Il tiranno

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IL TIRANNO

di Edoardo Spadaro


L’eterno

«Ora, caro ed onorato amico, che io, Euforia, sono rimasta senza respiro, ora sono pronta a riprendermi ciò che mi fu strappato dalla fortuna. La terra mi ha lentamente succhiato il cervello e le vene, ed io, per vendetta, le strapperò gli occhi, velerò il vero con la forza di quei quattro geroglifici di cui tu hai conoscenza, scribacchino figlio d’un cane, e nasceranno le immagini, ed io rinascerò dentro di esse, una dietro l’altra, senza senso, in fila. Narra, cantore, narra la mia leggenda!» Euforia si svegliò di soprassalto, si toccò il viso. Stava facendosi come statua di sale, sotto i palmi si sgretolava la sua pelle. Si guardò le gambe; erano polvere. Con le braccia si fece in avanti, fino a leccare per terra. D’ogni granello che era il suo corpo fece una riga fine, e con ciò che rimaneva del suo naso disseccato tirava forte quel pulviscolo grigio e porpora. Era debole e stanca, ma ad ogni respiro quella marea grigia ridestava in lei qualcosa, esplodevano in lei una forza ed una fame viscerali, così intense da darle la voglia di divorarsi, cibarsi di se stessa, cannibale del suo male. Pian piano le sue membra ridivennero di carne, le sue labbra rosse come i capelli che le fluivano sul petto. Un letto d’erba gramigna l’accolse. Si sedette, guardò il cielo. Quanto amore e quanto odio avevano accecato la sua ricerca. Il sole, la vecchia porta dritta in mezzo al nulla, lei stessa. Si destò dall’antico sonno, infine, e corse, e si buttò in ginocchio davanti all’occhiello, spiò attraverso di esso. Vide una donna con gli occhi, i capelli bianchi, nuda. Era ossuta, la pelle lattiginosa e smorta, come coperta di biacca. Era sua sorella, Atarassia. Rise Euforia, e la chiamò forte

-

Vecchia troia! Come si sta dalle tue parti?

-

Come chi vive, dio tra gli dei. Di quali sciagure porti notizia?

-

Macché sciagure! Vita, passioni e… delitti. Ma qual più naturale conseguenza delle prime due. Ah, cara sorella! Vedessi che spettacolo la vita sulla terra! Non come qui, in questo limbo. Quei cani m’hanno


cacciato, ma so che presto mi vorranno con loro. Sono la loro amante prediletta. Ma qualche uomo ha predetto mali futuri, bla bla e bla... e tutti giù, in ginocchio…chissà quanto durerà, stavolta.

Si narra che Euforia non ebbe madre, né padre. Cadde come goccia di latte dal seno di Atarassia, cadde sulla terra, e come un morbo le diede vita, la pietra inerte generò tutti i burattini del suo teatrino. Babele tra le sue cosce, la torre che toccava il cielo mattone su mattone. Ad ogni nuova era

ella colma il

cuore dei mortali di bramosia, odio, collera, invidia. Ad ogni nuova era essa cerca di distruggere la custode del cielo, la sorella Atarassia, l'impassibile volta celeste, le nubi, l'etere. E come un castello di carte ad ogni era il mondo crolla su se stesso, ed ella brucia con esso. Per rinascere.

Euforia, il Tiranno, sul letto di morte

«È forse empietà la mia? O soltanto onestà, vereconda onestà. No, sono empia come la lingua di un vecchio sulle lacrime di una bambina…e con ciò? Dovreste esserlo anche voi all’uopo. Laida è la terra, laida è la terra, laida come una scrofa! Conficcate con avida, tetra, mordente ironia le vostre unghie nella sua carne, forza, su, bambini, conficcatele! Strappatele il fegato, leggete, aruspici! Cosa vedete? Ditemi ciò che vedete, ed io comanderò che sia fatto! Oppure distesi a meditare architettate qualche stranezza. Datemi da divertirmi, però! Vi faccio impiccare tutti altrimenti. Che ne avete fatto della vostra malvagità? Ah, uomini senza sentimento, siete peggio di monaci nicolaiti, adulteri e pederasti: noiosi! Abbiate lo spirito della mia cara Gezabele, per Baal! Vi voglio fottuti e pazzi come istrioni, se non come gli eretici, almeno come i commedianti! Ma no, ma che fate, ma che pantomime disgustose, gettateli nella strada, puah! Scriba, a lavoro. Sento che il mondo s’è annoiato di sé, devo dargli un’altra faccia…ecco i miei versi, “ Vita mia, a noi due!”:

