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Perché nulla è più complicato della sincerità Pirandello

«Capo?»

Erik si affaccia nel mio ufficio dopo aver bussato. Dovrò chiarire a quel ragazzo che annunciarsi non basta, bisogna attendere che ci sia qualcuno, dall'altro lato, a dirti che puoi entrare.

Non alzo lo sguardo dal mio pc, controllo l'ora. 00:01.

Almeno è stato puntuale.

Sono un fascio di nervi, voglio sapere ma allo stesso tempo non ho idea di cosa me ne farò, poi, di quelle informazioni.

Erik non si concede preamboli, non ce n'è bisogno.

«Superati» mi dice.

Cazzo. Allora avevo ragione!

Ce l'avevamo fatta, ma era ancora troppo presto per capire come mi sentissi al riguardo.

Ce l'avevo fatta, anche se non era questo che avevo sempre sognato.

«Il numero preciso?» Non che abbia importanza, ma voglio riempirmi la bocca di questo successo.

Erik fa un controllo su quel tablet dal quale non si separa mai.

«2 milioni, 463mila, 229.»

«2 milioni, 463mila, 229» ripeto. Avevo più che ragione. «Sono i visitatori unici, giusto?»

Me lo conferma con un cenno della testa.

«Pagine visitate in media da ciascun visitatore?»

«4,78.»

Faccio due conti a mente e me li faccio bastare. Per stasera, almeno.

«Grazie» gli dico, e lui capisce che può tornare nell'altra stanza, o forse a casa, non lo so.

Mi appoggio con le spalle alla sedia e guardo fuori dalla finestra.

Niente enorme vetrata sullo skyline di Boston, solo un vecchio palazzo che non mi dà la possibilità di vedere altro, se non finestre sbarrate e striature di muffa.

Appoggio i gomiti sui braccioli e da quello di destra esce dell'altra imbottitura. C'era da aspettarselo comprando mobili usati. Lascio che mi si sgretoli tra le dita, macchiandomele di giallo.

Adesso ho 2 milioni, 463mila, 229 motivi per dire addio a questo squallore.

Emma – martedì 5 luglio

«Cosa vedi nel fondo del caffè?»

«Onestamente...» Devo inventarmi qualcosa in fretta.

«Credo che ci sia una tartaruga, o forse una lumaca.»

Mi prende la tazzina dalle mani, scettica.

Mugugna, poi annuisce con la testa. «Mi sa che questa volta hai ragione.»

«Davvero?» Il tono incredulo e la nota di sorpresa rischiano di mandare all'aria la mia recita, ma Delia è troppo concentrata sul mio futuro per accorgersene. Scivolo sulla sua precisazione, che richiama un passato pieno di tentativi falliti, ma solo perché non saprei come argomentare una difesa. Ho giusto il tempo di sembrare convinta, prima che lei torni con lo sguardo su di me.

«Sai cosa significa, vero?»

«Che devo andarci piano?» la butto lì, e quasi mi viene da ridere.

Ma Delia ha le labbra serrate e gli occhi ridotti a due fessure.

«Esatto» scandisce lenta, inesorabile.

Tra noi piomba il silenzio. Non era mai stata così seria durante una delle sue previsioni o nei suoi momenti di luce, come ama chiamare gli istanti in cui vede il mio avvenire. Sempre e solo il mio. E sempre e solo con un finale.

«Con l'uomo alto e dai capelli scuri che si innamorerà di me, giusto?»

La presa in giro non le piace, lo percepisco subito. Lei crede davvero in queste cose. E magari spera anche più di me che nel mio futuro arrivi quest'amore travolgente.

A riempire la stanza è il rumore proveniente dalla TV, perennemente sintonizzata su un canale di televendite.

Amiche, poi non dite che non vi voglio bene. Guardate questa maglia con lo scollo morbido. Questo non è un capo, ma un ca-po-la-vo-ro!, sento in sottofondo.

Torno a concentrarmi su Delia, prima che si offenda irrimediabilmente.

