.

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Strindberg aveva curato di Un sogno (probabilmente nella primavera del 1902) anche una versione francese, Rêverie, che già implicava una messinscena semplificata e, quando il 24 agosto 1905, dopo aver inviato a Lugné-Poe e a Péladan la sua traduzione, parla dell’eventuale messinscena del dramma all’estero, scrive a Schering: «Lo si può allestire senza tutte queste scenografie. Soltanto con un arco, come Damasco, realizzato con una selva di papaveri e il castello nel fondo. Il resto è elementi scenici o paraventi o niente proprio: lasciamo libera l’immaginazione»77. L’idea infine passò, ma solo in parte, qualche anno dopo, nel primo allestimento di Un sogno, che fu realizzato dall’istruttore Victor Castegren. Costui era un artista piuttosto ambizioso: Strindberg ci ricorda, infatti, che «a Göteborg s’era rovinato per il suo buon gusto e l’ottimo repertorio»78, in più aveva a disposizione le notevoli risorse dello Svenska Teatern e un’attrice protagonista del valore di Harriet Bosse. Il drammaturgo pose preliminarmente a Castegren il problema di evitare di «materializzare troppo» l’opera e suggerì di sperimentare con la lanterna magica, che era già stata presa in considerazione per Verso Damasco. Anche in questo caso, però – ricorda l’autore –, l’esperimento non fu felice: Nel testo, avevo raccomandato un allestimento con quinte fisse «per tutto il dramma, [che] stilizzano insieme pitture di stanze, di architetture e di paesaggi». Io sottintendevo: mutando i fondali, secondo opportunità. Castegren andò a Dresda, dove avevano appena usato la lanterna magica per il Faust. Lì comprò l’apparecchio, ma qui alla prova (cui tuttavia non ho assistito) la lanterna non ha mantenuto le promesse. Dal momento che il direttore [dello Svenska Teatern] Ranft non voleva il sistema di arco e i fondali di Verso Damasco, si dovette «andare da Grabow».

Il routinier Grabow non lavorò con cura e, nonostante l’im77 78

Ivi, p. 157. Sv 64, p. 233.

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pegno obiettivo di Castegren, l’allestimento parve a Strindberg un «fenomeno di materializzazione». Si era stati poco audaci, fa capire l’autore: Una certa infondata paura di cadere negli effetti luminosi «che si usano nel varietà» aveva trattenuto il regista dall’utilizzo di quelle risorse di cui avevamo bisogno [...]. Così, assistendo al Preludio, non riuscivo a distinguere gli attori al buio e chiesi luce dall’alto perché dovevo vedere per capire; mi fu risposto: «Questo è varietà». Non essendo stato al varietà da 35 anni, non mi rendevo conto del pericolo e obiettai: «Vada per il varietà, posso imparare ovunque; in un circo, ho imparato per la prima volta quale effetto inusitato si può ottenere dipingendo una scenografia su un fondo trasparente». Tuttavia ciò distrusse l’effetto del mio preludio79.

Lo spettacolo andò in scena il 17 aprile 1907 e anche la critica sottolineò che, più che la magia del sogno, «era stata evidenziata solo la pesante macchinosità della scena»: «Ciò che soprattutto è venuto a mancare è il trapassare delle immagini l’una nell’altra, il dispiegarsi dell’associazione delle idee, che alla lettura è quel che rende più forte l’impressione del sogno. Al loro posto abbiamo avuto invece pause continue, che spezzavano l’illusione e frammentavano l’impressione»80. Se, nell’allestimento, non si riprese l’apparato di Verso Damasco, la scena, su evidente suggerimento di Strindberg, fu comunque incorniciata con un arco di papaveri (i fiori del sonno), che ricoprivano anche la ribalta81. Ancora una volta, osserva Bark, «era un tentativo di far risultare la rappresentazione come un sogno – con lo spettatore nel ruolo del “sognatore” – ma Ivi, pp. 233-4. considerazioni del critico Tor Hedberg (cfr. Sv 46, p. 159). 81 Una cornice di rose bianche era stata usata allo Svenska Teatern per l’allestimento di Pelléas et Mélisande di Maeterlinck l’anno prima, pur mantenendo per il resto i termini consueti delle scenografie d’illusione (cfr. BERGMAN, Den moderna teaterns genombrott, cit., p. 277). 79