Son nata l’istesso giorno della mia morte,


e m’era così cara la vita, respiravo l’eternità credendo di vivere per sempre. Fumo, negli occhi, in gola. La lama, come è freddo l’angelo della notte: la morte, mi prende! E rinacqui e morì, e morì e rinacqui, ed ancora rinacqui ed ancora morì, ed ancora…che noia, noia, noia, noia e noia! Volevo nascondermi alla morte come Sisifo, ma dove? Quale antro m’avrebbe accudito, protetto, nutrito? No, quel pensiero era troppo labile, la mente troppo debole. Chiamai la folla a testimonio, come coro per cantare il mio martirio, muovere Ade a compassione, o attirarlo in un agone. “ E’ forse questo il mio giorno? Suonerà Heimdallr per me il suo corno? Chi volete sia il vostro signore Io o Ade, che porta la morte in suo nome?” Gridarono per me, gridò per me la masnada festante! Ed allora predetti e vidi davvero nei mie sogni la vita, tutta intera, unica, non più alla mano di sua sorella! Come un ninfa, così bella lei, bella! Ma quando non ci furono più vino in tavola né chiacchiere al vento


né leccornie tra le labbra tutti svanirono come nube trascinando la vita con sé. Quelle loro urla erano soltanto Il canto del mio funerale! Ladri! L’odio gridò dai miei occhi, muto, senza vita, senz’anima. Ecco il mio destino.»

Tossisce

«Hai scritto? Bene. - Ancora tossisce «Sono…sono stanca…sono

soltanto stanca, molto stanca» disse, e chiuse gli occhi, per un lungo momento, chiamato “l’ eterno”.

Lo Schiavo ed il Tiranno, Io ed Euforia

S. – Mai l’arte insegnò quanto la vita! T. – Ma la vita stessa è arte. Dal mio trono ti impongo di scrivermi, disegnare, dipingere le mie parole, me stessa. Che altro è se non un gioco di parti? E le mie parole sentenziose, la mia voce sono un quadro, una canzone. Siediti al mio posto! S. – Ma…io… T. – E’ un ordine! Bene. Cosa comandate, mio sovrano? S. – Io…non saprei… T. – Vedete sovrano? Non sapete comandare, perché siete uno strumento, uno scribacchino. Io sono arte! Io sono vita! Voi tenete nel vostro recinto parole e vacue massime. Siete soltanto un mandriano! S. – Allora vi comando di liberarmi! T. – Come volete. Guardie! Liberate il re dal suo trono, un peso troppo grande grava sulle sue spalle. Stolto! Come un musicante che crede sia la cetra lo strumento, ed invece lo sono le sue mani! Non sapete far altro che scrivere,


gridando tra le pagine di volere la vostra libertà, ma quelle pagine sono le vostre catene, siete schiavo di voi stesso. Io sono la vostra storia, la vostra ambrosia. Vi ciberete di me. Chi leggerà la mia epopea consumerà le mie membra ed io morrò come ho vissuto, libera, nei pensieri della gente, e voi dietro le quinte. Nessuno vedrà, sarete senza forma, senza scopo, solo nelle vostre prigioni. Gettatelo nelle stalle! Accudirà i miei buoi. Non ha la forza d’essere sé stesso.

Lo Schiavo

Schizotimia, hanno detto così: schizotimia. Schizoidia, forse schizofrenia. Hanno detto così. Io sto lì a guardarli fissi negli occhi, in schiera compatta, dietro i loro camici bianchi. Sto bene, maledettamente bene. Io sto bene. Sto così bene da star male. Quello più alto gioca con la fede. Lo fisso negli occhi. Sto bene, ma ho paura. Ho paura, sudo freddo, mi sento venir meno. Non devo strepitare, perdermi fuori nel giardino. Devo essere accorto, pacato, razionale, concentrato. No, sto proprio fuori, furibondo, meditabondo a tribordo. Guarda i muri…Oh cazzo! Sembrano fluttuare come onde, come riflessi di luce sul metallo, come il calore sul cemento. Non voglio un cicchetto di valium per un sonno segna sogni. Sto bene-sto bene- sto bene-sto bene- benebene-sto bene! La mia realtà non esiste, hanno ragione loro. Ma tutte le mie vite, tutti quei ricordi, non avranno più peso, più forma. No, hanno visto troppi uomini per vedere l’Uomo. Non hanno ragione, non hanno niente, niente, niente, niente! Suca, Dott. Occhi di Pesce!