«Be', sì, sarebbe comunque corretto andarci piano, no? Ancora non ci siamo nemmeno incontrati» provo, per alleggerire l'atmosfera, mimando un sorriso incerto.

Lei si alza, sempre più seria, va in cucina e torna con un libro. Tra i disegni neri sulla copertina viola intravedo il titolo scritto in giallo: Guida ai tarocchi psicologici. Mi si gela il sangue nelle vene, e non solo per le discutibili scelte grafiche.

«Cos...» tento, ma lei è più veloce.

«Emma, oggi stesso inizierò a studiare. Nel pomeriggio ordinerò online i tarocchi, devo prima capire quale mazzo comprare. E presto ne sapremo di più.»

Delia ha settantatré anni e usa Internet meglio di me. Molto meglio. Ha un tablet, un computer e uno smartphone, oltre a una rete wi-fi migliore di quella che usiamo in ufficio. Motivo per cui io, abitando sopra di lei, ne approfitto. È stata lei stessa a darmi le credenziali di accesso.

È vedova da dieci anni ormai, e da tre si prende cura di me. Da due e mezzo, più o meno, mi parla di quest'uomo che mi ruberà il cuore.

Di conseguenza, da due anni e mezzo nessun uomo è salito nel mio appartamento. Sicuramente perché avevo il ti- more che lei potesse avvistarci dallo spioncino, dato che il palazzo non ha ascensore e le scale sono l'unica possibilità di accesso, e iniziare con le sue manfrine. Ma anche perché negli ultimi anni non ho vissuto un vero e proprio idillio in fatto di relazioni sentimentali.

«Devo andare» annuncio. Non mi accompagna alla porta, conosco bene la strada.

Mi immetto nel mattino di Boston con l'animo di chi preferirebbe che questa giornata prendesse una piega migliore. La sensazione si irradia quando penso che stamattina è prevista la riunione editoriale mensile, durante la quale vengono affidati i compiti o esaminato l'avanzamento dei lavori. So qual è il mio desiderio e me lo rigiro tra i pensieri. Non mi voglio illudere. Però ci spero, è inutile negarlo.

Arrivo alla fermata di Brookline Village dopo essere passata da Brothers & Sisters: non ho saputo resistere e, oltre al cappuccino e al sandwich con l'hummus per il pranzo, ho preso anche un cinnamon roll davvero enorme. Lo so, non dovrei pensare di aver qualcosa per cui festeggiare, ma nel caso è meglio farsi trovare preparati, no?

Quando scendo al Government Center, il mio cappuccino è ormai finito. Percorrendo Court St devo resistere alla tentazione di prenderne un altro da Starbucks, quindi allungo il passo. In meno di cinque minuti arrivo al 53 di State St dove lavoro da tre anni come correttrice di bozze. Ma forse, da domani... No, niente domani, concentriamoci su oggi. Oggi: riunione, ore dieci.

«Buongiorno, Frank» saluto entrando, ma lui mi rivolge solo un fugace cenno con la mano. È sempre al telefono, e se avesse una linea in più squillerebbe pure quella.

Salgo al primo piano ed entro nell'ufficio che divido con Stacey. Mi sistemo alla mia postazione e accendo il computer. Sto controllando le e-mail in arrivo quando la mia vicina di scrivania passa dal corridoio.

Di ritorno dalla sala relax, ne sono più che certa. «Pronta?»

Le restituisco un sorriso che racchiude tutte le discussioni imbastite fino a tardi negli ultimi sei mesi. A cinque minuti dalla riunione non ho nient'altro da aggiungere. Afferro la mia Moleskine rossa e il piccolo astuccio che lei mi ha regalato per il compleanno e la seguo. Avverto una strana elettricità nell'aria e capisco che c'è qualcosa che mi sfugge quando noto che alcune sedie sono già occupate. Stacey deve aver avuto la mia stessa impressione perché si affretta a raggiungere i nostri posti abituali.

