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Storia e cultura Barbecue, ritorno al futuro Giovanni Ballarini
We meat at sea, The Pigeon Detectives
Stop the pigeon
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di Giovanni Papalato
Mentre sul piatto sta girando “We met at sea”, quarto album di THE PIGEON DETECTIVES e mi chiedo il motivo di un nome così assurdo, ripenso all’ultima volta che ho mangiato un piccione e di come abbia avuto a che fare con questi pennuti non solo a tavola. Due vite fa, occupandomi di export verso Paesi Bassi e Francia, ho organizzato il trasporto di due piccioni “da gara”, assicurati per una somma non indifferente. Pochi anni prima, mentre studiava Ingegneria meccanica (vecchio ordinamento, ci tiene a sottolinearlo), mio fratello lavorava come “giudice di piccioni viaggiatori”. Ma, soprattutto, tornerei anche adesso alla Futura Osteria (futuraosteria.it), ad Abbadia Isola, vicino a Monteriggioni, Siena, per mangiare un delizioso “Piccione Summertime” che non manco di degustare ogni volta che devio con piacere dal tratto tra Firenze e la città del Palio per eccellenza.
Proviamo allora ad andare per ordine, partendo dal fatto che fra le tipologie più note di questo animale ci sono i “messaggeri” (o viaggiatori), capaci di percorrere fi no a 800 km al giorno alla velocità di 80 km orari, e i “grossi”, la cui bontà delle carni è risaputa.
Il piccione fa parte della categoria della selvaggina da penna, le sue carni sono “nere” differenziandosi dalle “bianche” (tacchino, pollo), dalle “rosse” (bovino, equino, ovicaprino, suino) e sono povere di grassi quanto sono ricche di proteine. negli occhi. Osservazioni degne di un investigatore.
Chissà che allora The Pigeon Detectives non sia uno sgrammaticato modo per defi nire un macellaio che sceglie con cura i piccioni da esporre a banco per far felice chi seduto a tavola li mangerà. Intanto gira a 33 giri al minuto questo disco che arriva da Leeds pieno di chitarre e, nonostante una discreta grammatura del supporto, leggerezza.
Dopo l’acclamato “Wait For Me”, esordio che scalò classifi che nel 2007, pubblicarono due album tra il 2008 e il 2011, per arrivare nel 2013 a quello che ad oggi rimane il loro ultimo lavoro. Una formula compositiva che non è mutata negli anni, capace di entusiasmare prima e compiacere nel tempo senza scadere in copie sciupate.
Come esistono album che ti cambiano la vita, ci sono anche quelli che ti accompagnano senza scuoterti ad ogni ascolto. Fanno parte di quella che possiamo chiamare “colonna sonora della tua vita” e, anche se lo sono magari in maniera marginale, rimangono comunque presenti.
“We met at sea” arriva quando l’onda di chitarre è passata, a metà degli anni dieci dei Duemila, per un vento di produzioni sempre più autoprodotte e indirizzate a basi digitali che si prende la scena, aprendo un ciclo e chiudendo quello precedente.
Oggi, a distanza di 10 anni, stiamo assistendo ad un prepotente
Se la carne del selvatico “colombaccio” è scura e consistente e ha un gusto deciso che spesso divide i commensali, quella da allevamento, senza bisogno di frollature prolungate, è più tenera e chiara.
Tradizionalmente arrostito o grigliato, si trova in diverse versioni nei locali di ogni categoria, mutando nel modo in cui viene cucinato e servito, testimoniando così la sua presenza nel corso del tempo all’interno della cucina italiana: allo spiedo, farcito, alla griglia, in casseruola con purè di zucca, in umido, in gratella, in tegame, con polenta, al vino rosso, con fagioli, al prosciutto, con castagne, all’agro, con noci e vino passito, con funghi, con tartufo e foie gras, all’uva bianca, con mandorle, con l’Aceto Balsamico tradizionale di Modena… Ogni regione ha le proprie versioni, in un ricettario infi nito di varianti.
Allevato fi n dalla antichità, senza distinzione di ceto, nel corso del Medioevo era facile trovare colombaie tra le mura dei castelli come nelle campagne, mentre oggi è facile riconoscere da Padova e Vercelli per il Belpaese, Oltralpe verso Bordeaux e Bresse, gli esemplari più pregiati.
