KARIN SLAUGHTER
QUELLE BELLE RAGAZZE traduzione di Anna Ricci
ISBN 978-88-6905-057-2 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Pretty Girls William Morrow An Imprint of HarperCollins Publishers © 2015 Karin Slaughter Traduzione di Anna Ricci Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers, LLC Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins marzo 2016
A Debra
Una donna particolarmente bella è una fonte di terrore. Carl Gustav Jung
I
Quando sei sparita, tua madre mi disse subito che scoprire cosa ti era successo di preciso poteva essere peggio che non sapere mai. Non facevamo che litigare in proposito, perché all’epoca litigare era l’unica cosa che ci univa. «Conoscere i dettagli non lo renderà più sopportabile» mi ammoniva. «I dettagli ti distruggeranno.» Io però sono uno scienziato, ho sempre bisogno dei fatti. La mia mente non voleva saperne di smettere di formulare ipotesi: rapimento, stupro, profanazione. Una ribelle. Era quella la teoria dello sceriffo, o almeno la scusa che ci rifilava quando pretendevamo risposte che non era in grado di dare. Tua madre e io eravamo sempre stati segretamente orgogliosi della tua testardaggine e della passione che mettevi nei tuoi ideali. Quando sei scomparsa abbiamo capito che quelle stesse caratteristiche erano considerate dimostrazione di intelligenza e ambizione in un uomo e fonte di guai in una giovane donna. «Le ragazze scappano in continuazione.» Lo sceriffo si strinse nelle spalle come se tu fossi una persona qualsiasi, come se lasciando passare una settimana, un mese, magari anche un anno, ti avremmo visto tornare nelle nostre vite con qualche debole scusa su un ragazzo che avevi seguito o un’amica con cui avevi deciso di fare il giro del mondo. Avevi diciannove anni. Secondo la legge, non ci appartenevi più. Appartenevi a te stessa, al mondo. Eppure organizzammo squadre di ricerca, chiamammo ospedali, stazioni di polizia e rifugi per senzatetto. Distribuimmo volantini in tutta la città, andammo a bussare di porta in porta, parlammo con i 9
tuoi amici. Controllammo gli edifici abbandonati, le case distrutte dal fuoco nella zona più malfamata della città. Assumemmo un detective privato che ci costò metà dei nostri risparmi e un veggente che si prese l’altra metà. Ci appellammo ai media, che però persero interesse quando rimasero senza particolari scabrosi da raccontare in tono concitato. Ecco cosa sapevamo: eri stata in un bar. Non avevi bevuto più del solito. Avevi detto alla tua amica che non ti sentivi bene e che saresti tornata a casa, e quella è stata l’ultima volta in cui sei stata vista. Negli anni abbiamo ricevuto molte false confessioni. Il mistero della tua scomparsa era un grande richiamo per i sadici, che ci fornivano di proposito dettagli indimostrabili, indizi impossibili da seguire. Perlomeno quando venivano smascherati dicevano la verità: i sensitivi invece mi accusavano sempre di non impegnarmi abbastanza nelle ricerche. Perché io non ho mai smesso di cercarti. Capisco perché tua madre ha rinunciato, o almeno è quello che ha dovuto far credere. Doveva ricominciare a vivere, se non per se stessa, per quello che rimaneva della sua famiglia. Tua sorella minore abitava ancora con noi. Era silenziosa, sfuggente e frequentava il genere di ragazze che la convincevano a comportarsi nel modo sbagliato. Come sgattaiolare in un bar per ascoltare musica e non tornare più a casa. Il giorno in cui firmammo i documenti per il divorzio, tua madre mi disse che la sua unica speranza era che un giorno avremmo ritrovato il tuo corpo. Era a questo che si aggrappava, l’idea che prima o poi potessimo darti una sepoltura. Le risposi che forse ti avremmo trovata a Chicago, Santa Fe, Portland o qualche altra cittadina in cui si riunivano gli artisti, dove eri finita perché eri sempre stata uno spirito libero. Tua madre non fu sorpresa dalle mie parole. In quel periodo il