Nel giro di pochi minuti tutte le sedute attorno al lungo tavolo vengono occupate. Inizio a essere nervosa, anche se continuo a ripetermi che non ne ho motivo. Il peggio che mi può succedere è che continui a correggere bozze.

«Buongiorno a tutti» esordisce Scott, il nostro Direttore Editoriale. Rispondiamo più o meno in coro e lui comincia subito, senza convenevoli.

Inizia a parlare di nuove acquisizioni di titoli stranieri con i traduttori, poi si rivolge al reparto marketing per capire come sta procedendo il lavoro sulle strenne natalizie e i grafici mostrano alcune idee per copertine e campagne promozionali, chiedendo una riunione successiva per discuterne nel dettaglio.

«E ora passiamo alle prossime uscite. Ho una novità importante» annuncia e io non riesco a rimanere ferma sulla sedia.

«Di certo avrete sentito parlare del fenomeno social del momento: Se mi vuoi provaci tu.»

Che?

«I loro video, nel giro di pochi mesi, hanno totalizzato milioni di visualizzazioni su YouTube, per non parlare delle cifre che hanno raggiunto sugli altri social network, TikTok in particolare.»

Ma che roba è?

Rivolgo la mia fronte aggrottata verso Stacey, ma lei, al contrario di me, sta facendo di sì con la testa. Mi guardo intorno e capisco di essere l'unica a non sapere di cosa sta parlando il nostro capo. Tutti sono visibilmente eccitati, mentre io, come succede fin troppo spesso, sono quella che non ha idea del perché circoli così tanto entusiasmo.

A mio esclusivo beneficio – a quanto pare – Scott continua.

«Sembra che gli uomini siano stanchi di interpretare il ruolo del cacciatore. Vogliono diventare delle prede. Sono stufi di andare alla ricerca di nuovi metodi per approcciarsi a una donna, preferiscono aspettare che sia lei a fare il primo passo. O addirittura, andare in bianco piuttosto che ricevere venti tipi diversi di: No, grazie. E sto parafrasando, ovviamente.»

Scott sogghigna e a lui si uniscono tutti gli uomini presenti. Le reazioni delle donne, invece, sono di vario tipo: c'è chi alza gli occhi al cielo, chi fa solo finta di ascoltare, altre invece sembrano parecchio interessate. Come Stacey, che sta riempiendo il quaderno degli appunti con la sua grafia ordinata. Solo io rimango perplessa.

«Il successo gli è esploso tra le mani e in seguito hanno aperto un blog dove inseriscono una serie di contenuti a corredo di quei video. Adesso è diventato un sito più strutturato, ma a noi non interessa il loro piano editoriale. Io voglio accaparrarmi il creatore di questo nuovo stile di vita, di questa provocazione che sta avendo così tanto successo. Voglio l'idea. Voglio sapere come è nata e perché ha tanto seguito. E soprattutto di colui da cui è nata. È un personaggio molto schivo, di lui si sa poco in giro e il nostro compito sarà scavare a fondo nella sua vita. Gli ho già mandato una proposta, aspetto una sua risposta entro un paio di giorni, ma sono fiducioso di chiudere in fretta.»

«Grande successo? A me sembra una cretinata...» sussurro a Stacey, avvicinandomi a lei per non farmi sentire dagli altri.

Non fa in tempo a rispondermi che sento Scott dire: «... Emma, sarai tu a occupartene».

«Cosa?»

In contemporanea al mio sento quello di Rebecca, dall'altro lato del tavolo. Con una nota di sbigottimento decisamente più alta della mia.

Rebecca. Sempre e solo lei. Ha iniziato a odiarmi dal mio primo giorno di lavoro, senza un reale motivo, e io mi sono adeguata. Nel tempo, il rapporto non è migliorato, anzi. Si è inasprito ancora di più. Lei ha sempre avuto le carte migliori, purtroppo. O forse sono io che non so bene come giocarmi le mie.

