LE GINESTRE 1
MARIOLINA BENCIVENGA
ANIME VIRTUALI
EDIZIONI SCIENTIFICHE E ARTISTICHE
Copertina: immagine virtuale realizzata da Gioia Seminario
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ISBN 978-88-95430-08-9 E.S.A.
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Edizioni Scientifiche e Artistiche
Š 2008 Proprietà letteraria artistica e scientifica riservata www.edizioniesa.com info@edizioniesa.com
ai miei figli
Ma voi siete ciechi e sordi, e questo è un bene. Il velo che vi offusca gli occhi, cadrà per mano del suo tessitore, e la creta che vi mura le orecchie, sarà bucata dalle dita che l’hanno impastata. E voi vedrete. E voi udrete. Ma non vi dispiacerà di essere stati sordi e ciechi giacchè conoscerete in quel giorno la ragione occulta di ogni cosa. E così benedirete l’ombra come benedireste la luce. Il profeta Gibran Kahlil Gibran tradotto da Gian Piero Bona
Nota dell’Editore
Avviamo con Anime Virtuali una collana, Le Ginestre, nella quale crediamo molto. Si tratta in effetti di una sfida che l’ESA lancia in un settore, quello della Letteratura, dove è presente una concorrenza agguerrita e di esperienza notevolmente superiore alla nostra. Una sfida che giunge dopo diversi riscontri positivi ottenuti nel campo della saggistica a carattere scientifico ed archeologico che finora ha distinto la nostra produzione. Forti di ciò intendiamo subordinare al medesimo criterio informatore anche la pubblicazione della narrativa. Questo significa evitare la strada del conformismo ideologico, della plageria politica e della subordinazione pseudo-culturale, ma significa anche proporre un genere di letteratura che sia al tempo stesso innovativa per stile e per contenuto. Anime Virtuali di Mariolina Bencivenga ci è sembrata da subito un’Opera che rispecchiasse queste prerogative. Un testo difficile, unico nel suo genere in cui gli stilemi classici della prosa letteraria perdono il loro valore consueto, sostituiti di volta in volta da puri parametri di ricerca. L’Autrice ha inteso indagare un mondo che, forse per timore, forse per scarsa conoscenza, è stato troppo a lungo lasciato in ombra. Complice la sua attività didattica che le ha fornito adeguati strumenti di osservazione e di comprensione dell’animo giovanile, la Bencivenga ha realizzato un romanzo che, prendendo spunto dall’analisi delle difficoltà di relazione fra i protagonisti, lancia un sottile invito ad una riflessione più generalizzata. La contemporanea decadenza delle forme di comunicazione canonica, in favore di una sempre maggiore ambiguità caratteriale, vede nella realtà virtuale uno strumento ideale per alimentare questo equivoco. Il romanzo pur mostrando chiaramente la portata della rivoluzione operata nel settore della comunicazione dai moderni mezzi telematici e virtuali, lascia intuire che gli aspetti caratterizzanti dell’animo umano sono e resteranno costanti.
ANIME VIRTUALI
1 Tommaso smise di chattare, quando s’accorse di vedere il … niente, prima ancora d’averlo cercato nella sua, oramai abituale, fuga virtuale. Fuori dalla stanza, la notte era inoltrata, già da un pezzo… La mano ruotò ancora un po’, da sola, meccanicamente, stretta al mouse, poi, le palpebre gli si abbassarono sugli occhi che continuarono a vibrare nervosamente a scatti, rincorrendo le immagini sbiadite, sullo schermo. La luce del monitor, per riflesso, gli aveva impallidito il viso. Riacquistò la lucidità, solo nell’attimo in cui si piegò, lentamente, per spegnere il computer. Fu allora che, con un’unica mossa, lasciò la postazione accanto alla scrivania e s’abbandonò sul letto: tutto d’un peso. Il buio fu assoluto; ed il silenzio, pure. Il ristoro nel sonno lo catturò e dissipò i suoi malanni ordinari, le tensioni e le insoddisfazioni accumulate, nelle sue ultime ventiquattrore. Ogni notte, uguale: sonno profondo e senza sogni, con l’illusione in un risveglio, nuovo. Il giorno dopo, invece, si ritrovava come al solito, prigioniero, in un vagone del treno: stanco ed annoiato, ingabbiato dalla folla che gli si stringeva svogliatamente, intorno. Spesso gli capitava d’abbandonarsi al dondolio del treno e socchiudendo gli occhi, s’immaginava seduto altrove... Da pochi giorni, sembrava che fosse sopraggiunto, in anticipo, l’autunno. I faggi smagriti all’improvviso, si scrollavano al primo freddo, minacciosi, mentre le larghe foglie dei castagni, accartocciate dal torrido sole dell’estate, s’erano staccate dai rami, l’una dopo l’altra, ricoprendo come tappeti maculati le panchine arrugginite nei viali svuotati dei giardini e nelle strade. Forse, sarà stata proprio di un castagno, la foglia venata di rosso, come sangue, quella che il vento scaraventò contro il finestrino sudato del vagone, nell’istante in cui Tommaso guardò, senza entusiasmo, il paesaggio che gli correva, accanto. Era una foglia ampia quanto il palmo della sua mano ed era venata da