pendolo della speranza oscillava ancora avanti e indietro, c’erano giorni in cui andava a dormire disperata e altri in cui tornava a casa con un paio di jeans o un maglione che ti avrebbe regalato quando fossi tornata. Ricordo molto bene il giorno in cui ho perso ogni aspettativa. Ero nello studio veterinario in centro, al lavoro, e ci avevano portato un cane abbandonato. La povera creatura era in uno stato pietoso, aveva di sicuro subìto maltrattamenti. Era un labrador color miele, anche se il mantello era ingrigito per essere stato esposto agli elementi. Aveva del filo spinato conficcate nelle cosce, chiazze irritate senza pelo dove si era grattato o leccato troppo, o aveva fatto il genere di cose che i cani 10
fanno quando vengono lasciati da soli e cercano di calmarsi. Rimasi con lui per un po’, per fargli capire che era al sicuro. Mi lasciai leccare il dorso della mano, lo feci abituare al mio odore. Quando si fu calmato, cominciai a visitarlo. Era anziano, ma fino a poco tempo prima era stato ben tenuto, a giudicare dai denti. Una cicatrice chirurgica indicava che a un certo punto della sua vita una ferita a un ginocchio gli era stata curata con grande attenzione e con gran dispendio di soldi. L’evidente maltrattamento cui era stato sottoposto non aveva ancora fatto breccia nella memoria muscolare: ogni volta che gli avvicinavo una mano al muso, lui me lo appoggiava di peso sul palmo. Guardai negli occhi tristi del cane e la mia mente mise insieme i dettagli della vita di quella creatura sventurata. Non avevo modo di conoscere la verità, ma il mio cuore sapeva cosa gli era accaduto: non era stato abbandonato. Si era allontanato, oppure si era liberato del guinzaglio. I proprietari erano entrati in un negozio, oppure erano partiti per le vacanze, e in qualche modo, per un cancello rimasto aperto per sbaglio, un salto oltre la recinzione, una porta lasciata socchiusa senza malizia da qualcuno che custodiva la casa, quella creatura tanto amata si era ritrovata a camminare per le strade senza avere la minima idea di quale fosse la direzione da prendere per tornare dai suoi cari. Poi un gruppo di ragazzini, qualche mostro indefinibile o la combinazione dei due l’aveva trovato, trasformando un cane di famiglia in un essere terrorizzato. Seguendo le orme di mio padre, ho dedicato la vita alla cura degli animali, ma quella fu la prima volta in cui feci un collegamento tra gli orrori cui la gente sottopone gli animali a quelli ancor più terrificanti che vengono inflitti agli altri esseri umani. Trovai carne lacerata da colpi di catena, segni di calci e pugni. Ecco quale doveva essere l’aspetto di un essere umano quando finiva in un mondo che non lo apprezzava, non lo amava, non voleva che tornasse più a casa. Tua madre aveva ragione. I dettagli mi distrussero.
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Nel ristorante nel centro di Atlanta c’erano solo un uomo d’affari seduto a un tavolino d’angolo e un barista che sembrava convinto di avere il dono della conversazione ammaliante. La fase febbrile degli aperitivi serali si avviava alla conclusione. Dalla cucina arrivavano il rumore di piatti e posate e le grida dello chef. Un cameriere ridacchiò. Il televisore appeso sopra il bancone del bar trasmetteva una lunga serie di cattive notizie. Claire Scott cercava di ignorare il rumore di sottofondo mentre sedeva al bar con davanti il secondo club soda. Paul era in ritardo di dieci minuti. Non era un ritardatario: di solito arrivava sempre con dieci minuti di anticipo. Era uno dei motivi per cui lo prendeva in giro e allo stesso tempo aveva bisogno che fosse fatto così. «Un altro?» «Grazie.» Claire rivolse al barista un sorriso educato, anche se quel tizio non aveva fatto che provarci con lei da quando si era seduta. Era giovane e bello, il che avrebbe dovuto lusingarla, invece si sentiva vecchia... perché aveva notato che più si