TRADIZIONE RICERCA E INNOVAZIONE
DAL 1960 LA TRADIZIONE DI FAMIGLIA CONTINUA DA ALLORA NON ABBIAMO MAI SMESSO DI CREDERE IN CIÒ CHE FACCIAMO
La Dolomiti Materassi Group, azienda giovane e dinamica, nasce nel 2006 da un’esperienza di tradizione famigliare da oltre sessant’anni, nel settore materassi e sistemi di riposo.
L’esperienza di oltre quarant’anni del suo fondatore l’ha resa da subito un’azienda innovativa, competitiva, concorrenziale e tecnologicamente avanzata.
Rinnovamento che ritroviamo nella coerente e assidua ricerca all’evoluzione di soluzioni che possano rendere il riposo di tutti noi qualitativamente sempre migliore. La nostra ricetta vincente è una grande passione per il nostro lavoro, la ricerca costante di tecnologie all’avanguardia e materiali innovativi, tutto ciò ci ha permesso di diventare in pochi anni un punto di riferimento del settore. Nuove tecnologie, macchinari all’avanguardia e materiali innovativi, grazie anche all’abilità delle nostre maestranze, sono gli strumenti che ci permettono di realizzare prodotti di assoluta qualità.
Dolomiti Materassi annovera, fra la propria clientela, anche aziende leader, in Italia e all’estero, nel commercio dei propri prodotti.
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LA MORTE DI CAMPIONI E L' IMMORTALITÀ
"Dio è una brezza, un sussurro".
L'immagine poetica ci è suggerita dalla Bibbia, Primo libro dei re nel quale Elia cerca inutilmente il volto del Signore in un uragano, un terremoto, un fuoco. Ma Dio parla al cuore, ed Elia avverte la Presenza di Dio “nel sussurro di una brezza leggera”. Questo importante passo biblico è ricordato dalla associazione bellunese Demamah in occasione della morte di Joseph Ratzinger (Marktl 16 aprile 1927-Roma 31 dicembre 2022) considerato “padre e faro”.
Sicuramente c'erano anche questi artisti del canto gregoriano fra i centomila che hanno partecipato alla veglia funebre del papa capace di ritirarsi dal clamore del potere per abbracciare il silenzio. Egli, 265° papa, morto a 95 anni è stato considerato il papa della Restaurazione, perché definì l'omosessualità “inclinazione oggettivamente disordinata” e fu accusato di ostruzione alla giustizia nella Contea di Harris nel Texas per avere coperto, dice l'accusa( poi caduta) i casi di molestie sessuali di prelati negli Stati Uniti. In realtà Papa Ratzinger ha compiuto l'11 febbraio del 2013 il gesto più rivoluzionario dei duemila
anni di storia della Chiesa Cattolica rinunciando al ministero di vescovo di Roma, presentando al Concistoro, le dimissioni e diventando così papa emerito. Un gesto rivoluzionario che ha scosso l'Ineffabile Chiesa. La morte di Benedetto XVI è stata l'ultima, eccellente, del 2022. L'ha preceduta di soli due giorni quella di Arantes do Nascimento (Pelè) per le cui esequie funebri il Brasile e tutto il mondo del calcio si è vestito a lutto; e l'8 settembre da quella della regina del Regno Unito, Elisabetta seconda, alla cui cerimonia pubblica, dicono le statistiche, hanno assistito tramite la televisione, almeno 4 miliardi di terrestri.
Noi comuni mortali abbiamo finora assistito in questo inizio 2023 alla morte di Gianluca Vialli, campione del pallone e di Gina Lollobrigida, la Bersagliera in Pane, amore e fantasia e la Fatina nelle Avventure di Pinocchio. Anche per queste due morti eccellenti tanti ricordi, i coccodrilli giornalistici, e le cerimonie abbastanza lunghe da consentirci l'elaborazione del lutto.
Nessuno di questi personaggi era nostro parente, ma ciascuno di noi, inconsciamente o con chiara volontà, aveva loro assegnato un ruolo nella propria vita. Papa Ratzinger era il difensore della fede capace di cercare Dio nel silenzio e nella riflessione teologica. Pelè, o Rei, l'uomo che faceva il lustrascarpe senza immaginare che milioni di lacrime avrebbero bagnato le sue scarpette. La regina Elisabetta II rappresentava un esempio di fedeltà allo Stato. Gianluca
Vialli il campione che ha lottato contro il tumore senza il timore di mostrare la propria debolezza. Gina Lollobrigida la bellezza tanto grande quanto effimera. Per capire come riuscire a superare il lutto dobbiamo chiederci cosa realmente ci verrà a mancare con la loro morte e più ancora quanto erano modelli da imitare. Persone elevate e idoli da venerare: il riscatto del pallone, la ricchezza reale (pochi credono ancora alla nobiltà d'animo dei potenti), le fragilità della bellezza fisica che il tempo sciupa e distrugge. Idoli che altri idoli finiscono per rimpiazzare. Da questo gioco delle parti rimane escluso Ratzinger: egli ha attraversato e conosciuto tante miserie umane e quando gli sono state insopportabili ha scelto come Elia di cercare Dio nella grotta dove il silenzio è ricchezza spirituale. La sua non è stata una rinuncia alla lotta, ha scelto solo un altro campo di gioco e ha vinto: la morte lo ha solo reso immortale.
Sommario
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FEMMINICIDI, IN ITALIA NUMERI IN
SALITA
Nasce un “Atlante sui femminicidi”: basterà per sensibilizzare la gente al fenomeno?
Non c’è fine, le donne continuano a morire per mano di ex o famigliari che non accettano un “basta”. Che non accettano, in sostanza, la fine di una storia per mano di una donna. Lo Studio Atlantis pubblica il primo “Atlante su femminicidi”. Dall’inizio dell’anno sono già cinque i femminicidi in Italia, è una piaga sociale che non intende fermarsi. Il 2022 è stato un anno significativo, che sia lo stesso per il 2023?
In base ai dati riportati dalla Direzione centrale della polizia criminale, nel 2022, nel Paese, sono stati commessi 309 omicidi, 122 vittime donne, di cui 100 uccise in ambiente famigliare: di queste, 59 per mano di partner o ex partner. I numeri fanno pensare che la legge e i provvedimenti attuati fino a questo momento non siano abbastanza incisivi per risolvere un fenomeno sociale agghiacciante: anno dopo anno la condizione si aggrava. Infatti, sulla base dei rapporti del 2021 i numeri sono poco rassicuranti: il numero totale di omicidi nel 2021 era di 299, tra cui vittime donne 118, nel 2022 l’aumento è del 3%. È stato necessario ideare uno strumento per analizzare, contrastare e sensibilizzare questo fenomeno sociale: “L’atlante dei femminicidi”. La dice lunga. Lo Studio Atlantis, con diverse collaborazioni, e il gruppo di ricerca di Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, hanno organizzato i dati dei femminicidi su una cartografia, mettendoli a disposizione di tutti. I promotori ritengono che, questo mezzo, possa aiutare l’analisi e di conseguenza faciliti l’elaborazione di strategie di prevenzione mirate ed efficaci. È possibile navigare su una vera
e propria mappa interattiva, osservando le specifiche zone d’Italia che interessano. Ogni zona digitata, fornisce i dati rispetto l’età e la nazionalità della vittima e del carnefice. Oltre a innumerevoli informazioni sul delitto: causa e accadimenti a seguito del reato. È possibile avere un approfondimento sul rapporto tra vittima e assassino, presenza di violenze pregresse e ulteriori malcapitate per la stessa mano. È, inoltre, possibile consultare grafici, articoli di giornale, bibliografie e sitografie, e report della Casa delle donne dal 2006 a oggi.
L’Atlante non mostra solo statistiche, ma racconta storie di violenza di genere, con volti, nomi e storie. Il progetto è nato per far fronte a un fenomeno che, sembra, non avere abbastanza voce. Chissà se l’opinione pubblica si sensibilizzerà, in maniera critica e più competente. Importante è la prevenzione. I primi passi da compiere per la donna è
riconoscere, senza negare, la violenza e avviare un percorso di uscita dagli abusi: la chiamata al 1522 - numero nazionale antiviolenza e stalking - e il contatto con i centri antiviolenza territoriali. Le chiamate, da novembre 2022 sulla base di dati ricavati dall’Istat, sono pari a circa 12 mila, di queste 7 mila sono considerate valide.
Ancora troppe le storie sbagliate che arrivano al capolinea con l’omicidio di una donna. Le storie d’amore malsane sono più comuni di quello che si pensa, e come sostiene la psicologa californiana Lilian Glass, scivolarci dentro è un attimo. Lei stessa nel 1995 ha coniato il termine “relazione tossica” che, prodotta da una combinazione difettosa di fattori, crea un rapporto inevitabilmente imperfetto e sbilanciato. Il meccanismo è sempre lo stesso: un gioco di potere, uno dei due abusa, squalificando e denigrando costantemente l’altro.
Problemi di "salute" di Cesare Scotoni
LA SANITÀ HA BISOGNO DI CURE URGENTI
“Art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
L'articolo della Costituzione fissa in modo inequivocabile alcuni distinti concetti. Il primo:la Salute è un diritto Fondamentale, Ovvero va tutelata dalle Leggi poiché quel diritto individuale è parte di un interesse collettivo. Ecco quindi perché esistono leggi che sono a tutela della salute e dell’ambiente che intervengono in ambiti che vanno dal luogo di lavoro, alle emissioni in ambiente, allo stoccaggio dei rifiuti. Ed è un Diritto talmente importante che agli indigenti (cioè a chi è povero) le cure della salute sono da prevedersi, per legge, a titolo gratuito. Lo dice la Costituzione.
Qui, per quella che oggi appare come una stortura, abbiamo visto il tema dell’Universalità del Servizio sovrapporsi con quello della Gratuità. Per cui, anziché distinguere tra chi è povero e chi non lo è, portando a detrazione l’interezza delle spese mediche e farmaceutiche per chi non rientra tra gli indigenti e non è già coperto da assicurazione, si è costruito un sistema di “ticket” utile solo a “gonfiare” la spesa per la gioia di chi nel settore della salute opera commercialmente. Questo si coglie chiaramente sia in ambito farmaceutico, nella differenza di prezzi e consumi di
farmaci da paese a paese, come nei meccanismi delle tariffe in convenzione. Tra le cose più bizzarre da comprendere si dovrebbe cogliere il fatto che ancor oggi diverse aziende sanitarie fatturano alle assicurazioni che coprono il valore del ticket anziché il costo industriale degli interventi in barba al danno erariale che ne consegue.
In un momento storico in cui il Dibattito sulla Libertà di Scelta, Concetto esteso per alcuni all’Eutanasia di Stato, ha cozzato duramente prima con l’autorizzazione urgente e sperimentale concessa all’utilizzo
di farmaci pur non approvati , poi con la temporanea obbligatorietà de facto del loro utilizzo in assenza di una responsabilità civile e penale per chi li produce o somministra, il conflitto tra interesse della collettività e l’introduzione di una obbligatorietà sostanziale di trattamenti sanitari non disposti per Legge e perciò privi di un responsabile del danno è tornato centrale, nel biennio che ci siamo lasciati alle spalle. Il comprendere e ridefinire il fine di un Sistema Sanitario Nazionale è diventato perciò urgente. Così come, nel caso dell’Eutanasia, centrale sembra ora il dover conciliare nei fatti il tema del privare deliberatamente una persona della vita proposto come atto di rispetto della persona umana e trovare il giusto rapporto fra medico e paziente. Concetti quindi imponenti nelle loro implicazioni e da tradurre al più presto in una risposta concreta che deve essere puntuale, territoriale e soddisfacente.
in presenza o meno di un efficace Servizio Sanitario Nazionale, possono comunque continuare a permetterselo. Se la maggior parte della gente oggi, fortunatamente, non è povera essa ha però bisogno di avere tempestivamente una diagnosi problema. Per fare questo, lì dove si può, si dovrebbero cambiare i termini del problema pretendendo l’efficacia prima dell’efficienza e distinguendo in modo netto tra il ruolo del medico di base, gli strumenti a sua disposizione, i relativi meccanismi di verifica delle performances e di riconoscimento delle premialità, con la costruzione di un sistema di Costi Industriali che si interfacci con gli strumenti informatici nella creazione di sistemi esperti in grado di dare quelle indicazioni predittive a tutto il sistema farmaceutico ed ospedaliero a valle del “Front Office” rappresentato da quella Medicina Territoriale il cui fallimento a livello nazionale è emerso drammaticamente nel triennio 2020/2022.
che servirà sempre per quella frazione percentuale di casi si chiamerà il “Grande Specialista”. Lì dove servono buoni medici è meglio avere buoni medici. Il mito secondo il quale un territorio marginale si debba inventare eccellenza per rispondere a dei bisogni di base e magari debba creare un ospedale per attirare eccellenze è naufragato in Trentino, dieci anni fa, tra NOT e Proton terapia. Errori da non ripetere. Una buona formazione sul territorio, un’organizzazione che risponda con tempestività e sfrutti al meglio le nuove tecnologie per far si che i medici facciano i medici, gli infermieri il loro lavoro assistenziale e gli impiegati amministrativi facciano gli impiegati amministrativi. Se con il pretesto di andare oltre la gratuità agli indigenti si è costruito un sistema che ha smesso per tre anni di offrire l’universalità del servizio è il caso di ripensarlo. E l’occasione ce l’ha offerta il pessimo Roberto Speranza demolendo quel poco di credibilità sopravvissuto al Rosy Bindi.
POLONIA: STORIA DEL BALUARDO OCCIDENTALE
La guerra fra Russia ed Ucraina ha focalizzato l'attenzione mondiale su quell'epicentro conflittuale ed anche sulle nazioni vicine. La principale di queste è la Polonia che ha avuto una storia molto travagliata nel senso che lo spazio politico organizzato dal popolo polacco ha subito nel corso dei secoli molte variazioni. In una breve sintesi che non può essere esaustiva, data la grande varietà di nazioni coinvolte nelle mutazioni storiche polacche, si può partire dal 1280 quando l'arcivescovo Svinka difese la corona polacca contro i Margravi del Brandeburgo. Nel 1383, dopo cento anni di combattimenti, si costituisce stabilmente una prima nazione polacca, che diverrà in seguito una confederazione polacco - lituana. Nel 1500 il potere della confederazione viene esercitato da una comunità di nobili che dal lato
Ovest dovrà affrontare l'espansionismo dell'Ordine Teutonico, mentre ad Est riuscirà a conquistare una gran parte della Russia, compresa Mosca nel 1601. In seguito gli Zar ebbero però il sopravvento e la sovranità russa recuperò i propri territori anche a causa della debolezza dei polacchi fiaccati dalle precedenti guerre difensive contro gli svedesi ed i brandeburghesi. La Polonia tuttavia, pur in condizioni precarie, riuscirà in seguito a distinguersi al fianco del Sacro Romano Impero, contro gli invasori turchi dell'Europa, dando un contributo fondamentale nella vittoria cristiana di Vienna del 1683. Successivamente la Polonia cominciò a ridursi territorialmente fin quasi a scomparire nel 1795 con l'eccezione del Granducato di Varsavia, ma poi con l'avvento di Napoleone ebbe un breve
periodo di rinascita terminato con il fallimento della spedizione napoleonica in Russia, partita proprio dalla Polonia. Dopo la sconfitta del Grande Corso la Polonia venne più che penalizzata al Congresso di Vienna del 1815 e ridotta di fatto alla piccola Repubblica di Cracovia scomparsa nel 1846 con l'annessione all'Austria. Nonostante vari tentativi insurrezionali la Polonia dovrà attendere fino alla fine della prima Guerra Mondiale per ottenere il proprio territorio nazionale. Come riconoscimento del contributo dato dalle legioni polacche del Maresciallo Pilsudsky attive durante la guerra a fianco di francesi ed inglesi la Polonia venne rifondata. All'inizio il presidente Pilsdusky dovette subito affrontare le truppe bolsceviche sconfiggendole nella battaglia della Vistola del 1920. Dopo la sua morte nel 1935 la Polonia rimase di
fatto una dittatura militare che dopo la crisi inerente alla questione di Danzica (città tedesca isolata in territorio polacco) venne invasa dai nazisti nel 1939, fatto che coincise con l'inizio della seconda Guerra Mondiale. In ordine con gli accordi contenuti nel patto Ribbentrop -Molotov la Polonia fu spartita fra URSS e Germania. Fu quella una guerra impari. Secondo una leggenda-propaganda i cavalieri polacchi affrontarono i carri armati e furono sterminati. Accertata storicamente invece la strage di Katyn dove i sovietici sterminarono almeno 4mila inermi ufficiali polacchi e altri 18 mila civili. Lungi dall'arrendersi i resistenti polacchi mantennero in vita la nazione, aiutati da Francia, Inghilterra, Vaticano attraverso i gesuiti ed anche dai giapponesi, tramite il loro ambasciatore che faceva il doppio gioco (probabilmente in funzione antisovietica), fornendo a vari militanti polacchi passaporti con immunità diplomatica. Così si riusciva a mettere
in crisi il servizio di sicurezza delle SS, ma in ogni caso questa collaborazione giapponese terminò dopo Pearl Harbor. Si cita infine l'insurrezione di Varsavia dell'Agosto 1944, che però venne repressa nel sangue a causa anche del mancato appoggio sovietico ai resistenti. Bisogna anche ricordare un episodio fondamentale con enormi ripercussioni sullo svolgimento della seconda Guerra Mondiale e cioè il trafugo di un esemplare della macchina tedesca Enigma da parte dei patrioti polacchi che poi la passarono agli inglesi al fine di decrittare le comunicazioni in codice fra le forze del Reich dando un vantaggio strategico incalcolabile alle potenze alleate. Dopo la fine della guerra, liberata dalle truppe russe ed anche da volontari locali la Polonia divenne una Repubblica Popolare, stato socialista alleato dell'URSS nel Patto di Varsavia, modificando ancora i propri confini con uno spostamento del territorio ad Ovest a spese della
Germania ed a favore dell'URSS. Molti i contatti culturali della Polonia con l'Italia. Nel 1978 fu eletto Papa il polacco Karol Wojtyla;negli anni Ottanta si sviluppava Solidarnosc sindacato finanziato in parte con i fondi del Banco Ambrosiano di Calvi che forniva sostegno ai lavoratori in sciopero.
Legami storici fra i due paesi si trovano nell'analogia riportata dagli inni risorgimentali da Mameli “Sangue d'Italia” al “Sangue Polacco.”
Inoltre si ricorda che nel 1863 i garibaldini bergamaschi del colonnello Francesco Nullo perirono combattendo contro i russi per la libertà della Polonia che poi ha dedicato loro un monumento e molte strade.
Verso la fine del Novecento con la dissoluzione dell'Urss nascerà la Repubblica di Polonia che diventerà membro della UE e della Nato. Oggi i polacchi sono, loro malgrado, spettatori in prima fila nella guerra ucraina.
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economia & finanza di Arnaldo De Porti Tra RICCHEZZA, PIL, ECONOMIA e SOCIETÀ
Negli anni 50-60 io ed altri che, come me, intravedevano i benefici di un largo mercato, di una libera circolazione e, soprattutto, di una tanto agognata armonia sociale, ci siamo tutti adoperati in tal senso con molto entusiasmo a Venezia, presso la splendida isola di San Giorgio, vis à vis alla Piazza San Marco e relativa Basilie, tutto ciò, grazie al patrocinio dei fondatori dell’Europa che avevano demandato al C.I.S.C.E ( Centro Italiano Studi sulle Comunità Europee), sotto l’egida dell’On.le Caron, di coordinare gli studi volti ad approfondire e sviluppare le tematiche relative alla formazione dell’Europa, a cui avevamo creduto con tanta fiducia e speranza in funzione delle sorti, non solo dell’Europa stessa, ma anche dell’intero pianeta.
Sapevamo aprioristicamente però che il percorso sarebbe stato difficile e molto accidentato, tuttavia non abbiamo esitato un solo attimo nel continuare negli sforzi insiti in un tale progetto che, non solo a mio avviso, è ancora valido. Evidentemente i fondatori non hanno tenuto conto allora dell’elemento “uomo” che, non sempre, è disponibile ad ottemperare in positivo a comportamenti riconducibili all’etica, al rispetto dei diritti altrui, a regole di natura economico-finanziaria persino in campo…clericale. Realtà queste ultime che, se prima venivano praticate “sportivamente” in ambito nazionale, ora si sono sviluppate a livelli ampi anche in Europa, come abbiamo visto di recente. Oltre che altrove.
A questo proposito va detto che il PIL globale, pur essendo cresciuto portando prosperità a miliardi di persone, ha crea-
to al tempo stesso un’economia globale incredibilmente divisiva, degenerativa, destabilizzando rapidamente anche l’equilibrio dell’ecosistema dal quale dipendiamo.
Va detto subito che la crescente disuguaglianza non è un male imputabile al progresso ed alla correlata crescita del PIL, bensì ad una pessima scelta politica che trova nella scarsa intelligenza e preparazione dei nostri governanti, un humus fertilissimo per far accendere conflittualità sociali in tutti i contesti. Detta disuguaglianza infatti non costituisce altro se non una mancanza di intelligente progettazione del sistema economico che dovrebbe invece essere progettato in funzione prospettica di una seria ed etica distribuzione della ricchezza. Al contrario, succede che i ricchi stanno diventando sempre più ricchi, mentre le fasce precarie stanno accentuando tale precarietà sino a trasformarsi in poveri che prima non erano. E questo processo, purtroppo, è in continua ascesa senza che, almeno a mio avviso, possa invertire la rotta che ormai pare irreversibile.
A questo punto che dire ?
Se l’Italia è ridotta a questo modo, se l’Europa di certo non è di esempio, se persino la Chiesa ha dei problemi che potrebbero essere fatali soprattutto per la sua credibilità nel raffronto con le relazioni confessionali di Russia, Cina ed Iran, se gli Stati Uniti d’America presentano seri problemi con fatti di cui Bolsonaro e Lula sembrano imitare quelli di Trump, cosa potrà aspettarsi il pianeta a breve ? Invocare poteri forti è antidemocratico e non si può accettare certo l’imposizione coatta delle dittature che sono convinte di rappresentare l’ordine con la forza come, per esempio, fa Putin, ma allora, rebus sic stantibus, dovremmo davvero rassegnarci ad un “progresso” che divide, degenera e destabilizza, indirizzandoci verso obiettivi che tendono solo a peggiorare gradualmente ed in termini esponenziali ?
Attenzione, perché gli ingredienti ci sono tutti, mentre mancano i rimedi. Non vorrei che, alla fine, potesse sfuggire il cosiddetto controllo a livello globale.
Tra
La crescita della ricchezza, alias PIL, senza una intelligente scelta politica, determina e alimenta aspetti molto negativi e, purtroppo, di dubbia reversibilità.
I Romani hanno davvero scoperto l’America?
Se rivolgessimo ad un pubblico eterogeneo la celebre domanda ‘’ Chi ha scoperto l’ America?’’, si potrebbe statisticamente riscontrare che la maggior parte dei soggetti interpellati risponderebbe senza esitazione ‘’ Cristoforo Colombo’’, una piccola porzione di essi nominerebbe Amerigo Vespucci, mentre quasi nessuno oserebbe ipotizzare un contatto tra un uomo del ‘’ Vecchio Mondo’’ ed il suolo del ‘’Mundus Novus’’ antecedente al 1492.
Sebbene la risposta al precedente quesito, che riecheggia tra le aule di ogni ordine e grado di
istruzione,nelle sale televisive e tra le pagine dei test di cultura generale di ogni concorso pubblico, sembri alquanto scontata, negli ultimi anni, grazie a recenti ricerche accademiche, sembra che la soluzione più corretta per tale quesito sia un’ altra. Personaggi di spicco della storia e della storiografia italiana hanno infatti ipotizzato la presenza nelle Americhe dei popoli antichi più disparati, dai Vichinghi ai Fenici e dai Cartaginesi ai Romani.
La tesi, più interessante e più attendibile dal punto di vista documentario, che i discendenti di Romolo possano aver superato le ‘’Colonne d’ Ercole’’ per
approdare in America, è supportata dalle ricerche puntigliose di vari giovani studiosi, ma soprattutto dall’ affermato giornalista italiano Elio Cadelo. Sin dalla sua prima diffusione, tale teoria ha riscontrato non poche critiche nel mondo accademico e molti storici di professione, al pari di appassionati della materia, non hanno fatto altro che addurre le antitesi più disparate, non riuscendo ad accettare un’ ipotesi che va a sfatare una convinzione storica tanto imponente e a traslare cronologicamente una data cardine per la periodizzazione della storia moderna, quella dell’ ottobre 1492.
Una delle perplessità più diffuse tra gli studiosi concerne la scarsa preparazione navale dei Romani, i quali a causa della penuria di imbarcazioni idonee e delle scarse conoscenze tecniche non avrebbero potuto solcare una distesa talassica così vasta.
A tal proposito però non bisogna dimenticare che, sebbene i Romani non fondassero la loro potenza militare sull’ efficacia della flotta, a differenza dei Cartaginesi e dei Greci, il popolo discendente di Enea si trovò più volte costretto a studiare
correnti e tecniche di navigazione, come nelle guerre puniche, dove riuscirono addirittura a sfidare la tradizionale ingegneria navale dotando le imbarcazioni del celebre uncino noto alla storia col nome di ‘’ corvo’’.
Se è vero che ogni ipotesi per diventare tesi, e passare dal macrocosmo della memoria al microcosmo della storia, deve essere basata su fonti mute, scritte, iconografiche o orali che siano, l’ ipotesi di scambi e contatti tra i Romani e le Americhe poggia sull’ humus di ritrovamenti alquanto eloquenti.