80 Sono

XXIX


mantenere il significato di questa cornice riuscì meno che nell’allestimento di Verso Damasco»82. Come al solito, sulle rassegne stampa dell’Ottocento, è difficile farsi un’idea precisa dell’impressione di un dramma che, in qualche modo, si tenne per una dozzina di repliche. Se Strindberg non fu del tutto soddisfatto, non mancò chi fu avvinto da un certo fascino onirico della messinscena, almeno per alcune singole sequenze, che parvero colorate e fluenti, addirittura caratterizzate da una resa «splendidamente riuscita»83. Dalle recensioni si apprende anche che si cercò di far scorrere il più possibile gli episodi drammaturgici e che alcune scene puntavano su un’atmosfera fiabesca; che il castello, che cresce dalla terra e nel finale fa sbocciare tra le fiamme un immenso crisantemo, si espandeva «in una traboccante ricchezza di fiori e sontuosità di colori», ma nel complesso le luci non parvero adeguate e si notò qualche disomogeneità anche nell’interpretazione degli attori. L’opera, come il Peer Gynt di Ibsen, sembrò in definitiva più adatta alla lettura che alla rappresentazione: «Un sogno di Strindberg» – osservò Daniel Fallström – «appartiene alla letteratura, ma non al teatro [...], la vita spettrale e informe del sonno non s’addice alla scena. L’arte drammatica è azione, è uomini in carne ed ossa, non immagini oniriche vaganti. Quest’opera poetica dev’essere letta, non vista. Allora finisce l’incanto»84. L’autore, però, che si muoveva evidentemente sul terreno della crisi del dramma moderno, non si arrese. 4. Quando Strindberg ebbe a disposizione un laboratorio personale per le sue sperimentazioni sceniche, come l’Intima Teatern, e soprattutto dopo che l’allestimento di Kristina, nel marzo 1908, gli aveva aperto la concreta prospettiva di una scena 82 BARK,

Strindbergs drömspelsteknik, cit., p. 84. p. 86. 84 Ivi, p. 84. 83 Ivi,

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semplice, emblematica e astratta, realizzata con tende e drappi («draperiscen»), comunque in relazione concettuale con l’idea della scena shakespeariana di Monaco, stilò vari progetti di allestimento per Un sogno, anche confortato dall’approfondimento delle teorie degli innovatori della scenografia moderna, Gordon Craig e Georg Fuchs. Il palcoscenico dell’Intima era piccolissimo e le risorse del teatro modeste, ma le difficoltà aguzzavano l’ingegno e sfidavano la fantasia, in direzione di un certo simbolismo sperimentale. Strindberg scrive ancora nelle Lettere aperte: All’Intima Teatern, ci siamo decisi a fare un nuovo tentativo con Un sogno e a realizzarlo in pieno. Ma al posto delle scenografie dipinte, che in questo caso non saprebbero rendere vaghi e fluttuanti miraggi, vorremmo solo ricercare effetti cromatici. Infatti, abbiamo scoperto che i drappi di felpa rossa possono assumere tutte le sfumature di colore, dal blu azzurro, attraverso i metalli fusi, fino alla porpora, solo che cada la luce da fonti diverse. Inoltre, abbiamo deciso d’introdurre, al posto dei neutri abiti contemporanei, costumi vivaci, di tutte le epoche purché belli, perché nella dimensione del sogno non si richiede la realtà e abbiamo pieno diritto di preferire “Schönheit” a “Wahrheit”. Sul parapetto che abbiamo mutuato dalla scena molièriana, abbiamo deciso di collocare dei segni allegorici, che rendano con un’immagine l’ambientazione scenica. Esempio: un paio di grandi conchiglie indicano la prossimità del mare; un paio di cipressi ci portano in Italia; due segnali rosso-blu designano Skamsund; un paio di statuette Fagervik; una tavola con dei numeri (di Salmi) è la chiesa e le corone d’alloro indicano la laurea; lavagna e cassino la scuola ecc. I costumi saranno d’ogni epoca, cosa che si confà perfettamente ai sogni, dove spazio e tempo cessano di esistere. Ho anticipato queste note affinché il pubblico non creda che si siano usati dei ripieghi per carenza di scenografie85.

Si sono conservati vari promemoria di Strindberg a Falck per l’allestimento di Un sogno, che sono d’incerta datazione: noi se85

Sv 64, p. 234.