avvicinava ai quarant’anni più faceva fatica a sopportare i ventenni. Le facevano venire in mente frasi che cominciavano con: Quando avevo la tua età... «Siamo al terzo.» Mentre le riempiva il bicchiere di club soda, le si rivolse in tono beffardo: «Ci andiamo pesante, eh?». «Dice?» Le strizzò l’occhio. «Mi faccia sapere se ha bisogno di essere accompagnata a casa.» Claire rise, perché era più facile così che rifilargli la scusa che doveva tornare al college. Controllò l’ora sul display del cellulare ancora una volta. Ormai Paul era in ritardo di dodici minuti. Cominciò a immagi12
nare il peggio: l’avevano scaraventato fuori dall’auto per rubarla, era stato investito da un autobus, era stato colpito da un pezzo di fusoliera caduto da un aereo, era stato rapito da qualche squilibrato. La porta si aprì ed entrò un gruppo di persone. Erano tutti vestiti da ufficio: dovevano essere impiegati che lavoravano nei dintorni, venuti a bere qualcosa prima di tornare negli scantinati di periferia dove vivevano, magari a casa dei genitori. «Ha sentito che storia?» fece il barista con un cenno del capo verso il televisore. «A dire il vero no» rispose lei, anche se non aveva potuto fare a meno di seguire la vicenda. Quando si accendeva la TV era inevitabile sentire parlare della ragazza scomparsa. Sedici anni, bianca, classe media, molto carina. Nessuno si scandalizzava mai così tanto quando spariva una donna brutta. «Che tragedia» disse lui. «È così bella.» Claire guardò di nuovo il telefono. Tredici minuti di ritardo. Proprio quel giorno, di tutti i giorni possibili. Era un architetto, non un chirurgo neurologico: non esistevano emergenze che potessero impedirgli di prendersi due secondi e mandarle un messaggio o chiamarla. Cominciò a far girare la fede nuziale intorno al dito, un tic nervoso di cui non si era resa conto finché Paul non glielo aveva fatto notare. Stavano litigando a proposito di qualcosa che a lei sembrava di importanza vitale, ma in quel momento non ricordava di preciso né l’argomento né quando fosse avvenuta la lite. La settimana precedente? Il mese prima? Conosceva Paul da diciotto anni, era sposata con lui più o meno dallo stesso tempo. Non era rimasto molto su cui potessero discutere con troppa convinzione. «Sicura che non posso tentarla con qualcosa di più forte?» Il barista mostrava una bottiglia di Stoli, ma il sottinteso era evidente. Claire si sforzò di ridere di nuovo. Conosceva quel genere d’uomo da una vita. Alto, tenebroso, attraente, con gli occhi che gli brillavano e labbra che si muovevano suadenti. A dodici anni avrebbe scarabocchiato il suo nome su ogni pagina del quaderno di matematica, a sedici gli avrebbe permesso di infilarle le mani sotto il maglione, a venti gliele avrebbe lasciate infilare dappertutto. A trentotto anni, invece, voleva solo che si levasse di torno. «No, grazie. L’ufficiale addetto alla libertà vigilata mi ha consigliato di non bere a meno che non abbia in programma di passare la serata a casa.» 13
Il sorriso che le rivolse significava che non aveva capito la battuta. «Una ragazzaccia. Mi piace.» «Avresti dovuto vedermi con la cavigliera elettronica.» Gli fece l’occhiolino. «Il nero è il nuovo arancione.» La porta d’ingresso si aprì. Paul. Claire fu investita da un’ondata di sollievo quando lo vide avanzare verso di lei. «Sei in ritardo» gli disse. Suo marito le diede un bacio su una guancia. «Perdonami, non ho scuse. Avrei dovuto chiamarti o mandarti un messaggio.» «Sì, avresti dovuto.» «Un Glenfiddich semplice, liscio» chiese lui al barista. Claire osservò il giovane versare lo scotch a Paul con una professionalità che fino a quel momento non aveva dimostrato. La fede nuziale, i rifiuti velati e quello palese erano stati ostacoli risibili rispetto alla vista di un altro uomo che le dava un bacio. «Prego.» Mise il drink davanti a Paul, poi si spostò al lato opposto del bancone. «Mi ha offerto