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striature scure che associò, come primo pensiero, chissà perché, ai volti sporchi dalla sabbia dei soldati, lontani, morti in guerra. Gli passarono dinanzi anche le mani di suo padre: stesse venature, stesso colore, quando, tornando dal lavoro, lo cercava impaziente, fino a raggiungerlo per attraversargli con quelle dita incallite i suoi capelli, tracciando solchi nel biondo delle ciocche arruffate, sulla sua fronte, allora, spensierata. Solo dopo averlo trattenuto a forza, per un po’, il tempo di una carezza, suo padre, riapriva le mani e Tommaso, divertito, gli sfuggiva di soppiatto, rapido, come una lepre. Ritrovata la libertà di prima, ricominciava a correre per le stanze soleggiate di casa, ridendo forte. Ricordò, che si catapultava poi, per strada, continuando la sua corsa sfrenata, stavolta con i compagni del quartiere. Gli venne in mente, quanto lo turbava quel tocco ruvido sulla sua fronte. Riprovò l’imbarazzo d’allora nel sentirsi diviso tra l’emozione gioiosa di rivedere suo padre, ed una sorta di paura immotivata, per un suo rimprovero, senza ragione. Strano pensare dopo tanto tempo, che, già da allora, avesse percepito suo padre, così distante. Ancora più strano e doloroso fu constatare che, non gliene avesse mai parlato. Già da bambino non amava conversare, specialmente con lui, per questo lo evitava e dissipava l’imbarazzo delle parole che non trovava, fuggendo come un lampo, fuori di casa. Il vento s’appropriò di nuovo della foglia, non appena il treno s’inclinò da un lato, per un’ampia curva. Alla fermata fu la folla, a trascinarlo fuori, com’era stato il vento, per la foglia. Era giunto alla sua fermata. Si trovò nuovamente circondato dalla gente a rincorrere ansiosa, la propria strada: chi in ufficio, chi a scuola, chi a far la spesa… Tutto banale e scontato, come sempre.
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2 Anche Luciana…chattava. Lo faceva per gioco, per evasione; pur senza ammetterlo, le piaceva farlo spesso. Le regalava, la vaga sensazione, di vivere un piacere sempre nuovo; a volte, anche un piacere perverso. Una sfida verso l’incognito, verso il mondo replicato: stesse domande, stesse false risposte. Stesso, gioco ipocrita: da baro. Nell’illusione di poter vivere fingendo, si assicurava l’immunità ai sentimenti. Evitava d’emozionarsi, per non esporsi al dolore ed alla gioia, così poteva permettersi di vivere nascosta dietro l’omertà d’identità diverse, senza essere obbligata ad esporre, la sua autentica personalità. L’affascinava l’idea di avvicinare, un imprevedibile sconosciuto, che ignorasse, com’era lei, realmente. Non voleva, che gli altri scoprissero chi fosse, e quale fosse la sua vita. Per tutto questo ed altro, Luciana chattava. Preferiva farlo, nelle pause pranzo. Prigioniera dell’ufficio, con le persiane abbassate, nella penombra. Necessariamente sola. Fissando lo schermo, restava a masticare distratta un insipido panino al formaggio sorseggiando piano un caffè, rigorosamente amaro, per via della dieta, a cui non si sottraeva. A modo suo, così, si rilassava. Sulla sedia rimaneva quasi in bilico, seduta sulla punta. Le gambe snelle, accavallate, dondolavano pronte a scattare per un qualsiasi sospettoso intruso. Non amava essere sorpresa in quella veste. Chissà, forse in fondo, la imbarazzava! Al computer, con la mano avvinghiata al mouse, spesso s’agitava. Lanciava gridolini o rideva isterica improvvisamente, dilatando le pupille. Il più delle volte, rimaneva senza accorgersene per un tempo infinito, con lo sguardo calamitato sul monitor. Ogni tanto si fermava; un lungo fremito avvolgeva il suo corpo e sospirava rilassata socchiudendo gli occhi come un gatto che se la gode, dopo un lauto pranzo, disteso sul pavimento tiepido di sole.