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guiremo quella, peraltro generica, proposta da Björn Meidal, nell’edizione svedese del carteggio. La prima nota sarebbe così del dicembre 1908: Se si darà Un sogno con la scena a drappi, che eleva il dramma su un piano più alto, anche tutto il resto dovrebbe essere liberato dalla materialità del reale. S’introducano dei costumi di fantasia (forse alla Craig, oppure nello stile de L’art nouveau). Agnes può senz’altro indossare una tunica bianca; il Poeta una toga romana con l’occorrente (lira e simili); l’Avvocato con la parrucca, settecentesca, come gli avvocati inglesi ancora oggi. Oppure come il Balivo ne La moglie di ser Bengt meglio e più bello! L’Attacchino: borghese del ’600 ecc. L’Ufficiale come un cavaliere (Svanevit)86. Così il dramma diventa bello e nuovo; elevato! Ci sono tre balletti per Flygare e Falkner: 1) Nel corridoio all’Opera; quella che non è stata scritturata e la scritturata. 2) Durante la laurea quando le due consegnano la corona d’alloro, ma disputano in una pantomima se l’Avvocato debba averla o meno! 3) A Fagervik, dove la Flygare danza la Fuga di Bach e cancella il Valzer di Waldteuffel (Falkner). Ma a questo debbono pensarci le signore e comporre in grande stile (alla Duncan!). Prendiamo i costumi disponibili! Si può immaginare una mascherata o qualsiasi cosa (nel sogno) purché sia bello. Si debbono pagare 5 violini ([il musicista] Halldén aiuterà!). Un armonium (per Bach) potrebbe sostituire il pianoforte! Chiedi alle signore in merito! Si devono ascoltare i consigli, ma non c’è bisogno di seguirli! Sg. Con gli emblemi sulla barriera bisogna andare cauti per non ricadere nel realismo e nel barocco! Forse solo si disturba!87 86 Herr Bengts hustru e Svanevit, drammi strindberghiani rispettivamente del 1882 e del 1901 di ambientazione storica e favolistica. 87 B 17, pp. 191-2.

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Sempre nel dicembre 1908, troviamo ancora: Il sogno. Barriera con emblemi. 1° Papaveri, rossi, con capsula = Sonno e sogno. 2° Un aconito blu = L’ingannevole speranza. Una rete da pesca verde = la realizzazione dei desideri è comunque insoddisfacente. 3° L’Avvocato: bacheca con notifiche e sentenze. 4° I pannelli diventano quelli dei numeri [dei cantici] in chiesa, le corone d’alloro sono appese ad essi (laurea). 5° Statue: Una bianca = Fagervik; una nera = Skamsund. 6° Bandiere = Segnali = Sì = rossa; No = blu. 7° Mediterraneo = Palme o dracene. 8° La Grotta di Fingal: grandi conchiglie = prossimità del mare. 9° Scialle, le rose, rete, diamante, protocollo, una maschera nera (il Moro), manifesti (dell’attacchino). Finale = Quando [la Figlia di Indra] entra nel castello e questo brucia, si possono aprire i fondali e mostrare un castello in fiamme (?) oppure farla andare in un mare di fiamme88.

Un’altra nota coeva è invece relativa a «Musik till Drömspelet»89. Già per l’allestimento del 1907, Strindberg aveva ampiamente suggerito musica di Beethoven, tra cui il Fidelio90, qui ritornano sia Beethoven sia il Fidelio, con Mendelssohn, Bach ecc.91. Un ultimo promemoria è infine databile fra il dicembre del 1908 e l’agosto del 1909:

Ivi, pp. 192-3. Ivi, pp. 193-4. 90 Sv 46, p. 158. 91 Si osservi che nel Fidelio c’è il tema della donna che libera il suo uomo da una tenebrosa prigionia, pure richiamato (indirettamente) in una lettera di Strindberg alla Bosse relativa a Un sogno: «È grande, bello, come un sogno – Tratta naturalmente di Te! – il personaggio di Agnes – che libererà il Prigioniero dal castello» [B 14, p. 131]. 88 89

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Il sogno: Una scenografia fissa. Fondale: Cappa di nubi. Il castello si vede solo con la retroilluminazione. Nr. 1 Malvarose. Nr. 2 La porta. Al di sopra l’albero del brigantino dei mozzi. Nr. 3 La Grotta di Fingal o l’Organo. Sopra un pino = l’Italia. Nr. 4 Mobilia dello studio dell’Avvocato. Cipresso. Pino. Nr. 5 Stufa di lamiera = Skamsund (quarantena) oppure casa dell’Avvocato. Sopra una sbarra o cime di pennone. Nr. 6 Malvarose. Se lo scenografo legge il dramma può aggiungere altre cose: l’aconito blu, la boa, le polene, le ancore dei relitti, addobbi per la laurea; le corone d’alloro; il banco di scuola, la cattedra. Se servissero per questo i nnrr. 1 e 6 si eliminino le malvarose. Così può andare bene! Poiché il Castello comincia e finisce il dramma, si lasciano le quinte in ombra e s’illumina solo il fondo (da dietro). Ma dev’essere considerato come gli emblemi, decorativamente, come un arazzo e raffinato! Fai fare uno schizzo e lo pagherò io!92

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B 17, p. 243; Sv 46, pp. 154-5.

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