«Scott, scusami, ma perché Emma?» chiede, come se non dovessi nemmeno trovarmi lì e lanciandomi una delle sue solite occhiate con le quali, in un colpo solo, giudica me, il mio taglio di capelli, il mio modo di vestire, di sedermi e di respirare. «Posso benissimo farlo io.»

Intorno a noi sento mormorii di consenso. A quanto pare Rebecca non è l'unica a non trovarsi d'accordo con la decisione di Scott. Non che io lo sia, ma, ehi, non c'è bisogno di mostrare tutto questo stupore!

«Rebecca, tu non puoi lasciare quei due di cui ti stai occupando...»

«Gli Optex» gli ricorda, con una punta di fastidio.

«Sì, loro. Sai quanto abbiamo bisogno di un titolo forte nella fascia 11/18 anni e ci hanno concesso l'esclusiva sui motivi della loro rottura. I fan non aspettano altro.»

«Sono due viziati capaci solo di mangiare patatine fritte e di toccare ogni cosa con le loro dita unte» si lamenta, ostentando una faccia disgustata.

Scott non si lascia scalfire, non mi dà la parola che provo a prendermi chiamandolo a mezza voce, e continua la riunione affidando i prossimi incarichi di editing. Editing, quello che desideravo. Quello che speravo sarebbe stato il mio prossimo passo. Sento il nome di Stacey, a cui viene affidato l'editing di un thriller – il primo di una serie, tra l'altro – e la mia amica, voltandosi verso di me, non sa se mostrarsi felice o dispiaciuta. Le stringo il braccio, accennando un sorriso, in modo che capisca che, digerita la botta, saprò essere contenta per lei.

Finita la riunione mi alzo e tento di raggiungere il mio capo battendo gli altri sul tempo. Lo chiamo due volte prima di ottenere la sua attenzione.

Si volta per un momento lungo il corridoio, ma non accenna a fermarsi. «Ah, Emma, passa da Ellen che ti darà tutti i riferimenti che ti servono.»

Arranco, cercando di tenere il passo delle sue lunghe falcate e provando a mettere in fila i pensieri in modo coerente. «No, Scott, aspetta. Non credo di essere la persona giusta. Dovresti dare l'incarico a qualcun altro. Lascia che ti dica tre cose. Io finora mi sono occupata di...»

«Non lo vuoi fare? Pensavo fossi stufa di cercare refusi.»

«Sì... certo... no, nel senso, amo il mio lavoro, però...» È indubbio, non so parlare e camminare a passo svelto nello stesso momento. Ma quanto è lungo questo corridoio?

Gli squilla il cellulare e prima di rispondere mi liquida con un: «Rivolgiti a Ellen» che chiude la questione. E io non sono riuscita a pronunciare nessuna frase di senso compiuto.

Sparisce nel suo ufficio con un altro paio di falcate e io mi ritrovo davanti alla scrivania di Ellen, la nostra coordinatrice editoriale, la quale è impegnata a smistare telefonate e a riempire l'agenda di appuntamenti.

Riprendo fiato mentre mi avvicino: non faccio in tempo a dire nulla che lei mi allunga una carpetta con sopra scritto

Se mi vuoi provaci tu. Da queste parti non sono concesse perdite di tempo, è più che evidente.

Guardo il fascicolo e penso che il dolce che ho comprato stamattina non servirà a festeggiare proprio un bel niente. Ma almeno sarà di conforto.

Christopher – martedì 5 luglio

«Allora, per cominciare vi comunico che abbiamo deciso di accettare l'offerta per il libro» esordisce Jack.

«Quale libro?» chiedo.

«Il libro su di te» mi chiarisce.

«Su di me?»

«Questa del ripetere le ultime parole che dico è una nuova forma di brainstorming, o avete fatto uno dei vostri corsi new age su come si dovrebbero svolgere le riunioni aziendali e anche stavolta non ho ricevuto nessun invito?»

«Jack, quante volte te lo dobbiamo ripetere, a Las Vegas c'era davvero un corso di ninja marketing» si intromette Erik.