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Riprendeva poi, a battere sulla tastiera con lo sguardo calamitato sul display, trattenendo il fiato, ancora più agitata: così andava avanti, fino a quando la pausa terminava. Allora si ricomponeva lentamente, indossando la disinvoltura di sempre e ricominciava a lavorare. Luciana era molto bella. A volte, troppo! Eccessiva nella cura dei dettagli. Abiti firmati, pettinatura impeccabile: una modella. Creava un senso di disagio tra le donne e a volte le capitava di avvertirlo, anche tra gli uomini. Infondeva, senza volere, un’inspiegabile soggezione. Rimanerle accanto per molto, diveniva imbarazzante. L’umiliazione di non somigliarle, mortificava la normalità di chiunque. Oltre alla bellezza, si distingueva per l’intelligenza arguta, per la sagacia e per un pizzico d’imprevedibile follia: cocktel essenziale, per affascinare chiunque. Lunghe le gambe, slanciato il corpo, perfetti i lineamenti, occhi grandi, verdi, taglienti, sorriso ampio, accattivante. Il tutto sapientemente, valorizzato, da un trucco ben studiato. Luciana era uno schianto! E lo sapeva… Andava a testa alta, risoluta, ostentando il suo fascino tra i colleghi imbambolati, persi dietro i loro sterili almanacchi d’avventure, immaginate. Il suo profumo insidiava, tutti, senza risparmio. E questo, la divertiva, un sacco! Spavalda, ancheggiava sui tacchi a spillo e l’eco, rimbombava nelle stanze allineate, degli uffici replicati. Sembrava allora che volassero da sole le carte accumulate con pignoleria ossessiva, sulle ingombre scrivanie. Al suo apparire, tutto si elettrizzava!! Finanche l’aria, si caricava di un vento innaturale che riempiva i polmoni e ossigenava la mente di immagini leggere. Eppure, nessuno dei colleghi, aveva mai notato il mutamento del suo viso, quando si soffermava a guardare dalla finestra nella strada affollata, i bambini che uscivano dalla scuola, all’altro lato della strada. Li osservava e s’inteneriva. Sorrideva a labbra strette e l’espressione degli occhi, d’un tratto, le ritornava infantile. Le piaceva vederli rincorrersi, col fiato che diveniva fumo dalle boccucce rosse e screpolate. Erano risate di
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bimbi colorati che illuminavano, per poco, il grigio plumbeo del cielo autunnale e la sua, banale giornata di lavoro. I bambini e lei: che strano contrasto! Eppure, anche lei era stata una bambina. E il brivido che la percorreva, al pensiero d’esserlo stato, la turbava ancora. Non amava le sdolcinature dei ricordi. Le infastidiva ripensare a tante cose. Dalle più banali, come la bocca impedita al sorriso per via di un’odiosa macchinetta “raddrizza denti”, agli occhiali spessi, calcati sul naso, per correggere una impercettibile presbiopia. “Dio, che orrore! Com’era stato tragico, vedersi così brutta!!” Pensava rammaricata, mordendosi le labbra, tinte abbondantemente dal rossetto perlato. Ora, si rallegrava nell’osservare i bambini degli altri, senza un perché, confortandosi all’idea che figli, non ne avrebbe programmati. Decisamente, non ne voleva avere! “…mai!!! Troppi pensieri, troppe responsabilità. Troppi sacrifici!…” Aveva ripetuto, in più occasioni. E per dare una motivazione credibile, si giustificava dicendo che far nascere un figlio, al giorno d’oggi, sarebbe stato un atto d’incoscienza, visto, come il mondo è diventato: “…un mondo marcio, in sfacelo, in bilico tra guerre interminabili e miserie insolute. No, preferisco che non nasca questo bambino… per il suo bene, non voglio che soffra…” Luciana se lo ripeteva spesso, con ansia, anche da sola, guardandosi allo specchio soddisfatta, nel momento in cui s’abbottonava la camicia bianca, sui jeans incollati, al ventre piatto. Eppure, suo malgrado, continuava a sorprendersi incantata, nell’inseguire i giochi dei bambini. Nel ricorrere le loro corse affannate. Nel rubare le loro schiette risate; rintanandosi, al di là, delle tapparelle abbassate costruite sulle sue paure, inconfessate. Non ricordava giochi, nella sua infanzia. Forse, erano stati pochi. Forse, pochissimi! Si rivedeva bambina con uno zainetto in spalla, eternamente in viaggio, per mete sconosciute. Inseguire scoraggiata, le ombre agitate dei genitori, indifferenti alla sua noia, presi dalle loro argomentazioni, così distanti da quello che