Interessante è a tal proposito la presenza di vari mosaici raffiguranti degli ananas, frutti tipici del Nuovo Mondo, visibili al Palazzo Massimo a Roma e provenienti dagli scavi di Pompei.
Sebbene, infatti, alcuni osservatori abbiano ipotizzato la possibilità che si potesse trattare di una pigna da pinoli, tuttavia esperti di botanica hanno riconosciuto nelle foglie coriacee, disegnate all’ estremità del vegetale, una prova tassonomicamente inconfutabile del fatto che si trattasse del noto frutto tropicale.
Un’ altra prova a sostegno della tesi di Cadelo viene fornita da una fonte scritta, la ‘’ Naturalis Historia’’ di Plinio, il quale riferendosi ad una pianta presente in Spagna e nella Pianura Padana nel diciottesimo capitolo dell’ opera parla di una specie ‘’ introdotta negli ultimi dieci anni dall’ India di colore nero, dai grani grossi e con uno stelo che somiglia ad una canna, che cresce fino a sette piedi in lunghezza, con dell botanica susciti nel lettore la rievocazione dell’ immagine dello Zea Mays, pianta a noi nota solo dall’ età moderna ed originaria di quelle
Americhe che forse i Romani confondevano con le Indie. Altri ritrovamenti interessanti in Europa risulterebbero quelli in Inghilterra, dove su una nave romana sarebbero stati ritrovati dei semi di girasole, pianta originaria del continente intitolato al Vespucci, o quello di mosaici romani raffiguranti pappagalli identificati dagli esperti ornitologi come appartenenti alla specie Ara, tipica del Sud America.
Se non mancano le tracce americane tra i reperti romani rinvenuti in Europa, neppure il ‘’Nuovo continente’’ è esente da segni romani, come la presenza di alcune tegole d’ argilla firmate con l’ alfabeto latino, o un’ epistola dello stesso Cristoforo Colombo, il quale nell’ intento di convincere la regina Isabella dell’ enorme rilievo della sua impresa, scrive: ‘’ Questo di qui è un altro mondo, quello per il quale si affannarono con grande sforzo, pur di ottenerlo, i Romani, Alessandro [Magno] ed i Greci’’.
Risultano, dunque, davvero numerosi gli indizi che sosterrebbero la presenza romana in territorio americano e, per quanto non si traducano in inoppugnabili fonti storiche, ci fanno ipotizzare che secoli, o addirittura millenni, di storia dovrebbero essere riscritti o quanto meno approfonditi.
Tale tesi non deve essere percepita dagli storici più conservatori della torre d’ avorio accademica come una scossa che fa vacillare la nostra identità storica e le nostre certezze,
bensì come uno stimolo a far luce su alcuni argomenti che con leggiadria sono stati archiviati nel buio magazzino della vecchie e borghese storiografia scolastica.
Quella che sembra un insignificante dettaglio della microstoria in realtà potrebbe rimettere in gioco le discendenze e le dipendenze tra civiltà e culture, ricordandoci che il vero ruolo della storia, nel senso primigenio di indagine, non è quello di raggiungere la verità assoluta, ma quello di dare interpretazione alle possibili verità le quali non risultano scritte con un inchiostro indelebile, ma con un leggero tratto facilmente cancellabile e riscrivibile qualora le fonti suggerissero di farlo.
Se, infatti, fossimo già in possesso della verità assoluta sul nostro passato non esisterebbe motivo di indagine e la storia verrebbe meno, essendo sostituita da una passiva ricezione dogmatica.
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è lungo ancora, ma nel cuore appare la speranza
Iniziando questo 2023 e passato già gennaio, mi piace ricordare una canzone della mia gioventù scritta e cantata da Francesco Guccini, La canzone dei 12 mesi, che presentando febbraio cantava «L'inverno è lungo ancora, ma nel cuore appare la speranza, nei primi giorni di malato sole la primavera danza», riportandomi di colpo e con stupefacente freschezza, come fosse ora, quel mio stato d’animo di ventenne innamorato della vita, che lo stesso Guccini avrebbe potuto descrivere senza sbagliare più di tanto, con un’altra canzone, Eskimo, che impietosamente cantava: «A vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si hanno in testa a quell’età».
Più di quarant’anni dopo, la primavera riprende a danzare come non mai e mi sorprende questo persistente desiderio di abbandonarmi alla speranza che suscita, nonostante la realtà completamente cambiata che mi ritrovo a vivere. Gli acciacchi dell’età, le delusioni, i fallimenti, come una discreta salute, alcune soddisfazioni e certi successi che capitano, non hanno diminuito ne modificato, in più o in meno, quell’esperienza regalatami dalla memoria e che ogni anno si ripete in accordo con il ciclo delle stagioni. C’è qualcosa dentro di me che non ha età, o se ne ha una, ha ancora vent’anni e penso li avrà sempre, all’infinito. Ma che cos’è l’infinito?
Nell’intento di questa rubrica c’è anche quello di far incontrare i lettori con quelle situazioni che riguardano l’animo di ciascuno e ciascuna di noi, ma che forse non godono di molta considerazione nella mentalità corrente e sentiamo non definite da quell’orren-
do titolo di “seghe mentali”. L’uomo è uomo perché nei primi giorni di malato sole, è capace di scorgere la danza della primavera, ed è così che si apre alla speranza. Lo insegna Giussani nel suo testo “Il senso religioso”, quando analizza la struttura del rapporto tra l’uomo e il reale e dice bene che di fronte alla realtà nessuno rimane impassibile, anzi, «di fronte alla realtà l’uomo è sconvolto, si sente come ferito, spalancato a qualcosa d’altro, e diventa domanda, poiché il mondo si presenta all’uomo come una realtà il cui senso è sempre un’altra, ed è un segno che non avrebbe spiegazioni se non implicasse l’esistenza di un’altra realtà. Ciò che dimostra che la realtà è un segno che rimanda a qualcosa d’altro, è in ultima sintesi, la nostra insopprimibile esigenza di felicità».
Della lezione di Giussani ci sono quattro punti che è utile ricordare: la modalità con cui il mondo si impatta con l’uomo, lo ferisce e lo apre, l’uomo si fa domanda; la realtà è un segno che rimanda ad altro che non possiamo definire; nell’uomo, la traccia di questa struttura di rapporto è l’esigenza della verità (come della felicità, della giustizia, di un senso compiuto…) che coincide con l’orizzonte totale della ragione, la verità essendo costituita dalla totalità dei fattori dello spettacolo che l’uomo ha davanti; e, i perché più decisivi della vita non si risolvono dentro la vita. La spiegazione c’è ma è sempre al di là, è Mistero. In definitiva, la ragione come tale è costretta ad affermare l’esistenza di Dio, ma di questo Dio non può dire nulla.
Per questo, a credere si impara, si è
educati alla fede, ma si crede non quando si è convinti di avere in tasca l’esatta definizione di Dio, ne si educa alla fede dispensando definizioni di Dio, ma quando ci si mette in cammino per seguire una stella, cominciando a domandare «perché è apparsa nel cielo?» e non ci si ferma alla risposta positivista «c’è perché c’è!», ma si cammina con fedeltà e coraggio nella direzione indicata, se non altro perché sia più breve la distanza da percorrere ancora.
Invitiamo in chiusura alla lettura di un testo che ha aiutato in primis l’autore dell’articolo nell’approfondimento dei temi trattati. In questo caso, una introduzione semplice, ma di spessore, la possiamo avere con Franco Ardusso, Imparare a credere, ed. San Paolo.
Il senso religioso di Franco Zadra
inverno
Umana santità di Franco Zadra
SAN PIO DA PIETRELCINA
Su Pio da Pietrelcina si sono scritte intere biblioteche e se ne continua a parlare ogni giorno in tutto il mondo, tanto che, più che un santo della chiesa cattolica, lo si potrebbe ormai definire “patrimonio dell’umanità”. Se ci proponiamo di ricordarlo qui, non è certo per aggiungere qualche cosa all’immenso deposito della testimonianza che ha lasciato, e che vive e prospera nel quotidiano di migliaia di persone che intrattengono con lui un dialogo interiore ricorrente, se non anche nelle centinaia e centinaia di gruppi di preghiera nati spontaneamente un po’ ovunque e che non hanno mai smorzato quella imponente venerazione popolare di cui è stato destinatario fin da molto prima del suo decesso. Lo ricordiamo qui con una certa soggezione, profondamente grati per averne avuto l’occasione, ma estremamente curiosi della sua santità, come possibilità che ci riguarda; una santità che vorremmo da subito indicare però come una “umanità compiuta” che abbiamo il piacere di incontrare e che ha il potere di cambiarci la giornata anche solo accettando di prendere un caffè con noi.
Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, è nato a Pietrelcina, in provincia di Benevento, il 25 maggio 1887. La madre, Maria Giuseppa De Nunzio, e il padre, Grazio Forgione, erano due contadini analfabeti residenti a Pietrelcina, un borgo rurale di origine medievale, con circa tremila abitanti, dediti per lo più alla pastorizia, incastonato su per un aspro rilievo a una decina di chilometri dallo scalo ferroviario di Benevento. La povera casa dei Forgione, fatta di pietre tenute insieme dalla calce e con il pavimento in terra battuta,
in vico Storto Valle, era a pochi metri dalla parrocchia di Santa Maria degli Angeli, rinominata in seguito Sant’Anna, dove il piccolo fu battezzato il giorno dopo la nascita, col nome di Francesco per la devozione della madre al santo di Assisi. I fatti e la storia che lo vide protagonista fino alla morte, avvenuta in San Giovanni Rotondo il 23 settembre 1968, e anche dopo per gli accertati miracoli, sono tanto noti e reperibili in ogni dove, da
rendere del tutto superfluo riprenderli ora facendone un elenco cronologico che solo nei principali titoli riportabili si prenderebbe tutto lo spazio di questo articolo. Ci limiteremo quindi ad accennare ai soli due miracoli che portarono alla canonizzazione di san Pio da Pietrelcina. Sarebbe altresì improponibile, sempre per ragioni di spazio, affrontare qui il tema delle aspre critiche che gli sono provenute soprattutto da ambienti ecclesiastici,
Umana santità
che giunge a formulare una conclusione comprovata nell’ambito delle scienze umane. Alle orecchie dell’odierno uomo della strada, pronto a giurare sull’efficacia “miracolosa” dell’ultimo ritrovato per combattere la caduta dei capelli, suonano addirittura ridicole notizie di canonizzazioni che riguardano la sentenza definitiva con cui il papa, con atto che coinvolge la sua infallibilità, stabilisce che un beato venga iscritto nel catalogo dei santi e che la sua memoria si possa celebrare nella Chiesa universale.
Il 21 gennaio 1990 Padre Pio venne proclamato Venerabile, fu dichiarato Beato il 2 maggio 1999 in seguito al miracolo della guarigione di Consiglia De Martino, nata a Salerno il 20 gennaio 1952, che all'età di 43 anni venne ricoverata d'urgenza con una diagnosi infausta e dimessa dopo pochi giorni in stato di totale benessere e senza essersi sottoposta ad alcuna terapia; guarigione che la stessa De Martino attribuisce a padre Pio, pressoché immediata, completa e senza ricadute, e ritenuta non giustificabile scientificamente dai sanitari che le prestarono assistenza.
come medico-scientifici, che videro in padre Agostino Gemelli il suo più strenuo oppositore.
Ci limitiamo a ricordare che le pratiche giuridiche preliminari del processo di beatificazione iniziarono già dopo un anno dalla morte, nel 1969, ma incontrarono molti ostacoli, nonostante il sostegno dei devoti che lo avevano conosciuto e che, riportando quel momento ai giorni nostri, non avrebbero mancato di intonare cori in piazza chiedendo di farlo «santo subito!». Furono ascoltati decine di testimoni e raccolti 104 volumi di disposizioni e documenti e nel 1979 tutto il materiale fu inviato a Roma al vaglio degli esperti di Giovanni Paolo II.
Qui occorre fare un inciso per spiegare il lavoro della Congregazione delle cause dei santi. La cultura dominante oggi è incline a sorvolare su questo punto, poiché si tende a considerare una assurdità paradossale confrontare l’impegno delle persone che collaborano al “verdetto” di santità espresso dalla Santa Sede, a quello di qualsiasi altra commissione “scientifica”
Il lavoro della Congregazione delle cause dei santi è però del tutto confrontabile con uno studio scientifico, con la sola differenza che ammette la possibilità del miracolo, cosa che il dogma più inattaccabile della cultura scientifica, o meglio, “scientista”, rigetta a priori come indimostrabile, rinnegando per ciò stesso quello che è il “motore” della storia del progresso scientifico che non ha fatto altro che dimostrare ciò che poco prima era ritenuto indimostrabile.
La scienza della Congregazione delle cause dei santi è una scienza aperta a cogliere l’intervento del Mistero nel fluire degli eventi storici.
Per ritornare a padre Pio, il procedimento che portò alla canonizzazione ebbe inizio con il nihil obstat del 29 novembre 1982.
Il 20 marzo 1983, a quasi quindici anni dalla morte, iniziò il processo diocesano per la canonizzazione del Servo di Dio.
Il 16 giugno 2002 si arriva finalmente a proclamarlo santo, ma fu necessario un secondo miracolo. Fu ritenuta miracolosa la guarigione di Matteo Pio Colella, all'epoca dei fatti un bambino di 7 anni, nato il 4 dicembre 1992 a San Giovanni Rotondo. Durante la mattinata del 20 gennaio 2000, mentre era a scuola, Matteo si sentì male; la madre Maria Lucia Ippolito lo portò a casa, dove i sintomi apparirono inizialmente come quelli di una normale influenza, ma in serata la situazione precipitò, in quanto il bambino non riconosceva più la madre e sul corpo gli erano comparse diverse macchie violacee, tipico sintomo della coagulazione intravascolare disseminata (CID). Il padre Antonio, urologo dell'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, voluto proprio da Padre Pio, lo accompagnò al pronto soccorso di tale struttura sanitaria, dove gli fu diagnosticata una meningite batterica fulminante. Ricoverato in rianimazione in coma farmacologico indotto, il giorno successivo Matteo
peggiorò, venendo tracheotomizzato a causa di alcuni blocchi respiratori, sfiorando l'arresto cardiaco e presentando nove organi gravemente danneggiati, quando nella letteratura medica internazionale non erano mai stati registrati casi di sopravvivenza di pazienti con più di cinque organi compromessi. In favore di Matteo si sviluppò una catena di preghiere rivolte a Padre Pio, a cominciare dai genitori, devoti del frate. Sia la madre che lo stesso Matteo, una volta uscito dal coma, riferirono di aver avuto visioni di Padre Pio; il bambino, in particolare, dichiarò di essersi trovato in compagnia di un anziano signore con la barba bianca vestito da frate, che identificò con certezza in Padre Pio quando gli venne mostrata un'immagine del futuro santo. Padre Pio avrebbe detto a
Matteo che presto sarebbe guarito e lo avrebbe portato con lui in volo fino a Roma. Contrariamente a qualsiasi ragionevole previsione, il bambino cominciò a migliorare: il 27 gennaio venne sottoposto a una Tac al cervello che risultò perfettamente nella norma, il 31 gennaio riprese conoscenza, il 26 febbraio fu dimesso e dopo un altro mese di terapie riabilitative ricominciò a frequentare la scuola, con un successivo completo recupero psicofisico. La Consulta medica della Congregazione delle cause dei santi il 22 novembre 2001 dichiarò che «La guarigione, rapida, completa e duratura, senza postumi, era scientificamente inspiegabile». Il decreto sul presunto miracolo fu promulgato il 20 dicembre 2001 alla presenza di papa Giovanni Paolo II, che procedette quindi alla canonizzazione.
“Fare” un santo, come si usa dire, è però del tutto fuorviante dalla realtà del riconoscere un santo.
Venerare come santo padre Pio non significa in nessun caso pensarlo come un super uomo, o peggio, come un semi dio. Padre Pio, come ogni santo, è un uomo, e la santità di ciascuno, noi compresi, non è altro che la realizzazione ultima del proprio significato. Un significato che trova espressione solo nel rapporto con il Mistero che ci ha messi al mondo, e che forse una certa agiografia, se non le “invenzioni” fantasiose e le immagini mitiche proposte in genere dalle religioni, cattolicesimo compreso, non aiutano più a mettere in circolo nella modernità, soprattutto occidentale, non riuscendo ad agganciare l’interesse delle persone e a diventare cultura.
Umana santità
Fatalmente, nel contesto attuale, elevare qualcuno agli onori degli altari, significa allontanarlo, isolarlo, dimenticando o ignorando di proposito il collegamento, la comunione, di quella vita con il fatto fondante rappresentato da Gesù di Nazaret, un uomo realmente vissuto in Palestina al tempo dell’imperatore Tiberio. Un uomo vero, fuori dell’ordinario, un visionario dalle idee nuove e innovatrici, un maestro di umanità e un uomo spirituale innamorato di Dio. Uno del popolo, senza molta istruzione, al quale padre Pio assomiglia per molti aspetti anche puramente sociologici, «il primogenito di una modesta e numerosa famiglia di agricoltori e artigiani, almeno quattro fratelli e alcune sorellecome scrive Bruno Mori, sacerdote dal 1964, dell’Ordine dei Canonici Regolari, nel suo ultimo testo “Per un cristianesimo senza religione” -, uno di quegli individui che oggi sarebbero qualificati come “militanti laici”, perché impegnati più sul terreno pratico umano-sociale che su quello ideologico religioso confessionale» – e che cosa ha fatto poi padre Pio se non quella sorprendente opera dell'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza dove nessuno mai avrebbe immaginato potesse sorgere? - Gesù di Nazaret, continua Mori, «è sempre stato un uomo tra gli altri, circondato da gente comune e soprattutto
dai poveri, dagli emarginati, dagli ammalati, dai sofferenti, dalla gente provata dalle disgrazie e dalle calamità della vita. Ed è in questo contesto che egli ha vissuto la sua eccezionale e intima relazione con il Mistero di Dio e che ha aperto a tutti un cammino per raggiungerlo».
Essere santi, oggi come sempre, è dunque assomigliare a Gesù di Nazaret, e la testimonianza di padre Pio, indicata chiaramente dalla Chiesa che non si esime dal servire in questo la nostra umanità, non può che aiutarci a percepire l’unicità del suo avvento, e a «cogliere il carattere
straordinario del nuovo tipo di essere umano (sto citando ancora Mori) che egli ha saputo incarnare e proporre». Un uomo completo non “nonostante” i suoi limiti e difetti, ma attraverso questi, grazie al riconoscimento di quella umanità nuova che è il volto del Padre che Gesù di Nazaret ci ha fatto conoscere. Pensare alla santità come all’esito di un estremo esercizio ascetico, quasi partecipassimo volenti o nolenti a delle olimpiadi per la vita eterna, non è nello spirito del cristianesimo autentico che assomiglia piuttosto a quello delle paraolimpiadi dove ciò che conta è partecipare più di vincere, e quando si vince lo si fa in competizione con se stessi e non con un record stabilito da altri nel passato. La santità è vivere nell’istante presente l’incontro con il Signore, riconoscendolo tale anche se crocifisso nella sua e nella nostra umanità. Non è questo forse che i Vangeli ci raccontano da 2000 anni, non fosse altro che nell’episodio del buon ladrone, quel malvivente crocifisso con Gesù, al quale disse «Oggi sarai con me in Paradiso»? Il primo santo, canonizzato direttamente da Gesù Cristo, non è certo un modello di virtù, se non capace di quella apertura del cuore a quella umanità nuova che sa riconosce con la semplicità dei bambini: «Io sono Tu che mi fai».
Sanremo, cronaca dell'attesa: e che cast! di Gabriele Biancardi
VI RACCONTO LA VIGILIA DI SANREMO
Febbraio!, mese del carnevale, delle giornate che giocano ad allungarsi, ma soprattutto del Festival di Sanremo! Dovrebbe essere pure il primo votato ad una ritrovata normalità.
Pure io ho preparato le valigie per la trasferta (la 30^). Se il tempo aiuta, ci sta che tu parti da Trento con il piumone e giù puoi pranzare all'aperto. Ma il tema è altro, non le mie libagioni. Amadeus, dopo svariati addii, si è ritrovato ancora su quel palco dove negli anni scuri del Covid, ha macinato record su record. Il pubblico lo ha premiato donandogli le stimmate del presentatore bravo/spiritoso/esperto.
Tutto vero eh!, “Ama” è perfetto per la gara, per la semiserietà del Festival. Mai sopra le righe, risata di appoggio sempre pronta e un cast che fa faville.
Come sempre, dopo la lettura degli artisti in gara, il paese si è diviso in maniera calcistica. Curva sud contro curva nord, solo che le latitudini non c'entrano proprio nulla. Da una parte la generazione giovane, giovanissima che storce il naso di fronte a Anna Oxa, Gianluca Grignani, I Cugini di Campagna, Articolo 31, Paola & Chiara, accusando di geriatria musicale e minacciando di girare canale. Dall'altra coloro che hanno i capelli grigi, che ignoravano l'esistenza di Mara Sattei, Lazza, Ariete, Mr. Rain, Colla Zio o il misterioso (nemmeno tanto) LDA, che altro non è che l'acronimo di Luca d'Alessio, figlio del noto Gigi. Giorgia si colloca nel mezzo, difficile non conoscere una delle voci più formidabili del nostro panorama.
Voci la danno per vincitrice, staremo a vedere.
Pensandoci sopra però, la formazione cantantifera è stata studiata a tavolino, due o più generazioni che troveranno qualcosa da seguire magari incuriositi da nomi che per loro non hanno storia. Ad esempio il mistero, nemmeno tanto, dei Jalisse. Hanno vinto oramai nel lontano 1997 e da allora ogni anno, immancabili come le tasse a giugno, si ripropongono, trovando inevitabilmente porte chiuse al contrario delle concessionarie.
Vanno precisate alcune cose, sono tanti i cantanti che si candidano ogni anno, anche famosi, che non trovano spazio, eppure, magari per pudore o semplice eleganza, non dicono nulla.
I Jalisse ogni volta, fanno sapere a tutti che ancora una volta il destino o chi per esso, impedisce loro di tornare. Per questo motivo in questo periodo li puoi trovare in ogni trasmissione, in
ogni lago e in ogni bosco. Ma perché non vengono ammessi? Allora, c'è una storia (vera) che potrebbe averli messo sotto una cattiva luce. Dopo il loro trionfo da outsider, hanno, come da regolamento, partecipato all'Eurofestival. Ne uscirono un pochino malconci e accusarono la Rai di averli boicottati per non essere costretti ad organizzare la kermesse europea l'anno successivo. La Rai, tra i tanti difetti, ha pure una buona memoria. Chiaro, se ne sparli ai quattro venti, poi gli stessi spifferi tendono a chiudere le porte.. Ma stiamo sereni, ora i Jalisse avranno le loro due settimane di esposizione mediatica che servirà loro a tirare avanti fino al prossimo anno, dove verranno cassati e via, in un loop mediatico un pochino triste in verità. Altro luogo comune che vorrei sfatare è quello dei costi. Ogni anno si levano cori di sdegno al grido di “ma con tanti problemi...” senza minimamente sapere che questa settimana di spese si ripaga eccome! Nel 2021 il festival era costato 17,5 milioni di euro. Ma in entrate pubblicitarie, la Rai ha incassato 38 milioni di euro! Quindi, uno può criticare come gli pare ma non si può attaccare alla voce spese. Allora, viva il festival, che non grava sulle tasche degli italiani, che fa conoscere artisti che magari ameremmo andare a vedere in concerto e viva anche coloro che non lo guarderanno ma non ci faranno sapere sui social che “che schifo, mai guardato” non rendendosi conto del ridicolo di una affermazione come questa. Noi ne riparliamo il mese prossimo, a giochi fatti e senza misteri.
Per ricordare di Katia Cont
Ciao LOLLÒ
Tra i tanti servizi giornalistici che in questi giorni hanno accompagnato i saluti ad una delle più importanti e preziose Dive del cinema Italiano, uno su tutti mi ha colpita: “Addio immensa Lollo, diva popolaresca che colorò il cinema neorealista”.
Non è per nulla semplice colorare il cinema neorealista, anzi!
Ripercorrendo la sua carriera, rileggendo aneddoti sulla sua vita, ci si rende subito conto di come Gina Lollobrigida diventò a soli 26 anni una Diva.
Non fu certamente la sola Diva di quegli anni, non vorrei essere irrispettosa nei confronti di personaggi potenti e dirompenti come Silvana Mangano, Lucia Bosè e Silvana Pampanini, ma Gina fu l’unica a diventare “internazionale”, e rimase tale fino all’arrivo dell’amica Sophia Loren.