un passaggio a casa» bisbigliò Claire. Paul guardò il barista per la prima volta da quando era entrato. «Devo andare a dargli un pugno sul naso?» «Sì.» «E quando me lo restituirà, tu mi porterai all’ospedale?» «Sì.» Paul sorrise, ma solo perché lo stava facendo anche lei. «Allora, come ci si sente senza guinzaglio?» Claire abbassò lo sguardo sulla caviglia nuda, quasi aspettandosi di trovare un livido o un segno dove prima c’era la spessa cavigliera elettronica. Non indossava una gonna in pubblico da sei mesi, cioè da quando il tribunale le aveva imposto di portare quel dispositivo di monitoraggio. «Ci si sente liberi.» Lui raddrizzò la cannuccia accanto al bicchiere di Claire, in modo che fosse parallela al tovagliolino. «Sei sotto osservazione grazie al cellulare e al GPS della tua auto.» «Ma non possono certo mandarmi in prigione ogni volta che poso il telefono o scendo dalla macchina.» Di fronte a quell’argomentazione, che a lei sembrava ottima, Paul scrollò le spalle. «E il coprifuoco?» «Annullato. Se resto fuori dai guai per un anno la mia fedina penale verrà ripulita e sarà come se non fosse mai successo nulla.» 14
«Magia.» «Più che magia, avvocato costosissimo.» Lui sorrise. «È costato comunque meno di quel braccialetto di Cartier che hai voluto.» «Non se aggiungi gli orecchini.» Forse non avrebbero dovuto scherzarci su, ma l’alternativa era prendere troppo sul serio quella storia. «Sai, è strano. So che non ce l’ho più, ma mi sembra ancora di sentirla.» «È la teoria della detezione del segnale.» Paul raddrizzò di nuovo la cannuccia. «Le tue percezioni sono ancora sintonizzate sulla sensazione della cavigliera sulla pelle. Spesso succede con i cellulari. Le persone sono convinte di sentirli vibrare quando non è così.» Ecco cosa succedeva a sposare un nerd. Paul guardò il televisore. «Secondo te la troveranno?» Claire non rispose. Abbassò lo sguardo sul drink davanti a suo marito. Il sapore dello scotch non le era mai piaciuto, ma il fatto che le avessero imposto di non bere le aveva fatto venire voglia di prendersi una settimana di sbronza continua. Quel pomeriggio, non sapendo di cosa parlare, aveva detto alla psichiatra che le era stata assegnata dal tribunale che detestava con tutta se stessa sentirsi dare ordini. «E a chi diamine piace?» le aveva risposto quella donna rubizza, vagamente incredula. Claire si era sentita avvampare, ma aveva preferito evitare di ribattere che lei la prendeva particolarmente male, e che l’avevano obbligata ad andare alle sedute proprio per quel motivo. L’aveva capito da sola nell’attimo in cui le avevano chiuso le manette intorno ai polsi. «Idiota» aveva mormorato mentre l’agente di polizia la spingeva sul sedile posteriore della volante. «Lo aggiungerò al verbale» l’aveva informata in tono brusco la donna. Quel giorno erano solo donne, poliziotte di ogni forma e dimensione con intorno ai grossi fianchi cinturoni di pelle in cui erano infilati attrezzi mortali di tutti i tipi. Claire aveva pensato che si sarebbe sentita molto meglio se una di loro fosse stata un uomo, ma purtroppo non era così. Ecco dove l’aveva portata il femminismo: sul retro di un’autopattuglia umidiccia con la gonna della tenuta da tennis che le risaliva sulle cosce. In prigione, la fede, l’orologio e i lacci delle scarpe da tennis erano stati presi da un donnone con un neo tra le sopracciglia folte, la cui 15