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era il suo mondo. Il cruccio d’allora, era stato quello di non avere avuto, amiche vere, perché le soste, durante i viaggi, erano brevi e gli spostamenti frequenti. Poco contava, s’esprimeva la sua solitudine o se manifestava la difficoltà di non sentirsi a proprio agio. Loro, erano troppo indaffarati per porre rimedi, al suo disagio. Papà ambasciatore, mamma esploratrice: com’era stato tutto, complicato! Esperienze affascinanti ma troppo difficili, per lei: bambina. A volte sua madre leggendole il malumore dipinto sul volto, la zittiva asciutta: «Sei una bambina molto fortunata! Mica tutti hanno la possibilità di viaggiare e visitare tante città, come facciamo noi?…E non stare sempre così imbronciata!! Mica ti stiamo dando una punizione!» «Voglio andare nella mia scuola! Starei molto meglio!» Replicava Luciana abbassando la testa e piagnucolando, per finta. Per fortuna nell’infanzia, c’era stata anche la scuola: la sua salvezza!…E di tanto in tanto, anche i giochi nel cortile e le risate larghe con le poche amiche. Ma tutto il suo passato, le sembrava evanescente, fuggevole. Ancora adesso nel rivedersi quella d’allora, avvertiva che le era mancato qualcosa d’importante…ma era un discorso complicato, che preferiva rimandare per non soffrire troppo, e … «Luciana, hai preparato l’offerta? Dai, che la devo spedire subito…» La collega, con l’abituale freddezza la riportò, bruscamente, alle incombenze lavorative. Immediatamente, voltò le spalle ai ricordi, s’affannò nel riordinare le carte sparse sulla scrivania, aggiungendo sollecita: «Eccomi, sono pronte, arrivo in un attimo…»
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3 Tommaso s’annoiava a morte, al banco di accettazione, nella biblioteca comunale. Quello che gli era sembrato un traguardo importante, il suo primo lavoro, ora gli stava stretto; s’era, ben presto, rivelato un lavoro monotono, sterile e privo d’ogni emozione e per giunta… precario. Tanto per non cambiare! Già di per sé, il luogo nel quale era situata la biblioteca, l’opprimeva. Occupava l’ala di un austero palazzo ottocentesco dall’ampio soffitto a volta, macchiato d’umido, con anguste finestre dai vetri opachi. Le stanze erano semibuie, impregnate dall’acre odore della muffa. Le pareti erano occupate da innumerevoli scaffali carichi di libri accatastati, fino al soffitto. La luce era fioca e proveniva da sbiadite lampade blu, smerigliate, applicate di sbieco e impolverate, sulle pareti stinte di un colore indeciso: tra il rosa salmone ed un grigio sbiadito. Lui, da solo, dietro allo spesso tavolone di frassino si smarriva, tra elenchi da riordinare e titoli da catalogare. Eppure, si dava un gran da fare ad inserire e rilevare dati e notizie utili nel computer, che era posto al centro del tavolo, di fronte all’ampia porta d’ingresso in mogano intarsiato. Tommaso preferiva, quando poteva, allontanarsi per bighellonare nelle diverse stanze e perdersi, come un improvvisato lettore, fingendosi interessato alla ricerca di un libro… “qualunque”, pur di guardarsi intorno e non pensare. Strano, aver trovato, come primo lavoro, proprio quello! Lì, in quella biblioteca nel centro della città, proprio lui, che da quella città sarebbe scappato con piacere… E poi, vedersi sommerso ogni giorno, da tanti libri, lui, che i libri, mal li aveva digeriti specie da ragazzo…gli sembrava che avesse scelto di punirsi, da solo. Ultimo di tre figli, era stato risparmiato dalle ambizioni dei genitori nel volerlo vedere laureato, visto che tale dovere, era stato soddisfatto dalle sorelle maggiori. Sgobbone di natura e troppo responsabili…! L’avevano capito presto, in famiglia, che di studiare, non ne aveva vo-