L’anno di svolta della sua carriera fu il 1952 quando andò in Francia ad interpretare due film di grande successo accanto al divo più amato e più bello, Gérard Philipe Fanfan la tulipe e Le belle della notte. Lì il suo cognome abbreviato e accentato diventò per tutti e per la storia del cinema “Lollò”. Per capire chi sia stata davvero Gina Lollobrigida, che ruolo abbia avuto nel cinema e nell’Immaginario di un paese dovremmo tornare al 1953, anno in cui interpretò il ruolo della Bersagliera in Pane amore e fantasia. Un mix irripetibile
di forza e sensualità avvolta da un’eleganza quasi aristocratica, la resero un’icona del dopoguerra. La sua bellezza fu evidente fin da subito. Nata a Subiaco il 4 luglio del 1927, figlia di un ricco industriale del mobile si trasferì a Roma nel ’44, nel ’47 partecipò al concorso di Miss Italia che vide vincitrice Lucia Bosè, seconda Gianna Maria Canale e terza lei. Diventarono tutte star nel giro di pochi mesi, Gina smise con i fotoromanzi e interpretò diversi film-opera, esperienza che le tornò utile quando nel ’55 recitò a Hollywood nel ruolo della cantante lirica Lina Cavalieri, nel film La donna più bella del mondo. In quel film Gina cantò senza bisogno di essere doppiata perché era un soprano di buon livello. Ottenne ruoli importantissimi da registi che solo a nominarli vien la pelle d’oca: Steno &
Monicelli, Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Luigi Comencini, Vittorio De Sica.
Interpretò film in cui si poteva ritrovare il sentimento italiano di quel periodo. Un paese che voleva ripartire, tornare a godersi la vita, una visione del mondo non obbligatoriamente tragica, un pizzico di ottimismo, un po’ di fantasia da mettere in un panino (è la famosa battuta che dà il titolo al film), il tutto interpretato da una donna Bersagliera, fiera e forte.
E poi Hollywood, dove recitò con Bogart, Burt Lancaster, Tony Curtis. Per un’attrice non di madre lingua inglese fu un’impresa pazzesca, eguagliata solo dall’amica Sofia Loren. Fra gli anni ’50 e ’60 diventarono le attrici italiane più famose nel mondo, creando di fatto nell’immaginario collettivo il sogno della “Diva” all’italiana. Rimasero sempre amiche anche se nel tempo si è raccontato di una rivalità nata sul set e proseguita nella vita. Una competizione che non si sa se davvero sia esistita o meno, ma che comunque è arrivata fino a oggi, alimentata dalle indiscrezioni e il gossip che le “voleva” rivali.
Il suo ultimo grande ruolo fu quello della Fata Turchina nel meraviglioso sceneggiato Rai Le avventure di Pinocchio di quel Luigi Comencini che l’aveva portata alla fama planetaria. Gli anni successivi l’hanno infine vista nei panni di fotografa, scultrice, viaggiatrice.
“Cara Gina il tuo corpo si è spento ma la luce della tua stella brillerà su di noi e nei nostri cuori per sempre. Ti voglio bene Gina!” Sophia'.
UN MIO PENSIERO CHE FORSE POTREBBE ESSERE CONDIVISO DA MOLTI...
Stamattina mi son svegliato, posto che alla mia età piuttosto avanzata si dorma durante la notte, con una delle tante riflessioni che sovente si elaborano mentalmente, prima di far colazione. Una strana coincidenza si è inserita casualmente a detta riflessione nel corso di una telefonata di un medico amico che, vuolsi il caso, stava pensando pure lui su: “come eravamo allora, peggio o meglio, sotto l’aspetto di quanto richiederebbe la fisiologia umana ”
Nel ricordare come le cose siano cambiate da allora anche sotto l’aspetto dei sistemi di lavorare all’interno delle sale operatorie, cosa che senz’altro va positivamente considerata, ho recepito - sia pur
da altra angolazione riconducibile alla mia diversa ex professione di bancario rispetto alla sua di medico – che il mondo sta cambiando con prospettive dall’imponderabilità futura assoluta, grazie ad un progresso che non da tregua ai bioritmi naturali per dare spazio al “tutto è possibile”, in nome del profitto, che con troppa leggerezza che, a volte, riserva anche catastrofi. Nel corso della conversazione gli dissi che proprio ieri, su altro giornale, ho trattato questo argomento e che quindi egli stava sfondando una porta aperta. Ovviamente, soprattutto per cercare di rendere meno pesante il discorso, si è dato spazio a qualche intercalare forzatamente umoristico ricordando un passato più accettabile fino a sforzarci di ipotizzare uno straccio di futuro che oggi sembra né scrutabile né tantomeno programmabile in quanto tutto sembra demandato
ad una scienza che non da più certezze, specie dopo il Covid, ad un’economia priva di vitalità che non sia quella imposta dai vari media per vendere anche in presenza di un mercato saturo, ad una ricerca di personale che, dalle nostre parti, pare senza esiti apprezzabili per non dire nullo specie in alcuni settori, sanitario compreso, ad una Chiesa di Roma che sembra arrancare in un mare di diatribe religioso-gestionali, addirittura fra Papi, ad una de socializzazione progressiva che ha completamente svuotato gli umani sentimenti a favore di un brutale profitto che non risponde più alle leggi del mercato, ma solo alla forza di un’industria rispetto ad un’altra con il tranello promozionale, spesso presentabile con l’immagine di un bel corpo femminile o semplicemente con una bella immagine che “rapisce”… anche se il prodotto vale zero. Fatte salve le poche eccezioni.
Oggi tutti vendono tutto, carpendo spesso la buona fede: dai social, spesso criminali quanto a dialettica promozionale, viene criticata fortemente la medicina ufficiale, con i suoi difetti ma anche pregi,
A parere mio di Arnaldo De Porti
dico io, se non addirittura derisa in quanto ci sarebbero prodotti alternativi ad essa più efficaci rispetto a quelli secolarizzati, non solo, ma si offrono anche medicinali a costi irrisori rispetto a quelli prodotti dalle multinazionali, che li farebbero pagare a costi proibitivi tali da far ingrossare soltanto il loro profitto.
E che dire della sanità di oggi che, anche un ipovedente, vede in una situazione di confusione tale da far optare per quella privata anziché quella pubblica, mentre chi non è in grado di inserirsi in questa o in quella corre il rischio di…?
A mio parere, è necessario fermarsi un attimo e ragionare allo scopo di dare un equilibrio al sistema generale, pena la distruzione che, lasciatemelo pur dire, rispetto alla guerra delinquenziale di Putin, costituisce una realtà sulla quale stiamo sorvolando solo per il semplice motivo che non ne abbiamo più voglia di parlare in quanto, problemi di ogni genere, grandi
e piccoli, ci stanno distruggendo e distraendo : guerre, energia, mancanza di soldi, clima, politica docent ! fino a quando ? Il guaio è che il mondo sembra aver imboccato la strada dell’irreversibilità rispetto al buon senso, alla ragione, all’onestà, al credo, e ciò al punto da essere costretto a fronteggiare i problemi solo quando si presentano, spesso con conseguenze, dalla soluzione spesso affrettata e difficilmente efficace.
In questa situazione, non pare rispondere all’etica esistenziale di comodo e di sfogo, e cioè “gettare il manico dietro alla mannaia…”come si usa dire da noi, per cui non rimane che affidarci ad un favorevole, se vuoi anche fortunoso avvicendamento in positivo delle cose piuttosto che alla
ragione umana, ormai avvelenata da tensioni correlate ad un sistema che più non regge. Paradossalmente, verrebbe da dire che quando l’acqua arriva al collo, sarà auspicabile che si impari a nuotare.
Oggi però, ed è questo il dramma che viviamo, parlare come ho fatto dianzi, soprattutto per le orecchie di certi “colletti bianchi” , significa fare solo della retorica a buon mercato.
L’epoca in cui viviamo, con i mezzi di comunicazione iper-veloci che muovono le informazioni a livello globale, ci ha fatto conoscere molti termini scientifici che sono entrati nel linguaggio comune, ma non sempre essi sono utilizzati con coerenza rispetto al vero significato. Marco Paci, docente dell’Università di Padova ci ricorda come «il terzo millennio sia diventato famoso come quello dei “cambiamenti climatici”, della “deforestazione tropicale”, della “crisi ecologica” e della urgente ricerca di una “gestione sostenibile”. Sulle prime pagine dei giornali certi argomenti si presentano con frequenza crescente.» Tali argomenti che toccano anche profondamente la sensibilità che ognuno di noi ha nei riguardi del nostro pianeta, se comunicati con risvolti emotivi, possono perdere il contenuto di informazione tecnico-scientifica e diventare soggetto di crociate di vario genere, a volte anche contro taluni elementi della cosiddetta
“civiltà umana”.
Per iniziare un percorso di conoscenza e chiarimento sui molti temi scottanti di oggi, partiremo dalla spiegazione di cosa sia davvero l’Ecologia e come essa ci insegni a comprendere il nostro mondo. Il dizionario così ci spiega: l’ECOLOGIA è la scienza che studia le relazioni tra gli organismi e il loro ambiente naturale, inteso sia come l’insieme dei fattori chimico-fisici che li circondano (clima, tipo di suolo, luce, nutrimento), sia come l’insieme dei fattori biologici che possono influire sulla vita di questi organismi, ovvero le relazioni tra di essi.
Nel senso più comunemente usato, con un significato meno preciso, ma diffuso nel linguaggio comune e in quello dei media, il termine “ecologia” è spesso usato per indicare la necessità di conservare e difendere la natura, e l’insieme di tutti quei provvedimenti che hanno lo scopo di eliminare tutto ciò che può turbare l’equilibrio dell’ambiente
naturale.
Per quanto la parola “ecologia” abbia radici molto antiche, essendo composta dalle parole dell’antico greco oikos, "casa" o anche "ambiente" e logos, "discorso", "studio" o “parola”, come scienza si è sviluppata in tempi recenti ed il termine stesso “ecologia” è stato coniato soltanto nel 1866 dallo scienziato tedesco Ernst Haeckel. Egli ne parlò la prima volta nel suo libro “Generelle Morphologie der Organismen” ("Morfologia generale degli organismi") di cui scrisse anche una versione divulgativa, la Natürliche Schöpfungsgeschichte (Storia della creazione naturale), che ebbe uno straordinario successo in tutta Europa, diffondendo anche il nuovo concetto di ecologia. Haeckel aveva studiato medicina e poi zoologia e con i suoi testi ha promosso e reso popolare in Germania l'opera di Charles Darwin , anche se riteneva che l'evoluzione delle specie non fosse determinata solo dalla "selezione naturale", bensì anche dall'ambiente, ipotesi sostenuta allora dallo scienziato francese Jean-Baptiste Lamarck.
L'ecologia moderna, sviluppatasi da quel momento, ha continuato a lavorare sugli importanti concetti evolutivi sia di adattamento ai fattori ambientali che di selezione naturale, che sono quindi diventati i pilastri, le fondamenta della materia, a cui si sono affiancati gli importanti tasselli della “Teoria dei sistemi ecologici” che affronteremo nei prossimi mesi nella nostra rubrica, scoprendo i rapporti tra le popolazioni. Nonostante, dunque, le origini relativamente recenti del nome “ecologia”, essa non è una disciplina nuova: Ettore Fornasini ci ricorda nel suo testo “Appunti di Sistemi ecologici” che
Noi e il territorio di Martina Loss
ECOLOGIA, un tassello fondamentale per la conoscenza del territorio
«alcune conoscenze di tipo ecologico, infatti, fanno parte del patrimonio culturale dell’uomo da migliaia di anni: basti pensare che la tecnica agricola, da quando esiste la “civiltà” così come la intendiamo oggi, si è sempre occupata, anche se in termini non scientifici, delle leggi della natura e, sulla base di una loro intuizione, di creare ecosistemi artificiali e di mantenerli nel tempo. (…) L’ecologia vera e propria nasce all’inizio del 1700, dalla fusione delle competenze dei naturalisti e dei demografi. All’epoca i naturalisti si occupavano delle varie specie animali e della loro classificazione, i demografi di stimare quantitativamente le popolazioni e studiarne la variabilità nel tempo. Attualmente, in ambienti extra-scientifici, al termine Ecologia viene spesso attribuita una portata che eccede l’ambito nel quale si muove chi professa tale disciplina, estendendolo fino a coprire tutto ciò che ha a che fare con l’ambiente. Ad esempio, lo studio e il monitoraggio dell’inquinamento atmosferico o la messa a punto di soluzioni per abbatterlo non rientrano in senso stretto nel campo di interesse dell’Ecologia, se non nella misura in cui l’inquinamento influenzi la dinamica delle specie viventi.».
L’ecologia come scienza viene applicata a diversi ambiti della vita sul pianeta ed è suddivisa in diversi “rami” (ecologia vegetale, agraria, forestale, animale, marina, umana, …) nei quali lo studio scientifico si avvicina
a problemi di grande importanza per il pianeta, come lo sfruttamento delle risorse naturali, la protezione della natura, la tutela del paesaggio, la lotta all’inquinamento delle acque, il controllo degli insediamenti umani e così via. Ricordiamo però che nonostante l’ecologia sia associata a questi temi chiave dei tempi moderni, essa non è la disciplina che si occupa di tutte le tematiche legate all’ambiente La Biosfera è l'insieme delle zone della Terra in cui le condizioni ambientali permettono lo sviluppo della vita, l’ecologia, dunque, si occupa dei tre livelli immediatamente precedenti, ovvero: le popolazioni, le comunità e gli ecosistemi, la cui complessità è via via crescente sia dal punto di vista organizzativo che interattivo al loro interno. Per l’uomo, dato che l’ecologia è la scienza che ha per oggetto lo studio delle funzioni di relazione tra l'uomo, gli organismi vegetali e
animali e l'ambiente in cui vivono, essa ci apre la porta per la più profonda conoscenza degli equilibri naturali del territorio che ci circonda e ci permette di comprendere come interagire correttamente con esso, senza spezzare quei preziosi equilibri. Un detto di Aristotele “è così che nelle scienze naturali un oggetto composito ci interessa soprattutto nel suo insieme e non nei suoi costituenti, i quali non si ritrovano di per sé al di fuori dell’oggetto stesso” ci fa riflettere sul fatto che spesso sottovalutiamo la complessità della vita sul nostro pianeta. Dunque è proprio per comprenderla meglio che iniziamo un viaggio alla scoperta di tutti gli elementi che ci circondano nella vita quotidiana e che la influenzano anche profondamente, per osservarli attraverso la lente scientifica dell’ecologia. Al prossimo appuntamento.
Il Consorzio Dolomiti PREALPI alla Fiera
turistica di Madrid
Dopo gli anni della pandemia il Consorzio Dolomiti
PREALPI torna protagonista, la più importante fiera spagnola dedicata al turismo. Prima della comparsa del Covid-19 e le relative restrizioni che ne sono seguite, il mercato turistico spagnolo era uno dei più promettenti per il territorio della Valbelluna, con numeri in costante crescita, grazie ai grandi eventi sportivi (soprattutto ciclistici) che caratterizzano la primavera e l’estate feltrina. Ma anche per una costante e capillare presenza del Consorzio Dolomiti Prealpi nei principali canali promozionali iberici. A tal proposito ne fu testimone il grande successo ottenuto nell’ultima presenza alla Fitur di Madrid, risalente al gennaio 2020. A tre anni di distanza, con l’emergenza sanitaria finalmente in dissolvimento, il Consorzio Dolomiti Prealpi ci riprova. Era presente all’interno dello stand della Regione Veneto alla 43esima edizione della fiera madrilena, in programma dal 18 al 23 gennaio scorso. «Abbiamo scelto di tornare alla Fitur”, spiega il presidente del consorzio, Lionello Gorza, “perché quello spagnolo è un mercato per noi strategico e che prima della pandemia aveva fatto segnare numeri considerevoli e in continuo aumento. La nostra presenza a Madrid sarà quindi il modo di riprendere il filo di un discorso dalle grandi prospettive, bruscamente interrotto dal covid». La Fitur (Fiera Interna-
zionale del turismo) si svolge nei locali del centro fieristico Ifema di Madrid, che ne è l’organizzatore. È il primo appuntamento annuale per i professionisti del turismo mondiale e la fiera leader per i mercati ricettivi ed emittenti dell’America Latina. Un forum unico per promuovere i marchi, presentare nuovi prodotti, conoscere le ultime tendenze e riempire le agende di contatti e prospettive.
I prodotti turistici, che vengono proposti all’interno della fiera, sono numerosi: avventura, turismo rurale, turismo accessibile, immersione, caccia e pesca, cicloturismo, turismo cinematografico, crociere, turismo culturale, sport acquatico, ecoturismo, turismo sostenibile, pacchetti “fuga”, sci e sport invernali, eventi, famiglie, festival, turismo enogastronomico, golf, romantico, LGBT, turismo di lusso, luna di miele, turismo MICE, turismo religioso, safari, salute e bellezza, single, sole e spiaggia, terza età, turismo urbano, tecnologia ed altro. Il Consorzio
Turistico Dolomiti Prealpi parteciperà alla fiera a tutte e cinque le giornate, all’interno dello stand della Regione Veneto, e si è proposto con alcuni prodotti turistici come sport, cultura, natura, selvaggio ed enogastronomia. Oltre a questi darà ampio respiro anche ad attività di svago, al turismo rurale, ai musei e alle sale espositive, allo sci e agli sport invernali, nonché alla proposta delle numerose attrazioni turistiche del territorio. «Siamo attualmente in contatto con agenzie turistiche, tour operator e appassionati di viaggio, “aggiunge la segretaria del consorzio, Martina Gris, “che operano per lo più in Spagna e che sono interessati a ricevere informazioni o a comprare delle esperienze turistiche nel territorio della Valbelluna». Le richieste pervenute sono volte alla scoperta di luoghi poco conosciuti a ridosso delle Dolomiti, non soltanto in termini naturalistici ma anche sportivi. Altri sono “Content Creator” interessati a sviluppare contenuti e proposte innovative alla propria community relativamente alla zona circostante le Dolomiti e sulle Dolomiti stesse, anche sotto forma di possibili collaborazioni future (da valutare in seguito). Altre, infine, sono giunte da agenzie interessate a ottenere informazioni relativamente a possibili itinerari da poter fare durante la loro vacanza nelle Dolomiti.
Tempo di bilanci nell’Ulss 1 Dolomiti
Come negli anni precedenti è stato pubblicato, sul sito istituzionale www.aulss1.veneto.it, il nuovo numero del Bollettino Epidemiologico delle Dolomiti. Il documento, curato dal Dipartimento di Prevenzione, è composto da 8 capitoli dedicati ai seguenti temi: analisi del contesto e profilo di salute, i tumori, il Covid-19, le vaccinazioni, igiene degli alimenti e della nutrizione, prevenzione igiene e sicurezza ambienti di lavoro, medicina legale e sanità pubblica veterinaria. Il bollettino epidemiologico si apre, come di consueto, con una rapida analisi demografico economica: importante appare il drastico calo della natalità (6 per mille) stabilmente registrato negli ultimi anni, a fronte di un incremento di un punto della mortalità negli ultimi anni, mortalità oggi attestata su valori superiori al 13 per mille. La speranza di vita alla nascita, costante negli ultimi anni, è attualmente in linea con il dato nazionale (80,1 anni per i maschi e 85,1 per le femmine). Particolare rilievo è stato dedicato all’analisi dei fattori di rischio per la salute, con evidenza dei dati inerenti i principali “stili di vita”
adottati dai bellunesi, dati derivati dal sistema di sorveglianza nazionale PASSI: il 16% dei cittadini adulti (18-69 anni) si dichiara fumatore; ben il 67% degli adulti bellunesi risulta “fisicamente attivo”; il 21% risulta parzialmente attivo e il 12% risulta completamente sedentario; nella nostra provincia più di 7 persone su 10 assumono bevande alcoliche, con un 29% di consumatori “a maggior rischio” (fuori pasto, consumo elevato). I principali livelli di consumo problematico di alcol si riscontrano nelle persone con bassa istruzione e con difficoltà economiche; in Ulss 1 il 25% degli adulti è sovrappeso e circa il 9% è obeso; buono risulta il consumo abituale di frutta e verdura; solo la metà degli intervistati tuttavia riferisce di mangiarne almeno tre porzioni giornaliere; il 19% degli adulti bellunesi si dichiara iperteso, con maggiore prevalenza all’aumentare dell’età; positivo appare il dato relativo alla percezione di buona salute (“sto bene o molto bene”), riportato dall’80% della popolazione bellunese. L’analisi complessiva della mortalità mette in evidenza, rispetto alla media veneta, un non trascurabile eccesso, sia nei maschi che nelle femmine, congruente peraltro con l’elevata età media della popolazione. Le cause di morte più frequenti sono, come in tutte le realtà industrializzate, le
malattie del sistema cardiocircolatorio e i tumori. In tema di tumori, importante appare il dato di incidenza del melanoma, che risulta il secondo tumore più frequente nella fascia d’età 0-49 anni. Buoni risultano i dati relativi alla performance degli screening oncologici nel territorio bellunese (screening mammografico, screening cervicale e screening colo-rettale). L’ultima parte del Bollettino riporta numerosi dati di attività del Dipartimento di Prevenzione con specifico riferimento alla sicurezza alimentare, alla sicurezza sul lavoro, alla medicina legale e alla veterinaria. “Rendicontare il lavoro svolto e i risultati raggiunti nell’area preventiva”, osserva Sandro Cinquetti, direttore del Dipartimento di Prevenzione, “permette ai cittadini di avere evidenza del grande impegno dedicato dal Servizio Sanitario alla tutela della salute. Pur in presenza del più importante evento epidemico della storia recente, i servizi che costituiscono il Dipartimento di Prevenzione, collegati istituzionalmente con le municipalità, col volontariato, con la scuola e con il tessuto economico e sociale, hanno concluso questo impegnativo 2022 con buoni risultati, evidenti nei numeri offerti, anche in riferimento ai confronti nazionali e regionali. Appare tuttavia ancora necessario dedicare grande impegno al miglioramento degli stili di vita e dell’adesione alle offerte di salute, nonché all’operatività di campo. L’Ulss Dolomiti ogni giorno cerca di fare al meglio la propria parte. Sono però necessarie fiducia e assunzione di responsabilità da parte di ogni singolo cittadino, nella consapevolezza che le scelte individuali costituiscono tuttora determinanti fondamentali della salute delle persone e delle comunità”.
La sanità in cronaca di Alex De Boni
Presentazione
del libro “Letteratura passe-partout”
Da sempre l’uomo è ricorso alla narrazione per diversi motivi. Si raccontavano storie per divertirsi, per condividere, per ricordare.
I miti spiegano sia i misteri della vita che i comportamenti degli umani. Poi con l'evolversi delle civiltà si sviluppa la letteratura. In Italia, a partire dal Duecento anche nella penisola italica si gettano le basi della Letteratura italiana, argomento centrale nei programmi scolastici.
Viene da farsi una domanda: è sensato che l’uomo moderno legga oggi dei testi letterari scritti secoli fa? Decisamente sì, è la risposta di Silvana Poli, autrice del libro Letteratura Passe-partout, uscito nel mese di gennaio.
L’autrice sostiene che la letteratura italiana sia ricchissima di informazioni, strumenti, consigli che possono essere utilizzati per risolvere le questioni piccole o grandi della nostra vita. Le situazioni che tolgono serenità all'uomo di oggi, possono essere risolte in tanti modi e con diversi strumenti. L’autrice ci spiega che la letteratura è ricca di vie di benessere e di strategie di soluzione dei problemi. Quando abbiamo bisogno di aiuto, ci rivolgiamo a persone fidate e affidabili: le opere letterarie sono recensite da secoli di successo, sono opere che hanno sostenuto e consigliato generazioni di lettori; sono uno straordinario serbatoio di esempi e di modelli, che hanno superato il vaglio dei secoli e che ci possono venire in aiuto.
In questo libro l’autrice percorre i corridoi della letteratura, ne cerca i passaggi segreti con l'occhio di chi ne conosce i segreti, per individuare gli
elementi di consolazione di crescita e di benessere.
Le spiegazioni, semplici ma non superficiali, avvicinano il lettore ai maestri della letteratura svelandogli piccoli segreti e grandi lezioni. E così, tra una pagina e l’altra, si possono incontrare ad esempio, le paure del superbo Dante o la spiritualità dell’ateo Montale.
Letteratura Passe-partout è un'opera per tutti, leggera e profonda, che scorre via ma che invita anche all’approfondimento. Non è un saggio di letteratura; è piuttosto la voce di chi dialoga ogni giorno con gli autori del passato in un confronto amichevole, fatto di confidenze e di scoperte. E in questo chiacchierare i poeti si svelano, nei loro punti di forza e anche nelle loro debolezze e ci vengono incontro fornendoci preziose indicazioni per sciogliere nodi della nostra anima e dare sollievo alle nostre vite.
Letteratura Passepartout è frutto dell’annosa esperienza didattica di Silvana Poli, docente di letteratura italiana, che ha cercato di trovare una via nuova per affascinare i suoi studenti e conquistarli al mondo delle lettere. Non è un libro per dotti, è proprio un libro per tutti perché Silvana conversa con rispetto e confidenza con poeti e letterati,
come se fossero persone a lei vicine, e permette al lettore di entrare in confidenza con loro
Con questo libro, disponibile su Amazon, Il giardino dei libri e altre librerie on line - Casa Editrice Bruno Editore - si entra in un mondo tutto da scoprire.