fisionomia aveva ricordato a Claire una cimice. Sul neo non c’erano dei peli e le era venuta voglia di chiederle perché si prendesse la briga di togliere i peli da lì e non dalle sopracciglia, ma non aveva fatto in tempo, perché un’altra donna, alta e allampanata come una mantide religiosa, la stava già accompagnando nella stanza attigua. La trafila per le impronte digitali non assomigliava a quella che aveva visto in televisione. Aveva dovuto premere le dita su un pezzo di vetro sudicio, e non su un tampone inchiostrato, perché le linee ondulate dei polpastrelli venissero digitalizzate su computer. A quanto pareva, però, le sue erano molto tenui e aveva dovuto fare diversi tentativi. «Per fortuna non ho rapinato una banca» se ne era uscita Claire con una risatina, per rendere evidente che si trattava di una battuta. «Prema in modo uniforme» aveva detto la mantide, masticando le ali di una mosca. La foto segnaletica era stata scattata su un fondo bianco con accanto un righello che era tarato con un errore di almeno due centimetri e mezzo. Claire aveva chiesto perché non le avessero fatto tenere in mano un cartello con il suo nome e il numero di matricola. «Lo inseriamo con Photoshop» aveva risposto la mantide in un tono seccato: di sicuro glielo chiedevano tutti. Fu l’unica foto mai scattata a Claire in cui nessuno le disse di sorridere. Poi una terza poliziotta che, per differenziarsi dalle altre, aveva un naso da germano reale, aveva accompagnato Claire alla cella, in cui, con sua grande sorpresa, aveva scoperto di non essere l’unica in tenuta da tennis. «Tu perché sei dentro?» le aveva domandato l’altra detenuta tennista, che sembrava strafatta e doveva essere stata arrestata mentre giocava con un set di palle molto diverso dal suo. «Omicidio» aveva risposto Claire, perché aveva già deciso di non prendere sul serio quella storia. «Ehi.» Paul aveva finito lo scotch e stava chiedendo una seconda dose al barista. «A cosa stai pensando?» Lei emise un lungo sospiro. «Sto pensando che devi aver avuto una giornata peggiore della mia, se hai ordinato un altro drink.» Paul non beveva quasi mai, un tratto che li accomunava. A nessuno dei due piaceva perdere il controllo, il che rendeva la prigione una vera disdetta. «Va tutto bene?» gli chiese. 16
«Ora sì.» Le accarezzò la schiena. «Cosa ha detto la strizzacervelli?» Claire aspettò che il barista tornasse al suo angolo. «Che non condivido volentieri le mie emozioni.» «Non sembra affatto da te.» Si sorrisero. Era un antico argomento di discussione che non valeva più la pena affrontare. «Non mi piace essere psicanalizzata» disse Claire, e immaginò l’analista che le rispondeva con una gran scrollata di spalle: E a chi diamine piace? «Sai a cosa pensavo oggi?» Paul la prese per mano. Il palmo era ruvido: aveva passato il weekend a lavorare in garage. «Pensavo a quanto ti amo.» «Che strano, detto da un marito a sua moglie.» «Eppure è vero.» Si portò la sua mano alle labbra. «Non saprei immaginare come sarebbe la mia vita senza di te.» «Più ordinata» rispose lei, perché era sempre lui quello che raccoglieva scarpe abbandonate e i vestiti che finivano ogni volta davanti al lavandino del bagno invece che nel cesto della biancheria. «So che la situazione è difficile, adesso. Soprattutto con...» Fece un cenno con il capo verso il televisore, che mostrava l’ennesima foto della sedicenne scomparsa. Claire la guardò. Era davvero bellissima, il fisico snello, atletico, i capelli mossi. Paul disse: «Voglio solo che tu sappia che sarò sempre al tuo fianco, qualsiasi cosa accada». Lei sentì un nodo in gola. A volte dava per scontata la sua presenza, era il lusso di un matrimonio di lunga data, ma sapeva di amarlo e di avere bisogno di lui. Paul era l’ancora che le impediva di andare alla deriva. «Sai, sei l’unica donna che abbia mai amato.» Claire chiamò in causa la ragazza che aveva avuto prima di lei. «Ava Guilford ne sarebbe sconvolta.» «Non scherzare, sto parlando sul serio.» Si avvicinò fino quasi a sfiorarle la fronte con la sua. «Sei l’amore della mia vita, Claire Scott. Sei tutto per me.» «Anche se ho la fedina penale sporca?» Lui la baciò. La baciò sul serio. Claire sentì il sapore dello scotch e una punta di menta, e provò un moto di piacere quando le accarezzò l’interno coscia con le dita. 17