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glia. Suo padre, prima ancora della madre s’era rassegnato, lasciandolo libero di decidere da solo, il suo destino, di mediocre diplomato. « …qualunque lavoro sceglierai, lo devi amare, per poterlo fare bene…» Fatidiche parole di suo padre: ultimo romantico! Profferite, come incoraggianti all’esame di maturità, giusto per avviarlo all’idea di dover presto, cercarsi un’occupazione. Tommaso, gli aveva sorriso annuendo, quasi per tranquillizzarlo; perché anche se suo padre non lo sospettava, l’aveva già deciso, cosa avrebbe fatto in futuro. E tra sé, un po’ stupito, s’era ritrovato a pensare di suo padre: “Possibile che a cinquant’anni, sia ancora così idealista e sognatore? Boh! Che generazione quella dei miei, tutta costruita su preconcetti moralistici e doveri…ma riescono a focalizzare, quale sia realmente, oggi, il nostro futuro?… Se per il , domani, si può parlare ancora di… futuro?!” Poi fissando suo padre gli aveva risposto calmo, quasi per incoraggiarlo: «Stai tranquillo, papà, troverò un lavoro…andrà tutto bene, te lo prometto» E gli era sembrato di essere stato abbastanza, convincente. L’infanzia di Tommaso era stata serena, a parte, di tanto in tanto, le scontate liti familiari, cui aveva assistito, senza troppi drammi. Qualche volta fra i genitori, altre volte, fra i parenti. Aveva, quindi, dedotto, che non ne valeva la pena accalorarsi, specie in famiglia, dove alla fine non si riesce mai a stabilire da che parte è il torto e la ragione. Per questo, aveva scelto il compromesso del silenzio, di fronte a qualunque loro decisione. Era quindi solito, annuire abulico, apparentemente consenziente, di fronte ai rimproveri per i suoi comportamenti, da: “…immaturo incosciente”. Eppure, quando si ripensava bambino, avvertiva lo stesso ingombro allo stomaco, come un tempo: un pugno in pieno petto che gli toglieva il fiato, ed un nodo che gli stringeva la gola. Perché poi, si sentiva così umiliato? Forse per i divieti che gli avevano imposto? No! In fondo, ne aveva avuto pochi e quei pochi, non gli erano, mai pesati. Forse era il ricordo di qualche rifiuto? Nemmeno. Era stato il più viziato dei tre figli, essendo l’ultimo e per giunta, maschio. C’era stato dell’altro nella sua infanzia, che l’aveva angosciato, segnandolo. Qualcosa di cui, ancora, gli sfuggiva il ricordo.
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Forse, “quel ricordo”, l’aveva voluto annegare nel più profondo buio, della sua coscienza… forse inavvertitamente, aveva voluto rimuovere il momento, l’episodio, che aveva causato le difficoltà, che si portava, addosso, come un vecchio cappotto di cui non riusciva a disfarsi… Ora, si guardava intorno nella biblioteca vuota, cercando inavvertitamente un segno che lo riconciliasse al mondo, il cui senso, attualmente, gli sfuggiva. C’era una gran confusione nel suo presente, apparentemente pianificato. Seguire passivamente la corrente della vita, come aveva scelto di fare per evitare di complicarsi l’esistenza, non l’aiutava molto per capire ciò che conta, realmente. Tommaso non amava interrogarsi. Per questo, ogni volta che s’accorgeva di sconfinare con le sue riflessioni, in argomentazioni imbarazzanti, preferiva rivolgere l’attenzione su altri pensieri, semmai più leggeri e proseguire cauto, fra le pareti della sua doppia esistenza. «Scusi signore… è lei l’addetto all’accettazione? Dovrei consultare questi libri, mi può aiutare?...» Era una ragazzina con gli occhiali dalla montatura rossa che lo scrutava diffidente, dopo averlo interrogato, sorpresa, più che altro, dalla sua aria assente. Tommaso si riprese, trattenne il foglio con su scritto i titoli dei testi, che la ragazza gli indicava. Disinvolto la precedette all’accettazione, concentrato al massimo, per non sbagliare.