Silvana Poli, docente, narratrice e divulgatrice letteraria, coach e counselor.
www.silvanapoli.it
Società oggi di Patrizia Rapposelli
Modernità condizionata da influencer
Giovani: conta il giudizio dei social network
Gli adolescenti si piacciono sempre meno. E più che il giudizio degli amici conta quello dei blogger e influencer. A dirlo un’indagine condotta nei mesi scorsi dal Laboratorio Adolescenza e dall’Istituto di ricerca Iard: su un campione nazionale di 5.600 ragazzi tra i 13-19 anni l’indagine ha voluto osservare come è cambiato lo stile di vita dei giovani nel post-Covid e come è stato condizionato. Il 58% dei ragazzi (il 69,4 % ragazze) durante la pandemia ha mangiato sregolato (troppo o troppo poco) e il 37% è aumentato di peso. Il 27 % dei maschi e il 35,4% di giovani donne si percepisce in sovrappeso rispetto la media dei coetanei e il 50,5% degli adolescenti e il 60,7% delle ragazze è insoddisfatto del proprio aspetto fisico. L’adolescenza, si sa, è un periodo di transizione che, dallo stato di bambino a quello di giovane adulto, prevede una costante evoluzione sia fisica che cognitiva. Ne deriva una fase di confusione naturale: è il momento della differenziazione dal genitore e della conquista dell’autonomia; infatti, il ragazzo è più sensibile agli stimoli esterni
e a tutto ciò che lo circonda. “Cerchiamo di essere realistici -dichiara la dottoressa Tara Cousineau, coach di autostima, in un’intervista per una rivista di materia- quando le ragazze entrano in una stanza, si controllano. L’adolescente nota i tratti emotivi e fisici dei coetanei, paragonandosi a loro. Inizia a giudicarli come desiderabili o meno. Tutto amplificato dai media e social media.” Sempre secondo l’indagine, giocano un ruolo importante l’influencer e il fashion blogger. Questo discorso vale per il 59,1% dei maschi e per il 77,6% delle ragazze. Un condizionamento preoccupante, ma che non sorprende, visto che il 76,1% degli studenti di un istituto superiore dichiara di trascorrere molto tempo sui social. Altro dato interessante, dalla ricerca condotta, riguarda la lista dei “Vorrei”: per il 67 % delle ragazze il desiderio è di essere più magre, per i ragazzi il 57,2% di essere più alto. Ricordando un paragone dello psicologo clinico Jacopo Biraschi, l’influencer è un personaggio di un film complesso, dal titolo Social Network. È naturale che i seguaci tendano a indentificarsi con i personaggi
della trama, come in un film, assimilando i messaggi e facendoli propri. Jacopo Biraschi dice: “è una sorta di danza di costruzione e strutturazione del senso d’identità, mediato dalla visione del film”. La mente, come accade guardando un film, fa sperimentare in chi guarda emozioni come simpatia e ammirazione, odio e disprezzo. Nel mondo adolescenziale, nella maggior parte dei ragazzi, il conformismo è normale, ma pensando all’utilizzo smodato dei social, al boom di influencer e al triste conformarsi anche degli adulti (dovrebbero essere modelli di riferimento), è preoccupante. Sociologicamente, i giovani sono inseriti in una “modernità liquida”, dove l’incertezza fa da padrone: in questa epoca qualsiasi costruzione è labile, cambia tutto rapidamente, e le nuove generazioni crescono in questo panorama sociale.
Il livellamento culturale dei nostri tempi, di cui parlano molti studiosi, è minaccioso. La cultura è, da sempre, fonte di arricchimento e spinta creativa per ogni civiltà, ma alle condizioni d’oggi il rischio di perdita di un’identità propria è alto. L’influencer in un contesto tale, intensifica questo processo. In adolescenza, i ragazzi sono delle spugne rispetto agli stimoli esterni e dovrebbero essere educati e guidati a sviluppare un’identità che non sia il frutto di un social network. Purtroppo, spesso è l’adulto in primis condizionato dai social media. Gli adulti non sono pienamente consapevoli. È ammettere che l’influencer seguito ha più potere e ricopre una posizione di maggior prestigio: lui è l’attore e la gente comune spettatori. È ammettere di voler essere in platea e non i protagonisti della scena. I giovani sulla base di questo messaggio si piacciono sempre meno, tale fenomeno merita una riflessione.
DA MARZO 2023
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Metaverso:
la nuova frontiera del lavoro
Il futuro del lavoro è nel Metaverso!
La parola ormai divenuta di uso comune, è stata coniata per la prima volta dallo scrittore statunitense Neal Stephenson nel romanzo di fantascienza “Snow Crash” del 1992. L’idea alla base della celebre opera era un mondo ibrido, a metà strada tra il fisico e il virtuale, in cui le persone potevano accedere al proprio avatar 3D attraverso l’uso di alcuni semplici dispositivi elettronici e/o terminali.
Con il trascorrere del tempo, il concetto è stato più volte ripreso e riadattato in diversi film come Matrix, Tron Legacy e nella serie letteraria Sword Art Online.
In poche parole il Metaverso può essere definito come uno spazio virtuale che può prendere le tipiche sembianze di una stanza, di un mondo o addirittura di un intero universo in cui gli individui, riprodotti mediante un avatar, interagiscono con altre persone che
con il Metaverso stesso, si dedicano alle più svariate attività (lavoro, business, svago, intrattenimento).
È proprio attorno ai concetti basilari della socializzazione e interazione umana che prendono vita in questo grande spazio tridimensionale, ambiti più specifici di vita quotidiana che possono investire la sfera privata, il mondo del lavoro, dell’educazione, dello sport e intrattenimento.
Questa nuova realtà immersiva, potreb-
Inizia con questo numero la collaborazione con Federico Di Giorgi, consulente marketing e comunicazione freelance. A questo sua principale occupazione affianca una serie di altre attività legate al mondo della formazione professionale, ricoprendo il ruolo di docente nella realizzazione di specifici percorsi di apprendimento incentrati sulla conoscenza delle moderne innovazioni tecnologiche e digitali. Appassionato di cinema, sport e letteratura, è stato per diversi anni vicepresidente della Consulta Giovanile Intercomunale “Diciamo la Nostra” di Feltre, Pedavena e Seren del Grappa, occupandosi nello specifico della realizzazione di eventi, manifestazioni e iniziative culturali per la promozione di adeguate politiche sociali in favore dei cittadini più giovani.
be rappresentare in tempi celeri una concreta e significativa svolta nell’organizzazione dell’impiego di milioni di persone dislocate in ogni parte del mondo.
Attraverso le più comuni forme di collaborazione e interazione a distanza, il Metaverso permetterà di entrare e uscire agevolmente da sale riunioni e uffici virtuali in tempo reale, presentare progetti dal vivo, intraprendere e sviluppare attività di pubbliche relazioni e networking, oppure recarsi in un help desk virtuale senza realmente muoversi dalla propria scrivania. Si potrà inoltre avvalersi di questa innovativa tecnologia per migliorare il benessere e la motivazione dei dipendenti, la coesione del team e la collaborazione reciproca, attraverso la creazione di ambienti confortevoli e rilassanti, affiancati a sale meeting di alto pregio e design da destinare allo
sviluppo di importanti partnership e trattative con fornitori e clienti profittevoli.
Infine il Metaverso porterà alla conseguente ricerca di specifiche figure professionali all’interno delle realtà aziendali, da destinare principalmente all’ideazione e sviluppo di nuovi prodotti e spazi virtuali. A tal fine il mondo dell’occupazione avrà bisogno di sviluppatori 3D, programmatori, ingegneri, designer e creator, ma allo stesso tempo di consulenti, agenti immobiliari per la vendita di appezzamenti di terreni virtuali, esperti di sicurezza informatica.
Secondo una recente ricerca condotta da Regus, leader mondiale di spazi di lavoro flessibili in Italia, pare che il Metaverso avrà già nei prossimi anni un significativo impatto sul modo di lavorare apportando un sensibile miglioramento della salute mentale, un considerevole
abbattimento del presenteismo, oltre che una più agile e proficua collaborazione tra persone riducendo la necessità di continui spostamenti, a beneficio di una maggiore flessibilità nei propri orari di lavoro quotidiani.
Alla luce di tutto questo, è innegabile affermare come le nuove opportunità offerte dal Metaverso possano determinare le sorti e la fortuna di tanti impiegati.
Il consiglio che mi sento di dare a coloro che vogliono sfruttare appieno le infinite potenzialità del nuovo scenario professionale, è di investire già da oggi nell’acquisire e/o implementare le proprie conoscenze applicate al Web 3.0 e alla blockchain (blocchi concatenati). Non potranno mancare poi una buona dose di curiosità, creatività e una mentalità aperta per comprendere le richieste e le potenzialità del mondo del lavoro 4.0.
WORK SONGS
Chiedere alle nostre nuove conoscenze quali siano i loro generi musicali preferiti è quasi una prassi, un rito doveroso da compiere per comprendere l’affinità che possiamo avere con l’interlocutore. La domanda è sempre una delle più complesse; sebbene i principali generi musicali vengano racchiusi in venti macrocategorie, siamo consapevoli che la varietà del settore è immensa. Se selezioniamo un solo genere madre possiamo risalire alle sue radici e ramificazioni, trovando davanti a noi una mappa che si estende in modo vertiginoso. Siti web strutturati esattamente come delle mappe interattive, ad esempio Musicmap o Mapofmetal ci consentono di tracciare l’evoluzione dei nostri generi musicali preferiti e di
scoprirne di nuovi. Ad esempio partendo dal Jazz possiamo risalire al suo genitore, il Blues e quest’ultimo a sua volta è intrecciato con il Gospel, genere che ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo musicale. Tre generi connessi a una popolazione e situazione storica ben precise. La schiavitù del popolo africano deportato negli Stati Uniti d’America nel corso dell’Ottocento. Donne, uomini e bambini schiavizzati, privati delle proprie tradizioni e credenze, della libertà, dovettero reinventarsi per preservare le proprie radici culturali. Fu in questo modo che nacquero ritmi e canti, temi e segreti che ridiedero loro un’identità nella nuova terra.
La differenza linguistica, insieme a quella
religiosa e culturale, giocarono un ruolo decisivo per questo fine. Molto probabilmente i primi schiavi non formularono canti in lingua inglese, dal momento in cui, com’è possibile ipotizzare, portarono con loro la propria lingua d’origine. Non avendo possibilità di socializzare in circostanze differenti a quella lavorativa, il linguaggio non subiva modifiche. Le prime generazioni di donne e uomini schiavizzate non si sentivano parte del nuovo territorio, non si consideravano dei cittadini della terra in cui sopravvivevano. Erano una mera forza lavoro in questo nuovo continente che li opprimeva in modo momentaneo, secondo le loro previsioni iniziali. Uno stato d'animo che invece non provarono le nuove generazioni, nate e vissute nei campi di
Tra passato e presente di Alice VettorataWork Song - da Wikipedia
cotone. I discendenti non dovevano dimenticare la propria terra natia, dato che, banalmente, non l’avevano mai vissuta in prima persona, ma la conoscevano soltanto grazie ai racconti e alle tradizioni tramandate. Iniziò allora a svilupparsi una nuova lingua peculiare, nata dalle mescolanze tra i dialetti africani e le lingue degli schiavisti.
Questo fu il linguaggio con cui coloro che divennero residenti americani formularono le prime work songs, brani che ancora oggi possiamo ascoltare grazie al lavoro degli etnomusicologi, studiosi che indagano le tradizioni musicali di differenti popoli.
Amiri Baraka, scrittore e critico musicale, realizzando il libro Il popolo del Blues, analizzò minuziosamente gli stilemi che originarono questo genere. Spiegò che le work songs furono una tipologia di canto strutturata per dare ritmo al lavoro e per alleggerire quindi l’atmosfera op-
primente in cui erano costretti a vivere. Per creare coesione nella disperazione si instaurò uno schema di “chiamata e risposta”, in cui il solista enunciava una frase e il chorus, ovvero gli altri schiavi, la ripetevano modulandola, o simulando la parte degli strumenti musicali. Una dinamica che aiutava a coordinare le azioni degli schiavi destinati nella costruzione delle ferrovie. La loro espressione tramite il canto non faceva parte soltanto delle ore dedicate alla produzione, dal momento in cui continuava ad essere un’attività fondamentale anche durante il tempo libero, alla sera associato alla preghiera. Lo schema rimaneva pressoché il medesimo, chiamata e risposta, ma i temi affrontati riguardavano la sfera religiosa. Gli schiavi non avevano il diritto di pregare le proprie divinità e per questo motivo, modificarono i canti affinché non potessero essere condannati dai padroni, generando le basi del gospel.
Gli schiavisti oltre a vietare alcuni temi proibirono l’utilizzo degli strumenti musicali, come i tamburi, ma i ritmi afroamericani reagirono alle limitazioni. La mescolanza di tradizioni e necessità, permise ai brani nati durante l’oppressione di raccontare testimonianze anche dopo il 1865, anno di abolizione della schiavitù. Evento che coincise con una constatazione precisa; gli afroamericani divenuti tali causa lo schiavismo, in quell’anno poterono considerarsi degli americani. In questo modo si svilupparono le radici del blues e del jazz, generi che a loro volta hanno generato un’altra macrocategoria, il rock. Si dipana così una mappa musicale generata da sofferenza disumana, ma che consente ancor’oggi di non dimenticare ciò che una popolazione ha dovuto subire, e come quest’ultima abbia reagito.
in cronaca di Alex De Boni
IN RICORDO DI MICHELE DE BONI
connessione con i più accreditati centri internazionali ha costituito un esempio per tutti: è possibile diventare un centro di riferimento di prim’ordine con l’impegno, la professionalità e il quotidiano riscontro dei positivi risultati. Il 2022 è stato un anno importante per il “Centro di Riferimento Regionale per la chirurgia oncologica gastroenterologia” intitolato proprio al compianto Michele De Boni.
L’Ulss 1 Dolomiti ricorda la figura di Michele De Boni a distanza di tre anni dalla sua scomparsa, avvenuta in seguito a una malattia che aveva affrontato con grande coraggio e dignità. Già direttore del dipartimento di chirurgia oncologica gastrointestinale a valenza regionale, la scomparsa del dottor
Michele De Boni aveva toccato profondamente l’Ulss Dolomiti e tutta la vallata. La sua capacità di associare una grande esperienza clinica maturata sempre nell’ospedale di Feltre con una intensa attività di ricerca, in
Pur con le difficoltà legate al perdurare della pandemia, il Centro ha continuato a lavorare per essere un riferimento per i pazienti oncologici: alle attività di cura, è stato confermato l’impegno nelle attività di ricerca, nel potenziamento delle attrezzature e nel rafforzamento del legame con la comunità esterna e il volontariato. In modo instancabile e combattivo, come era il dottor De Boni.
Tante le novità del 2022: prima fra tutte la nomina di due nuovi direttori di unità operativa complessa, in tempi rapidissimi,
tra i reparti afferenti al Centro: il dr Nicodemo, direttore della Oncologia di Feltre e il dr Malavisi, direttore dell’Anestesia di Feltre, da subito entrati in sintonia con la filosofia di un Ospedale che non si riduca a una «officina di riparazione» ma si qualifichi come «fabbrica della salute», come amava indicare il dr De Boni. Un altro importante “pallino” del dr De Boni era la tecnologia. In questo ambito, entrambe le unità operative aziendali di Gastroenterologia sono state dotate di sistemi di intelligenza artificiale a supporto dei professionisti, per diagnosi sempre più precoci, che amplificano le capacità dell’occhio umano di rilevazione delle lesioni, arrivate prima in ulss Dolomiti che nei maggiori centri regionali. Nuovo anche l’acceleratore lineare dell’ospedale di Belluno, inaugurato a giugno 2022, che, grazie alle competenze del team di radioterapisti, offre cure sempre innovative anche per le patologie del tratto gastrointestinale. Inoltre, è in fase di acquisto il robot chirurgico (4 milioni di euro di cui 1,6 Fondi Comune di Confine) ed è in fase di progettazione la nuova piastra endoscopica (5,2 milioni di euro) finanziata dai Fondi Comune di Confine, testimonianza del sostegno al Centro da parte di tutti gli stakeholders del territorio. Tra le innovazioni del 2022 l’ Anatomia Patologica di Feltre, grazie alla definizione molecolare,
Feltre
che rappresenta un punto cardine nella medicina di precisione ha migliorato la diagnostica, soprattutto nelle malattie ereditarie del grosso intestino.
I clinici, da parte loro, hanno proseguito sulla via tracciata dal Dr De Boni con i GOM, i Gruppi Oncologici Multidisciplinari dove tutti gli specialisti coinvolti si confrontano e personalizzano le cure per ciascun paziente a cui offrono una diagnosi clinico-strumentale ed un percorso terapeutico nel minor tempo possibile, concetti sintetizzati nel progetto “OneDay care” da lui fortemente voluto. La figura umana di De Boni è ricordata anche per gli sforzi verso quel cambiamento di tipo culturale che porta al centro la persona assistita, che viene coinvolta attivamente nel percorso di cura, e nella collaborazione col Volontariato. Importante il volume dell’attività delle unità operative afferenti al Centro, tornato ai livelli pre- covid e in continua crescita.
Infine, ricordando il monito “non c’è buona assistenza se non si fa buona ricerca” , anche l’attività di studio è proseguita con la ricerca clinica e traslazionale, in particolare della Gastroenterologia, grazie al rapporto di collaborazione con numerose università italiane e straniere, con lo stimolo continuo ad approfondire, a studiare, a confrontarsi, a relazionarsi con le migliori reti del sapere per proporre le tecniche diagnostiche e le terapie più attuali ed efficaci. Consolidato anche il rapporto con l’Università di Padova, tramite la firma di un protocollo con l’ateneo patavino per aumentare il numero di specializzandi che completano il percorso in Ulss Dolomiti, mettendo a loro disposizione un supporto logistico.
L'ANNIVERSARIO DI CARLO RIZZARDA
Feltre in festa per l’anniversario della nascita di Carlo Rizzarda, illustre cittadino nato 140 anni fa, esattamente il 23 gennaio del 1883, una personalità di assoluto respiro nel panorama nazionale delle arti figurative nella prima metà del Novecento. Il forte legame tra Rizzarda e la sua cittá natia duro tutta la vita e tale rimase anche dopo la sua morte, come testimonia il suo prezioso lascito che comprende il palazzo e la collezione dell’omonima Galleria di via Paradiso. In occasione dei 140 anni dalla sua nascita, il Comune di Feltre ha promosso tre iniziative a lui dedicate. Giovedì 26 gennaio alle 18 presso il Museo diocesano di Arte Sacra, Anna Collarin e Alessandro Ervas sono intervenuti in una conferenza sugli aspetti tecnici e conservativi del recente intervento di restauro di 5 oggetti in ferro battuto del maestro, nell’incontro dal titolo “L’arte di Carlo Rizzarda”. Il 28 gennaio si è svolto un doppio appuntamento: alle 15 per il trekking urbano alla scoperta dei manufatti in ferro battuto di Carlo Rizzarda e alle 16, presso la Galleria di via Paradiso, con un incontro-laboratorio dal titolo “Nella fucina di Rizzarda”, in cui, strumenti alla mano, sono stati forniti ai partecipanti alcuni rudimenti dell’antica arte del ferro battuto.
“Carlo Rizzarda rappresenta uno dei figli illustri della nostra Città, a cui ha reso onore con la sua attività artistica ben oltre i nostri confini, sottolinea il consigliere delegato alla Cultura del Comune di Feltre Samuele Spada, che aggiunge: “Rizzarda ha inoltre dato lustro ad un’attività, quella del ferro battuto, che ben rappresenta le abilità e i saperi della grande tradizione artigianale e artistica del nostro territorio. Per questi motivi è doveroso ricordarlo in occasione dei 140 anni dalla nascita e abbiamo pensato di farlo unendo ad un incontro culturale altre due esperienze in laboratorio e per le vie della città che possano “far toccare” da vicino il frutto della sua opera”. (Alex De Boni)
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Tra guerra e pace di Claudio Girardi
Nostra intervista esclusiva a Roberto Bernardini, Generale di Corpo d’Armata (Ris.)
La guerra in Ucraina evidenzia un conflitto globale di rilevante dimensione e gravità anche se non è combattuto direttamente con le armi dai loro eserciti, quello tra Stati Uniti e Russia. E ora la guerra riguarda anche l’Europa che non è più il posto della pace, dell’ordine liberale, il bel mondo ricco e opulento, è nuovamente quello che era sempre stata: il posto della guerra. Non italiani non siamo i pompieri dei conflitti perché non interveniamo come attori combattenti. Partecipiamo oggi a missioni di addestramento come in Iraq o di sicurezza internazionale. Svezia e Finlandia non necessariamente aderiranno alla Nato mentre il conflitto dopo una breve pausa invernale rischia di riprendere in Primavera con maggiore intensità. La Russia che ha avviato la mobilitazione di 500 mila uomini, non rinuncerà mai alla Crimea da sempre baluardo culturale e militare.
Generale Bernardini, in questo momento ci sono nel mondo decine di conflitti, in Africa, Afghanistan, Kurdistan... e minacce come quella in Serbia e in Kosovo per non parlare dell’Ucraina. La terra brucia specialmente in Ucraina e l’Italia partecipa inviando armi sofisticate e costose: Può fare di più e meglio?.
Una domanda veramente articolata che da sola meriterebbe una conferenza. Certo, la terra brucia ma non solo da ora nel mondo, ha sempre bruciato qua e là nei continenti. Non bruciava più nella nostra Europa, quella della guerra fredda e dell’Unione Europea ma si è incendiata nuovamente lo scorso 24 febbraio 2022. Approfondiamo. La crisi che attanaglia il mondo non riguarda tanto il numero di conflitti potenziali o in atto, riguarda in misura preoccupante le relazioni internazionali e gli organismi internazionali, tipo ONU e UE prima di tutto, ma anche quelli economici e degli scambi: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la World Trade Organization (WTO) che hanno mostrato tutta la loro fragilità. Una crisi, se del caso, ancor più accen-
tuata dai conflitti in corso. Soprattutto quello in Ucraina, che ha messo in evidenza un conflitto globale di rilevante dimensione e gravità anche se non è combattuto direttamente con le armi dai loro eserciti, quello tra Stati Uniti e Russia.
Al momento è il conflitto potenziale che preoccupa di più nel timore che poi l’attenzione si debba orientare su quello che potrebbe riguardare i rapporti tra Stati Uniti e Cina per Taiwan.
Ovviamente quelle di cui parliamo sono relazioni e rapporti incentrati su organismi internazionali che si relazionano tra di loro e con i singoli Stati.
Queste relazioni creano una catena di interdipendenza molto strutturata, che è indispensabile anche se non sempre si dimostra molto virtuosa. È un’interdipendenza che limita con vincoli, a volte pesantemente, l’autonomia decisionale degli stati, soprattutto i più deboli, che a questi Organismi hanno aderito per loro convenienza.
Vi sono poi ovviamente anche le relazioni bilaterali tra gli Stati che quando
divengono problematiche possono portare al diretto conflitto, economico o militare, destabilizzante in entrambi i casi perché comunque porta a morte e rovina per tante popolazioni.
Ma torniamo ai conflitti e parliamo della pace, il miglior risultato che con le relazioni internazionali si possa conseguire. In questo gli organismi internazionali preposti hanno fallito.
La pace perenne, quella che alcuni ave-
Tra
Europa.
Ma durò poco. Questo sistema americano aveva avuto successo grazie ai vincoli imposti dalla guerra fredda, va ricordato.
Finito il confronto nucleare USA - URSS il sistema entrò rapidamente in crisi per vari motivi e si tornò al passato.
Non meravigliamoci quindi della presenza dei conflitti nel pianeta ed ancora in Europa. Da che mondo è mondo le relazioni tra gli uomini e tra i loro Stati sono sempre state conflittuali.
vano auspicato con la fine della guerra fredda è stata un sogno, ben presto cancellato dalla realtà. Dopo il secondo conflitto mondiale prese piede, soprattutto in Europa, un nuovo ordine mondiale, il cosiddetto “ordine internazionale liberale”. Un ordine che in sintesi era una particolare forma di egemonia statunitense, che l’America impose al mondo dopo il 1945, nel quadro di un progetto politico che si richiamava alle tradizioni del pensiero liberale preconizzato dopo il 1918 dal Presidente Wilson.
L’obiettivo era quello di creare un nuovo mondo governato dalla forza ma anche dalla legge, quanto più simile a un sistema democratico nazionale, capace di opporsi alle derive destabilizzanti, prima fra tutte quelle della guerra. Alla base di tutto stava la costruzione di una complessa struttura di organismi internazionali per favorire e rendere utile e conveniente la cooperazione e la riduzione degli arsenali militari.
Questo ordine pur riconoscendo la sovranità degli Stati promuoveva l’espansione del libero mercato come uno strumento efficace per impedire il consueto frequente ricorso alla guerra, sempre possibile ma in quel contesto reso economicamente poco conveniente.
Questa era la situazione internazionale alla quale si era arrivati, almeno in
Il conflitto permanente, non la pace, è la norma in questo nostro mondo, da sempre. La pace viene definita tristemente come la transizione tra due guerre, non con una definizione propria!
Ed ora la guerra riguarda anche l’Europa che non è più il posto della pace, dell’ordine liberale, il bel mondo ricco ed opulento che aveva cancellato ogni conflitto ma, coerentemente con il pensiero di illustri analisti, è nuovamente quello che era sempre stata, il posto della guerra.
L’Occidente appoggia l’Ucraina, anche l’Italia è della partita e contribuisce ad alimentare l’arsenale ucraino sempre più assetato di armi, possibilmente più sofisticate di quelle del nemico. È una deriva che prima o poi dovrà finire, anche perché l’Occidente ha ormai gli arsenali spendibili in esaurimento, se non esauriti. Il Presidente ucraino chiede continuamente armi in grande quantità, soprattutto carri armati per fronteggiare l’offensiva russa che a Kiev attenderebbero in primavera. Il 20 gennaio i ministri della Difesa della NATO e i vertici militari si sono riuniti a Ramstein in Germania per discutere sugli ulteriori aiuti a Kiev. Ma al di là dei comunicati sempre infarciti di propaganda, si è parlato e deciso per numeri molto contenuti che non possono essere risolutivi. Ma poi, la Germania nicchia nel dare i suoi carri Leopard 2, gli USA non darebbero mai i tank Abrams ad alta tecnologia con il rischio che cadano nelle mani dei russi.