Ma io ho bisogno che la discussione torni lì dove è iniziata. Anche perché questa l'ho già sentita fin troppe volte. «Possiamo rimanere concentrati e parlare di questo libro di cui non sapevo nulla?» Se prima ero leggermente svogliato e disattento, adesso inizio a incazzarmi.

Jack mi guarda come se avesse già previsto quale sarebbe stata la mia reazione e inizia a elencare, guardando i suoi appunti: «Giovedì 30 giugno, ore 19 e 50, con una telefonata ti comunicavo della proposta che avevo appena ricevuto...».

«Sai che se ti rispondo bofonchiando non è detto che io ti abbia ascoltato.»

«Lo so» ribatte con il sorriso di chi non ha più nessuna intenzione di farsi cogliere impreparato e, tornando alla sua agenda, continua: «In una e-mail del primo luglio ti ho spiegato la proposta nel dettaglio, e nel messaggio di ieri ti comunicavo che avevo rinegoziato alcuni termini contrattuali, parlando con l'avvocato. Ho ricevuto due risposte da parte tua con scritto: Okay».

«Dai, ma che significa? Okay è un modo di dire.» Cerco tra gli sguardi degli altri un briciolo di sostegno ma nessuno me lo offre. Bastardi.

Va bene, forse non sto molto attento durante le riunioni o le telefonate. Magari le e-mail le leggo di sfuggita e rispondo per sommi capi – o per monosillabi – ma mica posso stare dietro a ogni cosa che succede. Non faccio in tempo a metabolizzare una novità che sul mio tavolo si materializzano altre cose da firmare e la mia casella di posta elettronica non fa che emettere avvisi di nuove e-mail in arrivo.

«Christopher, è bene che inizi a comprendere che qui non stiamo più giocando.»

Guardo Jack e mi chiedo che fine abbia fatto il mio compagno di stanza del college. Quello che non prendeva mai nulla sul serio, che mi pagava per scrivere elaborati al posto suo, che mi prestava i jeans quando mi convinceva a uscire. Non lo riconosco in quel suo completo firmato, la barba appena fatta, i capelli ben in ordine.

Non che io sia rimasto lo stesso, però...

«Guarda che l'ho capito benissimo. Sono molte le cose che sto iniziando a comprendere.» Ricambio la sua occhiata, cercando di fargli intuire che tutta questa storia non mi piace, ma che sto buono solo perché siamo in riunione con il resto della squadra. Sarebbe il caso che noi due parlassimo da soli, una buona volta, a carte scoperte.

«Ottimo. Dalla casa editrice manderanno una ghostwriter. È stata pianificata l'uscita in libreria per l'autunno, dunque passerete l'estate insieme a scrivere il libro.»

«No, Jack, non se ne parla. È fuori discussione, io ho bisogno di staccare. Ne avevamo già parlato, ad agosto voglio poter passare del tempo senza stare incollato al computer e al cellulare per sedici ore al giorno.»

«Questo dipenderà soltanto da voi, non da me. Per me potete pure iniziare domani. Prima cominciate, prima finite.»

«Ma perché non...» tento, ma chiedergli perché non me ne abbia parlato prima sarebbe darmi la zappa sui piedi, considerato l'elenco che ha sciorinato un attimo fa.

Mi butto indietro sullo schienale e la sedia girevole compie un mezzo giro, dandomi l'idea di quanta gente ci sia nella stanza. Troppa per i miei gusti, specie se devo ricevere risposte di questo tipo da quello che, un tempo, consideravo il mio migliore amico. Di lui, adesso, non sembra più esserci traccia.

Io lo so perché il rapporto tra di noi è cambiato.

È colpa dei soldi.

Sono quelli che rovinano sempre tutto. Fino a quando questa storia era soltanto un gioco, un modo per prenderci in giro e divertirci, tutto andava bene. Quando sono arrivati i primi incassi, era facile finirli offrendo da bere a tutti. Facile, ma anche spontaneo. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato che quello sarebbe stato solo l'inizio.