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22 Quando Luciana s’affacciò dalla finestra dell’albergo, non capì subito se fosse giorno o ancora notte, colta dal grigiore del cielo che l’investì, come un velo di garza di colore avorio. Le nubi sembravano essersi accumulate sull’asfalto bagnato della larga strada, sulla quale s’affacciava la finestra della sua stanza. Era giunta in tarda serata, in quell’albergo dalle vetrate smerigliate, colorate d’oro antico. L’aveva accolta un’ampia scalinata ricoperta da uno spesso tappeto di velluto, rosso scarlatto. Il buio e la stanchezza della giornata, le avevano impedito di distinguere il volto della città, nella quale, ancora non s’era capacitata, d’essere arrivata. In pochi istanti, ripercorse a mente gli ultimi eventi: il panico iniziale per via del biglietto dimenticato, la delusione per non essere partita con gli amici, la decisione di ripartire ugualmente e sola, quasi per rivalsa, al caso che sembrava godesse nell’imbarazzarla. E per finire, l’emozione del volo, fino… a Praga. In quel nuovo mattino, nel tepore della stanza si sorprese particolarmente, eccitata. “ Sono a Praga…” Si ripeteva, “…da sola, e proprio a PRAGA!!!” Furono rimossi, in un istante, i dubbi e le ansie dei giorni precedenti. “A volte, bisogna affidarsi al caso…forse è già tutto stabilito…ed è meglio così… ciò che il destino ha deciso… possa avverarsi!” Assonnata sbadigliò e allargò le braccia rivolta al sole che trapelò, al di là, delle tende di spesso broccato, rosa salmone. Canticchiando schiacciò la fronte contro il vetro appannato della finestra e guardò in basso. Il grigiore cominciava a diradarsi a mano a mano, e la vista della città, per l’imponenza, le mozzò il fiato. Osservò la strada, era ampia ed alberata. Austeri e solenni gli edifici, s’ergevano uno incollato all’altro, come per sorreggersi a vicenda. Erano palazzi che portavano chiari, impressi sulle facciate segni di arte e antica regalità. Le sembrò di cogliere, accanto ai volti malinconici delle statue e degli af-
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freschi che ne impreziosivano le facciate, scolorite tracce di un passato doloroso, che il tempo, come piaghe, aveva impresso nei mattoni e preservato. Lì, dove l’intonaco appariva scrostato, affiorava, di tanto in tanto, una nota insolita, un colore diverso, un fregio, un’incisione, che induceva il passante alla riflessione e ad immaginare quale fosse stata, la sua storia. Si figurò la gente che aveva respirato fra quelle pareti, in un passato, non molto lontano. Le parve che le finestre buie di fronte, le parlassero; ne distinse i canti delle donne, gli austeri comandi maschili, le risate squillanti di bambini e su tutto, le sembrò di ascoltare le note soffuse di melodie struggenti, d’antiche sinfonie. Fu allora che chiuse gli occhi e si calò in ciò che le sembrò una realtà troppo bella per essere vera. Le sembrò, di vivere in una realtà… virtuale. Le giunse, scuotendola, l’eco del fiume che dall’altro lato della strada, come il mare, rincorrendo le onde, ogni tanto s’increspava. Lo vide ondeggiante, mutare il colore ed il percorso, sospinto da un’indomita corrente, che trascinava con se arbusti sottili ed ingiallite foglie, divenute molli. Si sporse leggermente sul marmo gelido del davanzale, dopo aver spalancato la finestra, per scorgere l’inizio e la fine del fiume. Non individuò né l’uno né l’altra; le si appannò invece lo sguardo, alla vista dei ponti. Ne scorse tanti da non riuscire a contarli; li vide stagliarsi allineati, fino all’orizzonte. L’aria oramai, s’era del tutto rischiarata. Cominciò a distinguere nettamente i colori, anche quelli più lontani: il rosso delle tegole sui tetti, il nero delle torri, l’ambra delle vetrate degli edifici più antichi e l’oro delle guglie dei campanili che s’addossavano, confondendosi, alle cime merlettate dei camini per perdersi nel grigio ardesia delle chiese. Il suo sguardo volò lontano, fino a raggiungere le verdeggianti chiome dei fitti boschi, che, cresciuti distanti dalla città, colmavano la vallata fino ai monti. Tirò un ampio sospiro fissando in alto il cielo, completamente terso, lo vide segnato dal lento volo di cigni che s’adagiarono su un isolotto, posto al centro del fiume. “E’ tutto reale, ciò che vedo…?” Si chiese, interdetta. “…o sto sognando?”