Per inciso i russi hanno fatto vedere video dei nostri missili contro-carri MILAN da noi regalati all’Ucraina e caduti in mano alle milizie filorusse in Lugansk. Ora vengono usati contro gli ucraini. Gli inglesi hanno pochi carri Challenger e ne potrebbero dare una decina dei 300 che avrebbe chiesto Zelensky. L’Italia sta dando un piccolo contribuito, più simbolico che sostanziale anche perché i nostri arsenali non dispongono di grandi numeri. Forse sono maturi i tempi per altre iniziative che portino ad un vero congelamento del conflitto. Almeno questo per il momento. I popoli che stanno soffrendo meritano una rapida ancorché provvisoria soluzione del conflitto. Vedremo in primavera. Molti ritengono che politicamente l’Italia potrebbe fare di più, anche in autonomia. Nel mondo che brucia l’Italia fa anche da pompiere con le forze di pace, nei Balcani come in Iraq sono interventi importanti, danno buoni risultati?
L’impegno italiano nelle missioni in teatri operativi esteri è sempre stato rilevante per le nostre risorse e molto apprezzato. Non siamo i pompieri dei conflitti perché non interveniamo nei conflitti come attori combattenti. Partecipiamo oggi a missioni addestrative come in Iraq o di sicurezza internazionale, come in Kosovo nell’ambito di Alleanze o Coalizioni sotto egida ONU, NATO o EU. I risultati sono positivi. In Kosovo, dove ho trascorso un anno ai vertici della KFOR NATO, deteniamo oramai con continuità il comando della missione. È un segnale della considerazione di cui godiamo, grazie alla professionalità dei nostri militari.
La NATO è in difficoltà a nord con i Paesi scandinavi che chiedono di farne parte e la Turchia che è già membro dell’organizzazione mette il veto.
La NATO è un’Alleanza politico-militare aperta, la richiesta di adesione da parte di uno Stato deve essere supportata
guerra e pace
dal possesso di requisiti stringenti ed ovviamente orientati alla tutela della sicurezza dei membri effettivi e dei loro territori. La richiesta di adesione di Svezia e Finlandia è venuta come reazione al timore di un’invasione da parte della Russia, nei primi mesi del conflitto in Ucraina. Ma oggi non ha più molto credito. Ha suscitato clamore, dietrologie e interpretazioni fantasiose a livello di media, come normalmente succede. Fenomeno mediatico più che geopolitico! I due Paesi potranno forse accedere, ma solo quando le condizioni politiche lo consentiranno.
Il conflitto in corso al momento non lo consiglia. La Turchia si oppone, e lo dice chiaramente, per questioni connesse con l’ospitalità offerta ai “terroristi” curdi
Tra guerra e pace
(così li definisce Erdogan) da Oslo ed Helsinki.
Ci vorrà tempo. “...nessun pregiudizio esclusivo, ma osservanza delle regole senza scorciatoie...”, questo chiedono senza tanti clamori i partner, Italia compresa, ovviamente. E tutti gli attuali membri dovranno all’occorrenza dare il loro consenso all’adesione. Nella NATO come nell’UE si decide solo all’unanimità. È un grosso limite ma anche una tutela.
La Russia usa missili sempre più potenti, ritiene credibile la minaccia del ricorso all’uso delle bombe nucleari? Ritiene che il nostro Paese sia pronto per altri appoggi logistici o militari?
La Russia, che ha incontrato difficoltà maggiori di quelle che aveva previsto nel conflitto, ovviamente a causa del massiccio appoggio americano assicurato fino ad oggi a Zelensky, sta impiegando l’arsenale di cui dispone. Non dimentichiamo che numericamente l’Esercito russo era al 23 febbraio 2022 considerato come il più numeroso al mondo per uomini e mezzi disponibili. Hanno impiegato molto di questo arsenale e in alcuni settori sono in difficoltà ma dispongono di armi potenti e distruttive di grande capacità, che non hanno ancora impiegato, e speriamo mai. Il nucleare è uno spettro che Putin ha gettato sul tappeto da subito. Ma la dottrina russa al riguardo prevede il ricorso a questi ordigni - tattici o strategici che siano - solo se l’integrità dello stato russo è concretamente minacciata. Nessuno in Occidente intende attaccare Mosca e Zelensky non è in grado di farlo.
Per quanto riguarda l’Italia ritengo che abbia già dato tutto quello che poteva in armamenti. Ora l’impegno, come già detto, deve essere politico.
Cecenia, Georgia …paesi alleati della Russia potrebbero intervenire mentre dall’altra parte si teme per la Polonia. Crede ipotizzabile un allargamento del conflitto.
Allargare il conflitto non è un’ipotesi possibile e questo vale per entrambe le parti contendenti che, non dimentichiamolo, non sono Russia e Ucraina ma Occidente e Russia. La Cecenia e la Georgia hanno grandi problemi interni e hanno proprie forze cooptate da Putin che già combattono per lo Zar. La Polonia è agli ordini degli Stati Uniti, come tutti gli occidentali coinvolti nella questione ucraina. L’unica ipotesi che potrebbe avere un seguito è quella di un coinvolgimento in supporto, non in diretto combattimento, della Bielorussia (paese che di fatto è quasi Russia), in misura maggiore di quella attuale. Ma al momento alla Russia non serve. Il
conflitto deve essere fermato, altro che allargare. Ovviamente salvo catastrofici imprevisti che potrebbero cambiare le carte in tavola.
Ci sono le condizioni possibili perché si arrivi ad una tregua, ad una pace fra Russia e Ucraina?
Allo stato attuale le condizioni necessarie e sufficienti non esistono. L’inverno incombe, e siamo in una situazione di stasi operativa, salvo qualche fuoco d’artificio per tenere alta la tensione. In primavera ci sarà solo un’alternativa al conflitto, sulla quale la comunità interna-
Tra guerra e pace
zionale sembra stia lavorando a livello di consultazioni diplomatiche: sospensione dei combattimenti concordata, una tregua con verifiche internazionali sul suo rispetto. Altrimenti vivremo la continuazione del conflitto alla quale peraltro la Russia si sta preparando con una nuova mobilitazione, dicono, di ben 500 mila uomini. Di pace non si può parlare, la pace non esiste.
È comunque escluso che la Russia rinunci alla Crimea, da sempre baluardo culturale e militare fondamentale nell’identità russa, come vorrebbe Zelensky. Una simile concessione è impensabile. E il perché è semplice: se la Crimea dovesse alla fine tornare all’Ucraina vorrebbe dire che la Russia ha subito una sconfitta militare e politica devastante. Se la Crimea rimane alla Russia con parte del Donbass che le necessita, sarà ugualmente una sconfitta per Putin, non ha sottomesso l’Ucraina, ma non
CHI È
la catastrofe per la più grande potenza nucleare del mondo.
Una Russia che cedesse la Crimea sarebbe una Russia che non esiste più. Questo a Washington lo sanno bene! Venendo a noi, al nostro Paese, sarebbe auspicabile il ritorno del servizio di leva? Possiamo e dobbiamo aumentare le spese militari?
La situazione geopolitica mondiale va verso una nuova militarizzazione della politica internazionale. Anche Paesi pacifisti e verdi come la Germania vogliono ora riarmarsi, lo stesso avviene in tutta Europa. Anche in Italia recenti sondaggi hanno indicato che la maggioranza degli Italiani ritiene che senza Forze Armate adeguate si soccombe al volere degli altri. E questo non piace a nessuno, nemmeno ai pacifisti confessionali.
In questo contesto potrebbe essere necessario aumentare i numeri delle nostre Forze Armate in termini di personale,
Roberto Bernardini, di Treviso, Generale di Corpo d’Armata (RIS.) , chiude la carriera di Ufficiale quale Comandante di Vertice delle Forze Operative Terrestri dell’Esercito Italiano nel settembre 2014. In 43 anni di servizio svolge un’intensa attività formativa presso le Scuole Militari e le Università, di comando e gestionale a tutti i livelli ordinativi, dirigenziale presso gli Stati Maggiori dell’Esercito e della Difesa, diplomatica in sedi estere al servizio del Ministero degli Esteri, operativa in teatri operativi esteri e in ambito NATO. Opera per numerosi anni presso gli Stati Maggiori Centrali in Roma, occupandosi di attività in campo internazionale NATO e EU in particolare nel progetto NATO “Partnership for Peace” a favore dei paesi dell’est rimasti orfani dell’Unione Sovietica. Nel 1998 è Addetto per la Difesa presso l’Ambasciata d’Italia a Rabat (Marocco) con accreditamento secondario in Senegal e Mauritania. Nel periodo matura una rilevante esperienza sulle problematiche del mondo islamico e dell’Africa sub-sahariana e sui flussi migratori verso l’Europa. In relazione alla sua cono-
numeri ridotti al lumicino negli ultimi anni dell’illusione della pace perenne. In tale ipotesi si potrebbe riaprire la leva, mai soppressa ma solo sospesa all’inizio degli anni 2000, ovviamente in termini diversi da quelli in atto all’epoca dei bravissimi “marmittoni” della guerra fredda. Aumentare quindi le spese per la Difesa? I costi sarebbero elevatissimi sia per la logistica che per le dotazioni di sistemi d’arma. Il Paese deve decidere. E per far questo non credo che basti un decreto, va consultato il popolo al quale sarebbero chiesti forti sacrifici, non solo economici. Sul possiamo (?), questa è la condizione. Sul dobbiamo (?), meglio sul dovremmo (?), ritengo di si, almeno per onorare l’impegno preso nel Summit NATO del Galles del 2014, di adeguare le spese militari almeno al 2 per cento del PIL. Non lo abbiamo ancora potuto, forse voluto, fare.
scenza delle “questioni” arabe nel 2003 è impiegato come Consigliere Militare dell’Ambasciatore d’Italia a Nairobi in Kenia dove partecipa ai colloqui di pace per il SUDAN quale rappresentante militare italiano accreditato dal Ministero degli Affari Esteri presso il negoziato dell’IGAD (Istituzione intergovernativa del corno d’Africa) in cui l’Italia svolgeva un ruolo primario Nell’agosto 2006 è a Pristina in Kosovo, quale Vicecomandante della K-FORCE, dove è impegnato nel processo politico di transizione verso l’indipendenza della provincia, svolto in cooperazione con le Nazioni Unite (missione UNMIK) e l’Unione Europea (missione EULEX).
Laureato in Scienze Strategiche – con Master di II livello presso l’Università di Torino – ed in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste, consolida le sue competenze in campo internazionale con studi specialistici presso la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI) in Roma.. Appassionato cultore delle problematiche del mondo contemporaneo e di geopolitica, svolge attività di conferenziere in vari consessi dove tratta temi di grande attualità nell’attuale complesso panorama mondiale con particolare riferimento all’Europa, all’area di tutto il bacino del mediterraneo e mediorientale. E’ da alcuni anni regolarmente presente quale prolusore ai corsi di geopolitica organizzati a Pordenone dall’Associazione Historia che si occupa di studi storici e sociali.
Medicina & Salute di Erica Zanghellini*
CONOSCIAMO L'EMPATIA
farsi vedere per quel che si è, senza aver paura di essere giudicati è uno di quei presupposti che tutti noi ricerchiamo nelle relazioni.
Ma dobbiamo stare attenti se da un lato quindi è una buona premessa per avere delle relazioni soddisfacenti dall’altra invece avere troppa empatia ci porta a soffrire.
L’empatia è la capacità di immedesimarsi nell’altro, significa letteralmente “sentire dentro” e la parola ha origini greche. Per attualizzare e ampliare il significato vuol dire riuscire a mettersi in connessione con l’altro ed essere capace di comprendere il mondo emotivo altrui.
L’empatia è quella capacità di ascoltare in modo attivo e senza giudizio le persone e riconoscere nonché capire i loro sentimenti, emozioni e pensieri. Questa abilità fa parte dell’intelligenza emotiva, così come la definisce Goleman
ONLINE
La persona troppo empatica è come una spugna, assorbe tutto. Si impregna di tutte le sofferenze degli altri e si ritrova carica di “cose” non sue. Finisce per addossarsi tutte le necessità degli altri senza soddisfare invece i propri bisogni. In casi estremi può arrivare a sentirsi in colpa per il dolore che l’altra persona prova. Come sempre nella vita non vanno bene gli eccessi, l’ideale è trovare un equilibrio né troppo empatici ne troppo freddi. Riuscire a scindere il “proprio sé” dall’ “io” degli altri. Provando a sintetizzare possiamo dire che ci sono diversi livelli di empatia che possiamo provare, che vanno dall’essere una modalità funzionale a una invece che causa sofferenza.
ONLINE
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e permette di creare una coscienza collettiva che ha nel bene comune le proprie fondamenta. Questa competenza è importante perché permette di relazionarsi positivamente. Consente infatti di dare significato alle azioni e le comunicazioni degli altri permettendo quindi di rapportarsi correttamente ed efficacemente creando un clima sereno e costruttivo. Inoltre garantisce di avviare relazioni positive, basate sulla fiducia ed onestà.
Riuscire a non mettersi delle maschere,
A richiesta sessioni online su piattaforma Zoom
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La prima definita empatia affettiva è quella che nel gergo comune chiamiamo provare compassione, ovvero la capacità di riconoscere la sofferenza dell’altro unita al desiderio di alleviarla.
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Poi c’è quella che possiamo chiamare empatia cognitiva, ovvero riuscire a livello cognitivo capire quello che sta succedendo. Abbiamo accesso ai contenuti della mente della persona e riusciamo ad adottare la loro prospettiva e grazie a questo sappiamo comportarsi di conseguenza per aiutarlo.
Ed infine l’ultimo livello che è quello che crea sofferenza è la modalità “iperempatia”. Questa forma di essere non permette più di riuscire a differenziarci dall’altro, non ci si “riesce a difendersi” dal dolore, e se ne viene sommersi. Quello che prova l’atro lo provo anche io e la sofferenza si trasforma in un nostro dolore fisico, lo sento proprio nel mio corpo.
Ma quindi una persona troppo empatica come può cercare di gestire questa situazione?
Può provare ad imparare delle strategie. Non è una cosa semplice, perché se di una certa entità probabilmente
c’è bisogno di un aiuto specialistico, ma quando ci si trova coinvolti in una sofferenza di una persona vicina a noi possiamo provare ad applicare questi pochi e semplici consigli per provare a diminuire la quantità di emozioni da gestire. Prima cosa, cerchiamo di prendere le distanze. Bisogna imparare a relazionarsi con il “giusto distacco”, ne troppo vicini ne troppo lontani. Non significa essere egoisti, anzi proprio l’opposto permette di mantenere uno stato di lucidità necessaria per aiutare l’altro. Darsi dei tempi. Non puoi occuparti delle sofferenze altrui tutto il tempo. Non puoi assorbire il dolore tutti i giorni, tutte le settimane. Dedica del tempo allo svago, alla decompressione dello stress.
Ed infine provare delle tecniche di rilassamento può essere d’aiuto. Ritrovare la calma aiuta a vedere i problemi da un punto di vista più oggettivo e può aiutare a ricaricare “le batterie emotive”.
Dott.ssa Erica Zanghellini
Psicologa-Psicoterapeuta
Riceve su appuntamento
Tel: 388 4828675
Buon San Valentino!
CONOSCIAMO IL COMUNE
Ci sono alcuni fattori socio politici che caratterizzano la provincia di Belluno. Il primo la presenza del fiume Piave, poi l'antica strada Claudia Augusta Altinate, con tutte le sue diramazioni; infine la storica presenza per quasi 400 anni della dominazione veneziana. Una presenza non ostile tanto è vero che molti comuni bellunesi, Feltre e Belluno per prime la ricordano con importanti monumenti e nei loro gonfaloni. Fra i paesi riconoscenti c'è Arsiè che nel proprio stemma ha il Leone di San Marco con il libro aperto in segno di pace
Arsiè, 2.200 abitanti vanta un nugolo di frazioni e borgate, Fastro, Incino, Mellame, Rivai, Rocca, San Vito Col
Perer, Corlo, Duri, Solivo e Tol, e origini latine. Il nome da Arsum ovvero terreno arso, arido ma anche Arci Sedes, sede di castello e proprio una torre è il secondo simbolo presente nello stemma e fa riferimento a una costruzione esistente lungo la strada verso il nord. Il territorio è compreso fra i monti Novegno, Col del Gallo, Cima di Lan, Cima Campo; una parte del territorio si estende lungo le pendici del Grappa, dove si trovano le località montane di Novegno, Col di Gallo, Cima di Lan e Cima di Campo. Anche se il nome del comune viene fatto risalire all'arsura non mancano importanti vie d'acqua come il torrente Cismon affluente del Brenta, che grazie ad uno sbarramento costruito nel 1954 da origine al lago del Corlo e
Arsiè.
Il territorio ha avuto un'economia prevalentemente agricola con la coltivazione del granoturco e del tabacco, prodotti le cui sementi furono importate dopo la scoperta delle Americhe, alle quali gli abitanti di Arsiè come altri comuni del bellunese, attraverso una massiccia emigrazione hanno dato mano d'opera e intelligenza. Sono molto presenti le attività commerciali, agricole e allevamento. Da quando è stata costruita la galleria che unisce rapidamente il territorio alla Valsugana si è sviluppata anche un'importante produzione artigianale.
DIALOGO CON IL SINDACO LUCA STRAPPAZZON
Luca Strappazzon, classe 1978 ,è stato eletto sindaco di Arsie' nelle elezioni comunali del 2014 con la lista civica “ Uniti per Arsiè”. E' stato riconfermato in quelle del 26 maggio 2019, sempre con la stessa lista.
Quali sono i principali problemi che s'incontrano nell'amministrazione del Comune? Personale, urbanistica, rifiuti.
Si premette che il principale problema che un’amministrazione comunale si trova a dover affrontare è dato dagli innumerevoli adempimenti burocratici che sono imposti dalle norme, il più delle volte privi di alcuna utilità per l’Ente e per i cittadini. Questo genera un malessere sia dei cittadini, che
vedono sempre più il Comune come un soggetto che osteggia le
loro richieste, sia degli uffici e degli amministratori, che finiscono per essere destinatari di tale malessere senza potervi porre rimedio. Occorre quindi che il Parlamento si adoperi in una reale e non nominale opera di semplificazione, che può avvenire solo se si presta ascolto agli amministratori che sono operativamente sul campo. Per quanto attiene poi il personale, i limiti di legge che non hanno permesso negli ultimi 15 anni il normale turn over hanno portato allo smantellamento di tutto il know how del Comune, con il risultato di un peggioramento dei servizi e un aumento dei costi. Non si comprende come questo non venga tenuto in debito conto da parte del legislatore.
I rapporti con la Provincia? E con
la Regione?
Altro grave errore è stato quello di depotenziare le Province e le Comunità Montane (oggi Unioni Montane). Questo ha portato ad un progressivo peggioramento dei servizi che venivano svolti da tali Enti, spesso anche in forma associata nelle aree montane. Il risultato è stato un rilevante peggioramento dei servizi.
Demagogico e assolutamente distruttivo è stato inoltre l’aver tolto le indennità di carica al Presidente della Provincia e della Comunità Montana (Decreto Del Rio), poiché questo non ha più permesso un serio impegno di tempo in tali cariche. Idem dicasi anche per il segretario della Comunità Montana. Lei è favorevole alla reintroduzione delle province?
Per quanto sopra detto, sì. Ricordo che gran parte delle Provincie non sono state abolite, ma sono state solo ridimensionate nei compiti. Sono state abolite solo quelle ricomprese nelle Città Metropolitane. Le maggiori richieste dei suoi cittadini? Come può affrontarle?
I Cittadini vogliono risposte chiare e veloci. E compito della politica e di una qualsiasi amministrazione è cercare di soddisfare, e al meglio, le
loro richieste e aspettative. Questo è impossibile con le attuali norme. Rifarebbe il sindaco?
Personalmente sì, perché è comunque un’esperienza avvincente e gratificante, anche se rischiosa come responsabilità.
Luca Strappazzon Sindaco
Enrico Facchinato Vicesindaco
Emanuela Moggia Assessore
Giancarla Battistel
Arianna Brandalise
Luigino Coin
Oscar Dall'Agnol
Dino Gasperini
Gianni Luca De Marchi
Ruber De Rocco
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Piazza Marconi N.1 - 32030 Arsiè (BL) - TEL: 0439 59093 - FAX: 0439 750000
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Arsiè (BL)
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FIERA DELLA ANIME:
COMMEMORARE I MORTI E FESTEGGIARE I VIVI
Ad Arsiè, il comune bellunese, affacciato sulla Valsugana, le anime sono immortali, appartengono a parenti, amici, conoscenti che da secoli, nel rispetto della religione, li ricordano e commemorano con una festa chiamata: La Fiera delle Anime capace di attrarre artigiani, agricoltori, commercianti e curiosi da ogni parte del bellunese e non solo.
"Fiera delle Anime", festa ideata tra la fine del Cinquecento e la prima metà del 1600, ufficializzata da papa Alessandro VII nel 1666, ha origine dalla creazione delle parrocchie di Enego, Primolano, Fastro in seguito alla divisione della Pieve di Arsiè. Fu allora che il parroco pievano don Sartorio, ideò una festa-commemorazione dei defunti delle nuove parrocchie i cui discendenti e amici vennero invitati a ricordare i propri cari antichi e recenti nel centro maggiore. La commemorazione fissata in coincidenza con la terza domenica di ottobre di ogni anno, coincideva con la fine dell'alpeggio e diventò presto l'occasione per tutti gli ex parrocchiani di ritrovarsi anche per vendite, acquisti e baratti. Nel tempo è diventata una delle più antiche feste tradizionali dell'intera provincia; attira ogni anno più di 40.000 visitatori che animano le vie
di Arsiè passeggiando tra i banchi del mercato dei prodotti tipici e tra i tanti artigiani al lavoro. La Fiera delle Anime, organizzata dal Comune e dalla Pro Loco, giunta alla rispettabile età di oltre 400 anni, si svolge ogni anno la terza domenica di ottobre tra le contrade di Arsiè ma già da epoca medievale era tradizione, in occasione della visita alle tombe dei propri cari, acquistare o barattare prodotti e animali. Non tutto è stato però facile e immediato. Anzi, nel corso dei secoli si era smarrito il senso religioso e pure quello del mercato legato alla transumanza, e la fiera era diventata un banale appuntamento del giovedì con bancarelle e poco altro, fino a che, all'inizio degli anni 90 del Novecento, il sindaco e storico del paese Dario Dall'Agnolo ne rilanciò l'organizzazione. Ancora oggi la Fiera mantiene la sua antica valenza di mercato agricolo, degli animali e
delle tradizioni locali del Feltrino; per le vie del paese si vedono negozianti e figuranti con vestiti di un tempo impegnati nei lavori tradizionali (impagliatori di sedie, filatrici di lana, tosatori di pecore, arrotini, scultori, pittori…). La Fiera ha conosciuto un momento di crisi nel 2021 quando con decisione responsabile Comune e Pro Loco, annullarono l'appuntamento a causa del Covid. Ora tutto è tornato alla normalità e i più piccoli possono vedere e toccare gli animali e fare anche un giro in groppa ai cavalli e tutti possono gustare i prodotti e i piatti tipici nei numerosi stand enogastronomici della Fiera: polenta con formaggio e pastin, spiedo di carne, fagioli, trippa e molte altre prelibatezze da assaporare con un buon bicchiere di vino o birra mentre si ascolta la musica suonata dalle tante bande che percorrono le vie di Arsiè.
Sede
IL LAGO DI CORLO O LAGO DI ARSIÉ
Éun lago artificiale (per la sua particolare conformità ricorda i fiordi norvegesi) che nasce quando fu costruita la diga di sbarramento del torrente Cismon iniziata nel 1950 e ultimata nel 1954. Purtroppo, per effetto della costruzione di questa opera vennero sommersi gli antichi borghi di Cesa, Carer, Giuliat e Cabalau mentre quelli
perenne ricordo della chiesa precedente.
Secondo i documenti di allora sembra che, a opera ultimata, su oltre tremila residenti, nella zona, circa duemilacinquecento dovettero abbandonare le loro case.
di Carazzagno, Forcelletti e Zanetti, trovandosi sulla riva sinistra del Cismon, furono risparmiate. Il borgo di Rocca, invece, (che è il paese più importante del lago) venne sommerso per metà e della sua chiesa si salvò solo il campanile perchè i residente decisero di demolirla e di costruirla poco distante, ma senza il campanile che rimase al suo posto a
L'area attualmente occupata dal lago e dai suoi contorni un tempo era conosciuta come Piana dei Ligonti, una zona quasi tutta utilizzata per numerose coltivazioni perchè fertile e ricca di acqua. Una parte di essa, quella sassosa e rocciosa, invece, era utilizzata per l'estrazione di materiale da costruzione. Per la cronaca a valle della diga, vicino a Cismon del Grappa, si trovano alcune gallerie della vecchia linea ferroviaria, quella tra Cismon e Feltre, costruite agli inizi del novecento.