Quando sui contratti le cifre hanno preso ad avere sempre più zeri, mantenere quel distacco menefreghista non è stato più possibile. Abbiamo iniziato a farci delle domande, a cominciare sempre più frasi con: «E se...». Certe cose succedono agli altri, non pensi possano capitare anche a te.

È diventato un lavoro e Jack, che nella vita credeva di finire in banca come il padre, ha deciso che quella sarebbe stata la sua occasione. Che non si sarebbe fatto cogliere impreparato e che l'avrebbe sfruttata, fino a quando sarebbe stato possibile.

E io?

Be', per me la storia è un po' più complicata, e adesso pare che io debba raccontarla a una ghostwriter. Non che ne abbia voglia, ma da un po' di tempo a questa parte sembra che la mia opinione non conti un granché. Lascio la riunione e torno nel mio ufficio. È pieno di scatoloni, ci stiamo trasferendo. Finalmente, aggiungerei. Ho già sistemato la mia roba, verranno a prendersi tutto fra un paio d'ore. Mi fermo un attimo a guardarmi intorno, le pareti ingiallite e spoglie, i buchi mai riempiti. Non ci siamo presi la briga di fare nulla perché sapevamo che sarebbe stata una sistemazione provvisoria: o il progetto continuava a crescere e ad avere visibilità, oppure la gente si sarebbe stufata di noi. In un caso o nell'altro, non valeva la pena mettersi a ridipingere. All'inizio dell'anno ci siamo dati sei mesi e un traguardo che abbiamo ampiamente superato qualche giorno fa. Adesso è il momento di nuove pareti e di nuovi obiettivi. Che mi piaccia o no.

Infilo il mio pc nello zaino ed esco. Non faccio in tempo a chiudermi il portone alle spalle che mi squilla il telefono. Lo ignorerei se non fosse che la mia sorellina adolescente ha impostato come suoneria per le sue chiamate Single Ladies di Beyoncé. Inutile sottolineare che tipo di sguardi mi vengono rivolti quando parte il ritornello a tutto volume dalla tasca dei miei jeans.

«Buongiorno B.» Il nome di mia sorella è Beatrice, ma mai chiamarla così. O Bea. O qualunque altro diminutivo. A dodici anni ha detto addio a tutte le lettere del suo nome, conservando intatta solo la prima. Sono passati quattro anni e lei è rimasta convinta della sua decisione.

«Mi servono cento dollari.»

«Come sto? Bene, direi. Ci stiamo trasferendo, il nuovo ufficio è più grande, non c'è puzza di muffa e per andare in bagno non ci toccherà più scendere in caffetteria.»

«Se continui, salgo a duecento.»

«Per cosa ti servono?» chiedo, sfinito ancora prima di iniziare una battaglia che so già che perderò.

«Una cosa.»

«Ah, adesso sì che sei stata convincente.»

«Ma perché cazzo la devi fare sempre così tanto lunga? E che palle...»

«Ehi, intanto non la sto facendo lunga per niente, ti ho solo fatto una domanda. O non mi è permesso più nemmeno quello?»

Mia sorella coglie al volo il mio malumore. «Che è successo?»

«Niente» bofonchio, come se adesso l'adolescente fossi io.

Ci ancoriamo al momento di silenzio che segue, indecisi su come proseguire. È lei a prendere l'iniziativa.

«Se mi offri il pranzo, te lo dico. E poi tu mi racconti cosa c'è che non va.»

«B, non è niente che tu non abbia già sentito centinaia di volte...»

Lei si veste di quella dolcezza che in pochi conoscono e che tende a non mostrare mai. Io sono uno dei pochi fortunati a cui la rivolge. «Una in più non fa male. Ti mando la mia posizione, così mi raggiungi.»