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23 Quando Tommaso atterrò all’aeroporto di Praga, aveva cominciato, da poco, a nevicare. Dalla periferia immersa nella fitta abetaia, la strada vuota, lo condusse velocemente in città. La neve si fece, all’improvviso, più spessa, la strada più ampia e tutto divenne bianco, intorno a lui. Tommaso cercava di distinguere, tra i fiocchi i profili delle case, le insegne dei negozi; avrebbe voluto intravedere i volti delle persone. Ne inseguiva le sagome nere coperte dall’ombrello; incuriosito le spiava dal finestrino, del Taxi giallo che procedeva, lento. Fu ben poca cosa, ciò che riuscì a scorgere, nel diffuso biancore della neve. Giunto nella sua camera d’albergo, finalmente si rilassò, distendendosi sul letto e nel tepore della stanza sprofondò immediatamente, in un sonno profondo. Appena sveglio, l’indomani mattina, s’organizzò per cominciare l’escursione in città. Dopo aver fatto colazione, si precipitò in strada, eccitato. Gli bastò uno sguardo intorno, per rimanere completamente affascinato da quella che gli sembrò subito, una città fuori dal tempo reale. La neve aveva contribuito a renderla irreale. Le strade, gli edifici, le persone, tutto e tutti, sembravano trattenere il fiato insieme a lui, quasi per fermare il tempo e viaggiare all’indietro col pensiero, per ritrovarsi in un’altra dimensione, in quella di un’epoca remota. Si fermò in un’ampia piazza della città vecchia ed i rintocchi lenti dell’orologio lo distolsero, dalle sue riflessioni. Vagò per molto, perdendosi volutamente, inseguendo le impronte dei passanti, sulla neve fresca. Si trovò a costeggiare l’argine del fiume, nel pieno centro, della città. Si stupì, dinanzi all’espressione di statue severe che sembravano pronte a rimproverarlo. Superò ponti senza fine e imponenti torri dalla pietra nera, spolverate dal bianco di una sottile coltre nevosa, sulla cima. La gente lo sfiorava e non parlava, cauta guardava l’asfalto, attenta a non scivolare. Il silenzio in strada era così ingombrante da contagiare anche chi, abitualmente, era portato a chiacchierare.
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Anime virtuali Quel giorno, il freddo intenso, aveva intrappolato la bocca ed i pensieri di tutti, senza volerlo. Tommaso, alla fine della strada per riscaldarsi, si rifugiò in un locale e lì, finalmente, lo invase, il chiasso più assordante. Fu piacevolissimo, essere sommerso dalla folla, di cui aveva cominciato ad avvertire la mancanza. Si guardò intorno e gli sembrò che tutta la gioventù praghese si fosse data appuntamento proprio lì, per dare voce al silenzio, tenuto per la strada. S’ambientò subito e gli sembrò di aver ritrovato l’atmosfera di casa sua. Ordinò a gesti e, nell’attesa, si guardò intorno, incuriosito. Scosse il capo divertito, perché gli vennero in mente le parole di sua madre che gli aveva indirizzato, quando le aveva comunicato del viaggio. «…vai pure! Quando capirai, che tutto il mondo è paese?!» Tommaso, non le aveva badato più di tanto; era abituato al suo replicare, tanto per scoraggiarlo. Per questo le sue osservazioni incidevano poco, specie ultimamente, sulle sue decisioni. Sua madre, lui la vedeva come una, che era rimasta “bloccata”, in un’altra vita, molto diversa dalla sua. Presa, principalmente dai doveri e dai traguardi che i figli devono realizzare, a tutti i costi, e quanto prima possibile. Non si era voluta aggiornare sulle difficoltà reali, di una gioventù che non ha nulla in comune con la gioventù che l’era appartenuta. Lei, preferiva ingannarsi con certezze inesistenti, che Tommaso amava definire: le sue antiche utopie. «Mamma, tutto il mondo non sarà mai un sol paese…ci differenzia la storia, che resta diversa, e ci connota per quello che siamo… In ogni paese le lacrime e le gioie hanno colori differenti!» Suo padre invece, gli aveva solo detto, turbato ma per niente sorpreso dalla decisione, dell’improvvisa partenza: «…se l’hai deciso, vai… ma sappi, che i problemi non si risolvono, scappando…!» Tommaso gli aveva girato le spalle prima ancora che avesse finito di parlare. «Chi ha mai detto, che voglio risolvere così i MIEI problemi?» Sottolineò “miei”. «…ho solo voglia di evadere e basta…Quante complicazioni, per una semplice vacanza!!» Aveva borbottato, stipando nervosamente nel borsone, tutto quello che