Questo lago, (ha una forma allungata e deve il suo nome alla piccola borgata di Corlo presente
nel pressi dello sbarramento) che si trova a 300 metri di dislivello dal mare, situato tra Arsiè e Rocca, è una ambitissima meta per vacanze estive perchè gli ospiti, oltre a trascorrere una giornata in vero e assoluto relax, all'insegna di salubri passeggiate lungo le sue sponde, (per la cronaca il giro ad anello di tutto il lago è di circa 20 km), possono praticare tantissime attività sportive tra le quali canoa, pedalo', kayak e ludico ricreative quali mountain bike, trekking. E chi volesse
SPECIALE ARSIÈ
Ponte delle Corde), costruito nel 1928 e provvisto di una lunga passerella in legno sorretta da funi d’acciaio che sono fissate ad antichi torrioni in pietra. Oltre a questo ponte ne esistono altri due: quello delle Bassanese e quello del Polo.
cimentarsi nella “sana” pratica della pesca, e catturare uno dei tanti pesci commestibili presenti, deve essere in possesso della licenza di pesca valida, del tesserino regionale e/o permesso giornaliero.
Una delle principali caratteristiche del lago di Corlo è il famoso Ponte della Vittoria (conosciuto anche come
Altra importante attrattiva di questo lago è il Parco della Campagnola all'interno del quale si trova un grande prato provvisto di panche e tavoli nonché di una funzionale area barbecue e tanti divertenti giochi per bambini. Un posto ideale per trascorrere delle rilassanti e piacevoli ferie estive.
Infine vi è la possibilità di visitare alcuni “antichi” borghi. E tra questi quello di Fumegal, un insieme di case che oramai sono state abbandonate da moltissimi decenni. Il nome del paese deriva dal fatto gli abitanti erano famosi carbonai e quindi, a causa della fuliggine sulla loro pelle fu chiamato appunto Fumegal. Un luogo che riporta il visitatore agli inizi del '900 quando moltissimi giovani furono
costretti ad emigrare in cerca di fortuna lasciando, nel loro paesello, i meno giovani e gli anziani. E nel tempo, e sempre di più, il luogo si è definitivamente vuotato. Testimoni affermano che questo borgo, negli anni 70, venne in parte ripopolato da una comunità dei “Figli dei Fiori”, ma anche questi, dopo pochi anni, lo abbandonarono.
Si ringrazia Magico Veneto per la concessione e l'utilizzo delle foto.
Bar Gelateria San Marco
Piazza G. Marconi 31 Arsiè BL
Società oggi di Alice Vettorata
La Giornata mondiale delle zone umide
Il 15 novembre 2022 L’Onu ha stimato il raggiungimento della soglia degli 8 miliardi di abitanti, umani, presenti sulla terra. Moltissimi, più di quanti un pianeta avente le risorse di quello che abitiamo possa gestire. Ancora più consistente la stima sulla quantità di insetti, 10 quintilioni, cifra a diciannove zeri, secondo l’ESA (Entomological society of America). A differenza nostra però, loro non gravano sull’intero ecosistema. Così come le numerose altre specie animali e vegetali con le quali condividiamo lo spazio terrestre. Con alcuni comportamenti perpetrati dall’uomo sono stati compromessi gli habitat di numerose tipologie di animali e piante, portando alcune di loro ad essere prossime all’estinzione. Per contrastare la tendenza, fortunatamente, cominciano ad essere attive alcune precauzioni, evidenziate anche da giornate dedicate alla sensibilizzazione su questi temi. È anche il caso del 2 febbraio, data proclamata Giornata mondiale delle zone umide, per ricordare l’anniversario della Convenzione sulle zone umide di importanza internazionale stipulata nel 1971 a Ramsar, in Iran. L’obiettivo dell’iniziativa fu sin dal principio quello di enumerare le zone a rischio rientranti in questa categoria, che secondo i
dati del 2022, raggiungono la quota di 2435 siti da tenere sotto stretta osservazione. Quali sono però le realtà che rientrano nelle zone umide a rischio?
Legambiente indica testualmente:
“aree acquitrinose, paludi, torbiere oppure zone naturali o artificiali d’acqua, permanenti o transitorie, comprese zone di acqua marina (con meno di 6 metri di profondità)”. La loro totalità costituisce due terzi della superficie del nostro pianeta. Se i territori citati dovessero subire gravi modifiche si intaccherebbe il concetto di biodiversità, essenziale per poter garantire una diversificazione ambientale. Infatti se dovessero venire a mancare alcune di queste realtà, insetti, anfibi, volatili, mammiferi, pesci e piante sarebbero a rischio, poiché gli equilibri ai quali queste specie sono abituate verrebbero irreversibilmente modificati, non garantendone la sopravvivenza.
Considerando la situazione in Italia i siti da monitorare sono sessantasei, cifra la quale permette di comprendere che oltre ai beni culturali, gastronomici e tradizionali, quello in cui viviamo è un territorio che propone
molto altro. I suoi pregi oltre ad essere godibili devono però essere rispettati e salvaguardati per poterne garantire la longevità. I principali nemici sono ovviamente l’urbanizzazione incontrollata, l’inquinamento atmosferico e lo sfruttamento poco lungimirante delle risorse naturali. Comportamenti che influiscono negativamente non solo nell’ambito delle zone umide, ma anche nei confronti delle numerose problematiche ambientali che questo millennio sta affrontando.
Solo portare a termine gli obiettivi che l’Agenda 2030 si è prefissata possono invertire la rotta di un andamento che solo in Italia, metterebbe a rischio il 37% della fauna euromediterranea. Il sito web di Legambiente diffonde in modo esaustivo le ricerche legate alle tematiche qui trattate, permettendoci di agire in modo attivo, di fare la nostra parte, per preservare la preziosa biodiversità con la quale condividiamo il pianeta terra. Invito a consultare il pdf riguardante le zone umide reperibile dal sito Legambiente, tra gli altri contenuti, per poter usufruire di informazioni dettagliate su temi di estrema importanza, come questo.
CLOSE. APPUNTI SU UN AMORE
Un amore. Che non ha a che vedere con la sessualità. Nemmeno col desiderio, non sia quello dell’esserci, cari e preziosi allo sguardo dell’altro. Un amore che non è maschile o femminile, che non si identifica con alcun genere, che è solo semplice e puro amore. Che è lì dove, e nel momento in cui, due esseri si incontrano. Léo e Rémi – protagonisti di Close, ultimo film del regista Lukas Dhont – sono questi due esseri. Hanno tredici anni, e sono inseparabili. Catturano letteralmente la vita. Nelle corse sfrenate in bicicletta, nelle battaglie fatte sui prati nascondendosi da nemici invisibili ma tremendamente pericolosi. Nei giochi. La catturano nei ritratti che si fanno, o mentre si spalleggiano per trovare il coraggio di iniziare un ciclo scolastico, tremanti in mezzo al nuovo. Scivolano a letto uno accanto all’altro, soffiando racconti e sibili, come se un vento lontano tirasse per facilitare l’arrivo del sonno. Corrono. Si ascoltano. Ridono. Complici. Assoluti.
Poi una domanda incrina tutto. Piomba dall’esterno, inaspettata. Probabilmente
né Léo né Rémi capiscono cosa stia succedendo. E nemmeno noi, incollati alla poltrona del cinema, in silenzio. Assistiamo, mentre si apre un vuoto, una voragine, un abisso ben preciso. La meravigliosa fragilità di quel loro amore acquista tutt’un tratto un peso imponente. Si screpola. Volge al pianto, all’incomprensione, alla ricerca forzata di un’identità mascolina e virile, e incrina fino alla morte. Rémi non c’è più. Adesso lo capiamo, e precipitiamo a nostra volta, finiamo giù. Quello che rimane, è una sconfinata solitudine. Dei personaggi, di noi spettatori, dei nostri sguardi.
«Che cosa bisogna ancora sconvolgere, distruggere dei codici? Quello che è importante per un film, è riuscire a ricostruire l’esperienza umana. Uno sconvolgimento, vista l’assenza di questa esperienza nel nostro tempo.» Sono parole di Luc Dardenne queste, regista belga, proprio come Lukas Dhont. É incredibile e sorprendente il tuffo che Close costringe a fare nell’esperienza umana. Con poche parole, perché forse non c’è poi così tanto
da dire, c’è solo da sentire. Anche e soprattutto le piccole cose, e la loro costanza. Ci troviamo immersi in una dimensione estremamente fisica che ci attrae e non ci permette di guardare con freddezza, di prendere distanza. Non è facile sfuggire. Tutto è tattile. Lo sono i colori, i rossi e i verdi accesi, pienissimi. I volti in primissimo piano, i macchinari agricoli, la pioggia e il freddo, le riprese sul campo di hockey. Lo è la colonna sonora che gira attorno a pochi spunti melodici in modo quasi monotono, per infilarsi ancor meglio sotto la pelle e diventare minacciosa all’udito. Lo è persino il dolore. Quello che però credo non vi lascerà scampo quando andrete a vedere il film, è il paesaggio. È lì che la misura epidermica si fa totale. Ci sono attraversamenti di campi, boschi, strade. E ci sono i fiori. Corpi recisi, seminati, seguiti nella crescita. Importanti, onnipresenti. Finiamo per abitare i posti che ci vengono fatti vedere, per appropriarcene. Non importa minimamente se non li conosciamo. Quando Léo e Rémi li solcano, lo facciamo assieme a loro, avvertendo sul palmo della mano il leggero prurito della corolla di un fiore, il solletico di un filo d’erba.
L’intensità del sentimento del luogo mi ha ricordato un altro paesaggio che Lukas Dhont conosce di sicuro bene essendo nato a Gent. Proprio nella sua città di nascita, infatti, nella cattedrale di San Bavone, è conservato il polittico quattrocentesco dell’Adorazione dell’Agnello Mistico di Hubert e Jan van Eyck.
In vita mia non credo di aver mai visto opera d’arte più bella. L’ultima volta che sono andata a guardarla, ero completamente da sola nella stanza. Ripassavo mentalmente il senso delle figure presenti, studiavo i gruppi, i volti
Racconti d'arte di Daniela Zangrando*
degli angeli – non poi così diversi da quelli di Léo e Rémi! – ovviamente l’agnello, e poi Adamo, Eva, la narrazione, i dettagli.
Ma a stupirmi è stata la natura. Mi ci sono ritrovata dentro, irrimediabilmente inchiodata, persa tra gli iris e i tantissimi altri fiori, tra gli alberi e i cespugli, l’erba verde e le velature del cielo. Assorbita da un paesaggio di quelli che ti fanno domandare «È lì che vuoi andare?» e rispondere, annuendo «Ci sono già». Che ti fanno riconoscere. Mi saprete dire poi voi che effetto vi faranno i campi fioriti in cui ci fa camminare Lukas Dhont. Solo un’ultima cosa. Prima di chiamare il film Close, il regista aveva pensato a We Two Boys Together Clinging, riprendendolo dal titolo di un quadro di David Hockney dove due figure sono ritratte abbracciate, o, meglio ancora, aggrappate. Aderiscono, come
fanno le radici aeree dell’edera, i viticci dei rampicanti, gli uncini dei baccelli spinosi che si attaccano al pelo dei cani durante le passeggiate. Se dovessi racchiudere il film in una sola parola, forse userei proprio il termine “clinging” che l’ha influenzato. Vi
auguro un aggrappo così. Libero, senza definizioni e recinti di senso. Totale.
Daniela Zangrando
è Direttrice del Museo dell'Arte Contemporanea Burel di Belluno
Storie di guerra di Davide Pegoraro
Monte Salarolo
funzioni di carattere sanitario ad esempio, o addirittura come strumento di combattimento vero e proprio. Senza tener conto dei milioni di esseri viventi ammazzati da esplosioni in terra, mari e cieli. Ma la vita di queste creature non viene equiparata alla nostra (la morte invece non si fa riguardo, a lei va bene tutto) e questo concetto vale di principio anche per un'insignificante formica o la foglia di un albero.
Molto curiose e suggestive sono le storie di coloro che, impegnati in un qualche genere di conflitto armato (c’è l’imbarazzo della scelta nello scegliere quale), si sono potuti salvare per un miracolo di un qualche tipo. Come non citare la rocambolesca esperienza di chi è sopravissuto ad un colpo d’arma da fuoco di striscio. Colpiti alla testa (elmetto forato, cranio illeso), agli scarponi (foro passante tra le dita senza un graffio) o il più classico colpo al cuore con una tabacchiera o una fiaschetta di rum a fare da scudo improvvisato. Ma l’esempio forse più pazzesco è quello di un messale, una versione breve della Sacra Bibbia o un breviario, a diventare impenetrabili magari anche ad un pugnale o ad una baionetta. Il sacro che salva dal profano dunque, ma è capitato anche che qualcuno trovato in possesso di un qualche articolo religioso (il caso calza nei moderni conflitti contro un qualche integralismo) sia stato ammazzato come infedele.
La verità è che solo il caso governa il destino di chi si ritrova nel turbinio della guerra; non esiste un qualcosa facendo il quale si può essere certi di non morire così come non c’è un atteggiamento rischioso che garantisca di fare una brutta fine. Lo stesso
Erich Maria Remarque lo dice chiaramente nel suo capolavoro Niente di nuovo sul fronte occidentale: “potrei rimanere per ore sotto al fuoco nemico e non venire colpito o morire sepolto da un esplosione in un ricovero a prova di bomba”. Altra prova di questo concetto è ben espressa nel film di Steven Spielberg, Schindler's list, quando un ebreo nel campo di Auschwitz discute del senso di assoluta precarietà che vive a prescindere da come si comporta agli occhi dei suoi carcerieri. Questa è la guerra e quando la si accetta si fa proprio il pacchetto completo con tutti gli orrori che crediamo di poter immaginare dalla nostra confortevole posizione. A soccombere a causa della pazzia degli uomini non sono solo altri esseri umani. Cavalli, cani, piccioni viaggiatori, muli ed asini sono stati impiegati a centinaia di migliaia per garantire il trasporto di materiali, messaggi e per altre
La natura tutta è straziata dalla presenza umana e quando ci mettiamo a spararci il danno che subisce è infinito. Inquinamento senza limiti con ogni tipo di sostanza (i caccia ed i carri armati girano a targhe alterne?), metalli pesanti e sostanze chimiche irrorate a milioni di tonnellate la volta, fuoco e fiamme a divorare foreste, melme nere nei fiumi e nei ruscelli, gas alla gola del nostro cielo.
E noi a discutere dell’opportunità o meno di schierarci con chi usa le armi anche nelle scuole o nelle chiese o al supermarket. Basta guardarsi intorno con attenzione per accorgersi che nelle nostre città ogni angolo ricorda lo strazio di un conflitto; vie dedicate ad epici scontri, a importanti comandanti, a vittime della violenza
della mafia, o targhe che ci ricordano una fucilazione sommaria operata dai fascisti, dai nazisti o di un qualche evento legato ai partigiani. Poi uno esce dalle aree antropizzate e crede di poter sfuggire a questo meccanismo. Una gita in montagna alla ricerca della quiete e della pace; un viaggio
solitari oggi, per pazzi al tempo della guerra sul Grappa. Di codardi no, quelli stavano
Cesiomaggiore
Tel. 329 2804555
Seren del Grappa
Tel. 329 2804558
Borgo Valbelluna
Tel. 329 2804559
Art. 36 Cost. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. Con semplicità, chiarezza e concisione l’art. 36 Cost. blinda un principio etico di parità di genere e di eguaglianza sociale ed economica che ancora oggi non ha trovato compiuta ed effettiva tutela.
Nonostante nell’ordinamento giuridico italiano, sia per spinte d’oltralpe, ossia per effetto del contributo sostanziale della legislazione europea, sia per spinte interne, la bilancia dei diritti e delle garanzie si sia formalmente arricchita, un dato è apoditticamente
evidente: ad un aumento in quantità ed in qualità del corpo dei diritti non sempre corrisponde un incremento del livello di protezione di una posizione giuridica. Cosa impedisce la diretta proporzionalità nel rapporto aumento dei diritti aumento della tutela? Il punto di attrito è nella distribuzione dei diritti: se avviene in modo uniforme “nulla quaestio”, l’equazione dà il risultato auspicato; per converso, se prevede un trattamento differente per regolare situazioni equipollenti, allora nel sistema si inserisce una discriminazione, più o meno visibile, più o meno marcata, ma pur sempre una forma di diseguaglianza. Questo è ciò che si verifica segnatamente nel riconoscimento effettivo dei diritti sociali ed economici, tra cui il diritto ad una parità di retribuzione tra uomo e donna nello
svolgimento della stessa mansione lavorativa. ll divario retributivo di genere ha la sua unità di misura nel concetto di Gender Pay Gap (“GPG”) indicatore definito dall’Eurostat come differenza percentuale tra la retribuzione oraria media di uomini e donne rapportata alla retribuzione oraria degli uomini. Le rilevazioni statistiche pubblicate dall’ISTAT nel marzo 2021 con riferimento al 2018 riportano un Gender Pay Gap del 6,2% con una retribuzione oraria media per le donne più bassa di 1 euro rispetto agli uomini. Sebbene si registri come la retribuzione media annua, nel 2018 pari a 35.062 euro, cresca all’aumentare del titolo di studio in tutte le attività economiche, la forbice di retribuzione tra i due sessi è risultata essere più elevata tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%). Dunque, l’esito paradossale è che la discrepanza retributiva di genere è un piano che si inclina in modo marcato all’aumentare del livello di istruzione e dell’occupazione di posizioni dirigenziali apicali e ruoli di leadership. Nella catena degli elementi critici che determinano il differenziale retributivo di genere, l’anello che inizia e chiude il cerchio è il sempre difficile connubio tra la dimensione lavorativa e la vita famigliare che quando non sfocia in un “aut aut” tra famiglia e lavoro diventa una coesistenza tutt’altro che pacifica. Il contratto part – time, quando
Società, donna e lavoro di Caterina Michieletto
La bilancia della retribuzione:
“due pesi, due misure”
faticosamente conquistato, è pur sempre un’opzione che ha un pesante contrappeso in un compenso inadeguato ed in una penalizzazione nelle opportunità di realizzazione professionale. Nel privato il sistema di welfare a tutela della maternità ed a sostegno della genitorialità è ancora largamente rimesso alla discrezionalità delle politiche dei datori di lavoro e all’approccio più o meno sensibile dell’impresa rispetto a tale esigenza. Per far fronte in modo sistematico e capillare a queste ed altre barriere strutturali all’equità nell’occupazione e nella retribuzione di genere la risposta non può che essere corale ed univoca e la troviamo esattamente in quella conciliazione, questa volta sì possibile, tra vita e lavoro. In questa direzione era stato approvato nel maggio 2022 il cd. “Family Act”: allora il Parlamento con legge delega n. 32/2022 aveva affidato al Governo Draghi il compito
di emanare una serie di decreti legge volti a predisporre misure a tutela della genitorialità e introdurre forme di organizzazione del lavoro caratterizzate da flessibilità, efficace comunicazione e semplificazione al fine di favorire l’occupazione femminile e l’armonizzazione dell’impegno lavorativo con il tempi e gli spazi della famiglia. In ottica premiale erano contemplati anche benefici fiscali alle imprese per incrementare forme di welfare aziendale indirizzate alle famiglie e incentivi per il reinserimento delle donne nel mercato del lavoro in particolare dopo la maternità. Se questi obiettivi si tradurranno nei
decreti attuativi del Family Act e nell’ulteriore pacchetto di misure a sostegno delle famiglie predisposto dall’attuale Governo Meloni allora la bilancia della retribuzione di genere potrebbe gradualmente allinearsi. Per il momento i dati statistici fotografano una situazione ancora fortemente iniqua nella retribuzione di genere che si può riassumere nella formula “due pesi due misure”.
Per ricordare di Sonia Sartor
Feltre celebra Dino Buzzati nel cinquantennio della sua morte
Èstata inaugurata lo scorso mese di dicembre alla Galleria Rizzarda la mostra Corrispondenze - Pregoti scridipingere ancora che intende celebrare il poliedrico bellunese Dino Buzzati nel cinquantennio della sua morte. La mostra a cura di Marco Perale, presidente dell’Associazione Internazionale Dino Buzzati, espone una selezione significativa delle lettere ricevute dallo scrittore, giornalista, pittore ed alpinista nell’ultimo decennio della sua vita. Sono una cinquantina i carteggi esposti fino al 26 febbraio nella sede di via Paradiso volti a sottolineare il carattere di totalità dei rapporti intessuti e degli ambiti creativi frequentati dal cronista del Corriere della sera: letteratura, moda, cinema, alpinismo e molto altro.
A distanza di sette anni dall’ultima mostra dedicata a Dino Buzzati presso la Galleria Rizzarda, egli viene nuovamente accolto attraverso un’esposizione temporanea caratterizzata da intrecci e rimandi al percorso museale permanente. “La
mostra si presta a una lettura polisemica rendendo lecita la ricerca di punti di correlazione all’interno delle collezioni” ha commentato Tiziana Casagrande, conservatrice dei Musei civici di Feltre. La collezione di Carlo Rizzarda annovera infatti tra i suoi capolavori anche opere di alcuni mittenti delle epistole indirizzate a Buzzati. Tra i mittenti legati al mastro ferraio feltrino emerge la figura di Aldo Carpi, pittore e scultore milanese, la cui firma appare nella lettera datata 11 settembre 1969. Presso la Galleria è possibile ammirare due opere dello stesso Carpi: Autoritratto esposto alla Biennale di Venezia del 1926 e Ritrattato di Carlo Rizzarda presentato alla prima Quadriennale d’arte nazionale di Roma nel 1931. In occasione dell’inaugurazione della mostra, tenutasi presso la sala degli stucchi, il sindaco di Feltre Viviana Fusaro ha sottolineato il ruolo che essa assume in un’ottica di promozione del patrimonio culturale: “L’iniziativa si inserisce perfettamente nella politica di valorizzazione del patrimonio museale cittadino, ma non solo, in un’ottica provinciale e di sistema”. “All’associazione Internazionale Dino Buzzati che ha sede proprio nella città di Feltre, va il plauso dell’Amministrazione comunale per il costante lavoro di ricerca, studio e divulgazione portato avanti negli anni da quando venne fondata nel 1988 e che ora si arricchisce di un nuovo tassello” continua il sindaco Fusaro.
L’esposizione è arricchita da fotografie dei corrispondenti e da una serie di ritratti di Buzzati realizzati da Salvatore Fiume, Franco Matticchio e Tullio Pericoli. Trovano inoltre una loro disposizione naturale nella mostra una trentina di
lettere, cartoline e biglietti scritti questa volta da Buzzati e da re Leopoldo del Belgio all’alpinista feltrino Gabriele Franceschini proprio nel centenario della sua nascita. Il carteggio con la guida alpina che ha accompagnato Buzzati alla scoperta delle pale di San Martino diventa un’occasione per celebrare la montagna in tutte le sue sfaccettature oltre che per rendere omaggio ad una passione mai abbandonata nella vita del giornalista del Corriere della sera: l’alpinismo nelle sue Dolomiti. Nel novembre 1968 Franceschini scrive a Buzzati una lettera la cui formula conclusiva ispira il nome della mostra: “Pregoti scridipingere ancora”. La mostra offre dunque uno spaccato significativo del mondo intellettuale e culturale attivo alla metà del Novecento in Italia spaziando dal già citato Aldo Carpi al regista Federico Fellini; dall’editore Neri Pozza alla stilista Giuliana di Camerino. “Un nuovo pianeta della galassia Buzzati che attende ancora, silenziosamente, chi lo saprà scoprire” così Marco Perale ha definito l’epistolario buzzatiano del quale ci auguriamo sempre più tasselli vengano portati alla luce.
La prima ferrovia transcontinentale
Questa è stata senza ombra di dubbio una conquista monumentale nella storia americana, rivoluzionando il modo di viaggiare, il commercio, la situazione economica e demografica di un intero Paese.
La costruzione della prima ferrovia transcontinentale negli Stati Uniti, che a partire dal 1869 ha permesso il collegamento tra la costa orientale e quella occidentale del Paese, è stata un'impresa imponente richiedendo infatti una metodica pianificazione, un grande volume d’investimenti, nonché di manodopera.
Già nel lontano 1830 era nata l’idea di unire lo sconfinato territorio americano ma quest’esigenza si fece sempre più pressante a partire dal 1848, anno in cui venne scoperto un primo giacimento aurifero in California. Prima della costruzione della ferrovia, per passare da una costa all’altra del Paese erano necessari mesi di cammino, dovendo
superare pianure, tratti montuosi, con l’ulteriore rischio di contrarre malattie, morire di fame e di essere vittima degli agguati dei temuti pellerossa. Altra possibilità era quella d’imbarcarsi a New York raggiungendo Panama e da lì, grazie ad un altro battello, giungere a San Francisco. Era chiaro quindi che questa grande impresa avrebbe permesso di collegare le due coste in maniera efficiente, riducendo notevolmente i tempi di viaggio.
Il Congresso degli Stati Uniti era ben consapevole delle grandi opportunità e vantaggi che questa ferrovia avrebbe potuto apportare e nel 1850 iniziarono le indagini per capire quale fosse il miglior percorso su cui sviluppare il nuovo tratto ferroviario: un passaggio a nord dal Mississippi superiore al Missouri; la tratta centrale da St. Louis nel Missouri
fino a San Francisco; l’itinerario del trentacinquesimo parallelo attraverso le Montagne Rocciose raggiungendo Los Angeles oppure la tratta del sud da New Orleans, attraverso il Texas per giungere infine a San Diego. Sebbene l’itinerario del sud risultasse essere quello più breve e meno rischioso, venne comunque bocciato. L’attenzione si spostò sul tracciato centrale, ma anche questo presentava numerosi problemi, primo fra tutti il fatto di attraversare territori al di fuori del controllo statale, dove vivevano tribù indiane di natura bellicosa. Con lo scoppio della guerra civile americana nell’aprile 1861 e l’elezione di Lincoln, sedicesimo presidente degli Stati Uniti, la situazione si sbloccò definitivamente e si iniziò
Ieri avvenne in America di Elisa Rodari
a lavorare in maniera consistente al progetto della ferrovia transcontinentale. Il percorso che venne approvato fu quello pensato da Theodore Judah, un ingegnere civile noto a Lincoln e ossessionato dall’idea di costruire una tratta ferroviaria lungo il 41° parallelo, un percorso già utilizzo in precedenza dai Mormoni e dai Pony Express, partendo dal Nebraska, passando per il Wyoming, Utah, Nevada e arrivando in California, instaurando un collegamento tra Omaha e Sacramento.