Chiudo la chiamata e apro Maps per raggiungere mia sorella. Suona così bene come parola. Ha sedici anni, ma è l'unica con cui io riesca a parlare. Parlare sul serio, intendo. La cosa è reciproca anche se alcuni argomenti restano tabù. Tipo il sesso. Una volta stavo per pronunciare la parola fidanzato e prima ancora di finirla mi ha tirato una racchettata lì dove fa più male. Colpa mia, non avrei mai dovuto tirare fuori l'argomento durante una partita di padel. Non avrei mai dovuto in generale.

La raggiungo al Five Guys, felice del fatto che entrambi amiamo hamburger e patatine fritte. La trovo seduta, lo sguardo perso, una penna in mano con la quale tamburella su un quaderno vissuto. È vestita completamente di nero, i capelli biondi raccolti in una coda morbida. Non faccio in tempo a entrare che lei pianta i suoi bellissimi occhi verdi su di me, percependo la mia presenza. Le labbra le si incurvano in un sorriso che non raggiunge gli occhi. Non lo fa quasi mai da qualche anno a questa parte, e ogni volta è una ferita al cuore.

La abbraccio, nonostante le sue finte resistenze. Ne ho bisogno e, contrariamente a quanto vuole farmi credere, anche lei. Mi mordo la lingua e ricaccio indietro tutte le domande che vorrei farle mentre lei chiude in fretta il quaderno e lo nasconde nella sua borsa di tela, manco fosse merce rubata.

Mi sembra ancora più magra dell'ultima volta che l'ho vista e non è passato poi così tanto tempo. Nella nostra sfida a chi è più bravo a fingere e a ignorare alcune cose, ordino due Bacon Cheeseburger, patate fritte e Coca-Cola. Mia sorella non è stupida e sa cosa vedo quando la guardo. Non c'è giudizio nei miei occhi, solo preoccupazione, ma a volte sembra che sia quella a darle più fastidio. Ho imparato a non domandare e a lasciarle spazio e tempo. Beatrice ne approfitta per sciogliere quel momento di lieve imbarazzo che ci avvolge.

«Vuoi diventare un hipster?» mi chiede. È il suo turno di squadrarmi: sembra che stia valutando se acquistarmi o lasciarmi in negozio.

«Perché, vanno ancora di moda?»

«Pensi che io lo sappia?» mi chiede di rimando, indicandosi, come a dire che se c'è una persona che non segue le mode del momento è lei. Non le dico che tutti gli adolescenti in fondo si assomigliano perché potrebbe farmi ancora più male di quella volta a padel. Eppure, chi di noi non ha attraversato una fase un po' dark della serie: nessuno mi capisce!

Mi passo una mano sulla mandibola, accarezzandomi la barba di un paio di giorni.

«A me piace» confesso. Tutto era cominciato per pigrizia, non mi andava di radermi. L'immagine che mi restituiva lo specchio non mi dispiaceva, e così quel filo di barba è rimasto.

«Ti farò sapere» mi dice lei, sospendendo il giudizio, tra lo scettico e il malizioso.

Ci servono le nostre ordinazioni e per un po' restiamo in silenzio. Lei dà morsi molto piccoli al panino, e io provo a distrarla.

«Allora, contanti o assegno?»

Finalmente un sorriso più aperto le accarezza il viso. Sapeva già che avrei ceduto, ma i tempi sempre più ristretti in cui lo faccio la fa sorridere. Se è così per me va bene, basta che io possa vederla felice.

«Contanti» risponde, prendendo una patatina.

Bevo un po' della mia Coca-Cola, prima di chiederle: «Posso sperare di sapere a cosa ti servono?».

«Non mi drogo, non bevo e non ho intenzione di comprare armi» mi beffeggia.

Chissà perché non mi spaventa l'accenno alle armi, mentre mi allarma il mancato riferimento a preservativi o ad altri metodi contraccettivi. Dato che mantiene ancora un accenno di sorriso, non mi permetto di indagare oltre o di farle pressioni. «Scriveranno un libro su di me» buttò lì, con la bocca piena.