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gli era capitato, per primo. Versò altra birra nel boccale e, leggermente brillo, guardandosi intorno, lo levò per inventarsi un brindisi alla sua famiglia, giusto per immaginarli accanto. Sentì di amarli immensamente, e capì quanto gli avesse fatto bene l’essere partito. Nell’attimo in cui mandò giù l’ultimo sorso di birra, pensò, convinto: “la lontananza fa bene…perché i veri sentimenti si apprezzano maggiormente, quando si è… distanti.”
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24 Era oramai sera, quando Luciana decise che avrebbe concluso, quella prima giornata a Praga, se non prima d’aver attraversato, ponte Carlo. La bufera di neve aveva ricominciato più incalzante ed un gelido vento cominciò a soffiare, facendola improvvisamente rabbrividire. Giunta dinanzi alla Torre delle Poveri, porta d’accesso al ponte, al di la del quale si stagliava il profilo dei tetti spioventi della Città Vecchia, Luciana s’arrestò esterrefatta. Guardò più in alto che poté, e nel turbinio della neve, scorse statue e guglie dorate, che sormontavano la Torre. Era entusiasta a tal punto che non s’accorse quanto il vento fosse divenuto inclemente e la neve più fitta. Decise, di proseguire. Superò l’ampio arco della torre e fu sul ponte. Lo scrosciare del fiume sotto di lei, per un poco la catturò. Guardò verso il basso: gruppi di anatre agitando le ali striate, starnazzavano rumorose. Intanto, sparuti gruppi di germani reali, cercavano di sollevarsi dalle grigie acque, dibattendosi indomiti, contro la bufera. Anche Tommaso, nel frattempo, era giunto al ponte, attratto come da un richiamo e da lì, estasiato, non s’era più staccato. Dopo aver poggiato i gomiti sulla nera pietra della balaustra, s’era soffermato a fissare gli spessi piloni del ponte, contro i quali la corrente del fiume, aveva trascinato rami divelti da alberi abbattuti dal forte vento notturno. Si ergevano imponenti, lungo il ponte, gruppi di statue. Ora a destra, ora a sinistra. Erano statue di Madonne e di Santi, dai volti tristi ed imploranti. Giusto di fronte al ponte, si allargava l’isolotto verdeggiante di Kampa. Anch’esso appariva dilaniato dal vento, mentre la corrente del fiume rantolava, contro gli argini, per poi impattare schiumosa e con fracasso, contro i piloni. La neve che oramai aveva del tutto ricoperto ogni cosa, sembrò che avesse reso più dolci i profili delle statue e smussato gli spigoli delle guglie e dei campanili; come ai volti della gente, aveva rasserenato gli sguardi, dissipando le tensioni del giorno, oramai al tramonto.
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Finito di stampare presso Cangiano Grafica in Napoli nel mese di Maggio 2008
E.S.A.
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Edizioni Scientifiche e Artistiche
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«…è il vento. Lo vedi? Non m’era mai capitato prima, di vedere… il vento. Guarda lontano, in alto. Osserva il profilo delle guglie, la sagoma austera delle torri. Lo vedi...? È proprio… il bianco della neve confuso al cobalto del fiume, al nero della pietra di ogni torre, all’ambra dei palazzi più imponenti… che… colora il vento. Ed il vento è all’improvviso bianco e poi si fa giallo e nero… guarda ...il colore del vento! Non è stupendo?!»