La realizzazione della ferrovia venne affidata a due grosse società da poco costituitesi, la Union Pacific e la Central Pacific. Le due società avrebbero dovuto concentrarsi su due tracciati diversi ma contemporaneamente: la prima compagnia avrebbe lavorato sul tracciato che da Omaha, Nebraska e avrebbe dovuto attraversare le grandi pianure
Ieri avvenne in America
in direzione della costa ovest mentre la seconda società sarebbe partita con i lavori dalla città di Sacramento in California attraversando poi le impervie Montagne Rocciose.
Il progetto dell’ingegnere Theodore Judah venne sostenuto finanziariamente da quattro facoltosi uomini d’affari, denominati “the Big Four” (I grandi quattro). I lavori iniziarono il 9 gennaio 1863 e fin da subito i problemi non mancarono. A distanza di pochi mesi dall’inizio dei lavori, Theodore Judah morì di febbre gialla e la posa dei binari proseguì a rilento a causa della mancanza di manodopera. Il servo di nazionalità cinese di Charles Crocker, uno dei quattro investitori della ferrovia, propose al suo padrone di assumere manodopera cinese, abili e dediti lavoratori: si stima che tra il 1865 e il 1867 circa 14.00 asiatici abbiano contribuito per l’80% della forza lavoro a superare gli ostacoli che la Sierra Nevada presentava, portando avanti il progetto iniziale. Purtroppo, alto fu anche il numero delle vittime, morte durante i lavori di costruzione. A undici mesi di distanza dall’inizio dei lavori da parte della Central Pacific, vennero inaugurati i lavori anche dall’altra parte del Paese, grazie alla costruzione della stazione di Omaha in Nebraska da dove sarebbe partita la Union Pacific Railroad alla volta dell’ovest. Nonostante il lento inizio, la Union Pacific nel giro di soli due anni fu in grado di coprire il quadruplo della
distanza coperta fino a quel momento dalla Central Pacific.
Durante la costruzione della ferrovia si dovette fare i conti con i numerosi attacchi delle tribù Sioux, Cheyenne ed Arapaho e anche la presenza dei bisonti rappresentò una minaccia per la ferrovia. Venne infatti formato un esercito di cacciatori di bisonti e si creò appositamente un cuneo appuntito di sbarre di ferro, posto nella parte anteriore della locomotiva, allo scopo di sollevare e spingere i bisonti a lato dei binari evitando il deragliamento dell’intero convoglio. Con lo sviluppo della ferrovia, nacquero anche diverse cittadine, saloons e alberghi che permisero lo sviluppo dell’intero Paese. Il 10 maggio 1869, ore 12.57, fu un
momento memorabile. Nella località di Promontory Summit nello Utah la locomotiva rosso/oro della Central Pacific e la locomotiva verde/oro della Union Pacific si incontrarono faccia a faccia, segnando la conclusione della ferrovia. L’ultimo chiodo piantato, il “Golden Spike” (chiodo dorato) sancì simbolicamente l’unione dell’intera nazione americana. Da quel momento, in soli sei giorni di viaggio fu possibile partire dalla Grand Central Station di New York City e raggiungere la California. La ferrovia transcontinentale non fu solo una conquista tecnologica, ma anche un simbolo della crescente forza e unità americana, segnando la fine delle frontiere e l'inizio di una nuova era di prosperità e progresso per gli Stati Uniti.
in cronaca di Alex De Boni
La Manifattura Valcismon al fianco degli operatori del centro trasfusionale di Feltre
L’azienda bellunese ha donato 12 felpe marchio Karpos ai professionisti che operano nel reparto dove si effettuano le donazioni di sangue e plasma. La generosità non si è fermata a questo, infatti con gli indumenti, la Manifattura Valcismon ha fatto un dono più grande a tutta la comunità: grazie a una campagna di sensibilizzazione interna, ben 40 dipendenti hanno espresso l’intenzione di diventare donatori di sangue, seguendo l’esempio di colleghi che donano da tempo e, dopo le visite previste a cura dei medici del Centro Trasfusionale di Feltre, potranno iniziare a donare.
In piena armonia con la filosofia di Karpos “di vivere in armonia con il territorio e preservarlo perché sia un’esperienza unica ed irripetibile per tutti quelli che verranno dopo di noi”, Manifattura Valcismon si è dimostrata una squadra affiatata che ha raccolto con entusiasmo questa nuova sfida, a favore della cittadinanza intera, espressione di un profondo sentimento di solidarietà umana."L’anno scorso avevamo avuto l’onore di supportare quelli che ho definito gli “atleti della sanità”, cioè gli operatori del Dipartimento di Prevenzione che, in estate e in inverno, hanno fatto tamponi e vaccini nei drive-in permettendo di gestire al meglio le fasi più intense dell’emergenza Covid“, spiega Alessio Cremonese, AD del gruppo MVC. “Quest’anno ho accolto subito con entusiasmo l‘idea di Giuseppe Lira di coinvolgere nelle attività di supporto al territorio anche le dipendenti e i dipendenti.“
“Sono donatore da quando ho 18 anni e spesso ci si chiede “perché farlo?” Perché è un gesto concreto
di solidarietà”, sottolinea Lira, Brand Manager Karpos. “Si dona la propria energia vitale a chi sta soffrendo, a qualcuno che ha un reale e urgente bisogno. Significare essere parte di una comunità. A oggi sono più di 40 le adesioni raccolte tra i colleghi di MVC Group e sono fiducioso che nel prossimo futuro molti altri coglieranno questa opportunità per essere di aiuto al prossimo.”
L’ULSS Dolomiti ringrazia la famiglia Cremonese che ancora una volta si è dimostrata attenta ai bisogni della sanità, con spirito di servizio, e rappresentano un esempio per la sensibilizzazione nella comunità all’attività del “dono”. Per il Trasfusionale di Feltre, la donazione degli indumenti corona un anno estremamente positivo dal punto di vista delle donazioni di sangue e plasma, aumentate ancora grazie alla sinergia e alla stretta collaborazione con l’Associazione Feltrina Donatori Volontari del Sangue.
Basti pensare che il 2022 è stato un anno molto positivo in tutta l’ULSS Dolomiti per le donazioni, che sono state 14.739, più di quelle già ottime del 2021 e rappresentano il dato più alto di sempre, con un aumento che si conferma in controtendenza rispetto alle altre realtà. La generosità e l’organizzazione dei donatori di sangue dell’ULSS Dolomiti va oltre i confini dalla provincia: il “buon sangue” dei Bellunesi non solo basta per le necessità degli assistiti locali ma viene anche “esportato” fuori ULSS per rispondere ai bisogni di altre realtà anche fuori regione.
È stato, infatti, un anno molto positivo anche per il contributo che fornito in termini di supporto all'autosufficienza regionale e nazionale di emocomponenti: nel 2022 l’Ulss Dolomiti ha ceduto ad altre ULSS sia in Veneto che fuori Regione 6.081 unità di globuli rossi, ben 571 in più di quanto programmato per l’azienda a livello regionale.
I misteri di Alleghe
uccisi a colpi di pistola in una viuzza del centro del paese. Il loro delitto fu considerato però subito come una rapina finita male, dato che dal corpo della Del Monego erano spariti degli orecchini e i due erano stato derubati dell’incasso del loro negozio, che a quanto pareva avevano con loro al momento della morte. Del fatto venne così accusato Luigi Verocai, uomo con già precedenti per omicidio. Verocai venne però prosciolto dalle accuse in fase di istruttoria e la morte dei Del Monego risultò quindi essere a carico di ignoti.
Piccolo paesino dall’aspetto curato e pacifico e meta di chi fugge in montagna per una sciata nel fine settimana, Alleghe potrebbe tranquillamente ingannare e apparire come una piccola oasi di tranquillità con tanto di splendido lago da ammirare. Tuttavia, ci sono stati tempi in cui il paesino di montagna è stato attraversato nelle sue piccole vie da misteri e domande senza risposta, scatenate da un’inquietante serie di omicidi. Fatti che oggi chi ricorda chiama ancora proprio come “i misteri di Alleghe”, anche grazie al famoso libro scritto dal giornalista Sergio Saviane riguardo la vicenda. Sebbene però i responsabili della scia di sangue che sconvolse il paesino sono stati da molto processati e condannati, la storia di una Alleghe più oscura affascina ancora molti.
Tutto ebbe infatti inizio nel lontano 9 maggio 1933, quando nel paesino
venne ritrovato il cadavere di una giovane, Emma De Ventura, una cameriera che lavorava all’albergo Centrale, situato proprio nella piazza del paese. Il caso venne subito archiviato come suicidio dovuto a motivi sentimentali. Ma il 4 dicembre dello stesso anno un’altra ragazza morì misteriosamente: si trattava di Carolina Finazzer, giovane moglie del macellaio del paese, Aldo Da Tos. Il cadavere della giovane venne trovato galleggiare nel lago di Alleghe e sebbene mostrasse lividi sul corpo, anche la sua morte venne archiviata come suicidio. Sembrava dunque che sebbene ci fossero state due morti alquanto inquietanti, non ci fosse però la mano di nessuno dietro di esse. Ma la strana scia di sangue non era ancora destinata ad interrompersi, tanto che la notte del 18 novembre 1946 due alleghesi, i coniugi Luigi e Luigia Del Monego, vennero
Su Alleghe parve quindi calare una momentanea tregua dai fatti che l’avevano sconvolta. Tuttavia il 13 aprile 1952 Sergio Saviane, giornalista e futuro autore di “I delitti di Alleghe”, pubblicò sul “Lavoro Illustrato” l’articolo “La Montelepre del Nord”. Il pezzo, che trattava delle morti sospette avvenute nel paesino di montagna, era frutto oltre che delle indagini del giornalista durante la sua villeggiatura, anche della raccolta di pettegolezzi e sospetti raccolti dagli abitanti del posto. L’articolo, sebbene non rappresentasse dunque un’inchiesta giornalistica vera e propria -avendo al suo interno anche notizie non confermate e dicerie- sollevò dubbi e attenzione che ebbero effetti alquanto inaspettati.
Nel suo pezzo infatti, Saviane ipotizzava che non solo le morti avvenute nel 1933 erano collegate all’omicidio del 1946, ma anche che il nodo della scia di sangue che aveva investito Alleghe era proprio il Centrale, l’albergo di
proprietà della famiglia Da Tos. Due delle morti sospette avevano infatti un legame in comune con quel luogo, mentre l’omicidio dei Del Monego veniva sospettato come collegato ad esso da pettegolezzi e voci di paese. Ma l’articolo di Saviane quindi, che metteva in chiaro i sospetti del giornalista riguardo il fatto che ciò che era accaduto ad Alleghe fosse una scia di omicidi ad opera di una delle famiglie del paese, gli costò cara. Il giornalista venne infatti denunciato da Fiore e Aldo Da Tos e condannato per diffamazione. Ma i dubbi sollevati da Saviane furono così forti che due carabinieri, Cesca e Uda, dopo aver letto il pezzo e tutte le questioni da lui sollevate, riuscirono a far riaprire l’indagine per approfondire il caso.
aver visto un certo Giuseppe Gasperin vicino alla casa dei Del Monego con altre due persone, la notte della loro morte. Arrestato ed interrogato, Gasperin denunciò come complici e responsabili degli altri omicidi Pietro De Biasio e Aldo Da Tos. In seguito, anche Adelina Da Tos -sorella di Aldo e moglie di Pietro- venne accusata di complicità con altri e di essere stata la vera mano dietro la morte della cameriera dell’albergo Centrale, Emma De Ventura. Alla fine, si venne dunque a sapere che all’origine della scia di sangue c’era l’occultamento di un altro crimine: l’omicidio di un fratellastro dei Da Tos, cresciuto lontano dal paese e venuto ad Alleghe per affermare il suo diritto all’eredità della madre, proprietaria dell’albergo Centrale.
stato ritrovato dalla cameriera De Ventura, uccisa però oltre che per la scoperta -secondo altre fonti- anche per essere l’amante di De Biasio. Poi, Carolina Finazzer sarebbe stata tolta di mezzo anche lei per essere venuta a conoscenza del segreto del marito e della cognata. I coniugi Del Monego invece, secondo la ricostruzione, sarebbero stati assassinati proprio per aver visto Aldo Da Tos avvicinarsi al lago col cadavere della moglie. Il piccolo paese di montagna, dunque, chiuso nel silenzio della paura per quella impressionante scia di morti misteriose, dopo lunghi anni ha trovato quindi pace dopo la conclusione del caso, con la condanna all’ergastolo per i tre principali colpevoli. Tuttavia, sebbene gli anni passino e il tempo abbia quasi
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Feltre in cronaca di Alex De Boni
UNICOMM E LE MANIFESTAZIONI SPORTIVE
Il gruppo UNICOMM rappresentato dal patron Marcello Cestaro conferma l’appoggio alla “Corri Feltre” e alle manifestazioni sportive curate dall’associazione “Il Giro delle Mura”.
“E’ stato un incontro estremamente piacevole sul piano personale, ma anche molto interessante sul fronte delle prospettive che riguardano la collaborazione che il gruppo commerciale UNICOMM garantisce alla nostra città, e a molte sue manifestazioni, da parecchi anni”. Così il sindaco di Feltre, Viviana Fusaro, al termine dell’incontro svoltosi a Dueville, in provincia di Vicenza, presso la sede del colosso veneto, titolare di marchi quali Famila, Emisfero, A&O, con il suo patron, il signor Marcello Cestaro. “Ho trovato una persona estremamente aperta e dinamica, a cui ho rivolto anzitutto il ringraziamento per l’appoggio che garantisce oramai da molto tempo alla “Corri Feltre”, la manifestazione sportiva e di educazione alla salute promossa dal Comune di Feltre divenuta oramai un appuntamento fisso per le famiglie feltrine, ma anche ad una serie di altre importanti manifestazioni della nostra città. Sono certa, aggiunge Fusaro, che il nostro rapporto di collaborazione potrà continuare e, mi auguro, svilupparsi ulteriormente in futuro”. Ad accompagnare il sindaco di Feltre nell’incontro con il signor Cestaro, i vertici dell’associazione “Il Giro delle Mura”: il presidente Gian Pietro Slongo con Emilio Marzaro e Diego Da Col. “Abbiamo avuto l’ennesima riconferma di quanto il signor Cestaro, a cui abbiamo illustrato l’attività svolta lo scorso anno, sia legato alla nostra città e alle manifestazioni che la caratterizzano, in primis, per quanto ci riguarda da vicino, quelle sportive. Il gruppo UNICOMM sosterrà infatti anche nel 2023 l’associazione “Il Giro delle Mura” in tutti i suoi principali appuntamenti; si tratta di una partnership per noi molto significativa, poiché rappresenta una garanzia di continuità nel programmare le attività future a vantaggio degli sportivi, agonisti e non, soprattutto quelli più giovani”, il commento di Slongo.
Luciano Gesiot riconfermato presidente
Luciano Gesiot riconfermato alla guida della Mostra dell'Artigianato Artistico e Tradizionale “Città di Feltre”. Questo quanto deciso dall’assemblea dei soci fondatori. Notizia che ha trovato la soddisfazione del sindaco di FELTRE Viviana Fusaro che ha così commentato: “Lavoreremo per consolidare e ampliare il sostegno ad una rassegna unica nel panorama delle manifestazioni”. Dopo la relazione sull'andamento dell'edizione 2022 da parte dello stesso Gesiot e del direttore amministrativo Dino Cossalter e il confronto tra i rappresentanti dei soci presenti (Comune di Feltre, Unione Montana Feltrina, Appia-CNA, Confartigianato, associazione “Il Fondaco per Feltre” e GILF), il sindaco Viviana Fusaro ha proposto la riconferma di Luciano Gesiot alla guida del Comitato Organizzatore della Mostra; la proposta è stata accolta all'unanimità dai presenti.
“Sono grata al dottor Gesiot per il lavoro svolto in questi anni e per la disponibilità manifestata a proseguire nella guida di una delle manifestazioni più rilevanti non solo per la nostra città, ma per tutto il territorio bellunese e non solo. La Mostra dell'Artigianato, ha sottolineato Fusaro, rappresenta un unicum a livello regionale e una iniziativa di interesse nazionale che merita un supporto adeguato. Per queste ragioni, ha aggiunto il sindaco di Feltre, il Comune si adopererà per catalizzare attorno alla manifestazione energie e risorse utili a consolidare e potenziare ulteriormente la rassegna”. “Raccolgo l'invito a mantenere la guida della Mostra con lo spirito di servizio e il grande amore per Feltre che ha sempre caratterizzato la mia attività nell'ambito delle manifestazioni pubbliche cittadine. Mi auguro – ha detto tra l'altro Gesiot – che la nuova edizione della rassegna coincida con un rinnovato slancio ed impegno da parte di tutti i soci della rassegna, degli operatori economici e commerciali e dell'intera città di Feltre, che può oggi fregiarsi di una manifestazione di assoluto livello in un comparto storico per il nostro territorio. Il Comitato organizzatore si metterà al lavoro già dai prossimi giorni per allestire un'edizione che sia all'altezza delle attese e della tradizione, non senza uno sguardo innovativo ad una società e ad un settore in grande evoluzione”.
Walter Laurana
Attenti... LA LONTRA è TORNATA
lontra. E proprio attraverso l'analisi degli escrementi i tre studiosi sono arrivati alla sua identificazione. “Abbiamo monitorato alcuni ponti, sotto i quali, se la lontra è presente”, dice Cassol, “non è affatto insolito trovare escrementi. Nel mese di novembre ne abbiamo rinvenuto alcune e all’analisi di laboratorio sono risultate proprio di lontra. In questo modo abbiamo potuto certificarne la presenza”. Le analisi di laboratorio hanno evidenziato resti di uova di trota Fario, che è tra i cibi prediletti nella dieta della lontra. “È la prova”, dicono Cassol e De Nadai, “che in Comelico vive al momento una lontra.” Si tratta di una scoperta di grande rilievo, perché nel Bellunese questo animale era scomparso. Sulle cause della sua estinzione dal territorio bellunese il confronto scientifico è tuttora in corso. Nel 1977 la lontra era stata dichiarata specie a rischio in Italia.
Siamo partiti dai dati di presenza dell’animale raccolti nella zona di Tarvisio nel 2011 e dell’Alto Adige nel 2008. Nel 2019 erano stati trovati altri elementi che riconducevano alla presenza della lontra sul crinale tra Sappada e Forni Avoltri». Michele Cassol, esperto faunista, parla con non celata emozione del ritorno in Comelico della lontra europea. Con i colleghi Gabriele De Nadai e Luca Lapini ha appena certificato l'evento con una pubblicazione scientifica presentata
in pompa magna dall'amministrazione provinciale di Belluno.
Certificare il ritorno della lontra non è stato facile. L’animale non è nemmeno stato avvistato, data la sua prudenza e ritrosia verso gli umani è difficilissimo da fotografare o incontrare. Si muove di notte per cacciare, si nutre di pesci o piccoli animali. Ma la particolarità è quella di produrre escrementi ricoperti di una specie di gel, che sono inequivocabilmente riconducibili alla
La lontra europea è un predatore e come tale mal sopportato in generale dai pescatori ai quali sottrae la fauna ittica mangiandosi le uova e gli stessi pesci di cui è golosa e ottima pescatrice. “Ma per noi non è un problema”, dice Ferdinando Gant, presidente del Bacino di pesca n.1, “L’area colpita da Vaia è stata distrutta, abbiamo perso il 94% della popolazione ittica. Ma con impegno e lavoro la stiamo ricostruendo. E la presenza della lontra è
Noi e gli animali di
indicativa di un risultato positivo che può migliorare”. E' vero, perché questo animale particolare ,che la natura ha dotato di baffi robusti e sensibili, vive in corsi d'acqua non inquinati.
Non sono i pescatori dunque all'origine della sua scomparsa dal Feltrino dove le sue tracce si erano perse da almeno 60 anni, e nemmeno cacciatori ai quali né la carne, poco pregiata, né la pelliccia, di colore marrone, fanno gola. In verità nel XIX secolo la pelle di lontra aveva avuto un certo successo nell'abbigliamento femminile ma, è noto che le donne amano cambiare abitudini al mutamento ambientale. E' probabile che a cacciarla sia stato qualche predatore nemico. La Lontra (Lutra) è un mammifero con areale euroasiatico, in Giappone e Spagna in particolare, che nel resto d'Europa ha una presenza molto frammentata. Nel 1977 la lontra fu dichiarata specie in estinzione e nel 2006 la popolazione in Italia fu stimata fra 220 e 660 esemplari,
presenti in diversi nuclei su Alpi, Appennini e alcuni grandi fiumi di pianura. Per costruirsi la tana approfitta quasi sempre delle buche che le acque dei fiumi lasciano sulle rive; non disdegna le cavità naturali tra le radici di vecchi alberi o le tane abbandonate da tassi o volpi.
Il ritorno di questo mustelide, lungo fino a 120 centimetri coda compresa, e del peso di 10-12 chilogrammi, è accolto con molta soddisfazione anche dall'amministrazione provinciale. “Una presenza che certifica una volta di più la grande qualità del nostro ambiente”, il commento del consigliere provinciale delegato a caccia e pesca, Franco De Bon. “Stiamo assistendo a tanti ritorni di specie animali che non si vedevano da decenni sul nostro territorio, o che non erano mai stati visti. Dal lupo allo sciacallo dorato, dalla puzzola alla lontra, per l’appunto”.
Il luogo delle rilevazioni positive è l'asta del torrente Digon nel Comelico. Una lontra tuttavia non fa “primavera”.
Qualora si fosse in presenza di una coppia il ripopolamento sarebbe abbastanza lungo e problematico. Il periodo riproduttivo dura solitamente da febbraio a marzo, ma gli accoppiamenti al di fuori di questo periodo non sono rari, pertanto i piccoli possono nascere durante tutto il periodo dell'anno. La gravidanza dura nove settimane e la femmina partorisce da 2 a 4 piccoli che nascono con occhi chiusi e quasi inappetenti. Diventano sessualmente attivi poco prima dei tre anni di età. Gli esemplari adulti vivono isolati o in piccoli gruppi familiari, tuttavia le femmine tengono presso di sé la prole per molto tempo.
Casson, De Nadai e Lapini proseguiranno le ricerche nella speranza di poter vedere e fotografare uno o più esemplari. Sarebbe un successo per loro e per tutti noi perché l'ambiente non inquinato è necessario alla sopravvivenza della specie umana la quale tra una bomba e l'altra rischia un'autonoma autodistruzione.
LE INVASIONI DI LOCUSTE A CAVALLETTE
In molte località, le cavallette e le loro larve venivano combattute a colpi di scopa e rami d’albero, oppure sepolte in fosse coperte da calcina, mentre le uova venivano distrutte dal fuoco. Ma accanto ai rimedi tradizionali coesistevano, un po’ ovunque, le pratiche religiose che si concretizzavano in messe e processioni, ma, a volte, alcuni sacerdoti mettevano in atto dei veri e propri esorcismi, con risultati spesso poco soddisfacenti.
Cavallette e locuste, periodicamente, da almeno quattro millenni, costituiscono un flagello per milioni di persone sparse in molteplici territori dell’Europa, Asia ed Africa.
Si tratta di insetti molto simili tra loro: le seconde, che hanno un colore brunastro–verdastro, sono più grandi e si caratterizzano per essere dotate di tre coppie di zampe posteriori, di una testa rotonda con antenne, occhi bilaterali, oltre ad ali.
Le locuste, a differenza delle cavallette, sciamano e migrano a volte anche in milioni di decine di esemplari. Estremamente voraci si nutrano di foglie, fiori, germogli, frutti e semi di diverse specie di piante. Se presenti in numero abnorme possono rappresentare un pericolo gravissimo per le colture che, in alcuni casi, vengono completamente distrutte in un raggio di moltissimi chilometri, con la conseguenza di gravissime carestie. Basti pensare che un grande sciame può divorare, nell’arco di un solo giorno, il cibo necessario a sfamare 35 mila persone.
Già gli antichi Egizi conoscevano bene questo flagello, a tal punto da scolpire l’effige delle locuste sulle proprie tombe in un periodo compreso tra il 2470 ed il 2220 a. C.
E’ pure noto che, addirittura nel IX
secolo a.C., le autorità cinesi incaricavano specifiche persone alla lotta contro questi terribili insetti. Nell’Iliade, scritta nel VI secolo a.C., vengono citate le cavallette, che successivamente vennero studiate da Aristotele e citate da Tito Livio il quale, nei suoi scritti, ricordò un’imponente invasione di questa specie avvenuta nel 203 a. C. nei dintorni di Capua.
Anche la Bibbia, a descrizione dei fatti avvenuti durante la seconda permanenza degli Ebrei in Egitto, narra dei gravissimi danni provocati ai raccolti dalle locuste. Sempre per rimanere nell’Oriente va ricordata l’imponente invasione avvenuta in Siria nella primavera 1747, nelle aree agricole vicino a Damasco. Così venne narrato l’incredibile episodio da una barbiere della zona: “venute come una nuvola nera, hanno coperto tutto: gli alberi e le culture. Che Dio onnipotente ci salvi.”