Quando ripresero aria, lei disse: «Andiamo a casa». Paul finì il drink in un sorso, gettò dei contanti sul bancone. Mentre uscivano dal ristorante, le posò una mano dietro la schiena. Un refolo d’aria fresca le mosse l’orlo della gonna. Paul le sfregò un braccio per riscaldarla. Le camminava così vicino che Claire sentiva il suo respiro sul collo. «Dove hai parcheggiato?» «Al multipiano.» «Io qui, lungo la strada.» Le porse le chiavi. «Prendi tu la mia macchina.» «Perché non andiamo insieme?» «Perché non andiamo qui?» La tirò in un vicolo e la spinse contro un muro. Claire aprì la bocca per chiedergli che gli fosse preso, ma Paul la stava già baciando, infilandole una mano sotto la gonna. Lei restò senza fiato: il vicolo non era buio e la strada non era deserta. Vedeva uomini in giacca e cravatta passare lì accanto, voltare il capo e osservare la scena finché potevano. Ecco come si finiva su internet. «Paul.» Gli posò una mano sul petto, chiedendosi cosa fosse successo al suo abitudinario marito che considerava una trasgressione fare sesso nella stanza degli ospiti. «Ci guardano.» «Andiamo là dietro.» La prese per mano e si inoltrò nel vicolo. Seguendolo, Claire pestò un cimitero di mozziconi di sigaretta. Il vicolo era a T e si intersecava con un altro viottolo di servizio per ristoranti e negozi. Non era certo una posizione migliore. Immaginò cuochi in piedi sulle porte, con una sigaretta in bocca e l’iPhone in mano. C’erano mille motivi per cui era meglio non farlo. Claire ebbe un rapido istante per osservare i dintorni prima di sentirsi premere di nuovo contro un muro. Lui le coprì la bocca con la sua, le appoggiò le mani sulle natiche. La desiderava tanto che anche lei cominciò a volerlo, così chiuse gli occhi e si lasciò andare. I loro baci si fecero più profondi, lui le abbassò le mutandine con violenza, graffiandola, e lei lo aiutò, tremando per il freddo. Era una situazione pericolosa ma Claire si sentiva così pronta da non preoccuparsi più di nulla. «Claire...» le sussurrò a un orecchio. «Dimmi che lo vuoi.» «Lo voglio.» «Dillo di nuovo.» «Lo voglio.» Senza preavviso la fece voltare. Claire si graffiò una guancia contro i mattoni. L’aveva bloccata contro la parete. Faceva fatica a respirare e 18
si spinse contro di lui. Paul interpretò quella mossa come un segno di eccitazione ed emise un gemito. «Paul...» «Sta’ ferma.» Claire comprese il senso della frase, ma il suo cervello ebbe bisogno di alcuni secondi per comprendere che non era stata pronunciata da suo marito. «Voltati.» Paul fece per voltarsi. «Non tu, stronzo.» Lei. Ce l’aveva con lei. Claire non riusciva a muoversi. Le tremavano le gambe. Si reggeva in piedi a fatica. «Ho detto voltati, cazzo.» Paul la prese per le braccia con delicatezza. Claire barcollò mentre lui l’aiutava a girarsi lentamente. C’era un uomo proprio dietro suo marito. Indossava una felpa nera con il cappuccio, la zip chiusa fino alla base del collo tozzo e tatuato. Un serpente a sonagli dall’aria minacciosa s’inarcava sul suo pomo d’Adamo. «Mani in alto.» La bocca del serpente accompagnò quelle parole con un guizzo. «Non vogliamo guai.» Paul sollevò le braccia. Restò immobile. Claire lo guardò. Lui le fece un cenno con il capo per dirle che non doveva preoccuparsi, ma non era vero, non poteva essere vero. «Ho il portafoglio nella tasca posteriore.» L’uomo glielo strappò via con una mano. Claire pensò che nell’altra stringesse una pistola. La immaginò: nera, lucida, premuta contro la schiena di suo marito. «Tieni.» Paul si tolse la fede, l’anello del college, l’orologio. Era un Patek Philippe. Glielo aveva regalato lei cinque anni prima. C’erano le sue iniziali incise sulla cassa. «Claire» le disse teso, «dagli il tuo portafoglio.» Lei lo fissò. Sentiva in gola la pulsazione martellante della carotide. Paul aveva una pistola puntata addosso. Quell’uomo li stava rapinando. Era tutto vero. Stava accadendo realmente. Si guardò le mani, il movimento rallentato dallo shock e dalla paura: non sapeva cosa fare. Tra le dita stringeva ancora le chiavi dell’auto di Paul. Le aveva tenute per tutto il tempo. Come avrebbe potuto fare sesso con lui con quelle chiavi in mano? «Claire» ripeté Paul, «prendi il portafoglio.» 19