Il piccione si vende con le visce-
re, spiumato in modo da poterne riconoscere la qualità osservandone soprattutto la pelle, che deve essere liscia, ben tesa e senza striature. Altri indicatori di freschezza si trovano nella fl essibilità del becco, nelle ali che non devono essere avvizzite e
ritorno di basso, chitarre, batteria e voce sia nelle sue forme più viscerali (da lì non sono mai andate via), che soprattutto nel pop. Allora ascoltare ora quello che ai tempi passò in sordina non può non farti rifl ettere su come certe dinamiche mischino le carte non tanto per un discorso artistico in sé, quanto per l’aspetto commerciale e sociale che certe involontarie cartine tornasole portano con loro.
Non si parla di precursori o innovatori, di infl uenze o radicali cambiamenti che aprono strade stilistiche da percorrere, ma di dischi fi gli del loro tempo e poi orfani, da riscoprire.
Sono le note di Animal che, con il suo riff orizzontale a incrociare il tamburo, sembra voler ribadire che sta proprio cominciando tutto qui, quando ci Incontriamo al mare, in una celebrazione dove la ritmica a salire in un groviglio di chitarre si stende sul refrain. Non c’è nulla di più leggero, potremmo essere davvero a festeggiare sulla spiaggia in un’estate che non vuole smettere.
Poi puoi fare un salto negli anni ‘80, nel power pop di I Won’t Come Back, che fa cantare e ballare anche quando si racconta di storie che fi niscono una volta per tutte dopo riconciliazioni effi mere.
È un’irriverenza che nella successiva Hold your Gaze ha il ritmo forsennato di una corsa che sembra rallentare solo per prendere fi ato nel refrain, mentre in Light Me Up gioca a promettere divertimento garantendolo nell’immediatezza di linee melodiche perfette per essere assecondate. Chitarre da Pub Rock aprono Can’t You Find Me?, poi scherzano volando basse per preparare al meglio la risalita di intrecci tra loro e la voce. Gigioneggia invece tra il giro di basso e riff sottili a incorniciare la struttura I Don’t Mind, strafottente anche nel titolo.
Girando lato si sceglie di rallentare con decisione prendendo la forma di una inedita ballad: Day And Month si sviluppa su atmosfere Sixties attraverso un arrangiamento sincero nella sua essenzialità, un modo di suonare chiaro e intelligibile come quando si registra in presa diretta, nell’urgenza della sala prove. Paradossalmente emerge nel momento meno concitato del disco la sua indole, fatta di concretezza e necessità di comunicare senza sovrastrutture, perfetto per essere suonato live così come è stato inciso in poche settimane in un bunker interrato, lontano da distrazioni esterne. E l’isolamento in cui è nato si rivela solo apparentemente lontano dalla condivisione propria del concerto, due dimensioni unite dall’immediatezza di queste canzoni scritte per essere suonate e che trovano nell’ascolto questa sensazione.
Ma l’urgenza torna a farsi viva perché Unforgettable si rovescia come una pioggia torrenziale e improvvisa sotto cui ballare, echi di ARCTIC MONKEYS nelle chitarre nervose, elettrifi cate di scosse convulse e liberatorie.
No State To Drive, che con i suoi due minuti è il brano più breve del disco, sembra scritta per essere fi schiettata, si somma con estrema naturalezza alla freschezza pop che unisce ogni brano all’altro, giocando a citare certi STROKES degli esordi. E quando si arriva agli ultimi solchi con le note di Where You Are, si fa forte la sensazione di aver assistito ad un concerto o, meglio, di averne fatto parte. Lo senti nel tuo baricentro che non riesce a stare fermo seguendo istintivamente il basso che sale e scende, correndo veloce accanto alla cassa della batteria. Il brano sembra chiedere l’ultimo scatto a chi ascolta, una intensa richiesta di condivisone dell’entusiasmo che lungo tutto il disco non ha mai avuto la pretesa di essere qualcosa di diverso da ciò che è.
Allora che posto ha un disco come questo “We met at sea” nella colonna sonora della nostra vita? Un effi mero e divertente compagno di viaggio, che asseconda in serenità, che non chiede più di quello che stai vivendo, magari mentre coi fi nestrini abbassati guidi tra le strade di campagna verso un’osteria per mangiare un piccione arrostito e berti un buon rosso poco strutturato sì, ma con una gran beva.
Giovanni Papalato
Barbecue, ritorno al futuro
di Giovanni Ballarini
Di gran moda è oggi il barbecue, noto anche con la sua sigla americana di BBQ. Con questo termine si indicano vari elementi relativi ad una cottura degli alimenti su braci ottenute classicamente da legna. Per favorire l’affumicatura si impiegano anche trucioli umidi di legno di varie essenze che vengono fatti bruciare sulle braci per farne sprigionare l’aroma. Quando invece la cottura avviene su piastre o griglie riscaldate e senza che vi sia un’affumicatura, più propriamente si dovrebbe parlare di grigliata.