L’Italia nella sua totalità e, quindi, anche tutto il nord–est, nel corso dei secoli, è stata più volte interessata da avvenimenti simili.
Di sicuro, dall’inizio del 1300 fino alla fine del 1800, vari documenti d’archivio e fonti letterarie raccontano di molteplici invasioni nei territori dell’attuale Friuli Venezia Giulia e Veneto, bellunese compreso. Si verificavano soprattutto nei mesi caldi, in particolare in luglio ed agosto quando, il forte vento di bora, trasportava dall’Ungheria milioni e milioni di locuste. Ma più, in generale, si calavano nel nord–est del nostro Paese direttamente dalla pianura pannonica dove erano, in precedenza, arrivate dalla foce del Danubio o dal vicino Oriente. Questi spostamenti erano favoriti dal vento caldo di scirocco. Nel Veneto, attualmente, vivono stabilmente molte decine di specie di cavallette, nel bellunese se ne contano ben 27. L’ultima importante ed inaspettata invasione di locuste si è
registrata nel vicentino una decina di anni fa, precisamente nel luglio 2013. Nell’occasione distrussero vari ettari di coltivazioni, in particolare orti, nella Val Liona e nella Riviera Berica fino ad Albettone e perfino ad Altavilla Vicentina, ed arrivarono a lambire i colli Euganei. Nell’occasione, nella difesa dell’ambiente, fu coinvolta l’università di Padova.
Al di là dell’uso della chimica e, quindi, di prodotti insetticidi a base di deltametrina, fu stabilito che la migliore soluzione per ostacolare la proliferazione di locuste e cavallette è la prevenzione che, si può tentare di fare con molteplici accorgimenti. Innanzitutto, monitorando costantemente il territorio ed intervenendo tempestivamente sugli ambienti più a rischio, che sono i terreni incolti, i prati ed i medicai vecchi e degradati. Un’aratura profonda nel periodo autunnale può, infatti, evitare, nella primavera successiva, la schiusa di
centinaia di migliaia di uova, deposte in piccole fessure di terreno. Un altro metodo naturale ed ecologico, per contenere la proliferazione locale di questi insetti, è quello della liberazione di alcune specie di animali notoriamente ghiotte di cavallette e locuste quali
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sono i tacchini e fagiani, ma soprattutto le faraone. Questa soluzione è stata recentemente sperimentata con risultati soddisfacenti in Emilia Romagna, in particolare nelle province di Bologna, Modena e Parma.
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LA MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE
È una procedura - alternativa alla giustizia ordinaria - che consente, in moltissimi casi, di risolvere le controversie civili e commerciali in maniera semplice ed efficace senza formalità di procedura ovvero senza ricorrere a una causa davanti a un giudice.
Quando di parla di mediazione ci si riferisce a quella particolare attività, svolta da un elemento terzo (il mediatore), che ha lo scopo ultimo di assistere due o più soggetti e/o anche imprese, nella ricerca di un accordo per la soluzione e quindi la chiusura amichevole di una controversia. E' importante sottolineare che il mediatore non solo deve avere specifici requisiti, quali competenza, terzietà, imparzialità e onorabilità, ma, soprattutto, deve operare e gestire la procedura della mediazione rimanendo privo del potere di giudicare o di assumere decisioni vincolanti.
Suo precipuo compito è e deve essere quello di aiutare le parti a trovare una soluzione che sia per loro soddisfacente evitando, ove possibile, il ricorso al giudice.
L'obiettivo principale della mediazione è anche quello di ridurre l'aumento
di nuove e lunghe cause nel sistema Giustizia offrendo al cittadino la possibilità di una soluzione semplice e veloce per risolvere le controversie in tempi molto brevi e con costi economicamente contenuti. Al termine del primo incontro il mediatore deve redigere un verbale, sottoscritto dalle parti, che permette la continuazione della mediazione. Successivamente, se le parti raggiungono un esito positivo dell'accordo, viene redatto un nuovo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e che costituisce titolo esecutivo e quindi la chiusura della controversia, La mediazione,secondo le nostre leggi e più specificatamente dal punto di vista del metodo e dei rapporti con il possibile eventuale processo,può essere di tre tipi:
1) quella obbligatoria; 2)
quella volontaria; 3) quella demandata dal giudice.
La prima, ovvero quella obbligatoria (che si deve fare prima di andare in giudizio) si ha quando è necessario trovare l'accordo in materia di diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto d'azienda, risarcimento del danno da responsabilità medica e sanitaria, risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. La seconda, quella volontaria o facoltativa, si ha per libera iniziativa di una delle parti e quando la controversia è diversa da quella obbligatoria. La terza prevede che in sede di giudizio (anche di appello) il giudice può disporre l'esperimento del tentativo di mediazione. In ogni caso prima di concretizzare una qualsiasi mediazione è bene chiedere un “competente” parere agli esperti del settore onde evitare i non pochi possibili errori.
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Donne, casalinghe, lavoro e hobby di Caterina Michieletto
Un gomitolo di idee colorate: maglia, uncinetto e cucito
Entrare in un negozio di filati di lana e cotone per maglieria, tessitura, ricamo è un’esperienza sensoriale incredibile. Gli occhi sperimentano tonalità, luminosità e saturazione di ciascun colore, apprendono l’equilibrio cromatico, le mani sfiorano, toccano, avvicinano i gomitoli e nella mente quei fili magici già prendono la forma di un berretto, di una borsa, di una sciarpa di un maglioncino e di tutto ciò che la creatività unita all’esperienza può meravigliosamente partorire. Passatempo, hobby, attività ricreativa, attività artigianale, mestiere, arte: qualsiasi nome si attaglia a descrivere le lavorazioni a maglia, ad un uncinetto, il ricamo e il cucito, non importa il “contenitore”, ciò che conta è il “contenuto” che prevede sempre lo stesso ingrediente: la passione. Un sapere custodito e traghettato nella storia dalle mani sapienti, laboriose e precise di molte donne che accompagnavano la loro vita quotidiana con questo mestiere. Un’attività manuale che rispondeva sicuramente a necessità pratiche, in una società in cui “il saper fare” era una qualità essenziale, quasi vitale, ma al contempo offriva occasioni di aggregazione sociale, era un modo per interagire tra le donne la cui vita era fondamentalmente racchiusa nell’ambiente
di casa e nelle vicende della famiglia. Non solo, era un momento estremamente pregnante dal punto di vista del passaggio di conoscenze e di abilità, del travaso di cultura dalle nonne alle giovani che si preparavano alla vita adulta, secondo il proverbio “impara l’arte e mettila da parte”. Nelle loro sfumature di significato quali attività materiali con funzione di interazione sociale e di scambio culturale, il punto croce, il ricamo, l’uncinetto, il cucito, la maglia non hanno mai smesso di affascinare generazioni di bambine e di ragazze non senza destare la curiosità di qualche rappresentante del genere maschile per questa forma di arte da sempre appannaggio del mondo femminile.
C’è una specie in questo genere di tecniche che ha primeggiato sulle altre? Si può dire che il trend dell’uncinetto, anche noto come “crochet”, sia particolarmente gettonato tra le giovani amanti dei gomitoli impegnate a creare crop top, borse e accessori di ogni tipo. Il crochet attira, richiama quel “vintage” di cui la gioventù è sempre nostalgica, è qualcosa che appassiona perché ha quel timbro indelebile del “fatto a mano”, quel fascino di “come una volta” e quel che di “hippy” che, non si può negare, piace sempre che conquista sempre.
L’importanza di questi “fai da te” non è solo nella continuità di tecniche creative che non hanno altro veicolo di trasmissione se non quello del “passa-mano”, ma anche negli effetti positivi che ne derivano al nostro umore, ai nostri pensieri ed anche alla nostra capacità di
concentrazione. Si parla di un vero e proprio “fitness per la mente”. Quando si lavora a maglia o ad uncinetto specie all’inizio essere attenti è fondamentale. Apparentemente il lavoro avanza in modo fluido quasi meccanico, ma è sufficiente un attimo di distrazione per sbagliare e… perdere il filo! Dopodiché la mente procede nel lavoro in silenzio, la “fiumana” dei pensieri si placa: si smette di rimuginare, di calcolare, di pianificare, di affannarsi e così via. Si entra in uno stato di rilassamento psico-fisico da qualsiasi tensione. Si può affermare a tutti gli effetti che sia un anti-stress al pari dell’attività fisica. Non solo, prima di vedere i risultati del proprio lavoro è necessario avere pazienza e costanza, perché ogni cosa, anche le creazioni a maglia, uncinetto e ricamo, hanno bisogno del loro tempo per prendere forma. Questo ritmo cadenzato forza la persona a rallentare il rimo frenetico a cui è abituata nella vita quotidiana e ad apprezzare l’attesa del risultato, il fatto di “non avere tutto subito”. Infine, le sensazioni che si provano nel vedere la propria creazione sono le medesime di qualsiasi persona che vede premiato l’impegno del proprio lavoro manuale ed intellettuale: grande soddisfazione, autentica felicità e riscoperta delle nostre capacità.
Parte il countdown per l’edizione 2023 di Dolomiti Fantasy, l’evento nerd, fantasy e pop nato pochi anni fa a Trichiana. Dopo il successo di pubblico nell’edizione del 2022 che
si è tenuta a settembre, l’associazione Castle of Fantasy ha rimesso in moto l’organizzazione della manifestazione dedicata all’immaginario fantasy, nata nel 2017 in Valbelluna dalla collaborazione con l’allora Comune di Trichiana (ora Borgo Valbelluna), la Pro Loco Trichiana e l’associazione culturale Red Phoenix, che
patrocineranno anche quest’edizione. “Dopo uno stop lungo 3 anni, il 2022 per noi è stato un nuovo anno zero, che abbiamo affrontato con l’esperienza maturata sul campo nelle
passate edizioni e la voglia di offrire una tipologia di intrattenimento inedita per questa provincia” racconta il presidente di Castle of Fantasy,
Gianluca Schiocchet. La scorsa edizione di Dolomiti Fantasy, infatti, ha visto tra gli ospiti principali la cover band delle sigle dei cartoni animati L’Impero Yamatai e il mitico DJ Osso, con uno spazio dedicato alla magia e all’illusionismo con lo spettacolo delle star del web Jack Nobile e Hyde.
“Finita la terza edizione ci siamo presi qualche settimana di pausa e poi abbiamo ricominciato a progettare il futuro di Dolomiti Fantasy” prosegue Schiocchet.
“La prima decisione è stata quella di ritornare a svolgere l’evento nel periodo estivo perché tutti i partecipanti possano godere al meglio del Parco Lotto e della sua magnifica vista sulle Dolomiti
Trichiana in cronaca
Bellunesi. Siamo lieti di annunciare ufficialmente che la quarta edizione di Dolomiti Fantasy si terrà nel weekend del 2, 3 e 4 giugno 2023”.
Per restare aggiornati su tutte le novità riguardanti la prossima edizione di Dolomiti Fantasy, potete visitare il sito web dolomitifantasy.com e seguire le pagine ufficiali dell’evento su Facebook e Instagram.
FELTRE primissima periferia Casa singola con un ampio giardino costituita da due appartamenti indipendenti,: al piano rialzato appartamento con ingresso, soggiorno con caminetto e terrazzo, cucina, servizio, due camere matrimoniali; al primo piano ingresso, soggiorno con caminetto e terrazzo, cucina, due camere e servizio, al piano mansarda soffitta divisa in tre
Negli anni ’50 del secolo scorso ci si arrivava da Feltre per una stradina sterrata, metà dell’attuale, che ad ogni acquazzone si riempiva di buche; le forature erano frequenti e spesso dovute a vecchi chiodi. Si passava sotto l’arco di S. Gabriele, all’altezza del cimitero, demolito verso gli anni ’60 per far posto al traffico pesante aumentato. Si entrava poi in paese lasciando sulla sinistra le scuole, dove abitava la maestra Anna Fiori, di origine cadorina, col marito Giovanni Bosco muratore: era andato a lavorare a Milano, nel dopoguerra in bicicletta, portandosi un secchio con dentro cazzuola, martello e una punta….
Si arrivava all’incrocio della pesa pubblica con relativa osteria e poi nella piazzetta col monumento ai caduti e la fermata della corriera di Mognol, la chiesa con l’affresco di S. Giorgio, la canonica e l’osteria da Nando Conz, piena di fumo e di bestemmie come si usava allora, in cui si entrava scendendo uno scalino. All’angolo la casa del Comune di Feltre con la farmacia ed ai piani superiori una famiglia di Agordini: Mario Fontanive, impiegato all’Altanon
70 anni fa...
E’lia, la gatta bianca, Mastrilli perché piangeva sempre, e la cagnetta, Lea, morta poi di Cimurro: allora i cani non si vaccinavano, e…gli scorpioni che entravano spesso dalla facciata a sud coperta di vite americana. Avevo molta paura degli scorpioni e chiamavo aiuto, ma mio padre, con tecnica infallibile, si toglieva una scarpa e gliela scagliava, uccidendoli sul colpo, anche se erano in alto.
di Feltre e la moglie Rina De Rocco, ostetrica condotta. Di fronte la fontana, dove venivano portate le mucche all’abbeverata mattina e sera e …le inevitabili mosche durante il giorno! Un po’ più avanti, verso Salgarda, sulla destra, villa Renier, di proprietà di un nobile veneziano, che aveva affittato il piano terra, come laboratorio, a Vittorino Pellin, detto “Porcamadò”, maestro falegname che vi lavorava col giovane nipote Giosuè Agostini di Menin, apprendista. Era un grande stanzone, rivolto a sud, con buon profumo di legno e di alcool che proveniva dalla verniciatura a tampone, poco rumore perché non c’erano macchine elettriche ma solo attrezzi a mano: girabacchini, seghe intelaiate con lama a tensione, scalpelli, pialle, martelli di legno per i chiodi di legno: si usavano pochi chiodi e viti in ferro, ma in compenso… tanta colla di pesce! Al piano superiore abitavo, dal marzo 1951 , con la mia famiglia: mio padre, Napoleone e mia madre
Nella parte nord, c’era un bel prato con qualche albero da frutto dove potevo giocare tranquillamente con Lea e Mastrilli, ma a me piaceva scendere in falegnameria e osservare il lavoro, curiosare in quello strano ambiente e, avendone la possibilità, provare gli attrezzi, come i martelli. Vittorino mi lasciava fare, ritenendomi innocuo, per la tenera età, ma un giorno volli sperimentare anche i chiodi e non trovai di meglio che inchiodargli il berretto
Tra passato e presente di Domenico Grazioli VILLABRUNA,
nel pavimento di legno! Molti anni dopo, passando a salutarlo, mi ricordai e volevo pagarglielo, ma si mise a ridere, dicendo che erano gli inconvenienti che capitavano con apprendisti così giovani! Nell’attuale via Forno abitava l’anziana , Stella Pellin, io la chiamavo nonna, ma in realtà era la sorella celibe, di Giosuè Pellin, padre di Vittorino, morto giovane sul Piave nella Battaglia del solstizio: una cara signora che mi prendeva spesso in braccio; poi andavamo tutti assieme nella vicina casa dove abitava Vittorino Pellin con la moglie Rosalia e la numerosa famiglia: ricordo Nadia che mi faceva da tata e Giosuè, che rivedo ogni tanto passando di là. Era una casa con la corte e animaletti domestici: galline, conigli, gatti, anatre e mi è rimasta impressa una grande scrofa che allattava una diecina di maialini.
E’ stato un bel periodo, malgrado la povertà diffusa, l’emigrazione, poche case con l’acqua corrente e i servizi igienici, la carenza di comunicazioni: c’era solo il telefono pubblico da Conz …, nelle stalle si usavano lampadine da 3 o 5 candele per risparmiare; gli inverni lunghi, rigidi e strade impraticabili, l’ospedale irraggiungibile ( la prima ambulanza fu acquistata nel 1954).
Tuttavia nel paese, essendoci un traffico quasi nullo, tutti camminavano e giocavano tranquillamente: si andava a trovare i vicini come la Vittorio e Rita Zancanaro, i Bosco, i Pasa che avevano la segheria a Salgarda: i miei mi mandavano
a prendere i gamberi nella rosta e poi li mangiavamo con la polenta a cena con i Pasa.
Qualche cena si faceva anche con il dr. Toigo di Cesio: ricordo che quando arrivava con la sua piccola Topolino A e ne usciva un uomo di quasi 2 metri mi domandavo come facesse a starci dentro! Mio padre invece, come medico condotto, girava con una “topolino amaranto“ (come quella della canzone di Paolo Conte), senza riscaldamento. Poiché non si poteva pretendere che un malato venisse da Arson, Lasen o Vignui a piedi o in bicicletta, faceva molte visite domiciliari e interventi urgenti come parti difficili che la pur brava signora Rina non riusciva a risolvere. Ho trovato una signora che mi ha raccontato la sua avventura (“avevo paura di morire io e mio figlio!)”: nel locale più caldo e luminoso, la cucina, sul tavolo con un lenzuolo: era andato tutto bene e quel figlio, anni dopo, mi aveva poi fatto l’impianto idraulico! Altre volte, purtroppo, i lutti, specie i suicidi, spesso giovani per impiccagione: la notizia sconvolgeva ed angosciava i parenti, i miei genitori e poi tutto il paese. Ambulatorio per chi poteva venire, ma soprattutto per interventi: suture di ferite, riduzione e gessi per
fratture, bendaggi, iniezioni, paracentesi e prelievi, cateterismi, estrazioni dentarie, ascessi e paterecci… In Ospedale si andava solo per interventi chirurgici importanti dal Prof. Petta o Binotto o per malattie come la TBC…
Di questi problemi allora mi rendevo poco conto, ma andavo volentieri con la topolino, perché durante le visite, vedevo persone nuove, tanti bei campi ed animali, e mi regalavano qualche frutto. Ricordo in particolare Zuglian, un carradore che abitava sulla strada vecchia da Salgarda a Arson in una casa a sinistra sulla prima curva: mi aveva fatto un bellissimo carrettino a 4 ruote ferrate, tutto in legno: era talmente robusto che è durato quasi 15 anni e ci hanno giocato anche i miei cugini!
Nel 1954 siamo tornati a stare a Feltre, ma i ricordi ed i rapporti sono restati, vero Giosuè?
ACCETTAZIONE E USO DEI VEICOLI EREDITATI
Quando si parla di successione in caso di morte di un parente è necessario sapere che il lascito del “de cuius” investe tutti i beni del defunto ovvero non solo gli immobili ma anche la o le automobili che erano di sua proprietà. Quindi, siccome esse fanno parte dei beni mobili registrati, tutte le pratiche di successione devono essere formalizzate.
In primo luogo la successione dell'automobile, e di tutti gli altri beni del defunto, deve essere accettata entro e non oltre 6 mesi, non tacitamente, ma con un atto pubblico, una scrittura privata autentica e accertata giudizialmente oppure davanti a un notaio.
Se si eredita un qualsiasi veicolo è necessario, dapprima l'autentica della firma sull'atto di accettazione della vettura da parte dell'erede, e successivamente, si hanno 60 giorni di tempo per registrare la nuova intestazione presso il P.R.A. (Pubblico Registro Automobilistico) e richiedere il rilascio del Documento Unico di Circolazione e di proprietà del veicolo.
In mancanza di tali procedimenti scatterà l'applicazione dell'art. 94 del Codice della strada ( che prevede tutte le formalità per il trasferimento di proprietà degli autoveicoli e l'applicabilità delle relative sanzioni). Infine, per poter disporre della vettura, si dovrà stipulare una nuova polizza di assicurazione e provvedere al
pagamento del bollo. Se nella successione gli eredi sono molti e si desideri intestare il veicolo a una sola persona o venderlo a terzi, prima è necessario intestare l'atto di accettazione dell'eredità a nome di tutti gli eredi e successivamente registrare l'atto a favore di uno degli eredi o del possibile acquirente che ne diventerà l'unico intestatario.
Considerato che la procedura di cui sopra non è molto semplice, è sempre bene rivolgersi a una Agenzia di Pratiche automobilistiche la quale sarà in grado di suggerire o espletare le giuste e dovute modalità, onde evitare possibili errore ed eventuali sanzioni amministrative.
Agenzia consorziata
PUNTO ABILITATO AL PAGAMENTO “PAGOPA”
ANCHE PER PRATICHE DI MOTORIZZAZIONE
PRATICHE VEICOLI
Trasferimenti di proprietà e immatricolazioni
Radiazione per esportazione veicoli
Consulenze e pratiche per il trasporto di merci conto terzi e conto proprio
Nazionalizzazione veicoli provenienti dall’estero
TASSE AUTOMOBILISTICHE
Riscossione bollo auto anche per prima immatricolazione
Gestione pratiche di contenzioso bolli con la Regione Veneto
Gestione domande di rimborso bollo auto CON LA POSSIBILITÀ DI PAGAMENTO DA CASA!
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PATENTI
Rinnovo patenti AUTOMOBILISTICHE E ANCHE NAUTICHE con medico in sede
Gestione pratiche rinnovo patenti presso Commissione Medica Locale Duplicati e pratiche patenti - Visite mediche per rilascio patenti
SERVIZI VARI
Visure Pubblico Registro Automobilistico (PRA) per la verifica di eventuali gravami
Pratiche di rinnovo e rilascio porto d’arma e patente nautica
Gestione parchi veicoli e pagamento di bollettini postali
Via Montelungo, 12/F - Feltre (BL) - c/o Centro Acquisti “Le Torri”
Tel: 0439 1870004 - info@autopratichedolomiti.it
LE ANGUANE
Folletti dispettosi e bellissime fate, streghe che incutono terrore e animali parlanti: il folklore veneto è sicuramente ricco di storie e leggende cariche di mistero e bellezza, frutto di un passato mai dimenticato. Vecchi racconti che una volta, tramandati oralmente, si usavano per divertire o spaventare, tessendo le gesta di creature fatate inafferrabili come la natura stessa, ma anche portatori di vizi e pregi del tutto umani. È dunque in questo compendio affollato che si inserisce anche una delle leggende venete forse più conosciute, anche per via della sua grandissima diffusione in tutte le Dolomiti. Si tratta infatti dell’anguana, una ninfa legata all’elemento dell’acqua e presente nella maggior parte della regione anche sotto nomi leggermente diversi, soprattutto dati dalle numerose variazioni dialettali.
È bene però ricordare che l’anguana parrebbe avere origini molto più antiche, rappresentando probabilmente l’eredità mitologica di antichi culti pagani che vedevano in ogni fonte d’acqua la dimora
di ninfe e spiriti, come per esempio con le famose ondine romane. L’anguana rappresenta quindi una creatura fatata molto nota, anche se il suo aspetto sembra subire dei mutamenti in base alla zona in cui si ricerca la sua leggenda. In linea generale, uno dei suoi modi di apparire più noti sarebbe quello in veste di bellissima donna, capace quindi con il suo fascino di sedurre qualsiasi uomo si presenti a lei. Cosa che la renderebbe difficile da distinguere da un’umana di bell’aspetto, se non fosse per la parte inferiore del suo corpo. Pare infatti che le anguane abbiano al posto delle gambe umane altre protuberanze, come code di pesce, corpi di serpente o addirittura piedi caprini (quest’ultimi soprattutto quando abitano le zone montane). Altre versioni suggeriscono invece che il loro aspetto sarebbe molto più sinistro e grottesco, più vicino a quello delle streghe. Una peculiarità per cui si ricordano spesso, legata nuovamente al loro elemento acquatico, sarebbe la loro capacità di lavare magnificamente i panni ed essere quindi ottime lavandaie. Considerando infatti i tempi in cui le storie di queste creature venivano raccontate, non si stenta a credere che una delle attività più operate dalle donne dell’epoca venisse praticata anche dalle figure femminili più conosciute del folklore locale
Simile considerazione può essere fatta anche riguardo un altro elemento distintivo che sembra legare fortemente anguane e uomini, soprattutto nelle zone di montagna: sarebbero state infatti le ninfe ad aver insegnato come fare formaggio e burro agli
umani, continuando anche in questo caso la tradizione dell’origine speciale di questi cibi, fulcro della tradizione culinaria veneta. Per questo, a differenza di folletti e streghe, il temperamento delle anguane sarebbe quindi abbastanza neutro, a patto che la natura in cui vivono e di cui sono custodi venga rispettata. Sarebbero infatti in realtà capaci di grandi generosità, concedendo aiuto e apprezzabili doni verso coloro che se ne mostrano meritevoli. Allo stesso tempo però, si mostrerebbero anche capaci di vendetta e punizione contro chi si mostra irrispettoso o arrogante. Ciò renderebbe le anguane quindi portatrici delle qualità sia delle fate benevole che delle streghe più cattive.
La leggenda di queste ninfe acquatiche rimane quindi oggi ancora molto diffusa, al di là delle sue tante varianti e sfaccettature. Infatti, ancora oggi in Veneto -scavando un po’- è ancora possibile trovare luoghi come laghi o stagni associati alle anguane, testimonianza di quanto queste creature siano ancora presenti nella memoria collettiva veneta. Un altro esempio di ciò è inoltre il modo di dire ancora in uso “sigar come na anguana”, che significa gridare tanto forte da ricordare proprio le urla che si dice emettano le anguane stesse. L’ennesimo segnale che, a dispetto del passare del tempo, il folklore permane ancora presente nelle vite di coloro che abitano il territorio che l’ha generato.
Tra storia e fantasia di Francesca Benvegnù
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