Lasciò cadere le chiavi nella borsa. Tirò fuori il borsellino e lo porse al rapinatore. Lui se lo infilò in tasca, poi tese di nuovo la mano. «Telefono.» Recuperò l’iPhone. Tutti i suoi contatti. Le foto delle vacanze degli ultimi anni. St. Martin. Londra. Parigi. Monaco. «Anche l’anello.» L’uomo gettò uno sguardo nel vicolo. Claire lo imitò. Non c’era nessuno. Anche le stradine laterali erano vuote. Lei era ancora con le spalle al muro. L’angolo dietro cui si apriva la via principale era vicino. E lì c’era gente. Tanta gente. L’uomo indovinò i suoi pensieri. «Non fare cazzate. Togliti l’anello.» Claire si sfilò la fede. Non era poi così grave. Avevano l’assicurazione. Non era nemmeno l’anello originale. L’avevano scelto anni prima, quando Paul aveva concluso il tirocinio e superato l’esame di iscrizione all’albo. «Orecchini» le ordinò poi il rapinatore. «Forza, puttana, sbrigati.» Claire si portò le mani ai lobi. Avevano cominciato a tremarle. Non ricordava di aver messo gli orecchini di diamante a bottone, ma in quel momento si rivide davanti al portagioie. Era così che la vita passava davanti agli occhi, in una serie di inutili immagini di oggetti? «Muoviti.» L’uomo agitò la mano libera per metterle fretta. Claire cercò di sganciare la chiusura. Il tremore rendeva le sue dita troppo goffe e inutili. Ricordò il giorno in cui, da Tiffany, aveva scelto quegli orecchini. Il suo trentaduesimo compleanno. Paul che le scoccava un’occhiata – lo stiamo facendo davvero? – mentre l’addetta alle vendite li accompagnava nella stanzetta segreta, quella riservata agli acquisti di oggetti particolarmente costosi. Lasciò cadere gli orecchini sul palmo dell’uomo. Era in preda a brividi violenti. Il cuore le batteva come un tamburo impazzito. «Ecco fatto.» Paul si voltò, premendo la schiena contro sua moglie. Cercava di sostenerla, proteggerla. Aveva ancora le mani in alto. «Ti abbiamo dato tutto.» Claire riusciva a scorgere l’uomo oltre le spalle di Paul. Non aveva una pistola. Aveva un coltello. Un lungo coltello affilato dalla lama dentellata e la punta ricurva, che somigliava a quelli con cui i cacciatori sventrano le loro prede. «Non abbiamo altro. Ora puoi andare» riprese Paul. Ma lui non si mosse. Guardava Claire come se avesse appena trovato qualcosa di ben più prezioso di un paio di orecchini da trentaseimila 20
dollari. Sorrise. Aveva un incisivo rivestito d’oro. Anche il serpente a sonagli del tatuaggio aveva un dente d’oro, notò Claire. In quel momento si rese conto che non sarebbe stata solo una rapina. Anche Paul lo capì. «Ho molti soldi» tentò. «Non me ne frega un cazzo.» L’uomo lo centrò con un pugno in pieno petto. L’impatto si riverberò nel petto di Claire, perché le spalle di Paul cozzarono contro la sua clavicola. La testa scattò all’indietro e le colpì il viso. E lei picchiò con la nuca contro il muro di mattoni. Per un attimo restò intontita. Sentì in bocca il sapore del sangue. Sbatté le palpebre. Abbassò lo sguardo. Paul si contorceva a terra. «Paul...» Cercò di chinarsi, ma avvertì un dolore lancinante alla testa. L’uomo l’aveva afferrata per i capelli e la stava trascinando lungo il vicolo. Claire inciampò. Si graffiò un ginocchio sull’asfalto. L’aggressore continuò ad avanzare, quasi correndo. Lei dovette piegarsi, portando la testa all’altezza del suo polso per alleviare la sofferenza. Le si spezzò un tacco. Cercò di guardare indietro. Paul si teneva stretto un braccio, come se avesse un infarto. «No» mormorò Claire, e intanto si domandava perché non riuscisse a urlare. «No, no, no.» L’uomo continuò a trascinarla. Claire sentiva il suo stesso rantolo. Le sembrava di avere i polmoni pieni di sabbia. La stava portando verso