Nel barbecue si applicano le più sofi sticate strumentazioni tecnologiche, senza dimenticare che si celebra la semplicità di un gesto arcaico, quello dei primi uomini che, una volta addomesticato il fuoco, ne fecero lo strumento di un mangiare semplice, mille miglia lontano dalle complicazioni che nel tempo avrebbero allietato l’arte della cucina. Questa dimensione arcaica della nostra storia alimentare si ripropone nel rito del barbecue, perché di un rito si tratta, né più né meno.
L’invitante profumo delle carni non è solo celebrazione del gusto,
e il sapore forte dell’affumicamento e della brace non è solo una ghiottoneria per adepti. C’è qualcosa di più, qualcosa che si sarebbe tentati di chiamare “il richiamo della foresta”.
Rito carnivoro dal gusto antico
La cottura è importante per estrarre dalla carne le molecole che danno il gusto umami e ciò avviene meglio quando si fa una grigliata. Umani è il tipico sapore dell’acido glutammico e di molti altri composti quali la guanosina monofosfato e l’inosina monofosfato, capaci di dare una sensazione di soddisfazione gastronomica di tipo aromatico. Nel sistema gustativo umano l’umami è mediato da due tipi di recettori e nel sistema nervoso centrale, specialmente nel cervello, il glutammato è il neurotrasmettitore eccitatorio e il precursore di quello inibitorio, l’acido γ-amminobutirrico.
La percezione dell’umami si basa su molteplici sistemi recettoriali distribuiti nel cavo orale e nel tratto gastrointestinale che attivano una serie di regioni del cervello coinvolte in diverse funzioni, dall’identifi cazione alimentare alla formazione di un valore affettivo correlato ad un particolare alimento, che può infl uenzare il comportamento appetitivo.
Il piacere che l’uomo trae dalla carne soprattutto cotta deriva proprio dal gusto umami, che oggi inizia da essere interpretato come un segnale sulla via che i nostri lontani antenati hanno percorso accogliendo nella loro alimentazione anche la carne, in particolare cotta.
È un nostro lontano antenato scimmiesco che si accorge che la carne di un animale abbrustolito in un incendio ha un gusto migliore e piacevole. Imprevedibilmente, mezzo milione di anni fa, questo nostro progenitore scopre un nuovo uso del fuoco e inventa la cottura della carne, aprendo una nuova strada alla sua evoluzione, come ipotizza
anche RICHARD WRANGHAM.
Barbecue dal nome misterioso
L’origine del termine barbecue è controversa, avendo due principali versioni. La prima si ricollega ai primi esploratori spagnoli che giungono nell’America centrale, in particolare nei Caraibi, dove scoprono che le tribù indiane dei Taino usano una tecnica di cottura delle carni che consente di conservarle a lungo anche nel non favorevole clima locale. Questa metodica prevede di disporre il cibo su di un graticcio di legna sospeso sopra uno strato di braci di legna. La cottura è lenta, e lo scopo del graticcio è di tenere la carne distante dal suolo e dalla contaminazione di insetti ed altri animali, mentre il fumo tiene lontani insetti volanti e contribuisce alla lunga conservazione degli alimenti. La stessa tipologia di graticcio pare sia usata anche per dormire. Il nome di questi graticci nella lingua locale suona agli Spagnoli come barbacoa. I Conquistadores, tornati in Europa, diffondono tale metodo di cottura e questa nuova parola con una grammatica più o meno simile in tutte le lingue.
Nel 1697, in Gran Bretagna, il termine barbecue è citato per indicare una piattaforma su cui dormire, ma nel 1733 la parola è già usata per indicare una riunione sociale all’aria aperta dedicata alla grigliatura della carne.
Nel 1769 GEORGE WASHINGTON annota nel suo diario di essere andato ad Alexandria per partecipare ad un barbecue.
Una seconda versione dell’origine del termine è francese. L’occasione della scoperta avviene sempre durante la conquista del Nuovo Mondo, quando esploratori francesi mangiano una capra intera cotta su una griglia del tutto simile a quella descritta sopra e la gustano de la barbe a la queue, dalla barba alla coda, da cui, per contrazione, barbecue.
Purtroppo, risolvere la controversia risalendo alla fonte linguistica è ormai impossibile, in ogni caso, quali che siano le preferenze circa l’origine della parola, non c’è dubbio che questa sia indissolubilmente legata al Nuovo Mondo. Quanto alla pronuncia, gli anglofi li dicono bàrbecu e i francofi li barbechiù.
Prof. Em. Giovanni Ballarini
Università degli Studi di Parma