- Come andiamo oggi? - Come volete che stia? Stavo allegramente accovacciato sul bordo dell’universo a guardarvi dimenare le chiappe sotto le nuvole. M’avete trascinato nell’opacità d’una stanza bianca e spoglia. Mi sento uno schifo dentro, tutta la merda delle fogne di tutto il mondo mi scorre dentro. Sono fatto di scarti. Legatemi pure, drogatemi pure. Ma io ho una storia da raccontare. Devo


raccontarvi la mia storia. Devo iniziare…ma non c’è inizio…non ho nome. Non ho nome più di quanto non ce l’abbiano queste mie braccia e queste gambe. Sono solo braccia, solo gambe, soltanto carne. La mia storia non ha luogo, perché è tutti i luoghi. Ho chiesto perdono al tempo per essermi preso gioco di lui, perché vivo, perché sono il teurgo che ha spiato il suo segreto, che custodisco tra le pagine di questo taccuino nero. Imploro perdono, pietà, perché so fare soltanto questo: chiedere in elemosina la mia stessa vita, perché sono stato fatto schiavo. Venite a vedere le mie catene. Sono lingue, fatte nere dall’inchiostro degli scribacchini. Sono parole. Vi canterò la storia della mia prigionia, e l’agonia del mio aguzzino.

Come with me dance, my dear Winter’s so cold this year You are so warm My wintertime love to be.( The Doors ).

Ho smesso di cantare. Mi sono svestito e rivestito di tutto punto davanti ai loro occhi morti di pesce, ho preso la mia roba e sono corso fuori. M’hanno preso, legato e messo a letto, imbottito di non so cosa. Ho danzato con il mio padrone una volta sveglio ed ho scritto i miei segreti.

Il male è in me, la morte mi perseguita. Cercarla è come essere cieco nella luce, vedere nel buio. Chi mi uccise? Le grida dei vivi O le grida dei morti? Non provo vergogna, soltanto dolore Immenso orrore Immondo piangere


Attonito delle nubi. Ho ucciso le nubi, io, Atamante, ho trafitto Nefele. Vivere o morire? Non m’importa. Sono diventato pelle, carne, ossa, sangue, sperma. Mi diedi al mondo come mai prima, e mai prima il mondo m’aveva tanto derubato di me stesso. Cadendo forte sulla terra nuda, sentì per un attimo l’ebbro piacere del volo. Ma la gravità dell’eremo terrestre Ricadde su di me. Ferì le pagine per ferire me stesso, ma la biro nera non capirà mai. La plastica e l’inchiostro mi stanno a guardare. Che ne è stato dei tuoi anni migliori, mi dicono. Di tutto è rimasto solo il sapore del metadone, la puzza di merda di un cesso d’ospedale, e queste parole, come rantolo. Più pensavo e più le labbra e la gola secche, la bava alla bocca m’impedivano di parlare. Tacqui, per dormire, per mendicare alla notte Il perdono di un errore mai commesso. Cos’è la vita se non un meraviglioso errore? Ma io ero vivo tra i morti e morto tra i vivi. Gli aguzzini s’aggiravano inquieti nella mia stanza vuota, il mio cuore era fermo, ma i pensieri così grassi che la riempivano tutta. Ed essi mi cercavano in quel grasso, in quella melma che era la mia mente imprigionata.


Sarebbe bastato un gesto delle mani, delle braccia, delle labbra, ed il mondo sarebbe stato ancora mio. Ma gravitavo sul soffitto d’una stanza blu, il cervello bacato, un cranio vuoto, il terrore mi uccideva, vivevo della mia morte. Si scrive sulla carta come sulla lapide il proprio epitaffio. Ho amato le eteree architetture d’una prigione di parole. Ho amato l’astratto, le nuvole. Con questi versi le uccido tutte, con un soffio spazzo il cielo. Cadranno con me queste pagine dal terzo piano. Ma non grideranno con me. Questo è il mio testamento: Non amate l’amore Non odiate l’odio Non state giocando ad un gioco Amate la vita Detestate i giochi di parole, e le parole stesse. Non arrischiatevi mai a raccontare voi stessi. Vivete!


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