«Forse non ho capito bene. Un libro? Su di te?»

«Sì. Tranquilla, è stata la mia stessa reazione.»

Ci sarebbero un sacco di domande da fare dopo una notizia del genere e mia sorella, com'è nel suo stile, mi rivolge quella più semplice: «E chi lo scriverà?».

«Non ne ho idea, manderanno un ghostwriter dalla casa editrice.»

«Come non ne hai idea? Chris, non mi sembra proprio il caso di essere approssimativo su una scelta del genere!» Per poco non mi lancia addosso una delle patatine che tiene tra le dita.

«Ehi, ehi, piano» inizio, posando quel che resta del mio hamburger per mostrare i palmi delle mani in segno di resa. «Me l'hanno appena detto, ancora non ho avuto nessun contatto. Non è menefreghismo, il mio, è soltanto mancanza di tempo.»

Lei abbassa gli occhi sul suo panino, ancora a metà, rimuginando su quello che ci siamo appena detti. Poi si fa terribilmente grave: «Deve essere una persona seria, Chris. Deve essere una persona di cui ti puoi fidare, lo sai, vero? Ci sono certe cose, che riguardano la nostra famiglia... e altre, su di te...».

Non mi osserva, so a cosa sta pensando. So quanto il suo cervello si sia spinto oltre, prima ancora di metabolizzare la novità.

«Lo so» le dico, e quella affermazione racchiude la promessa che starò attento. «Non credo che potrò scegliere con chi lavorare, ma ti assicuro che andrà tutto bene. E certe cose non verranno fuori, puoi stare tranquilla.»

Ognuno rimane in compagnia dei propri pensieri per un po'. Vado a pagare e, quando la raggiungo di nuovo al tavolo, le passo i soldi che avevo prelevato al bancomat prima di incontrarla.

Li guarda, sembra chiedersi se sia una buona idea.

«Sono certo che li userai meglio di quanto farei io» sorrido, tentando di riallacciare i fili di una discussione eternamente interrotta.

Lei mi restituisce un'alzata di spalle. Per la prima volta, dopo tanto tempo, non c'è ombra di indifferenza nelle sue espressioni, solo un accenno di paura. Paura di non farcela, di compiere le scelte sbagliate. Quel tipo di titubanza che prova in tutti i modi a evitare, non capendo quanto sia necessaria.

Mi siedo di nuovo, questa volta spostando la sedia più vicino a lei. Per quanto si possa sforzare di fare la dura e di travestirsi da adulta, per me sarà sempre quella peste dai riccioli colore del grano che mi rovinava tutte le musicassette con le sue piccole dita.

Vorrei stringerla e dirle che andrà tutto bene, ma sono io il primo che non ci crede fino in fondo.

«Sai, certe mattine mi sveglio e mi sembra di non ricordare niente. Di non saper fare anche le cose più banali. Di non riconoscermi. L'istinto mi porta ad aprire un cassetto del comodino dove conservo le fototessere che ci siamo fatti al centro commerciale, la Vigilia di Natale, con addosso quei maglioni orrendi» le confesso, di getto, sorprendendomi per primo di quanto un ricordo riesca a ricollegarci in modo così istintivo a una sensazione.

Si stringe le labbra, sembra trattenere qualcosa.

«Sei la mia famiglia, B. Un punto fermo dal quale ripartire e a cui ritornare. Ti proteggerò sempre. Questo lo sai, non è vero?»

È l'unico modo che ho per dirle che ci sono e che ci sarò sempre per lei, qualunque cosa accada. Lei butta fuori un sospiro enorme, facendo di sì con la testa.

«Ho iniziato a scrivere» confessa in un soffio. «A scrivere poesie.»

Si gira per cogliere la mia espressione a seguito delle sue parole. Sapeva bene che non avrebbe trovato derisione, ma era in cerca di conferme.

«Wow» le dico soltanto, sperando di non rompere l'equilibrio raggiunto.

«I soldi mi servono per un corso di scrittura» aggiunge.

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