il fondo chiuso del viottolo laterale. C’era un furgone nero. Claire gli affondò le unghie nel polso. Lui le diede un altro strattone. Il dolore era lancinante, ma era nulla rispetto al terrore. Voleva gridare. Aveva bisogno di gridare. Ma aveva la gola serrata dalla consapevolezza di ciò che stava per succedere. L’avrebbe caricata su quel furgone e l’avrebbe portata via. In un posto isolato. In un posto terrificante, da cui non sarebbe mai tornata. «No...» lo implorò. «Ti prego... no... no...» L’uomo la lasciò andare, ma non per esaudire le sue preghiere. Si voltò, puntando il coltello dritto davanti a sé. Paul si era rialzato e correva verso di loro. Balzò in avanti con un ruggito gutturale. Successe tutto molto in fretta. Troppo in fretta. Il tempo non rallentò per permettere a Claire di registrare ogni istante del sacrificio di suo marito. Paul era in grado di battere quell’uomo su un tapis roulant o di risolvere un’equazione prima ancora che lui riuscisse a temperare la matita, ma il suo avversario aveva un vantaggio, qualcosa che Paul Scott non 21
poteva avere imparato all’università: sapeva usare il coltello. La lama fendette l’aria, accompagnata solo da un sibilo. Claire si aspettava di sentire più suoni. Il rumore sordo della punta ricurva che perforava la pelle di Paul. Lo stridio della dentellatura che intaccava le costole. Il raschio dell’incisione di tendini e cartilagine. Paul si portò le mani al ventre. Il manico perlaceo del coltello gli sbucava tra le dita. Barcollò all’indietro, la bocca aperta, gli occhi sgranati in un’espressione quasi grottesca. Indossava l’abito blu di Tom Ford che gli stava troppo stretto sulle spalle. Claire aveva deciso di portarlo a far allargare, ma era troppo tardi, perché la giacca ormai era intrisa di sangue. Paul si guardò le mani. La lama era affondata fino all’elsa, in un punto quasi a metà tra l’ombelico e il cuore. Sulla camicia azzurra si allargava una macchia cremisi. Sembrava sconvolto. Erano entrambi sconvolti. Quella sera erano usciti per cenare presto e festeggiare la ritrovata libertà di Claire, non certo per morire dissanguati in un vicolo umido e freddo. Claire sentì dei passi. L’Uomo Serpente stava scappando, con le tasche che tintinnavano dei loro gioielli. «Aiuto» disse, ma era un sussurro così basso che perfino lei faticò a udire il suono della propria voce. «A... aiuto» balbettò. Ma chi poteva aiutarli? Era suo marito che risolveva sempre i problemi. Era lui a occuparsi di tutto. Almeno fino a quel momento. Paul cadde pesantemente a terra. Claire gli si inginocchiò accanto. Muoveva le mani davanti a sé, ma non sapeva dove toccarlo. Diciotto anni d’amore. Diciotto anni di notti trascorse al suo fianco. Gli aveva posato la mano sulla fronte per sentire se aveva la febbre. Gli aveva asciugato il viso quando era malato, aveva baciato le sue labbra, le guance, le palpebre, una volta l’aveva perfino schiaffeggiato, in preda alla collera. E in quel momento non aveva idea di come toccarlo. «Claire.» La voce di Paul. La conosceva bene. Gli si avvicinò. Lo prese tra le braccia e gli cinse la vita con le gambe. Lo strinse forte a sé, gli premette le labbra sulla testa, di lato. Sentiva che il calore lo stava abbandonando. «Paul, ti prego. Devi resistere. Ce la devi fare.» «Ce la farò» rispose lui, e per un istante le parve che fosse la verità. Poi, un tremito gli partì dalle gambe e risalì lungo tutto il corpo, sempre più violento. Paul batteva i denti. Faticava a tenere gli occhi aperti. «Ti amo» le disse. 22
«Ti prego» mormorò lei, affondandogli il viso nel collo. Sentì l’odore del suo dopobarba. Trovò un punto più ruvido della pelle, dove quella mattina aveva passato male il rasoio. Ovunque lo toccasse, lo sentiva sempre più freddo. «Ti prego, non mi lasciare, Paul. Ti prego.» «Non ti lascio» le promise. Ma poi la lasciò.
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